L'amico americano



L'amico americano
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]

Mi figuro i rapporti del nostro paese con gli Stati uniti non come
quelli fra due nazioni, due popoli, due stati, ma come quelli tra due
amici di vecchia data. Stessa università, stessi film, stessa squadra,
per qualche mese filavamo con due sorelle. Poi, ci hanno diviso tante
storie, ma siamo rimasti sempre in contatto, rimpatriate, telefonate a
scambiare problemi e consigli, cene, un abbraccio stretto nel rivedersi,
cose così. Lui, il nostro amico, che è più robusto, più ricco, più
industrioso, ci ha dato una mano in diversi momenti: ora era un prestito
in un periodo in cui eravamo a secco, ora si trattava di trovare lavoro
a dei nostri parenti che erano proprio a pezzi, ora era il caso di
sistemare una volta per tutte certe questioni. Certe volte m'è pure
venuto il sospetto che non sempre sia stato un aiuto disinteressato, ma
non ti metti tanto a sottilizzare quando stai in difficoltà, e forse è
naturale che ognuno ci abbia il suo guadagno. Su tante cose la pensiamo
allo stesso modo e quasi su altrettante no, e in fondo non c'è neanche
bisogno di dirsele tutte, le cose. Le amicizie prescindono pure dai
ragionamenti. Mi casa es tu casa.
L'11 settembre gli Stati uniti sono stato feriti profondamente, a morte.
E' come un amico caro colpito da un lutto terribile e inspiegabile:
qualcuno la cui moglie è stata travolta in un incidente stradale perché
un pazzo ubriaco ha sorpassato dove non doveva o a cui in una rapina
hanno ucciso la figlia che stava facendo la fila per pagare un
bollettino postale. Qualcosa si è irrimediabilmente spezzato. Per
sempre. Forever.
Gli stiamo vicini, come potremmo fare altrimenti? Gli stiamo vicini con
sentimento, non in maniera formale, non per riconoscenza, anche se
sappiamo che non potremmo sottrarci. Per senso del dovere, per il valore
che abbiamo sempre dato all'amicizia, per noi anche. Vorremmo
alleviargli quella pena, che lo divora dentro, lo trasfigura, lo rende
irriconoscibile a noi stessi. Lo accompagniamo nei bar, lo ascoltiamo
parlare a ruota libera, sfogarsi, poi d'improvviso lo vediamo fissare
una crepa in un muro o un punto nel buio, tutto preso dai propri
fantasmi. La sua casa in certi giorni è in completo disordine, tutto
sottosopra, poi tutto assume un ordine maniacale, surreale. Ci strazia
dentro. Sotto i nostri occhi non si dà pace, diventa violento, è
rissoso, sgarbato, attaccabrighe, ci mettiamo sempre di mezzo, gli altri
non capiscono, quelli che non sanno, non capiscono. Prendiamo le sue
parti, facciamo anche a botte con lui, per lui. Lui dice che prima o poi
capiterà anche a noi, noi gli facciamo di sì con la testa, ma sappiamo
che non è vero, non più vero del fatto che a ciascuno toccano le proprie
disgrazie. Adesso gli è capitata quest'altra botta, lo shuttle che si
disintegra al rientro - quelle, le disgrazie, vengono un dietro l'altra,
misteriosamente, si ammonticchiano tutte in un posto, con accanimento -,
si incupirà di più, sarà ancora più intrattabile.
Quanto può durare lui così? E quanto può durare per noi così? Ci chiama
nel cuore della notte, piomba in casa quando meno te lo aspetti, è
convinto di aver individuato chi è il responsabile dei suoi lutti, da
una stazione dei carabinieri un giorno ci telefonano al lavoro per
venire a prendercelo e riportarlo a casa - ha dato in escandescenze per
strada aggredendo gli automobilisti di passaggio. Se lo abbandoniamo a
se stesso, se allentiamo la nostra amicizia, lui si lascerà andare anche
peggio, crediamo. Se non allentiamo il rapporto, i primi a andarci di
mezzo saremo noi però, la sua ossessione ci farà a pezzi. Nella testa,
nei comportamenti, nelle parole. Potremmo diventare come lui senza avere
i suoi stessi motivi, le sue stesse ragioni, la sua stessa follia, la
sua stessa ossessione. Così, per coscienza, gli restiamo a fianco,
mentre intanto altri amici diradano i rapporti, si defilano, cercano di
farsi i fatti propri, di tirare avanti la propria vita. Ci consigliano
di portarlo da un medico - e chi glielo dice? -, o in uno di quei
circoli dove si riuniscono le persone che hanno lo stesso problema e
fanno gruppo alleviandosi un po' a vicenda. Cercano insomma di
sopravvivergli, come dargli torto? Ogni pena dovrebbe avere in se stessa
un limite. Non possiamo augurarci che anche loro vengano colpiti dal suo
stesso lutto per capire finalmente. Non possiamo augurarci che anche noi
si sia colpiti dal suo stesso lutto, per diventare come lui. Nessuno al
mondo vuole diventare come lui.

Ça iraq
La ferita apportata l'11 settembre è una ferita rimarginabile? Ci
appagheranno l'occupazione d'un suolo, la testa d'un brigante, la
distruzione d'un luogo, il sale sparso sulle rovine fumanti?
È reversibile questo stato di guerra o il suo carattere "enduring",
duraturo, permanente, indefinito è il segno di una compiuta
irreversibilità? Quel dolore, con il suo carattere assolutamente
sorprendente, fondamentale, fuori dalla temporalità, dal mondo, un
dolore assoluto e non relativo, che scuote nel profondo i nostri
sentimenti - e non solo le nostre condizioni -, ha risarcimento?
C'è un risarcimento per l'11 settembre?
C'è una riparazione? [i debiti di guerra, le imposizioni al nemico
vinto]
C'è una vendetta sufficiente?
C'è un nuovo ordine delle cose che può restituirci quello che abbiamo
perduto?
Riavremo mai quello che abbiamo perduto?
Temo di no.
Qui non è in discussione l'Afghanistan, l'Iraq o Saddam o bin Laden o il
Sudan o la Corea del Nord.
Qui in discussione siamo noi. Quest'ossessione travolge noi stessi.
Si trattasse solo di avere la testa di Saddam o di qualche altro pazzo
furioso nel pianeta, a conti fatti potrei pure starci. Quattro soldati,
un po' d'ammuina, tre bombe, due sacchi neri, e è fatta. Effetti
collaterali compresi.
Ma qui lo scontro non è tra civiltà. Magari. Sarebbe tutto in discesa.
Non c'è partita.
Qui lo scontro è tutto dentro la nostra, di civiltà, di casa. Qui si
piega fino in fondo la nostra civiltà, all'interno, la nostra storia, le
nostre istituzioni, le nostre relazioni sociali, le nostre parole: qui
quanto è contingente nella storia nostra, l'uso della guerra, la
mobilitazione di massa, l'eccitazione sociale, l'irrigidimento delle
regole di convivenza e di comunicazione, corre il rischio di diventare
permanente, di diventare assoluto, ossessivo, di lasciarci senza parole
adeguate per capire o per opporci. Non sappiamo come frenare tutto
questo e neppure come parteciparvi, una parte di noi dice "ehi, amico,
sono qui con te" - a volte sembra non accorgersi neppure della nostra
presenza. Una parte non ci dorme la notte, smania e si preoccupa. Lui va
avanti.
Senza tregua, divorando se stesso, mentre divora nemici uno dietro
l'altro. E amici. Senza scampo.
Ça iraq.

Roma, 1 febbraio 2003