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Barbarie
- Subject: Barbarie
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com>
- Date: Sun, 27 Jul 2003 11:07:57 +0200
Barbarie lanfranco caminiti Ho guardato le foto dei cadaveri dei figli di Saddam Hussein, Uday e Qusay. Erano cani rabbiosi, e nessun sentimento di "pietas" mi turbava. Non ho mai pensato di identificarli con una qualunque "resistenza", con una qualunque epopea. Nei commenti, ho letto, è stato scomodato il Che, Moro, Pasolini, e, a ritroso, persino Antigone e Achille e Ettore. Per favore. Li hanno uccisi, chiuso. Per favore. Non cercavo la "prova provata" delle dichiarazioni americane: stanno facendo una gaffe dietro l'altra e questa non potevano proprio permettersela: se hanno detto che erano loro, ragionevolmente dovevano essere loro. Un menzogna o persino un errore, in questo caso, sarebbe stato davvero suicida per quei sapientoni della Casa Bianca. Un corpo sfigurato dopo un bombardamento e una battaglia a colpi di fucili mitragliatori, pistole, bombe, difficilmente può essere riconosciuto. Immagino. Sono come quei cadaveri ritrovati nei boschi dopo giorni e giorni, che sono stati preda di animali randagi o selvatici, o dopo settimane di galleggiamento nel mare. Come quei corpi che vengono estratti dalle lamiere dopo un incidente terribile in cui sono coinvolti più mezzi, auto, camion pesanti, o quelli che ruzzolano giù dalle scogliere o si lanciano dai piani più alti d'un palazzo. Cosa ne rimane? Un'arcata dentaria: l'espressione ormai è di uso comune, pur non sapendo esattamente cosa significhi, si intuisce, anche i bambini la capiscono: telefilm seriali e cinema rendono condiviso il nostro lessico. A volte, neppure quella. Cosa rimane d'un corpo dopo lo spostamento d'aria delle bombe? Le parti molli si rimescolano? Gli occhi escono dalle orbite? I denti, imperituri, si frantumano? Cosa rimane di uno "shahid", di un "martire" che si fa esplodere? E di quelli che erano attorno a lui, su un autobus, a una fermata, a un tavolo? Eppure, per corruzione dei sensi, per confusione d'anima, non saprei, ho guardato le foto. Cercavo tratti riconoscibilmente "umani", non un'arcata dentaria. Didascalicamente, l'amministrazione americana, e molti mezzi di informazione, hanno accompagnato le foto dei cadaveri con i volti di quello che erano. Come nelle pubblicità per perdere il peso, dove ci sono uomini e donne prima obesi e poi snelli, o in quelle per riacquistare i capelli perduti. Prima e dopo la cura. Qui, la "cura" era il trattamento americano. Qui, ciò che era stato "vivo" avrebbe dovuto spiegare, introdurci a quanto era adesso "morto". E all'incontrario: quanto adesso si mostrava nella sua orribile fine era accostato a quanto detestabilmente in vita. Come se questa fosse stata già designata. Il fulmine divino - e più prosaicamente decine di razzi americani - ha compiuto un destino ineluttabile e vindice. Non c'è scampo. Prima o dopo. Avvalorato da un "prima e dopo". Centinaia di milioni di persone nel mondo hanno guardato quelle foto. Le hanno confrontate, ne hanno discusso, al bar, per strada, a casa, volutamente o distrattamente, scorrendo il dito sulle pagine di carta stampata o indicando l'immagine in tv, un particolare che non quadrava o che era incontestabile. Ci saranno state discussioni. Centinaia di milioni di discussioni. Tutta la tecnologia del mondo, quella cosa che ci dovrebbe rendere sempre più "puliti" senza sporcarci di grasso e di sudore, quella cosa fatta di fili e di onde, che è incorporea, si è incagliata e incanaglita su quei cadaveri. I missili intelligenti, i puntamenti laser, i radar che percepiscono l'invisibile, i satelliti e le attrezzature iperboliche, tutto ciò che rende "differente" la nostra "civiltà", che fa "pulita" la guerra e il potere si è improvvisamente incarnato lì, in quei corpi massacrati e irriconoscibili. In quei cadaveri schifosi. Mostrati bellamente al mondo. La civiltà, baluardo alla barbarie, si imbarbarisce. La guerra e il potere questo comportano, questo sono: schifosi. Parti molli che si rimescolano, occhi fuori dalle orbite, denti frantumati. Clic. Foto. Mi sono vergognato di me, dell'attardarmi su quelle immagini. Non ero il pescatore, fotografato col suo luccio enorme, non ero la preda. Ero come centinaia di milioni di persone nel mondo. Mi sono sentito sporco, appestato. Come se mi ci avessero legato a quei corpi, una di quelle terribili condanne che incatenava il vivo al morto. Qui, con lo sguardo. Mi sono sentito complice di qualcosa: non riuscivo neanche a condannare quei giornali che avevano deciso di pubblicare le foto. Avrei potuto distogliere lo sguardo, girarmi dall'altra parte, come quando mi succede al cinema per un film dell'orrore e c'è una scena troppo violenta, magari avrei chiesto al vicino, dopo, cos'è successo. Perché le hanno pubblicate anche qui? Avrebbero potuto limitarsi a pubblicarle lì, in Iraq o nel mondo arabo, se era per monito e per verità. Che ammonimento dovrebbero dare a noi? Qui, la civiltà ci fa da baluardo alla barbarie. E quale sensazione di verità avrebbero dovuto dare, come se fosse questa in gioco e non sapessimo tutti che sono solo frottole quelle che raccontano gli americani ["la democrazia, che minchia c'entra con le bombe?"] e che in gioco c'è altro, come se il nostro "collettivo cinismo" potesse essere scosso da un'ulteriore bugia. La guerra e il potere questo comportano, questo sono: schifosi. Parti molli che si rimescolano, occhi fuori dalle orbite, denti frantumati. Clic. Foto. E' proprio questo che ci viene ricordato, che diventa monito per tutto il mondo. Le immagini sono per noi, non per gli iraqeni, gli iraqeni non ci crederanno mai adesso, per uno o due anni inventeranno, obietteranno, le leggende metropolitane hanno una lunga filologia nella chiacchiera umana. Loro, gli americani, fanno il lavoro sporco. Ma lo stanno facendo per tutti noi qui. Si fanno le foto, con il luccio enorme. Poi, si mostrano agli amici. Siamo complici: anche solo guardando. Clic. Foto. Roma, 19 luglio 2003 -- http://www.lanfranco.org http://www.accattone.org
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