Ci fosse ancora Giacomo Mancini



Ci fosse ancora Giacomo Mancini
di lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]

Ci fosse ancora, Giacomo Mancini avrebbe sfilato in testa al corteo che
sabato 23 novembre ha attraversato le strade di Cosenza. Ne sono sicuro.
Lo avrebbe fatto da sindaco, lo avrebbe fatto per quel suo carattere
ostinato, lo avrebbe fatto perché nulla poteva farsi nel suo
"territorio" che a lui non garbava potesse farsi, lo avrebbe fatto per
continuare a togliersi sassolini dalle scarpe contro i "teoremi
giudiziari" per quelle vicissitudini che lo avevano infastidito negli
ultimi anni, lo avrebbe fatto perché da politico di razza aveva capito
che le rappresentanze dei partiti erano al capolinea e che bisognava
inventare altri modi di intercettare la società civile e i movimenti, lo
avrebbe fatto da meridionale impastato di un orgoglio che talvolta ti
deraglia, lo avrebbe fatto perché quando l'ombra nera della spiccia
soluzione giudiziaria colpì i movimenti degli anni settanta fu
praticamente l'unico a opporsi, fu praticamente il primo a andare in
carcere a trovare gli arrestati senza timore, fu praticamente il solo
che continuò a difendere l'onore dell'università di Arcavacata e dei
suoi docenti e studenti. Lo avrebbe fatto da socialista. Di quelli che
non ce ne sono più, che erano dell'altro secolo. O forse di quello prima
ancora. Quando l'appellativo indicava fierezza. Giacomo era una storia
intera.
Ci fosse ancora Giacomo, i cronisti e i commentatori avrebbero avuto più
materia per i loro pezzi, ammesso ne abbiano poi voglia. Forse avrebbero
capito meglio questa "strana" città che accoglie un movimento facendosi
coinvolgere, magari ricordando che quando Franco Piperno dopo il Canada,
il carcere, il processo, ritornò alla sua Università fu ricevuto con una
piccola festa cittadina, con la banda di Verbicaro che suonava i suoi
ottoni a perdifiato nella piazza del municipio. Nessuno ha mai chiesto
scusa a Piperno, per le cospirazioni, le insurrezioni, le infamie che
gli vennero attribuite e poi lasciate cadere. E mettiamoli i piedi nel
piatto: c'è un pensiero giuridico dell'emergenza che ha fatto scuola, di
più, giurisprudenza; c'è un'intera generazione di magistrati che su
quelle sentenze, su quei dispositivi, su quelle ordinanze, su quei
mandati di cattura, su quegli interrogatori, su quei processi ha
costruito il proprio sapere, ha studiato, ha conformato il proprio modo
di leggere i comportamenti sociali, di considerarli o meno ipotesi di
reato. Se non c'è - come finora non c'è mai stata - iniziativa politica,
parlamentare, legislativa che in qualche modo dichiari chiusa quella
stagione, come può pretendersi da un singolo magistrato la "sensibilità
politica" necessaria? Perché stupirsi che vi sia slittamento
concettuale, abuso delle categorie, forzatura interpretativa, quando
questo è rimasto vigente, modo giudiziario? Perché stupirsi che le
stesse carte vengano lette in un posto in un modo e altrimenti in un
altro, se si lascia al foro interiore del singolo magistrato la scelta
di come agire, quando il legislatore nulla ha fatto per modificare le
norme, o almeno per inquadrare delle norme in una sancita nuova
"sensibilità generale" - un provvedimento generale, simbolico, di
mediazione, di riparazione e non di rimozione? Perché stupirsi della
traduzione giudiziaria di un pensiero che fino a un paio di mesi fa era
della politica tutta [o quasi], ovvero che dentro il movimento si
annidassero i terroristi? Come possono la flessibilità e le giravolte
che la politica è propriamente attrezzata a compiere pretendersi da una
"macchina" quale quella di una procura? Il turbamento che coglie oggi
trasversalmente i politici è ancora segno di ipocrisia - e per molti
versi di facile modo a chiamarsi fuori. Vi saranno altre procure, altri
magistrati che agiranno nello stesso modo - basterà un niente a
provocarlo. A me interessa poco una sorta di sconfessione dell'operato
di un magistrato, lasciando intiero l'apparato normativo e immodificato
l'atteggiamento politico e legislativo: confessione o abiura. Questa è
anche una grande occasione, una triste occasione - ancora un'altra -,
per chiudere l'emergenzialismo politico e giudiziario nei confronti dei
movimenti sociali. Nei confronti dell'uso degli arresti, della
detenzione, della punizione. Qui non c'è in corso proprio alcuna guerra
di poteri. C'è una imputazione alla società politica - ancora una volta
- di quel che è suo proprio compito. La soluzione di un "caso" non può
passare solo attraverso forme di mediazione sul caso stesso [sì, certo,
intanto tiriamoli fuori di galera subito e tutti]. Ci fosse ancora
Giacomo, questo avrebbe ripetuto. Lo aveva fatto per anni.
Ci fosse ancora Giacomo, i cronisti e i commentatori forse avrebbero
saputo del recupero faticoso del centro storico di questa città "strana"
di Cosenza, che era stato abbandonato da commercianti e cittadini e
cadeva letteralmente a pezzi, e è stato recupero di spazi, di storia, di
saperi e di mestieri, di commerci. Forse avrebbero saputo del restauro
del teatro e della sua attività culturale - un vanto da sempre per
quegli abitanti che si ostinano a pensarsi "intellettuali della Magna
Grecia". Forse avrebbero saputo di quanto e come abbia agito in questi
anni in quella città un pensiero "municipale", fatto di attenzioni e
rivendicazioni per il proprio territorio ma anche di incontri pubblici -
letteralmente sulle piazze - per discutere i provvedimenti
amministrativi. Forse avrebbero saputo di quella rete di amministratori,
intellettuali, cittadini che da anni costruisce relazioni, rapporti, fa
incontri, edita piccoli giornali, prende iniziative modificando il
territorio, lo "spazio pubblico". Forse avrebbero saputo di quelle prime
e importanti trasformazioni di zone della città che erano
proverbialmente disastrate, incistate. Forse avrebbero saputo di come
sia stato - e continui a essere - difficile difendere, promuovere
quell'Università che è sempre stata un po' corpo estraneo e un po' vanto
della città, e motore economico, luogo di poteri ma anche uno
straordinario luogo di produzione culturale, di formazione civile per
generazioni di giovani che sarebbero andati via, altrove, lontano dal
Sud e che lì - tra lezioni, occupazioni, spazi rivendicati, lotte -
hanno imparato che la democrazia non è una grazia concessa ma si
conquista. Per tanti meridionali, una rivoluzione. La prima rivoluzione.
Ci fosse ancora Giacomo, sarebbe stata una grande occasione anche per i
movimenti interrogarsi sul rapporto con la politica, con
l'amministrazione della "cosa pubblica". Non che i movimenti non
pratichino questo rapporto o non abbiano idea di cosa sia: ma Giacomo
era figura controversa come poche, uomo degli asfalti - di quell'orrore
e di quella storia che è l'autostrada del Sud -, uomo del cemento, uomo
degli affari, uomo del palazzo - e di molti suoi segreti - ma anche
politico sconfitto, isolato, emarginato, perseguito, e pure
ostinatamente abbarbicato al suo "regno locale", pronto a risalire, a
battersi, a rivincere, a costruire alleanze, a rimescolare le carte per
fare questo. Pronto a qualsiasi strumentalità ma anche di sicura lealtà.
Politico di appalti, di disastri ambientali, ma anche uomo di riforme
durature, di cambiamenti strutturali, di quelli che segnano per sempre
un luogo, un territorio, una cultura. Una politica con cui dissentire, a
cui opporsi, in cui trovare propri spazi da allargare, talvolta da
sostenere. Una politica miserabile e una politica alta.
Sarebbe stata una grande occasione perché finora - in questo
straordinario percorso che sta compiendo il movimento in Italia,
mantenendo tutt'intera la propria autonomia politica, ancora
faticosamente in formazione - i "politici di professione" che
interloquiscono non è che siano solo poco coraggiosi quanto piuttosto
poco strumentali. Occhieggiano, ammicano, strizzano questo o
quell'occhietto, vi si accostano, oppure lo esorcizzano, se ne augurano
la fine, lo biasimano, ma non ne intendono la sua costituzione, la
differenza da sé e il rispetto che gli si deve. Non gli pongono domande,
questioni, crinali su questa o quella scelta specifica che lo facciano
discutere, decidere. Esprimono il loro parere, la loro opinione, le loro
intenzioni, il loro modo di vedere le cose. Non ci fanno "politica".
Ci fosse ancora Giacomo, pur stanco e malato come negli ultimi tempi, ci
proverebbe. Chissà, forse ne verrebbero fuori "strane" cose per questo
paese. Cose di quelle che non ce ne sono più, che erano dell'altro
secolo. O forse di quello prima ancora.

Roma, 25 novembre 2002