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La resistibile caduta del dollaro
- Subject: La resistibile caduta del dollaro
- From: "Nello Margiotta" <animarg at tin.it>
- Date: Wed, 21 May 2003 20:40:39 +0200
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=EDITO&TOPIC_TIPO=E&TOPIC_ID=25947 di Siegmund Ginzberg Al Qaeda in ascesa e dollaro deprimono le Borse. La prima cosa non la voleva certo nessuno, anche se c'è chi teme che facendo la guerra all'Iraq e dimenticando quella al terrorismo se la siano in qualche modo cercata. Sulla seconda, il calo del dollaro, pochi dubitano che a Washington l'abbiano proprio voluta. Sembrano convinti che gli conviene. Anche perché penalizza l 'economia europea e potrebbe dare ossigeno a quella americana. Ma c'è chi avverte che stanno scherzando col fuoco, rischiano d'azzardo, forse più di quanto possano guadagnare. Cosa per cui questa amministrazione Usa sembra avere particolare predisposizione. Che il ridimensionamento del dollaro rispetto all'euro gli faccia più piacere che dispiacere non ne fanno più mistero. Già in calo da mesi, il dollaro ha cominciato a precipitare come un sasso rispetto all'euro quando il nuovo segretario al Tesoro di George W. Bush, John Snow, ha dichiarato che un dollaro più debole avrebbe "fatto bene" alle esportazioni Usa. Nel weekend, alla riunione dei ministri finanziari del G8 in Francia gli avevano chiesto di "chiarire", e lui che a suo giudizio la "forza" del dollaro poggia non sul suo valore rispetto alle altre monete ma sulla "fiducia da parte del pubblico", e sulla difficoltà per i falsari, insomma ha "chiarito" che intendeva dire proprio quel che ha detto. Non era quindi una "gaffe". Segnalava che gli va bene continui così, anzi scenda anche parecchio più giù. Non è un'opinione eccentrica o isolata. C'è un'intera scuola di pensiero che lo ritiene la via più corta per uscire dai guai, anzi prendere più piccioni con una fava. Così come un'intera scuola di pensiero riteneva che fare la guerra all'Iraq fosse la via più corta per disarmare Saddam e chi volesse imitarlo, dare un colpo al terrorismo, portare la democrazia in Medio oriente, sistemare il petrolio, far capire al resto del mondo chi comanda. «Un dollaro più debole? Significa che le esportazioni americane costeranno meno all'estero, aiutando i produttori americani a vendere di più all'estero. Allo stesso tempo che farà salire il prezzo delle importazioni, incoraggiando i consumatori americani a comprare americano, creando più posti di lavoro in America», il modo in cui l'ha messa sul New York Times il columnist conservatore doc William Safire. E se qualcuno, tra gli investitori all'estero, fosse tentato di disfarsi dei dollari che perdono valore a vista d'occhio? Niente paura: «la maggior parte continuerà a tenersi stretti le proprie azioni e buoni in dollari, perché l'America continua ad essere l'ambiente più sicuro per gli investimenti che ci sia al mondo». Sembra di sentire quel che dicevano sulla guerra all'Iraq e al terrorismo. Compresa l'ironia sulla solite "Cassandre". Ma tra coloro che avvertono che il gioco è pericoloso stavolta c'è anche il Wall Street Journal, che invece sulla guerra soffiava. «Playing with fire» (Giocare col fuoco fuoco), intitolava l'editoriale di ieri. Non è affatto la prima volta che pilotano un deprezzamento del dollaro, per uscire dalle difficoltà interne ed internazionali. L'aveva fatto Nixon, in piena guerra in Vietnam, scollando il dollaro dall'oro. Ci fu l'inflazione galoppante e la crisi petrolifera, ma rimasero Number One. Lo fece nel 1985 l'allora segretario al Tesoro di Ronald Reagan, James Baker, con il colpo geniale dell'Accordo all'Hotel Plaza di New York. Il dollaro dimezzò in un lampo il proprio valore (aveva toccato punte di 2.000 lire, poi si attestò a lungo a 1.100 lire; ora ha perso oltre il 30% da quando c'è l'euro, tra gli addetti ai lavori si valuta che perché il gioco valga la candela potrebbe dover perdere un altro 25%). La locomotiva Usa riprese a tutta velocità. Ne pagò le spese, e le sta ancora pagando, il Giappone, che in quel momento veniva indicato come potenziale nuovo Number One. Vogliono riprovare lo sgambetto con l'Europa, a tre anni dall'entrata in vigore dell'euro? La differenza è però che stavolta rischia di farsi molto male non solo lo sgambettato ma anche lo sgambettatore. I Plaza Accords erano stati raggiunti consensualmente. Stavolta il dato dominante è la spaccatura tra Usa e un parte dell'Europa con cui si è arrivati alla guerra. Allora avevano cominciato a soffiare i venti della globalizzazione, ora c'è aria (più esplicita in America, ma su entrambe le sponde dell'Atlantico) di tempeste, ripicche e ritorsioni protezionistiche (anche questo è già successo: per tornare a fine Novecento ai livelli di commercio mondiale di fine 800 e della belle époque, c'erano volute due guerre mondiali e un secolo intero). Allora le idee erano più chiare, almeno si conosceva la posta in gioco nell' attrito tra Usa e Urss, ora non si capisce più bene dove vogliano parare. La discesa del dollaro si accelera anche perché «i mercati sono allarmati che gli Stati uniti si stiano imbarcando in una politica estera imperialista con conseguenze imprevedibili sul piano della loro politica fiscale, del commercio estero e dei rapporti con gli altri paesi» e perché «percepiscono un vuoto al centro delle decisioni di politica economica, in questa amministrazione mai come prima accentrate alla Casa bianca», il modo in cui l'ha messa sul Financial Times l'economista di Chicago David Hale. Ma, soprattutto, allora gli Stati uniti non importavano 500 miliardi di dollari in merci e capitali più di quanto ne esportino, pari al 5% del loro prodotto lordo, e che secondo stime attendibili potrebbe arrivare al 9%. Lo storico Niall Ferguson ha notato che l'egemonia e la spinta propulsiva all'economia mondiale dell'Impero britannico prima, e degli Usa poi si era sempre retta su monete foerti ed esportazioni di merci e capitali. In un certo senso una gigantesca esportazione di capitali era stata anche il Piano Marshall per l'Europa uscita dalla guerra mondiale. Il dubbio è se si possa invece davvero esercitare egemonia accumulando debiti, facendosi pagare il burro e i cannoni dal resto del mondo. Dal 1960 al 1976 gli Usa avevano accumulato 60 miliardi di dollari di surplus. Ora gli investitori stranieri hanno 8.000 miliardi da esigere. Balzac scriveva che chi ha molti debiti ha molto più potere sui creditori di chi ne ha pochi. L'interrogativo pressante è quanto possa durare una fiducia che nessuno si sognerebbe di dare ad alcun altro paese o moneta al mondo con conti simili. In teoria un modo per ridurre il deficit sarebbe una recessione che li porti consumare e importare meno, ma sarebbe una catastrofe per tutti. Un altro sarebbe una più forte e rapida ripresa delle altre economie, una crescita "alla cinese" della vecchia Europa: ma non si vede e, soprattutto, non pare la vogliano. Un terzo è deprezzare il dollaro. Scoraggerebbe le importazioni, favorirebbe le loro esportazioni. Farebbe male all'Europa, ma non risolverebbe il problema se non scendono anche le monete asistiche (il deficit è molto più forte con l'Asia che con l'Europa, e per il momento yen giapponese e yuan cinese, scendono col dollaro anziché salire con l'euro¸ e ci manca solo che ai protezionismi rinascenti si aggiungano svalutazioni competitive). «Non così veloce: un dollaro debole rischia di farci male prima che ci avvantaggi», avverte il principale settimanale economico Usa, Business Week. Osservano che il 40% dei beni capitali sono importati, e il loro rincaro potrebbe scoraggiare gli investimenti anziché stimolare la ripresa Usa. Altri non osano nemmeno immaginare se la discesa del dollaro da pilotata e graduale dovesse trasformarsi in rotta a precipizio. Bush si è rivelato come uno che rischia volentieri, in guerra come in economia. Come tutti grandi giocatori rischia anche di suo. Se la puntata gli andasse storta lui perderebbe la Casa bianca. Ma il resto del mondo, a cominciare da noi europei, molto di più.
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