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Ci fosse ancora Giacomo Mancini
- Subject: Ci fosse ancora Giacomo Mancini
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com>
- Date: Mon, 25 Nov 2002 11:10:32 +0100
Ci fosse ancora Giacomo Mancini di lanfranco caminiti [www.lanfranco.org] Ci fosse ancora, Giacomo Mancini avrebbe sfilato in testa al corteo che sabato 23 novembre ha attraversato le strade di Cosenza. Ne sono sicuro. Lo avrebbe fatto da sindaco, lo avrebbe fatto per quel suo carattere ostinato, lo avrebbe fatto perché nulla poteva farsi nel suo "territorio" che a lui non garbava potesse farsi, lo avrebbe fatto per continuare a togliersi sassolini dalle scarpe contro i "teoremi giudiziari" per quelle vicissitudini che lo avevano infastidito negli ultimi anni, lo avrebbe fatto perché da politico di razza aveva capito che le rappresentanze dei partiti erano al capolinea e che bisognava inventare altri modi di intercettare la società civile e i movimenti, lo avrebbe fatto da meridionale impastato di un orgoglio che talvolta ti deraglia, lo avrebbe fatto perché quando l'ombra nera della spiccia soluzione giudiziaria colpì i movimenti degli anni settanta fu praticamente l'unico a opporsi, fu praticamente il primo a andare in carcere a trovare gli arrestati senza timore, fu praticamente il solo che continuò a difendere l'onore dell'università di Arcavacata e dei suoi docenti e studenti. Lo avrebbe fatto da socialista. Di quelli che non ce ne sono più, che erano dell'altro secolo. O forse di quello prima ancora. Quando l'appellativo indicava fierezza. Giacomo era una storia intera. Ci fosse ancora Giacomo, i cronisti e i commentatori avrebbero avuto più materia per i loro pezzi, ammesso ne abbiano poi voglia. Forse avrebbero capito meglio questa "strana" città che accoglie un movimento facendosi coinvolgere, magari ricordando che quando Franco Piperno dopo il Canada, il carcere, il processo, ritornò alla sua Università fu ricevuto con una piccola festa cittadina, con la banda di Verbicaro che suonava i suoi ottoni a perdifiato nella piazza del municipio. Nessuno ha mai chiesto scusa a Piperno, per le cospirazioni, le insurrezioni, le infamie che gli vennero attribuite e poi lasciate cadere. E mettiamoli i piedi nel piatto: c'è un pensiero giuridico dell'emergenza che ha fatto scuola, di più, giurisprudenza; c'è un'intera generazione di magistrati che su quelle sentenze, su quei dispositivi, su quelle ordinanze, su quei mandati di cattura, su quegli interrogatori, su quei processi ha costruito il proprio sapere, ha studiato, ha conformato il proprio modo di leggere i comportamenti sociali, di considerarli o meno ipotesi di reato. Se non c'è - come finora non c'è mai stata - iniziativa politica, parlamentare, legislativa che in qualche modo dichiari chiusa quella stagione, come può pretendersi da un singolo magistrato la "sensibilità politica" necessaria? Perché stupirsi che vi sia slittamento concettuale, abuso delle categorie, forzatura interpretativa, quando questo è rimasto vigente, modo giudiziario? Perché stupirsi che le stesse carte vengano lette in un posto in un modo e altrimenti in un altro, se si lascia al foro interiore del singolo magistrato la scelta di come agire, quando il legislatore nulla ha fatto per modificare le norme, o almeno per inquadrare delle norme in una sancita nuova "sensibilità generale" - un provvedimento generale, simbolico, di mediazione, di riparazione e non di rimozione? Perché stupirsi della traduzione giudiziaria di un pensiero che fino a un paio di mesi fa era della politica tutta [o quasi], ovvero che dentro il movimento si annidassero i terroristi? Come possono la flessibilità e le giravolte che la politica è propriamente attrezzata a compiere pretendersi da una "macchina" quale quella di una procura? Il turbamento che coglie oggi trasversalmente i politici è ancora segno di ipocrisia - e per molti versi di facile modo a chiamarsi fuori. Vi saranno altre procure, altri magistrati che agiranno nello stesso modo - basterà un niente a provocarlo. A me interessa poco una sorta di sconfessione dell'operato di un magistrato, lasciando intiero l'apparato normativo e immodificato l'atteggiamento politico e legislativo: confessione o abiura. Questa è anche una grande occasione, una triste occasione - ancora un'altra -, per chiudere l'emergenzialismo politico e giudiziario nei confronti dei movimenti sociali. Nei confronti dell'uso degli arresti, della detenzione, della punizione. Qui non c'è in corso proprio alcuna guerra di poteri. C'è una imputazione alla società politica - ancora una volta - di quel che è suo proprio compito. La soluzione di un "caso" non può passare solo attraverso forme di mediazione sul caso stesso [sì, certo, intanto tiriamoli fuori di galera subito e tutti]. Ci fosse ancora Giacomo, questo avrebbe ripetuto. Lo aveva fatto per anni. Ci fosse ancora Giacomo, i cronisti e i commentatori forse avrebbero saputo del recupero faticoso del centro storico di questa città "strana" di Cosenza, che era stato abbandonato da commercianti e cittadini e cadeva letteralmente a pezzi, e è stato recupero di spazi, di storia, di saperi e di mestieri, di commerci. Forse avrebbero saputo del restauro del teatro e della sua attività culturale - un vanto da sempre per quegli abitanti che si ostinano a pensarsi "intellettuali della Magna Grecia". Forse avrebbero saputo di quanto e come abbia agito in questi anni in quella città un pensiero "municipale", fatto di attenzioni e rivendicazioni per il proprio territorio ma anche di incontri pubblici - letteralmente sulle piazze - per discutere i provvedimenti amministrativi. Forse avrebbero saputo di quella rete di amministratori, intellettuali, cittadini che da anni costruisce relazioni, rapporti, fa incontri, edita piccoli giornali, prende iniziative modificando il territorio, lo "spazio pubblico". Forse avrebbero saputo di quelle prime e importanti trasformazioni di zone della città che erano proverbialmente disastrate, incistate. Forse avrebbero saputo di come sia stato - e continui a essere - difficile difendere, promuovere quell'Università che è sempre stata un po' corpo estraneo e un po' vanto della città, e motore economico, luogo di poteri ma anche uno straordinario luogo di produzione culturale, di formazione civile per generazioni di giovani che sarebbero andati via, altrove, lontano dal Sud e che lì - tra lezioni, occupazioni, spazi rivendicati, lotte - hanno imparato che la democrazia non è una grazia concessa ma si conquista. Per tanti meridionali, una rivoluzione. La prima rivoluzione. Ci fosse ancora Giacomo, sarebbe stata una grande occasione anche per i movimenti interrogarsi sul rapporto con la politica, con l'amministrazione della "cosa pubblica". Non che i movimenti non pratichino questo rapporto o non abbiano idea di cosa sia: ma Giacomo era figura controversa come poche, uomo degli asfalti - di quell'orrore e di quella storia che è l'autostrada del Sud -, uomo del cemento, uomo degli affari, uomo del palazzo - e di molti suoi segreti - ma anche politico sconfitto, isolato, emarginato, perseguito, e pure ostinatamente abbarbicato al suo "regno locale", pronto a risalire, a battersi, a rivincere, a costruire alleanze, a rimescolare le carte per fare questo. Pronto a qualsiasi strumentalità ma anche di sicura lealtà. Politico di appalti, di disastri ambientali, ma anche uomo di riforme durature, di cambiamenti strutturali, di quelli che segnano per sempre un luogo, un territorio, una cultura. Una politica con cui dissentire, a cui opporsi, in cui trovare propri spazi da allargare, talvolta da sostenere. Una politica miserabile e una politica alta. Sarebbe stata una grande occasione perché finora - in questo straordinario percorso che sta compiendo il movimento in Italia, mantenendo tutt'intera la propria autonomia politica, ancora faticosamente in formazione - i "politici di professione" che interloquiscono non è che siano solo poco coraggiosi quanto piuttosto poco strumentali. Occhieggiano, ammicano, strizzano questo o quell'occhietto, vi si accostano, oppure lo esorcizzano, se ne augurano la fine, lo biasimano, ma non ne intendono la sua costituzione, la differenza da sé e il rispetto che gli si deve. Non gli pongono domande, questioni, crinali su questa o quella scelta specifica che lo facciano discutere, decidere. Esprimono il loro parere, la loro opinione, le loro intenzioni, il loro modo di vedere le cose. Non ci fanno "politica". Ci fosse ancora Giacomo, pur stanco e malato come negli ultimi tempi, ci proverebbe. Chissà, forse ne verrebbero fuori "strane" cose per questo paese. Cose di quelle che non ce ne sono più, che erano dell'altro secolo. O forse di quello prima ancora. Roma, 25 novembre 2002
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