anteprima da "THE BUSH SHOW. Verità e bugie della guerra infinita"



Alcuni brani dal libro "THE BUSH SHOW. Verità e bugie della guerra infinita"
di Giulia Fossà, edito da Nuovi Mondi Media - http://www.nuovimondimedia.it

Mentre incombe la nuova guerra con l’Iraq, primo di una serie di conflitti
annunciati, l’autrice mette a nudo attraverso le testimonianze delle più
autorevoli voci della comunicazione italiana e internazionale, verità e
bugie della macchina di propaganda che alimenta e condiziona il sistema
mondiale dell’informazione.

In conversazioni ricche di aneddoti gli intervistati svelano le pressioni
quotidiane a cui sono sottoposti: Riccardo BARENGHI, direttore del
Manifesto;Padre Jean Marie BENJAMIN, ex funzionario Onu e presidente del
“Benjamin Committee for Iraq”; Dennis BERNSTEIN, avvocato, giornalista e
docente californiano; Giorgio BOCCA, scrittore, giornalista e opinionista;
Franco CARDINI, storico; Giulietto CHIESA, giornalista esperto di questioni
internazionali; Furio COLOMBO, direttore de L'Unità; Noam CHOMSKY,
linguista; Robert FISK, corrispondente da Beirut di The Independent; Carlo
GUBITOSA, giornalista di Peacelink; M’hamed Krichene, giornalista e
conduttore di Al Jazeera; Massimo NAVA, inviato del Corriere della Sera;
Alberto NEGRI, giornalista de Il Sole 24 ore; John PILGER, giornalista di
The Guardian e BBC; Ennio REMONDINO, inviato Rai; Ornella SANGIOVANNI,
associazione "Un ponte per"; Antonio SCIORTINO, direttore di Famiglia
Cristiana; Marcello VENEZIANI, opinionista, filosofo; Gino STRADA, fondatore
di Emergency; Giovanni BOLLEA, psicologo

GIULIA FOSSA' - In questa stagione della storia del mondo il giornalista ha
una responsabilità speciale?

ROBERT FISK - I giornalisti dovrebbero sempre avere una responsabilità
particolare. Tutto dipende dalla definizione di giornalismo. Nel mio stile
britannico, io ho sempre detto che fare giornalismo equivale a scrivere la
prima pagina della storia, e questo conferisce a noi giornalisti la
responsabilità di riferire quella che a noi appare come la verità, certo, la
verità è indefinibile, anche in questo caso è complicato, come tentare di
mangiare la zuppa con un coltello… Nelle guerre di norma siamo noi i primi
testimoni indipendenti, e anche per quanto riguarda la storia in generale.
Naturalmente c'è troppa parzialità nei resoconti dal Medioriente, intendo la
parzialità proisraeliana, quella proamericana o qualsiasi altra forma di
parzialità. Ma ci sono anche altre definizioni, attualmente la migliore che
io abbia trovato mi è stata data da Amira Hass, una eccellente giornalista
israeliana che scrive su Ha'aretz, un anno fa, durante una conversazione a
Gerusalemme riguardo al giornalismo, io le dissi la mia definizione, quella
sulla scrittura della prima pagina del libro della storia, e lei mi disse:
"No, il nostro lavoro consiste nel controllare i centri del potere". Credo
sia la migliore definizione di giornalismo che io abbia mai sentito.
Il 22 dicembre dello scorso anno, stavo tenendo una conferenza durante un
seminario a Nottingham, e una donna fece una osservazione acuta, disse:
"Anche la stampa è un centro di potere". Stiamo parlando di governi,
eserciti, milizie e lobby, questi sono i centri del potere, e di norma noi
non li mettiamo in discussione. Tempo fa le cose non stavano così, tempo fa
gli americani stessi mettevano in discussione questi centri, oggi non è
così. Basta aprire "The Herald Tribune", e guardare all'articolo di spalla,
"Gli USA hanno chiesto alla NATO di fornire assistenza militare, come ha
dichiarato un portavoce americano". Oggi la maggior parte dei giornali
americani dovrebbe riportare, in luogo del nome della testata: "Stando a un
portavoce", piuttosto che "The New York Times" o "The Washington Post" o
"The Herald Tribune". In particolar modo negli Stati Uniti si riscontra un
rapporto troppo affettuoso, quasi incestuoso e parassitico tra i giornalisti
e il governo. I giornalisti amano essere vicini al governo, amano essere
chiamati con il nome di battesimo: "John, o Bob, o Mike…" Basta guardare le
conferenze stampa del Dipartimento di Stato americano, o del Pentagono.
Donald Rumsfeld si rivolge ai giornalisti chiamandoli per nome, loro fanno
una domanda, e di norma si tratta di domande molto leggere e indulgenti, e
lui risponde loro ringraziandoli per la domanda, si danno tutti del tu.
Questo accade quando i giornalisti non mettono in discussione il potere,
quando hanno paura di poter perdere l'accesso, un accesso che è peraltro
inutile se intendono essere così indulgenti, allora che senso ha fare del
giornalismo? Ora, più ci si avvicina a una guerra, più sarà importante
mettere in discussione l'operato dei governi, rendere più dura la loro vita.
Questo non è antipatriottico, al contrario, è molto patriottico.
I governi considerano antipatriottico sollevare interrogativi quando i
soldati del paese sono in guerra, ma molti di quei soldati si pongono quegli
interrogativi, e nessuno li ascolta, per cui il nostro lavoro è quello di
porre le domande, anche al posto loro. Ai tempi della Guerra di Suez, molti
dei soldati britannici che stavano invadendo Port Said, eravamo nel 1956,
erano fortemente contrari a ciò che stava accadendo. I soldati furono
entusiasti quando il leader dei laburisti in Gran Bretagna, Hugh Gaitskell
definì l'attacco britannico come una aggressione. Ma naturalmente Gaitskell
e i giornali schierati contro la guerra, in particolar modo "The Observer",
vennero definiti come antipatriottici, e si sosteneva che in quel momento,
con i rischi che correvano i militari, quelle posizioni fossero inopportune.
L'America riuscì a entrare in Vietnam perché gli americani non misero in
discussione l'operato del governo. Quando si accorsero dell'errore ebbero il
coraggio di protestare, ma era già troppo tardi, e migliaia di giovani
americani erano già morti. Il punto è che il giornalismo deve mettere in
discussione l'operato del governo, soprattutto in tempi di guerra, e porre
le domande più difficili, e se il popolo è sinceramente schierato per la
guerra, accetterà le risposte del governo stabilendo se sono giuste o
sbagliate. Nel 1940, in Gran Bretagna c'era ancora chi sosteneva che avremmo
dovuto raggiungere un accordo con Hitler, ma il popolo britannico non la
pensava così, e queste persone non riuscirono a far trionfare la loro tesi.
Questo fronte aveva un suo programma, era libero di scrivere e discutere in
proposito, ma non ottenne ciò che desiderava, perché il popolo voleva
affrontare Hitler. Allora perché oggi si considera scontato che la gente sia
troppo debole per poter sostenere un dibattito pubblico su una guerra molto
meno importante? Infatti Saddam Hussein non è Hitler, così come Nasser non
era Mussolini. Quindi, il punto è tenere sotto controllo i centri di potere.
Come ho detto, il problema è che molti giornalisti, e soprattutto i
giornalisti americani, hanno smesso di farlo. Basta guardare la CNN: "Il
Pentagono ha detto che… a te la linea!" "Grazie Mike, il testo diffuso dal
Pentagono…" Queste persone sono diventate poco più che dei semplici
portavoce. Sono i mendicanti del potere, pietiscono le informazioni, sono
semplici rappresentanti dei centri di potere. Basta osservare i giornalisti
americani quando giungono nel Medio Oriente dopo un periodo di assenza,
immaginiamo che giungano a Damasco o nel Golfo, qual è il primo posto dove
si recano? L'Ambasciata Americana, per una riunione informativa. E subito
leggeremo: "Diplomatici americani, che hanno chiesto di restare anonimi,
sostengono che… eccetera eccetera". Ma per fare questo tipo di lavoro si
potrebbe restare a Washington, a Londra, o a Parigi, perché venire fino a
qui per parlare ai propri concittadini o ai propri diplomatici? Non dedicano
tempo a sufficienza al lavoro… Magari si recano al Ministero
dell'Informazione del governo locale, che certo non sarà il regno della
verità, non serve a nulla. Quindi tutto viene riflesso dalla cassa armonica
delle politiche statunitensi: anche se magari parleranno con qualcuno in un
bar o se viaggeranno in un paese, tutte le informazioni saranno dominate da
ciò che hanno ascoltato nelle riunioni informative, con i rappresentanti
della CIA, o con il sottosegretario dell'Ambasciatore, o con qualunque altra
autorità.
Ricordo quando un grande gruppo di giornalisti americani giunse ad Algeri
durante il peggiore periodo dei massacri, negli anni '90, giunsero tutti a
bordo di un convoglio di auto, e un'ora dopo tutto il convoglio partì alla
volta dell'Ambasciata, per una riunione informativa. Quando tornarono, mi
misi sulla porta a belare al loro indirizzo, e tutti mi ignorarono stizzosi:
non erano disposti ad accettare neanche la più piccola ironia sul loro modo
di operare. E' il caso di tante storie, basate su agenzie americane, ora
stiamo parlando della CIA, che come qualsiasi altro servizio di spionaggio
del mondo, come l'FBI, l'MI6, il MOSSAD e i servizi segreti siriani, mente
sapendo di mentire, e ha una lunga tradizione in questo senso. Se pensiamo a
tutte le storie riportate sui giornali americani e basate sulla CIA e l'FBI,
dobbiamo ricordarci che questi dovrebbero essere quegli eroi che non sono
riusciti a impedire il più grave attacco agli Stati Uniti mai accaduto nella
storia mondiale. Queste persone che stando alle autorità e alla stampa
dovrebbero dimostrare di essersi liberate completamente di qualunque
collegamento tra loro e quella catastrofe, sono stati nuovamente accettati
come autorità, come persone in possesso di informazioni accurate.
Guardiamo a cosa è accaduto dopo l'11 settembre, chi avrebbe pensato che
dopo l'11 settembre 2001 avremmo finito con l'attaccare Saddam, noi
pensavamo che fosse stato Bin Laden, giusto? A un certo punto, lo scorso
anno, l'immagine del volto di Bin Laden è stata gradualmente sfumata, perché
non era stato trovato, ed è entrato in scena Saddam Hussein. Ho cercato di
individuare esattamente in quale momento sia accaduto questo negli Stati
Uniti. I giornalisti americani avrebbero dovuto sottolineare questo fatto,
avrebbero dovuto chiedersi il perché di questa uscita di scena. Bin Laden è
stato semplicemente cancellato, i giornalisti hanno dichiarato che gli Stati
Uniti erano sempre più preoccupati per le armi di distruzione di massa
dell'Iraq, e il governo se l'è cavata agevolmente, con sollievo
dell'amministrazione Bush. Un mio amico, un professore di New York, ha
effettuato delle analisi al computer sull'uso che è stato fatto di Bin
Laden, di Saddam Hussein e dell'Iraq, durante lo scorso anno: il momento in
cui si è verificato il grande cambiamento di scena, la sostituzione tra i
due obiettivi, è stato il momento dello scandalo Enron. Il principale
sospetto che è emerso da quella vicenda è che il problema dell'economia
americana potesse essere quello della corruzione piuttosto che l'11
settembre, e allora: Bingo! Hanno ritirato fuori Saddam Hussein e lo hanno
messo al centro della scena, dove è rimasto fino ad oggi. E oggi chi si
ricorda più dello scandalo Enron? In questo caso i giornalisti americani
hanno fallito, e soprattutto non hanno mai chiesto il perché di questo.
Lo scorso anno ho tenuto una serie di conferenze negli USA, intitolate: "11
settembre: chiedete chi è stato, ma per l'amor del cielo non chiedete il
perché". E' interessante notare che durante ciascuna di quelle conferenze ho
parlato di fronte a un minimo di 2.000 persone. Da una costa all'altra degli
USA, nell'arco di 14 giorni, ho parlato a 32.000 americani. C'era interesse,
volevano conoscere il perché. Ma nei giornali americani, dopo l'11
settembre, nessuno ha potuto porre quella domanda. Io mi sono posto subito
quella domanda sul mio giornale, e ho ricevuto moltissime lettere di
protesta, che mi accusavano di essere a favore dei terroristi, di essere
malvagio come Bin Laden, che avrei dovuto essere licenziato dal giornale. Ho
ascoltato un presunto accademico di Harvard, che urlava dal telefono alla
radio: "Lei è un uomo pericoloso! Lei è antiamericano ed essere
antiamericani è come essere antisemiti!". Quindi ora se si critica il
Presidente Bush si è antisemiti, nazisti. E la ragione per la quale non si
può discutere di questo è legata alla questione tabù negli Stati Uniti
riferita al rapporto degli USA con il Medio Oriente e, in particolare, il
rapporto degli americani con Israele. Ho descritto questo come l'ultimo tabù
americano, oggi è possibile parlare di lesbiche, di neri, di gay, ma non del
rapporto dell'America con Israele e con il resto del Medio Oriente. E
naturalmente questi sono gli aspetti più pericolosi, il mondo arabo è
indignato proprio per le questioni sollevate da Bin Laden, indipendentemente
dal fatto che le abbia sollevate strumentalmente o meno, e cioè
l'occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di
Israele, il sostegno incondizionato degli USA per Israele, o per i dittatori
arabi filoccidentali.
L'America non vuole che qui ci sia la democrazia, e assistiamo a una
crescente occupazione dei paesi arabi da parte dell'America. Oggi ci sono
militari americani in Giordania, Egitto, istruttori militari in Algeria, in
Kuwait, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Bahrein e Yemen, come minimo! Queste
sono tutte problematiche che vengono sollevate dagli arabi, e si tratta dei
punti specifici sollevati da Bin Laden: è per questa ragione Bin Laden ha un
seguito così grande nel Medio Oriente, non perché ha abbattuto il World
Trade Center, o perché ha commesso crimini contro l'umanità negli Stati
Uniti, ma perché ciò che sostiene riflette il pensiero della maggior parte
degli arabi, ma non dei loro leader. L'unico modo in cui possono sentire
parlare delle questioni che stanno loro a cuore è attraverso un arabo che
parla da una caverna, e questa è una grande umiliazione per gli arabi. Ma
queste problematiche dovevano essere completamente cancellate dopo l'11
settembre, una cosa assolutamente ridicola.
In occasione di una conferenza a New York ho detto: "Se viene commesso un
crimine a New York, la prima cosa che i poliziotti cercheranno è un movente,
ma nell'ambito di questo crimine internazionale contro l'umanità ci viene
vietata proprio la ricerca del movente, ci vietano di chiedere il perché". E
i giornalisti in generale, compresi quelli europei, sono stati criminali per
il modo in cui si sono rifiutati di porre quella domanda. Finché, poi, non è
stato troppo tardi per porla.
Robert Fisk, corrispondente da Beirut del quotidiano britannico The
Independent, è un esperto di questioni mediorientali. Nei suoi reportage ha
documentato l'invasione del Libano da parte di Israele (1978-82), la
rivoluzione in Iran (1979), la guerra tra Iran e Iraq (1980-88), l'invasione
sovietica dell'Afghanistan (1980), la Guerra del Golfo (1991), la guerra in
Bosnia (1992-96) e il conflitto in Algeria (dal 1992 in poi).

GIULIA FOSSA': John Le Carre', in un bell'articolo segnato da una forte
passione civile pubblicato su Repubblica, denuncia (sono parole sue) "la
combinazione fra media Usa compiacenti e interessi delle grandi imprese per
confinare un dibattito, che dovrebbe risuonare in ogni piazza, in colonne
che nessuno leggera' mai". E' una mia impressione o sta accadendo anche qui?
GIORGIO BOCCA: Qui sta accadendo che la stampa, anche quella che si dice la
stampa indipendente, e' completamente legata al sistema economico. Il
sistema economico degli Stati Uniti, che e' il sistema economico prevalente
nel mondo, sta inventando questa guerra necessaria, sta inventando questo
pericolo terribile dell'Iraq, che in realta' fa ridere, non esiste. Quindi
si e' riusciti - e credo che sia l'esempio massimo della disinformazia - a
dimostrare che un paese, che non ha la bomba atomica, fa paura a un paese
che ha mille bombe e missili atomici.

GIULIA FOSSA': Gli ispettori Onu stanno verificando l'armamento iracheno e
presenteranno all'Onu il loro rapporto. Il suo giudizio su questa
iniziativa: servira' a scongiurare la guerra?
PADRE BENJAMIN: No. Perche' la guerra l'hanno gia' decisa. A luglio scorso,
a due mesi dall'anniversario dell'11 settembre, da un giorno all'altro, in
tutti i media, nei discorsi ufficiali dell'Amministrazione americana e di
Blair, non si parla piu' di Bin Laden. Non si parla piu' di Al Qaeda: si
parla di Saddam. "Saddam sta facendo la bomba atomica". Cosi', da un giorno
all'altro, perche' dovevano prendere un altro obiettivo, no? Per nascondere
il fiasco della lotta al terrorismo.
Dal momento che l'amministrazione americana cambia linea e parla di asse del
male, i media dovevano giustificare un intervento.
Un intervento che avrebbero gia' fatto unilateralmente se non ci fosse stata
la comunita' internazionale, in particolare la Francia e la Russia, che
hanno imposto di passare attraverso l'Onu. Pensavano, probabilmente, che
l'Iraq non avrebbe mai accettato il ritorno degli ispettori. Sorpresa:
accettano senza condizioni. Effettivamente sono partiti gli ispettori, con
accesso a tutti i siti, anche a tutti i palazzi di Saddam. Vanno li'.
Chiedono un rapporto e gli viene consegnato: sono 12000 pagine. Ma, prima
ancora che avessero letto una sola pagina, la dichiarazione e' stata: "Ah,
ma non e' affidabile, mancano delle cose!".

GIULIA FOSSA': Come vive l'opinione pubblica irachena questo terribile
momento di attesa?
PADRE BENJAMIN: E' un popolo fantastico, ha una dignita' che gli permette di
sopravvivere a dodici anni di embargo. Possiamo immaginare l'Italia dopo
l'ultima guerra mondiale, distrutta, messa subito sotto embargo, impedendo
la ricostruzione, con tutti i soldi del ricavato del paese sul conto
dell'Onu. Immaginiamola bombardata nel '98, e che ci sia l'uranio impoverito
e una devastante situazione nel sud del paese. Per gli iracheni e' una
triste realta', purtroppo. Come puo' vivere della gente quando gli stiamo
dicendo: "Beh adesso vi bombardiamo di nuovo".
Non e' l'Iraq che sta minacciando gli Stati Uniti, non ha fatto nessuna
dichiarazione di guerra; sono gli americani, l'amministrazione americana,
che non passano tre giorni senza che arrivino nuove minacce, un nuovo
pacchetto di offese, di insulti, all'indirizzo dell'asse del male. Allora e'
evidente l'esasperazione di questi paesi arabi, gia' al limite per la
situazione dei palestinesi. Del resto e' lo stesso metodo che sta applicando
Sharon, quello di Washington. Se in Iraq c'e' un popolo disarmato
all'agonia, una nazione distrutta, sulla quale vai a buttare ancora un
miliardo di bombe, dunque una popolazione inerme, in Palestina ci sono dei
ragazzini che tirano delle pietre e dei militari armati fino ai denti che
gli sparano e li ammazzano a centinaia. E' la stessa politica.
L'attentato dell'undici settembre e' stato compiuto - noi lo dobbiamo
credere, anche se non abbiamo avuto le prove - da un gruppo di estremisti
islamici. Non e' uno Stato che ha attaccato gli Stati Uniti. Dunque non e'
una guerra tra stati. In risposta hanno bombardato tutto un popolo con sei o
settemila, non si sa ancora e non si sapra' mai, vittime civili innocenti,
gente che non c'entra niente, povera gente. E non hanno, lo ripeto, nemmeno
preso il primo accusato. E adesso vanno a colpire di nuovo un popolo
completamente annientato. La specialita' americana e' quella di buttare
delle bombe sui popoli piu' poveri, piu' diseredati.

GIULIA FOSSA': Che pensa della guerra al terrorismo?
JOHN PILGER: La guerra al terrore, come la chiama Bush, e' un inganno. Si
puo' dimostrare che si tratta di un inganno. Non esiste alcun collegamento
tra Iraq e Al Qaeda, e Bush e Blair pianificano il loro attacco all'Iraq nel
nome della loro speciosa guerra al terrore. Inoltre e' illogico. Come si
puo' combattere una guerra quando si e' in prima persona dei terroristi?
Questa non e' retorica. La storia degli Stati Uniti parla chiaro: sono la
piu' grande fonte di terrorismo che io abbia visto in opera nell'arco della
mia vita. Da Hiroshima e Nagasaki fino ad oggi. La storia della Gran
Bretagna e' altrettanto macabra: dalla sua politica imperialista finalizzata
ad affamare i popoli per sottometterli fino all'uccisione di decine di
migliaia di iracheni con l'embargo. E quali sono, numericamente, le
principali vittime del terrorismo di stato? I musulmani e gli arabi. Queste
sono le verita' orwelliane che dobbiamo conoscere per cercare di dare un
senso a questa epoca surreale.

GIULIA FOSSA': L'Iraq e' sotto assedio da anni. Le no-fly zone e l'embargo
hanno messo in ginocchio un popolo. Perche' non se ne parla, o se ne parla
cosi' poco?
RICCARDO BARENGHI: Ma perche' del sud del mondo non si parla per niente. Ha
ragione Celentano. Tranne, ovviamente qualche lodevole eccezione tra cui
devo includere, mi scuso per l'autocitazione, il Manifesto. Perche' non
interessa, perche' sono cose noiose, tristi. Perche' e' meglio parlare
dell'ultima uscita di Fassino, o della conferenza stampa di fine anno di
Berlusconi. Ogni tanto c'e' l'afflato umanitario, per cui allora "Si',
dobbiamo fare..." e scoprire improvvisamente che forse Dio e' malato, strano
mondo. Veltroni va in Africa e scrive un libro in tre giorni scoprendo
l'Africa, cosa che abbiamo scoperto da molto tempo in molti di noi, oppure
Berlusconi che parla del debito, e dice: "Basta con questa storia", e poi
non lo fanno, perche' altrimenti dal punto di vista contabile gli si apre un
ennesimo buco. Una cosa ridicola. Ecco che allora nei giornali occidentali,
in quasi tutti, si parla poco, o quasi per niente di questa storia
dell'Iraq, come dell'Africa, come di altri. Perche'? Perche' proprio non
frega niente, non e' un problema. Diventa un problema quando c'e' un
dittatore sanguinario - che e' un dittatore sanguinario- e che pero'
improvvisamente bisogna abbattere, bisogna abbatterlo e basta. Sta li' da
venti anni, forse piu'. Nel '91 bisognava abbatterlo e non lo hanno
abbattuto, lo hanno lasciato altri dieci anni e adesso improvvisamente
bisogna di nuovo riabbatterlo. E allora si parla dell'Iraq. Noi al Manifesto
sono dieci anni che battiamo sull'embargo, sul milione di morti, dei
bambini, agli altri non gliene frega niente di questa storia, perche' un
bambino iracheno che muore e' come il cane che morde l'uomo, cioe' non fa
notizia. Mentre invece, ovviamente, un bambino occidentale che muore e'
l'uomo che morde il cane, e quindi fa notizia.
Purtroppo sono le orrende regole di un'informazione alla quale siamo un po'
assuefatti che fa schifo, pero' ci stiamo dentro, quindi e' difficilissimo,
anche per noi, rompere tutti i giorni almeno un pezzettino di questa sfera
di cristallo nella quale siamo, questa specie di "Truman show" in cui
viviamo. Ecco, un piccolo buchino ogni tanto riusciamo a farlo, pero',
certo, sei sempre dentro questa cosa, non e' facile.

Il testo è riproducibile citando la fonte:

Giulia Fossà, THE BUSH SHOW. Verità e bugie della guerra infinita, pagg.
198, 11 euro
Nuovi Mondi Media - http://www.nuovimondimedia.it