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Il nostro sangue e la cosa pubblica
- Subject: Il nostro sangue e la cosa pubblica
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com>
- Date: Sat, 8 Mar 2003 13:09:38 +0100
Il nostro sangue e la cosa pubblica lanfranco caminiti [www.lanfranco.org] La lettera con cui il giuslavorista Pietro Ichino il 27 febbraio si è rivolto dalle pagine del "Corriere della sera" ai terroristi, che - secondo le informative del ministero degli Interni - lo avrebbero messo nel proprio mirino, è di inaudita potenza. Il dibattito che ne è seguito è stato invece, con qualche rara eccezione, fiacco e balbuziente, bruscamente troncato poi dalle pistolettate sul treno Roma-Arezzo. Meritava ben altro, quella lettera, e a maggior ragione dopo quell'episodio. Che cosa dice Ichino? Rivolto ai suoi potenziali assassini chiede di guardarlo negli occhi prima di premere il grilletto: chiede la sospensione della morte reciproca in nome di qualcos'altro, "qualcosa davvero di nuovo". Ma se questo non accadrà - se entrambi i gesti, guardare e uccidere, saranno ancora meccanici - allora sarà comunque valsa la pena di morire. Chiede di essere rispettato nel momento estremo per quello che è, un uomo, un uomo "pubblico" certo, ma non una funzione, un trafiletto di giornale, una carica amministrativa, un'icona, un'appendice di un'analisi ideologica. Spera, Ichino, di costruire anche solo per un momento uno "spazio" tra i nemici, qualcosa che si interponga tra loro e sia superiore a loro stessi: uno spazio pubblico, magari estremamente lacerato, ma comune. E' una lettera di qualità morale altissima, è una lettera di nobiltà altissima. Ci rimanda alle tragedie greche, ai latini, a Shakespeare. Ci rimanda alle grandi pagine della storia antica, alla democrazia di Atene, alla repubblica di Roma, alle parole che la grande esperienza umana della "cosa pubblica" ha rivolto ai propri nemici, quelli ottusi e quelli fieri, riscattando spesso con la propria fierezza quella ottusità. Con frasi che sembrano strappate alla letteratura, ci rimanda al valore della "qualità pubblica" delle nostre vite e pure delle nostre morti. La banalità delle considerazioni con cui ci si è sbarazzati della cosa - in nome dell'urgenza, in nome della praticità, in nome della "realtà" - a me sembra offensiva. La lotta al terrorismo - dicono - è fatta di indagini, rilievi, pratiche, magistrati, arresti, dichiarazioni politiche di unanime o bipartisan cordoglio, condanna e soddisfazione: non c'è tempo per la "letteratura". Tutto vero. Ma di cosa, di cosa - in nome di dio - dovrebbe occuparsi la cosa pubblica, se non del nostro sangue, delle nostre morti e delle nostre vite? Forse degli impianti di illuminazione, delle mense scolastiche, della pulizia dei marciapiedi, degli svaghi per gli anziani e delle giuste mercedi per il lavoro? E non dovrebbero essere invece queste preoccupazioni solo "amministrazione"? non dovrebbe essere questo il pane quotidiano degli amministratori pubblici, dei buoni amministratori di qualunque parte essi siano ? chi è bravo rimanga, chi non s'è dimostrato all'altezza se ne vada, chi ne approfitta sia spedito in galera. Che c'entrano gli impianti di illuminazione, le mense scolastiche, la pulizia dei marciapiedi, gli svaghi per gli anziani e le giuste mercedi per il lavoro con la cosa pubblica? Non è proprio nel momento in cui la nostra vita è in pericolo, la nostra vita sociale, minacciata dai nemici interni e da quelli esterni - il terrorismo, la jihad, la guerra - che la tempra morale di una società e dei suoi responsabili si mostra tutt'intera? E quale tempra morale può esservi in una società che tratta come un cane rognoso un suo nemico, un suo assassino? Questo fa più forte una società? Il corpo del terrorista Galesi è abbandonato in una camera mortuaria, nessuno, nemmeno i parenti più stretti vanno a riscattarlo. Il suo odio, ostinato e cieco, rimane come sospeso. Terribilmente sospeso. E' questa la forza della condanna pubblica? E d'altra parte il dolore - inesauribile - dei familiari di chi viene ucciso dai terroristi diventa cosa pubblica solo con l'affetto delle istituzioni, un funerale di stato, una medaglia, una carica, con la ritualità pubblica? Perché questa ritualità nulla riesce a assorbire - se non il dolore stesso - trasformandolo in una coscienza collettiva più forte e tenace? Da venticinque anni le nostre strade sono insanguinate dai terroristi, da venticinque anni questo cancro ricorre, distruggendo vite, famiglie, lasciando marchi indelebili. Si è imparato a convivere con il terrorismo, facendone "questione di polizia" o agitandolo con volgarità nelle beghe della lotta partitica. Adesso, proprio adesso che nel mondo esso si spande a macchia d'olio, proprio adesso che nel mondo l'odio diventa forma della lotta politica? E' possibile che tutto quello che questo paese - proprio perché la sua vita pubblica è stata lacerata, irreversibilmente - ha da dire al mondo sia la diffusione di foto segnaletiche? Tutto quello che si sa dire al mondo dei nostri nemici è la guerra - che sia preventiva, duratura o a bassa intensità? La qualità propriamente "politica" della lettera di Ichino a me sembra altissima: forse trova orecchie sorde in una società politica impegnata in dio sa cos'altro. Quella lettera non è un "tentativo estremo" ma, al contrario, potrebbe essere un inizio. Forse, non è da loro, dai "nemici del nostro mondo" che ci si può aspettare altro, forse. Forse il loro odio ha raggiunto una irreversibilità - e anche una praticità - difficile da disinnescare. Ho sempre l'idea che occorra disinnescare le anime prima che i corpi di un kamikaze. Venticinque anni fa veniva rapito e ucciso Aldo Moro: in quella terribile tragedia, umana e politica, nessuno fu all'altezza della situazione, reagendo solo agli obblighi del proprio "ruolo": non lo furono i politici, non lo furono i brigatisti. Solo Moro provò a scartare di lato, a tirarsi fuori da quella tenaglia, a inventare politica, a dire "qualcosa davvero di nuovo". Anche Moro aveva guardato in faccia i suoi carnefici, che gli buttarono addosso una coperta, prima di ucciderlo, non sostenendone lo sguardo. Lo sguardo politico di quell'esperienza. Quello "spazio comune" restò confinato nel bagagliaio di una Renault rossa. Roma, 7 marzo 2003
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