La resistibile caduta del dollaro



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di Siegmund Ginzberg

Al Qaeda in ascesa e dollaro deprimono le Borse. La prima cosa non la voleva
certo nessuno, anche se c'è chi teme che facendo la guerra all'Iraq e
dimenticando quella al terrorismo se la siano in qualche modo cercata. Sulla
seconda, il calo del dollaro, pochi dubitano che a Washington l'abbiano
proprio voluta. Sembrano convinti che gli conviene. Anche perché penalizza l
'economia europea e potrebbe dare ossigeno a quella americana. Ma c'è chi
avverte che stanno scherzando col fuoco, rischiano d'azzardo, forse più di
quanto possano guadagnare. Cosa per cui questa amministrazione Usa sembra
avere particolare predisposizione.
Che il ridimensionamento del dollaro rispetto all'euro gli faccia più
piacere che dispiacere non ne fanno più mistero.
Già in calo da mesi, il dollaro ha cominciato a precipitare come un sasso
rispetto all'euro quando il nuovo segretario al Tesoro di George W. Bush,
John Snow, ha dichiarato che un dollaro più debole avrebbe "fatto bene" alle
esportazioni Usa.
Nel weekend, alla riunione dei ministri finanziari del G8 in Francia gli
avevano chiesto di "chiarire", e lui che a suo giudizio la "forza" del
dollaro poggia non sul suo valore rispetto alle altre monete ma sulla
"fiducia da parte del pubblico", e sulla difficoltà per i falsari, insomma
ha "chiarito" che intendeva dire proprio quel che ha detto. Non era quindi
una "gaffe". Segnalava che gli va bene continui così, anzi scenda anche
parecchio più giù. Non è un'opinione eccentrica o isolata. C'è un'intera
scuola di pensiero che lo ritiene la via più corta per uscire dai guai, anzi
prendere più piccioni con una fava. Così come un'intera scuola di pensiero
riteneva che fare la guerra all'Iraq fosse la via più corta per disarmare
Saddam e chi volesse imitarlo, dare un colpo al terrorismo, portare la
democrazia in Medio oriente, sistemare il petrolio, far capire al resto del
mondo chi comanda. «Un dollaro più debole? Significa che le esportazioni
americane costeranno meno all'estero, aiutando i produttori americani a
vendere di più all'estero. Allo stesso tempo che farà salire il prezzo delle
importazioni, incoraggiando i consumatori americani a comprare americano,
creando più posti di lavoro in America», il modo in cui l'ha messa sul New
York Times il columnist conservatore doc William Safire. E se qualcuno, tra
gli investitori all'estero, fosse tentato di disfarsi dei dollari che
perdono valore a vista d'occhio? Niente paura: «la maggior parte continuerà
a tenersi stretti le proprie azioni e buoni in dollari, perché l'America
continua ad essere l'ambiente più sicuro per gli investimenti che ci sia al
mondo». Sembra di sentire quel che dicevano sulla guerra all'Iraq e al
terrorismo. Compresa l'ironia sulla solite "Cassandre". Ma tra coloro che
avvertono che il gioco è pericoloso stavolta c'è anche il Wall Street
Journal, che invece sulla guerra soffiava. «Playing with fire» (Giocare col
fuoco fuoco), intitolava l'editoriale di ieri.
Non è affatto la prima volta che pilotano un deprezzamento del dollaro, per
uscire dalle difficoltà interne ed internazionali. L'aveva fatto Nixon, in
piena guerra in Vietnam, scollando il dollaro dall'oro. Ci fu l'inflazione
galoppante e la crisi petrolifera, ma rimasero Number One. Lo fece nel 1985
l'allora segretario al Tesoro di Ronald Reagan, James Baker, con il colpo
geniale dell'Accordo all'Hotel Plaza di New York. Il dollaro dimezzò in un
lampo il proprio valore (aveva toccato punte di 2.000 lire, poi si attestò a
lungo a 1.100 lire; ora ha perso oltre il 30% da quando c'è l'euro, tra gli
addetti ai lavori si valuta che perché il gioco valga la candela potrebbe
dover perdere un altro 25%). La locomotiva Usa riprese a tutta velocità. Ne
pagò le spese, e le sta ancora pagando, il Giappone, che in quel momento
veniva indicato come potenziale nuovo Number One. Vogliono riprovare lo
sgambetto con l'Europa, a tre anni dall'entrata in vigore dell'euro?
La differenza è però che stavolta rischia di farsi molto male non solo lo
sgambettato ma anche lo sgambettatore. I Plaza Accords erano stati raggiunti
consensualmente. Stavolta il dato dominante è la spaccatura tra Usa e un
parte dell'Europa con cui si è arrivati alla guerra. Allora avevano
cominciato a soffiare i venti della globalizzazione, ora c'è aria (più
esplicita in America, ma su entrambe le sponde dell'Atlantico) di tempeste,
ripicche e ritorsioni protezionistiche (anche questo è già successo: per
tornare a fine Novecento ai livelli di commercio mondiale di fine 800 e
della belle époque, c'erano volute due guerre mondiali e un secolo intero).
Allora le idee erano più chiare, almeno si conosceva la posta in gioco nell'
attrito tra Usa e Urss, ora non si capisce più bene dove vogliano parare. La
discesa del dollaro si accelera anche perché «i mercati sono allarmati che
gli Stati uniti si stiano imbarcando in una politica estera imperialista con
conseguenze imprevedibili sul piano della loro politica fiscale, del
commercio estero e dei rapporti con gli altri paesi» e perché «percepiscono
un vuoto al centro delle decisioni di politica economica, in questa
amministrazione mai come prima accentrate alla Casa bianca», il modo in cui
l'ha messa sul Financial Times l'economista di Chicago David Hale. Ma,
soprattutto, allora gli Stati uniti non importavano 500 miliardi di dollari
in merci e capitali più di quanto ne esportino, pari al 5% del loro prodotto
lordo, e che secondo stime attendibili potrebbe arrivare al 9%.
Lo storico Niall Ferguson ha notato che l'egemonia e la spinta propulsiva
all'economia mondiale dell'Impero britannico prima, e degli Usa poi si era
sempre retta su monete foerti ed esportazioni di merci e capitali. In un
certo senso una gigantesca esportazione di capitali era stata anche il Piano
Marshall per l'Europa uscita dalla guerra mondiale. Il dubbio è se si possa
invece davvero esercitare egemonia accumulando debiti, facendosi pagare il
burro e i cannoni dal resto del mondo. Dal 1960 al 1976 gli Usa avevano
accumulato 60 miliardi di dollari di surplus. Ora gli investitori stranieri
hanno 8.000 miliardi da esigere. Balzac scriveva che chi ha molti debiti ha
molto più potere sui creditori di chi ne ha pochi. L'interrogativo pressante
è quanto possa durare una fiducia che nessuno si sognerebbe di dare ad alcun
altro paese o moneta al mondo con conti simili. In teoria un modo per
ridurre il deficit sarebbe una recessione che li porti consumare e importare
meno, ma sarebbe una catastrofe per tutti. Un altro sarebbe una più forte e
rapida ripresa delle altre economie, una crescita "alla cinese" della
vecchia Europa: ma non si vede e, soprattutto, non pare la vogliano. Un
terzo è deprezzare il dollaro. Scoraggerebbe le importazioni, favorirebbe le
loro esportazioni. Farebbe male all'Europa, ma non risolverebbe il problema
se non scendono anche le monete asistiche (il deficit è molto più forte con
l'Asia che con l'Europa, e per il momento yen giapponese e yuan cinese,
scendono col dollaro anziché salire con l'euro¸ e ci manca solo che ai
protezionismi rinascenti si aggiungano svalutazioni competitive). «Non così
veloce: un dollaro debole rischia di farci male prima che ci avvantaggi»,
avverte il principale settimanale economico Usa, Business Week. Osservano
che il 40% dei beni capitali sono importati, e il loro rincaro potrebbe
scoraggiare gli investimenti anziché stimolare la ripresa Usa. Altri non
osano nemmeno immaginare se la discesa del dollaro da pilotata e graduale
dovesse trasformarsi in rotta a precipizio. Bush si è rivelato come uno che
rischia volentieri, in guerra come in economia. Come tutti grandi giocatori
rischia anche di suo. Se la puntata gli andasse storta lui perderebbe la
Casa bianca. Ma il resto del mondo, a cominciare da noi europei, molto di
più.