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Un esercito di propaganda
- Subject: Un esercito di propaganda
- From: "kowalski" <kowalski at informationguerrilla.org>
- Date: Sun, 13 Apr 2003 15:54:54 +0200
da: http://www.nuovimondimedia.it Non è una coincidenza che gli americani, e altri attorno al mondo, stiano ripetendo all’unisono le stesse identiche frasi. È il risultato di una campagna di pubbliche relazioni (PR) orchestrata astutamente da parte dell’ esercito e del governo USA, che prende in prestito i metodi migliori dal mondo delle PR aziendali. Cronisti integrati. Armi di distruzione di massa. Attacchi chirurgici. Non è una coincidenza che gli americani, e altri attorno al mondo, stiano ripetendo all’unisono le stesse identiche frasi e nuovi attacchi con precisione quasi militare. È il risultato di una campagna di pubbliche relazioni (PR) orchestrata astutamente da parte dell’esercito e del governo USA, che prende in prestito i metodi migliori dal mondo delle PR aziendali. In uno sforzo coordinato dall’ “Office of Global Communication” della Casa Bianca (che coordinò tra l’altro la copertura stampa durante la guerra in Afghanistan), tutte le persone connesse al governo durante la guerra in Iraq stanno ripetendo il ‘messaggio del giorno’ prefabbricato. Secondo PR Week, organo dell’industria delle pubbliche relazioni, “L’OCG, un ufficio nato dagli sforzi successivi all’11 settembre per combattere l’ anti-americanismo emergente dai Paesi arabi, sarà fondamentale nel mantenere tutti i portavoce all’unisono. Ogni notte le ambasciate USA del mondo, insieme a tutti i dipartimenti federali a Washington, riceveranno via email un ‘Global Messenger’ contenente argomenti per i discorsi e citazioni pronte per l’uso.” L’industria delle PR, come molti sapranno, fu fondata dai militari durante la 1ª guerra mondiale, quando furono sviluppate delle tecniche di persuasione per assumere soldati. “Dopo la guerra molte di queste persone cominciarono a lavorare per il settore privato e vengono visti come i nonni delle PR”, dice Laura Miller, direttore aggiunto di PR Watch (www.prwatch.org), attento scrutinatore delle aziende e dei media. “Essi erano in prima linea nel sostenere che [a loro avviso] in una democrazia l’opinione pubblica ha bisogno di essere controllata da un piccolo numero di persone che sanno cosa è bene per il pubblico”. In caso di guerra contro l’Iraq, ciò significa che non ci dovrebbe essere confusione nè dissenso circa gli scopi o il procedere della guerra. In quello che sembrava un complimento alla rete dell’OCG, PR Week notava che: “La rete non serve solo a disseminare, ma anche a dominare le notizie del conflitto intorno al mondo.” Purificare il conflitto Un aspetto di questo tipo di dominazione delle notizie è il controllo e la manipolazione dei punti di vista e l’informazione proveniente direttamente dal governo. L’amministrazione Bush ha lavorato duro anche nel limitare e mettere idealmente a tacere i punti di vista dissenzienti o polemici e il racconto dei fatti proveniente da altre fonti. L’amministrazione ha attaccato Al-Jazeera, l’emittente basata in Qatar e di proprietà dello Stato, che è la fonte primaria di informazione per buona parte del mondo arabo. Il 25 marzo la borsa di New York ha revocato l’autorizzazione ad Al-Jazeera. Nello stesso momento alcuni hackers hanno reso i suoi siti in inglese ed arabo inaccessibili dagli USA. Inoltre l’amministrazione ha fatto pressione sull’emiro del Qatar, Hamad bin Califa al Thani, per forzare Al-Jazeera a dare più enfasi alla versione USA dei fatti. I critici dei media, certamente non anti-USA o pro-Saddam, notano che Al-Jazeera è vista dai più come un’emittente moderata e obiettiva che dà molto spazio agli ufficiali USA. Infatti quest’ultima suscitò l’ira del governo iracheno per aver fatto la cronaca del sontuoso banchetto di compleanno di Hussein. Essa è stata bersagliata dagli USA per aver trasmesso i video degli interrogatori dei prigionieri americani, cosa che violerebbe la Convenzione di Ginevra. “Sebbene il filmato dei prigionieri sia stato messo in onda da numerose emittenti attorno al mondo, il governo USA ha isolato e demonizzato Al-Jazeera”, dice Lamis Andoni, un giornalista e analista indipendente che si è occupato per due decenni del Medio Oriente. “Essi [l’amministrazione USA] vogliono che lì fuori ci sia una sola versione, ma non possono mantenere questa versione sotto controllo se ci sono in giro altre storie come quelle di Al-Jazeera”. Una versione purificata del conflitto gioca un importante ruolo politico per l’amministrazione USA, sia nel minimizzare la vulnerabilità delle truppe USA che nel disumanizzare e mettere in secondo piano le vittime irachene, soprattutto civili. Per mantenere questa strategia non solo è inaccettabile mostrare video di prigionieri americani, ma anche scene di morte in generale. Erich Marquardt, direttore ed editore di YellowTimes.org, se ne accorse quando il suo sito venne chiuso dal suo Internet provider per aver pubblicato foto di prigionieri USA e di vittime civili irachene. Professori di giornalismo e esperti di media notano che mentre non si è ancora verificata una censura sfacciata su larga scala, i media USA d’accordo col governo hanno comunque praticato l’autocensura usando il metodo del bastone e della carota. Stelle e striscie forever Alcuni giornalisti di alto profilo con sentimenti contro la guerra o contro l’amministrazione sono stati puniti per le loro opinioni. Il talk show del conduttore Phil Donahue è stato cancellato dalla MSNBC perchè, secondo una fuga di notizie, le sue opinioni contro la guerra e di sinistra erano contrarie alla febbre patriottica degli ultimi tempi. Nello stesso tempo, la MSNBC ha assegnato un programma allo scioccante Michael Savage, che tra l’ altro ha definito le giovani vittime del fuoco urbano come “melma del ghetto”. Mentre rimozioni e licenziamenti come nel caso di Donahue sono relativamente rari, Robert Jensen, professore di giornalismo presso l’università del Texas, nota che i giornalisti ambiziosi sono stati bene informati su come i loro reportage di guerra possano influenzare le loro future carriere. “Il sistema premia chi vi si adatta più che punire chi non lo fa”, afferma Jensen, autore del libro “Writing Dissent”. “Ci sono solo un paio di casi drammatici di persone punite, ma non c’è bisogno di molti esempi per spaventare le altre persone. Le ricompense offerte dal sistema sono tangibili - se stai al gioco avrai questo; altrimenti potresti avere soltanto quello”. Secondo Jensen le ostentazioni di patriottismo da parte dei giornalisti andrebbero considerate un tabù alla stregua dei sentimenti platealmente ostili alla guerra: “I giornalisti sostengono di essere neutrali, ma alcuni dicono siamo neutrali ma anche patriottici” – afferma – “Eppure il patriottismo è una posizione politica, non neutra. Non si può essere entrambi.” Clear Channel, proprietario della maggior parte delle stazioni radio del paese, ha gettato alle ortiche qualsiasi pretesa di obiettività patrocinando manifestazioni a favore della guerra in alcune città importanti degli USA. Integrati nella guerra Un motivo per cui il patriottismo sembra così di moda tra gli inviati in Iraq è il sistema del “cronista integrato”. Questa nuova strategia ha fatto sì che circa 500 giornalisti di vari media siano praticamente integrati con la truppa, viaggino e vivano con loro. Se da un lato ciò offre un numero decente di notizie di prima mano, i critici sostengono che gli svantaggi sono molto peggio dei vantaggi. “È inusuale che ci siano così tanti giornalisti con tanto accesso al campo di battaglia, ma questo accesso non è stato indolore,” dice Rachel Coen, analista della FAIR (Fairness & Accuracy In Reporting). Il lavoro del cronista integrato viene deciso dagli ufficiali del governo. Non possono intervistare iracheni senza permesso né soldati americani se non in via ufficiale, riducendo così la probabilità che la truppa dica qualcosa di negativo sullo sforzo militare USA. Ed è naturale che i cronisti, vivendo così a stretto contatto con i soldati, sviluppino cameratismo e forti legami con la truppa. Così come nel caso di un giornalista che diventa troppo amico di una sua fonte, ci si trova davanti ad un dilemma etico. “Integrare è un modo per eliminare la stampa con gentilezza,” dice Mark Crispin Millar, professore di studi mediatici presso la NYU, “assorbi i cronisti nelle unità militari in avanzata, ed essi saranno psicologicamente inclini a sentirsi parte integrante delle operazioni militari. Vestiranno persino come dei soldati.” Durante la guerra del Vietnam, il crescente scetticismo dei media e la copertura del conflitto giocarono un ruolo fondamentale nell’orientare l’ opinione pubblica contro la guerra. Ma Robert Jensen vede due tipi principali di racconto provenienti dai cronisti integrati, e nessuno di essi soddisfa il bisogno di una copertura accurata con una visione globale dei fatti. “Prima vengono le storie di interesse umano: cosa mangiano, come si divertono ?”, dice. “Queste sono storie valide, ma non aiutano molto il pubblico a capire la natura del conflitto. L’altro tipo racconta semplicemente il movimento delle truppe: stiamo avanzando in questa strada, abbiamo avanzato ancora, ci stanno sparando addosso. Questi sono dei resoconti molto drammatici, ma cosa ci dicono sulla guerra, sulle politiche di guerra, sulle bugie raccontateci dall’amministrazione Bush?” Vittima la verità I rapporti del FAIR documentano come la verità sia stata una delle maggiori vittime della fiducia cieca dei media nelle fonti governative. Il 20 marzo giornalisti di NBC, NPR, ABC ed altre emittenti, comunicavano come un dato di fatto l’asserzione dei militari, secondo cui gli iracheni avevano fatto uso di missili Scud proibiti. Invece due giorni dopo il Comando Unificato affermava che in effetti nessun missile Scud era stato lanciato. Allo stesso modo, il 23 marzo vari media strombazzavano l’affermazione del governo secondo cui una fabbrica di armi chimiche era stata trovata vicino alla città di Najaf, mentre un giorno dopo quell’affermazione si rivelava totalmente infondata. Con l’aumentare delle vittime civili irachene e dei riposizionamenti militari, tuttavia, la stampa è stata man mano costretta ad ammettere che non tutto andava bene. “Le recenti retromarce USA hanno reso alcuni servizi meglio di come sarebber o stati altrimenti”, nota Mark Crispin Millar, “negli ultimi giorni hanno dovuto ammettere che i racconti di alcuni come Rumsfeld sono semplicemente falsi.” Idealmente, dicono molti, lo scetticismo dei giornalisti e la disponibilità dei media a criticare l’amministrazione cresce se la guerra va per le lunghe e se le vittime da entrambi i lati aumentano. “È una scommessa molto interessante questa del cronista integrato” dice Laura Miller. “Sperano che i giornalisti facciano il lavoro di PR per loro, e finora così è stato. Ma lì ci sono così tanti giornalisti, e i giornalisti hanno sempre una vena idealistica. Quindi se le cose mettono male, e i giornalisti sono nel posto giusto al momento buono, o nel posto sbagliato al momento sbagliato, a seconda dei punti di vista, potrebbero circolare notizie impazzite.” Kari Lindersen scrive per il Washington Post ed è istruttore presso lo Urban Youth International Journalism Program di Chicago. Tradotto liberamente da Marco Fiocco (m.fiocco at planet.nl) Fonte: http://www.alternet.org/story.html?StoryID=15507
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