"Mi ricordo la pace" (di Pietro Ingrao)



6/10/02 L'Unità
L'intervento di Pietro Ingrao durante la cerimonia per la laurea ad honorem
conferitagli ieri dall'Università di Barcellona.



Mi ricordo la pace
di Pietro Ingrao
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=IDEE&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=20041


L'alto onore di questo titolo va di pari passo con l'attenzione, generosa,
data alla ricerca culturale e alle riflessioni sulla democrazia, che ho
tentato di sviluppare nel corso del secolo tempestoso in cui è trascorsa la
mia vita.
L'emozione è ancora più grande non solo per il posto straordinario che la
Spagna e la Catalogna hanno nella storia del mondo, ma per una vicenda
particolare, che mi riguarda direttamente.
Era il luglio del 1936. Avevo compiuto 21 anni. Ero studente alla Facoltà di
Giurisprudenza, nell'Università di Roma, nel pieno della giovinezza. L'
aggressione del governo fascista italiano alla giovane Repubblica spagnola
fu il trauma, l'evento sconvolgente che mi sospinse (direi: mi obbligò) alla
cospirazione antifascista: a quell'impegno nella battaglia politica che poi
ha segnato la mia esistenza. Cominciò per me, in quegli anni, un sodalizio
con l'antifascismo spagnolo esule, che si prolungò nel tempo, e si
accompagnò all'incontro con la trascinante poesia spagnola del Novecento: da
Machado, a Lorca, a Rafael Alberti.
In questo lungo cammino della mia vita ho sperato ardentemente che gli
orrori, i massacri, le cataste di vittime che hanno segnato l'epoca che ho
vissuto divenissero solo un ricordo amaro: quasi come una vetta di follia a
cui ci avevano condotto il capitalismo nella sua febbre dell'epoca fordista
e - per la loro parte - gli errori fatali dello stalinismo. E in seguito mi
illusi che - di fronte e dopo il crollo dell'Urss - si aprisse finalmente
uno spazio nuovo per fermare la corsa alle armi.
Non fu così. Quando ormai il muro di Berlino era caduto in frantumi, abbiamo
visto incredibilmente ritornare la guerra in una zona cruciale del mondo:
quella penisola arabica, che è punto di giuntura fra Europa, Asia ed Africa.
Oggi la questione della guerra vede un altro scatto.
Prima c'è stato un torbido, ambiguo passaggio teso a rilegittimare l'
intervento delle armi in nome di un bisogno di giustizia. Ricordate: fu la
grave azione militare della Nato in Serbia, giustificata in nome della
democrazia e della liberazione dei popoli schiacciati dal despota Milosevic.
Vennero i giorni dei sermoni sulla «guerra giusta». E qualcuno - in Europa -
si spinse addirittura ad evocare un termine supremo ed antico. E parlò di
«guerra santa».
In verità in quella vicenda dei Balcani fu lanciata ed alimentata - almeno
da parte di alcuni attori - anche la speranza e l'immagine di una
purificazione della guerra: come se essa sganciandosi dal fango del
territorio e muovendo nella purezza delle grandi altitudini della atmosfera
potesse e volesse colpire soltanto (con la sapienza delle tecniche moderne)
i mezzi militari dell'avversario. Fu quella che io ho chiamato l'illusione
(o l'inganno) della «guerra celeste». Ne sgorgò - ricordate? - quella
rappresentazione consolante del pilota americano che muoveva dalla sponda
atlantica e - adempiuto nella calma solitudine dei cieli lo sgancio della
bomba intelligente - tornava puro da macchie al focolare domestico, nella
patria americana.
Quale errore! È venuta invece la guerra in Afghanistan e l'attacco dal cielo
si è mischiato rovinosamente alla cancellazione delle città, alle stragi dei
civili, alla macchiana delle armi che si spingeva nel ventre degli altipiani
come nei ghirigori della terra. E sono via via cadute amaramente le
giustificazioni etiche, le rappresentazioni salvifiche, i sermoni
moraleggianti.
In verità sino ad ora non sono stati cancellati i vincoli formali che in
molte Costituzioni europee e nella Carta delle Nazioni Unite vennero posti
al ricorso alle armi. Quei vincoli stanno ancora lì: scritti in quelle leggi
solenni. Semplicemente accade che essi vengono scavalcati o - di fatto -
cassati. Nel mio Paese l'articolo 11 della Costituzione, che consente solo
la guerra di difesa, è di fatto stracciato: senza che su ciò ci sia né
sorpresa né scandalo: e nemmeno una discussione in Parlamento, o un qualche
chiarimento da parte del Presidente della Repubblica, il quale su una tale
violazione serba un religioso silenzio.
E c'è qualcosa che mi spaventa di più. C'è il fatto amaro che nei nostri
Paesi il senso comune non si allarma: non trema più. Dobbiamo dirla questa
verità amara. Sfogliate i libri, porgete l'orecchio alle parole dei
governanti. Scorrete le pagine dei dibattiti parlamentari. Troverete che è
sparita la parola «disarmo». Non l'usa più nessuno.
È in questo senso largo e agghiacciante che io parlo di una
«normalizzazione» della guerra. S'è liquefatto lo spavento, l'orrore che
scosse la mia generazione e - in quel maggio del 1945 - ci fece giurare che
mai più sarebbe tornato il massacro.
Come mentivamo! Guardate all'oggi: guardate come si discute ora, in questi
giorni, apertamente di un attacco all'Irak, e si invoca la guerra
preventiva. E chi ne parla non è un politico scervellato o un gazziettiere
fanfarone. La propone oggi al mondo - come compito ineludibile ed urgente -
il Presidente degli Stati Uniti, capo della potenza più grande della terra.
E ciò avviene senza troppo scandalo. Non si riuniscono in ansia i
Parlamenti. Non suonano di spavento le campane delle chiese. Né i sindacati
preannunciano scioperi. Appunto: è diventata normale, invocata dal Paese che
si considera guida del mondo, la guerra di prevenzione.
Su che si è fondata questa rivalutazione e normalizzazione della guerra e
perché il pacifismo oggi è una scelta di ristrette minoranze?
Io voglio solo alludere a una spiegazione che - per comodità e brevità -
chiamerò «tecnica». In verità non è nelle mie competenze il vaglio delle
grandi innovazioni tecnologiche e dei nuovi saperi che hanno dilatato e
rivoluzionato i sistemi d'arma, la trama dei conflitti, la combinazione
delle strategie fra terra, mare e cielo. Ho però in mente i mutamenti forti
avvenuti nel rapporto politico-sociale tra la vita dell'uomo semplice e
delle masse di civili e ciò che è diventata la guerra, a questo passaggio di
secolo.
Mi sembra indubbio che negli ultimi decenni si sia venuta sviluppando (o
ritornando?) la connotazione «specialistica» della pratica di guerra. Sembra
scomparsa o impallidita quella connotazione totalizzante che essa assunse
clamorosamente dall'inizio del Novecento: quel cammino che a partire dal
conflitto mondiale del 1914 vide schierati sui fronti di vari continenti
milioni di uomini: per anni ed anni, e in una condizione umana radicalmente
diversa dal vivere civile: quella guerra di massa nel fango delle trincee
che presto venne via via dilatandosi fino a coinvolgere l'insieme delle
nazioni, le città lontanissime dal fronte, la vita degli inermi, le donne e
i fanciulli. Insomma, la guerra di massa. La guerra mondiale, come la
chiamammo.
Oggi i compiti prevalenti, il nucleo centrale dell'azione bellica sembrano
di nuovo affidati a soldati di mestiere: a cittadini e a cittadine che
accettano o addirittura chiedono di essere chiamati a praticare la scienza
della guerra: con le sue tecnologie raffinate e con i suoi rischi di morte.
L'uccidere collettivo in nome del potere pubblico torna ad essere compito
nobile ed ambito: sotto l'aspetto delle retribuzioni, del rango sociale, del
riconoscimento pubblico.
E l'esistenza di questi corpi specializzati nell'uccidere, in nome della
comunità pubblica, appare come una nuova divisione di compiti, che permette
ai civili, garantiti da quella protezione e sapienza specialistica, di
dedicarsi - diciamo così - serenamente ai compiti di pace. Dunque il soldato
Ryan - ricordate il film famoso? - può starsene tranquillamente nella sua
città, perché un adeguato «esercito di mestiere» si accolla sulle spalle il
cruento e «nuovamente» nobile mestiere della guerra.
Si potrebbe perciò pensare che questa rivalutazione delle armi e il suo
rilancio come nerbo e risorsa centrale della politica poggino sull'
operazione di sgravio delle masse dei civili, e sull'allontanarsi - dal loro
orizzonte - del pericolo di un ritorno delle prove terribili vissute in due
tragiche guerre mondiali (e altre ancora).
E si può anche pensare che Bin Laden e il massacro feroce delle Due Torri -
consapevolmente e con una sconvolgente audacia - abbiano voluto e tentato di
rigettare nella fornace della guerra di massa «i civili» del nemico
americano: per seminare nuovamente nel loro animo lo spavento della guerra,
la paura di massa dei massacri di massa.
Fu ciò quella sfida feroce? Non lo so. So che gli eventi terribili a cui ho
fatto cenno e l'incalzare dei fatti intorno a noi riaprono domande aspre sul
senso e sulle forme che assume la politica nello schiudersi del Terzo
Millennio e nell'età della globalizzazione: un età in cui il capitalismo -
disaggregati su scala del mondo i momenti del produrre e del consumare - è
riuscito a scardinare e a frantumare le nuove soggettività sociali, che nel
corso del tragico Novecento avevano messo in discussione i suoi poteri ed i
suoi parametri.
E però - con sorpresa di molti - da questa vittoria non sono sgorgate la
primavera del Terzo Millennio e la calma di una stagione sicura delle sue
intime regole.
Torna ancora sul trono con tracotanza (ma anche con un dubbio interiore) la
scienza dell'uccidere, e torna proprio in quel Vertice del mondo occidentale
dove - dopo la tragica sconfitta dei «rossi» - sembrava dovesse fiorire una
calma saggezza inconfutabile.
Allora, in quel 1936, il fragore delle armi sulla vostra terra e le macerie
di «Guernica» cambiarono la mia esistenza, mi trascinarono nel conflitto.
Non pensavo, non avrei mai pensato che avendo avuto la fortuna di vivere
quasi per un secolo alla fine sarebbe tornata quella domanda elementare sul
diritto e sulle forme dell'uccidere collettivo i propri simili, e che quest'
arte venisse oggi presentata addirittura come strumento di «educazione» del
mondo: di saggia «prevenzione».