Il nostro sangue e la cosa pubblica



Il nostro sangue e la cosa pubblica
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]

La lettera con cui il giuslavorista Pietro Ichino il 27 febbraio si è
rivolto dalle pagine del "Corriere della sera" ai terroristi, che -
secondo le informative del ministero degli Interni - lo avrebbero messo
nel proprio mirino, è di inaudita potenza. Il dibattito che ne è seguito
è stato invece, con qualche rara eccezione, fiacco e balbuziente,
bruscamente troncato poi dalle pistolettate sul treno Roma-Arezzo.
Meritava ben altro, quella lettera, e a maggior ragione dopo
quell'episodio.
Che cosa dice Ichino? Rivolto ai suoi potenziali assassini chiede di
guardarlo negli occhi prima di premere il grilletto: chiede la
sospensione della morte reciproca in nome di qualcos'altro, "qualcosa
davvero di nuovo". Ma se questo non accadrà - se entrambi i gesti,
guardare e uccidere, saranno ancora meccanici - allora sarà comunque
valsa la pena di morire. Chiede di essere rispettato nel momento estremo
per quello che è, un uomo, un uomo "pubblico" certo, ma non una
funzione, un trafiletto di giornale, una carica amministrativa,
un'icona, un'appendice di un'analisi ideologica. Spera, Ichino, di
costruire anche solo per un momento uno "spazio" tra i nemici, qualcosa
che si interponga tra loro e sia superiore a loro stessi: uno spazio
pubblico, magari estremamente lacerato, ma comune. E' una lettera di
qualità morale altissima, è una lettera di nobiltà altissima. Ci rimanda
alle tragedie greche, ai latini, a Shakespeare. Ci rimanda alle grandi
pagine della storia antica, alla democrazia di Atene, alla repubblica di
Roma, alle parole che la grande esperienza umana della "cosa pubblica"
ha rivolto ai propri nemici, quelli ottusi e quelli fieri, riscattando
spesso con la propria fierezza quella ottusità. Con frasi che sembrano
strappate alla letteratura, ci rimanda al valore della "qualità
pubblica" delle nostre vite e pure delle nostre morti.
La banalità delle considerazioni con cui ci si è sbarazzati della cosa -
in nome dell'urgenza, in nome della praticità, in nome della "realtà" -
a me sembra offensiva. La lotta al terrorismo - dicono - è fatta di
indagini, rilievi, pratiche, magistrati, arresti, dichiarazioni
politiche di unanime o bipartisan cordoglio, condanna e soddisfazione:
non c'è tempo per la "letteratura".
Tutto vero. Ma di cosa, di cosa - in nome di dio - dovrebbe occuparsi la
cosa pubblica, se non del nostro sangue, delle nostre morti e delle
nostre vite? Forse degli impianti di illuminazione, delle mense
scolastiche, della pulizia dei marciapiedi, degli svaghi per gli anziani
e delle giuste mercedi per il lavoro? E non dovrebbero essere invece
queste preoccupazioni solo "amministrazione"? non dovrebbe essere questo
il pane quotidiano degli amministratori pubblici, dei buoni
amministratori di qualunque parte essi siano ? chi è bravo rimanga, chi
non s'è dimostrato all'altezza se ne vada, chi ne approfitta sia spedito
in galera. Che c'entrano gli impianti di illuminazione, le mense
scolastiche, la pulizia dei marciapiedi, gli svaghi per gli anziani e le
giuste mercedi per il lavoro con la cosa pubblica?
Non è proprio nel momento in cui la nostra vita è in pericolo, la nostra
vita sociale, minacciata dai nemici interni e da quelli esterni - il
terrorismo, la jihad, la guerra - che la tempra morale di una società e
dei suoi responsabili si mostra tutt'intera? E quale tempra morale può
esservi in una società che tratta come un cane rognoso un suo nemico, un
suo assassino? Questo fa più forte una società? Il corpo del terrorista
Galesi è abbandonato in una camera mortuaria, nessuno, nemmeno i parenti
più stretti vanno a riscattarlo. Il suo odio, ostinato e cieco, rimane
come sospeso. Terribilmente sospeso. E' questa la forza della condanna
pubblica? E d'altra parte il dolore - inesauribile - dei familiari di
chi viene ucciso dai terroristi diventa cosa pubblica solo con l'affetto
delle istituzioni, un funerale di stato, una medaglia, una carica, con
la ritualità pubblica? Perché questa ritualità nulla riesce a assorbire
- se non il dolore stesso - trasformandolo in una coscienza collettiva
più forte e tenace?
Da venticinque anni le nostre strade sono insanguinate dai terroristi,
da venticinque anni questo cancro ricorre, distruggendo vite, famiglie,
lasciando marchi indelebili. Si è imparato a convivere con il
terrorismo, facendone "questione di polizia" o agitandolo con volgarità
nelle beghe della lotta partitica. Adesso, proprio adesso che nel mondo
esso si spande a macchia d'olio, proprio adesso che nel mondo l'odio
diventa forma della lotta politica? E' possibile che tutto quello che
questo paese - proprio perché la sua vita pubblica è stata lacerata,
irreversibilmente - ha da dire al mondo sia la diffusione di foto
segnaletiche? Tutto quello che si sa dire al mondo dei nostri nemici è
la guerra -  che sia preventiva, duratura o a bassa intensità?
La qualità propriamente "politica" della lettera di Ichino a me sembra
altissima: forse trova orecchie sorde in una società politica impegnata
in dio sa cos'altro. Quella lettera non è un "tentativo estremo" ma, al
contrario, potrebbe essere un inizio. Forse, non è da loro, dai "nemici
del nostro mondo" che ci si può aspettare altro, forse. Forse il loro
odio ha raggiunto una irreversibilità - e anche una praticità -
difficile da disinnescare. Ho sempre l'idea che occorra disinnescare le
anime prima che i corpi di un kamikaze.
Venticinque anni fa veniva rapito e ucciso Aldo Moro: in quella
terribile tragedia, umana e politica, nessuno fu all'altezza della
situazione, reagendo solo agli obblighi del proprio "ruolo": non lo
furono i politici, non lo furono i brigatisti. Solo Moro provò a
scartare di lato, a tirarsi fuori da quella tenaglia, a inventare
politica, a dire "qualcosa davvero di nuovo". Anche Moro aveva guardato
in faccia i suoi carnefici, che gli buttarono addosso una coperta, prima
di ucciderlo, non sostenendone lo sguardo. Lo sguardo politico di
quell'esperienza. Quello "spazio comune" restò confinato nel bagagliaio
di una Renault rossa.

Roma, 7 marzo 2003