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"Storie dalla Palestina dimenticata" dai volontari dell'Operazione Colomba
- Subject: "Storie dalla Palestina dimenticata" dai volontari dell'Operazione Colomba
- From: "kowalski" <kowalski at informationguerrilla.org>
- Date: Sat, 29 Jun 2002 17:44:14 +0200
"Storie dalla Palestina dimenticata" A cura dei volontari italiani dell'Operazione Colomba, a Gaza come "scudi umani" contro le demolizioni "L'Operazione Colomba è nata nel 1992 con la guerra jugoslava, dal desiderio di provare a vivere la nonviolenza in zona di guerra e di condividere la vita di chi è costretto a subire la violenza dei conflitti. Abbiamo vissuto sui diversi fronti, riunendo le famiglie, proteggendo con la nostra presenza le minoranze etniche provando a guarire le ferite..." Aggiornamenti continui su http://www.informationguerrilla.org/storie_dalla_palestina_dimenticata.htm *** 27.06.02 Spesso, parlando con alcuni palestinesi durante le notti di coprifuoco, dettate dalla vicinanza della loro casa alla strada dei coloni, le discussioni sulla situazione sono accese. Spesso si parla degli attentati suicidi compiuti dai palestinesi in Israele. Molti sono contrari, altri sono favorevoli, tutti cercano di spiegarmi il perchè di questi gesti. Quando si vive in Palestina, sia la Cisgiordania o Gaza, è facile capire che le bombe vengono fatte detonare dalla disperazione più che dal fanatismo. Naturalmente questo per quanto riguarda chi muore, "la bomba umana" non chi muove le pedine sullo scacchiere. Chi contribuisce, però,alla creazione di tanta disperazione da far pensare che questa strategia sia giusta? Quale fenomeno aiuta la proliferazione e la crescita dei gruppi estremisti e terroristi che attuano questa strategia di morte e distruzione? In questi mesi una risposta l'ho trovata, e la supposizione iniziale sta diventando sempre di più una consapevolezza. L'occupazione militare israeliana uccide dentro e fuori Israele. Non servono muri o ghetti per difendersi dalla disperazione, non ci sono forme di difesa armata, bisogna trovare un altra soluzione. Come dicono tanti pacifisti israeliani, la prima cosa da fare e finire l'occupazione e smantellare gli insediamenti, praticamente il contrario della politica di Sharon. Nelle lunghe discussioni i palestinesi ci spiegano di non avere armi contro l'occupazione, che uccide quotidianamente. Vogliono giustizia, ma l'unica via che molti vedono è quella violenta nell'accezione più grave: le bombe umane. Nella discussione cerco di spiegare che esiste una via alternativa, c'è un metodo di lotta che sia strategicamente giusto ed eticamente corretto. Credere nella nonviolenza come forma di lotta mi porta ad avere poche proposte se non la via disarmata e popolare. Su questo piano, però, è facile scoraggiarsi, tutte le politiche mondiali mirano ad una pace armata e gli eserciti sono mascherati da portatori di Pace, e non, come in realtà è, da portatori degli interessi economico strategici delle potenze occidentali e non. Ci sono dei fatti che però delle volte fanno riflettere. Ora so con certezza cosa fa paura nei piani alti di Gerusalemme ovest. Le stragi, gli attentati, il nemico palestinese mussulmano, sono funzionali ad una politica coloniale ed espansionistica di una parte della destra estrema israeliana, tra cui c'è sicuramente Ariel Sharon. La via violenta è quella più congeniale alla politica israeliana. Israele ha da tempo, anche per questioni difensive, un esercito tra i più potenti al mondo. Cosa possono fare i combattenti palestinesi utilizzando una strategia violenta? Nulla, se non provocare una reazione sproporzionata che crea l'ennesima ondata di odii e rancori che allontanano ancor di più la Pace. In questi giorni la mia fede si è trasformata in convinzione, Israele teme, ha paura dei movimenti pacifisti, interni ed esterni allo stato. Due fatti pressochè insignificanti mi hanno aiutato a capire ancor di più che anche qui non c'è alternativa alla via nonviolenta. Il primo fatto è una sconfitta per noi pacifisti ma fa capire quanto siamo temuti. Si tratta dell'espulsione, all'aeroporto Ben Gurrion di Tel Aviv dei manifestanti che erano giunti dall'Italia per partecipare ad un azione, autorizzate dalla polizia israeliana, che prevedeva una catena umana che circondasse, simbolicamente, la Cisgiordania e Gerusalemme. Perchè il potente stato di Israele temeva questa gente? Perchè fanno cosi paura i pacifisti tantè che questa parola al Ben Gurion ha un accento profondamente negativo? Il secondo fatto è una piccola manifestazione fatta da venti francesi e tre italiani (volontari dell'Operazione Colomba e dei Berretti Bianchi) nella cittadina di Rafah, nella striscia di Gaza, sul confine con l'Egitto. L'esercito ha, dall'inizio dell'intifadah, avviato una politica di "sicurezza" che ha portato all'abbattimento di 250 case troppo vicine al confine. Durante una di queste azioni con fini di sicurezza i bulldozer con la stella di Davide hanno danneggiato una pompa parte del sistema fognario della zona. Questo succedeva circa quattro mesi fa e da allora nessun operaio palestinese ha osato avvicinarsi al manufatto, pena una pallottola sparata dai solerti soldati. Una volta si era adirittura giunti ad un intesa ma all'arrivo degli operai le raffiche israeliane hanno soffocato la volontà di lavorare. Sono bastati ventitre europei determinati con il passaporto in mano a fermare le pallottole israeliane, o meglio, a deviarle sui mucchi di macerie o gli scheletri delle case vicine. Per far cambiare idea a quelli con il passaporto in mano l'esercito israeliano ha mosso anche un carro armato ma con scarso successo. Gli operai palestinesi hanno lavorato e l'azione si è svolta, con identiche modalità, per tre giorni di fila fino a lavoro ultimato. L'esercito più potente del Medio Oriente non sempre si può permettere di sparare su dei cittadini europei o americani, anche se i loro governi avallano la politica di Sharon. E' una cosa importante, dimostrare ai palestinesi che una via nuova c'è. Se i palestinesi si guardassero indietro scoprirebbero che la prima intifadah, sassi contro carri armati, ha ottenuto molti più risultati di questa che vede qualche fucile ma soprattutto l'abominio dei kamikaze contro un esercito che ha sempre il sopravvento. Ci sono gruppi in Palestina che hanno capito l'importanza di una strategia non violenta ma purtroppo, nell'ultimo anno, anche nella società palestinese si sta aprendo un solco fra chi crede e sostiene una strategia violenta e chi crede in una seconda via non armata. In Israele è così, già da tempo. Un altra cosa, per quanto riguarda Israele, mi fa pensare. Pare che la cnn e la bbc abbiano fatto degli interventi non tanto filo israeliani, nell'ultimo periodo. In Israele, negli ultimi giorni si parlava di oscurare queste reti. Perche? Israele non è l'unica democrazia del Medio Oriente? Israele non è una democrazia in tutto e per tutto e per sostenere una guerra, che ha i suoi oppositori interni, ci vuole la propaganda. Se molti israeliani sapessero, vedessero non solo le immagini degli attentati ma anche quello che succede dentro il muro forse cambierebbero idea. Questo vale anche per molti europei che preferiscono credere alla favola del povero Ariel Sharon, uomo di pace, che si sta solo difendendo. Anche fra i palestinesi c'è bisogno di informazione, bisogna raccontare che non tutti in israele stanno con Sharon, non tutti sono militari e se lo sono magari rifiutano di combattere nei territori. Questo stiamo cercando di farlo, semplicemente, con uno strumento che i credenti chiamano condivisione che significa vivere da palestinesi ma rimanere ccesi sostenitori della via alternativa, significa raccontare, spiegare e capire mettersi in mezzo. Una seconda via esiste, ne sono certo, sono pronto a mettere parte della mia vita in questo sogno ora più che mai. *** 27.06 - Rafah (racconto di Fabio) A due giorni dalla prima azione di protezione alla squadra di lavoratori palestinesi da parte della delegazione francese e di noi 'infiltrati' oggi, non essendo stata ancora completata la riparazione della pompa, ci accingiamo a parteciparvi nuovamente. La delegazione di francesi e' ripartita alla volta di Gaza questa mattina e l'azione questa volta e' organizzata dall'ISM che tra il suo coordinatore locale ed i volontari sono in tutto in tre e per questo hanno chiesto la presenza di noi quattro. I ragazzi dell'ISM, un americano ed un indiano, sono qui da pochi giorni e si trovano gia' catapultati in questa azione. Dal Centro per i Diritti Umani, dove salutiamo la delegazione francese che sta per ripartire, ci muoviamo alla volta di Rafah. Prima di recarci sul luogo dell'azione, in quella terra di nessuno creata dai bulldozer israeliani li' dove una volta c'erano delle abitazioni palestinesi, incontriamo il capo della squadra degli operai alla municipalita' di Rafah. Evitiamo volentieri un altro incontro con il sindaco, quindi a bordo di due pick-up ci dirigiamo nella 'spianata' a qualche decina di metri dal confine con l'Egitto e a qualche centinaia di metri dall'avamposto militare israeliano. Prima di uscire alla scoperta sfoderiamo il nostro passaporto e ci muoviamo verso il pozzo nero otturato dai detriti e la pompa non ancora riparata in fila, con le braccia alzate e e il librettino bordeaux col simbolo della Repubblica Italiana. Dopo aver percorso un centinaio di metri tra i cumuli di detriti, ci seguono i lavoratori palestinesi muniti di attrezzi da lavoro ed un camion con rimorchio. Li scortiamo formando una 'linea di interposizione' tra la pompa e gli israeliani che non vediamo ma che sicuramente ci scrutano. Infatti, dopo alcuni minuti dall'inizio dei lavori di riparazione nonche' di smaltimento delle pozze di liquami, dall'avamposto israeliano partono alcuni colpi che colpiscono il camion, fermo a pochissimi metri dalla nostra linea, colpendo il radiatore, il lunotto anteriore e il gancio meccanico, mettendolo cosi' fuori uso. In principio, come e' naturale che sia, ci accucciamo, poi ci tiriamo su guardando ancora verso la bandiera con la stella di Davide che sventola dall'alto dell'avamposto. Successivamente in due ci stacchiamo dalla fila per scortare l'arrivo di altri operai e di altra attrezzatura. Poi con Luca torniamo indietro e saltiamo su un bulldozer giunto per rimuovere il camion con rimorchio ormai fuoriuso, una mano ai maniglioni, un'altra col passaporto bene in vista. Gli spari senza dubbio ci hanno scosso ma continuiamo la nostra azione, aiutati ancora una volta da "Bella Ciao" che allieta il lavoro, e' il caso di dire, di merda di questi lavoratori, in principio tesi, in seguito ai colpi sparati (non che non ne siano abituati). Ci mobilitiamo per avvertire in Italia dell'accaduto, oltre che i nostri amici giornalisti che sono a Gerusalemme, il centro israeliano per i diritti umani Bt'Selem e il consolato italiano a Gerusalemme; ognuno a suo modo si muove. Il lavoro certosino, cominciato alle 10 del mattino, si protrae per diverse ore tra la riparazione delle tubature, la bonifica delle pozze di liquami con un autospurgo e la rimozione di detriti per mezzo di un bulldozer. Alle 14 circa, il lavoro degli operai, che piu' volte nelle passate settimane era stato interdetto dal tiro dei soldati israeliani (per quanto fosse stato concesso loro il permesso di lavorare sulla pompa) e' ormai quasi del tutto terminato, con la tensione placatasi in seguito ad un colloquio di uno dei capi della squadra con un ufficiale israeliano. In questo modo, in tre giorni di lavoro, grazie all'azione internazionale di interposizione, e' stato possibile riparare la pompa ed evitare il rischio di epidemie in seguito allo stagnare dei liquami a poche decine di metri dalle case abitate, non ancora demolite, per le solite ragioni di sicurezza, da Israele. Le foto dell'azione di oggi all'indirizzo: http://www.inventati.org/liberapalestina/rafah2706.htm *** 25.06 - Rafah (racconto di Maurizio) Quando mi sveglio sono gia' sul taxi con i ragazzi per andare al centro per i diritti umani (CDU) di Khan Younis ad incontrare un gruppo di francesi del Movimento Civile Per La Protezione Del Popolo Palestinese. Purtroppo pero' il pullman, atteso per le H 8,00 era ancora fermo al semaforo di Abu Holi, qualcuno aveva scattato fotografie e i soldati avevano chiuso il semaforo e sequestarato le macchine fotografiche. Dopodiche' tutti francesi erano scesi dal bus ed avevano aperto una trattativa per riavere gli apparecchi. Quando, dopo un paio d'ore, verso le H 10,00, la compagnia di francesi ha recuperato il maltolto ed e' finalmente riuscita a passare, le tre ragazze dei Berretti Bianchi, sulla via del rientro in Italia, erano appena arrivate al semaforo che pero' era gia' diventato rosso. H10,30 i francesi arrivano al CDU H11,00 incontro con il sindaco di Rafah H12,00 inizia l'azione di protezione dei diritti umani del popolo palestinese. Sulla linea di confine con l'Egitto gli israeliani si sono ritagliati due fasce di sicurezza, la prima di una dozzina di metri, costeggiata da due muri prefabbricati, che separa i due confini di stato. La seconda, di circa 50m, e' la fascia di sicurezza con il Territorio Palestinese, su questa fascia sono state demolite tutte le case. C'e' pero', nel bel mezzo delle macerie un casotto con una pompa per le acque chiuse che serve a far defluire le acque fognarie e i liquami che vengono dall'abitato palestinese. Purtroppo, durantre le demolizioni, il pozzo nero e' rimasto soffocato dalle macerie e ogni volta che i palestinesi si azzardavano ad andare a riparare la pompa i soldati gli sparavano addosso. Cosi', da tempo il CDU aveva concordato questa azione con il movimento spontaneo francese. I partecipanti all'azione si sarebbero interposti tra i soldati e i lavoratori per permettere la riparazione della pompa. Anche le autorita' israeliane erano state informate dell'azione e, pare che avessero dato il loro consenso. Ora, questa faccenda di merda, non e' affatto di secondaria importanza; la pompa era fuori servizio gia' da oltre quattro mesi e questo significa che nelle case i liquami rigurgitavano fuori dalle turche domestiche. E, con il caldo che fa da queste parti, le mosche ed altre delicatezze il rischio di epidemie aumentava di giorno in giorno. Alle H12,00 entriamo nella desolata fascia di sicurezza, oltre alle due dozzine di europei con passaporto francese e belga, c'eravamo anche noi italiani; due dell'Operazione Colomba, Fabio e Luca e io dei Berretti Bianchi. Alla compagnia si erano aggiunti anche poco piu' di una dozzina di palestinesi, tra operai, giornalisti e funzionari del CDU. Camminiamo compatti verso la pompa, alle nostre spalle la casamatta delle guardie di frontiera egiziane, davanti a noi la pompa e, oltre la pompa, in lontananza, la torretta con la bandiera israeliana. Superata la pompa gli internazionali si schierano in una fila di interposizione tra la torretta israeliana e la pompa, subito la ruspa dei palestinesi con sopra l'autista e un francese inizia a spianare l'area e gli operai si mettono al lavoro. Gli adulti dentro le case che guardano la fascia di macerie faticano a trattenere i bambini eccitati da questa stranissima novita'. Qualcuno si sporge troppo dai muri pericolanti e dai mucchi di macerie che separano le case dalla fascia di sicurezza, cosi' i soldati iniziano a sparare. Nessuno di noi si muove, mostriamo i passaporti e rimaniamo con il braccio alzato brandendo il libretto bordeaux come unica garanzia di immunita'. Tra i francesi una palestinese naturalizzata ha il fazzoletto in testa e l'abito classico delle donne di qui, c'e' anche una marocchina che si e' messa la camicetta tradizionale del suo paese. Passa poco tempo e qualche altra schioppettata, quando arriva, sferragliando in una nuvola di sabbia, un mezzo blindato che si ferma di fronte a noi e alla pompa, gli operai continuano imperterriti il loro lavoro. Due francesi si spostano a pochi metri dal blindato e rimangono col passaporto innalzato come una bandiera, immobili come statue di sale, mentre gli spari si fanno piu vicini. Alcuni perdono l'iniziale sicurezza e si accucciano. Un elmetto verde spunta da dietro l'ultimo muro, e' una guardia di frontiera egiziana che si ferma per tutto il tempo ad osservare la scena. Poi una mano esce da una feritoia della torretta blindata, ma dal movimento non si riesce a capire se intende ("vieni qui" oppure "vai via"). Uno degli operai scambia qualche parola con l'ufficiale corazzato poi continua imperterrito a spalare merda. Uno degli operai si arrampica su di un traliccio della luce per la riparazione, li in mezzo tra noi e la pompa, tutti lo guardano e trattengono il fiato. Intanto uno del CDU mi ha detto che il sindaco e' al telefono con gli israeliani e si sta accordando perche' gli operai possano finire il lavoro in pace. Io cerco a stento di controllare la paura, e quando vedo Fabio e Luca che sono ancora con gli altri sulla linea del primo schieramento, ancora immobili sotto il sole che nel frattempo ha raggiunto il suo zenit, non si muove un filo d aria, anche l'ombra sembra scomparsa. Mi faccio coraggio e m'incammino verso di loro guardando bene dove metto i piedi in quel groviglio di pavimenti, stele da lampadario inghiottite dalle macerie e tondini per il cemento armato che spuntano da ogni dove. Raggiunti i ragazzi, per abbassare la tensione e recuperare un po' di coraggio, ci mettiamo a cantare 'Bella Ciao' tra gli applausi dei presenti. Poco piu' tardi la tensione si allenta e arrivano vassoi con te bollente e bottiglie di cola ghiacciata. Dopo un'oretta arriva anche il pranzo, riso con carne, e cosi l'interposizione si trasforma in un pic-nic e poi in uno svacco fino alle H17,00 quando, finite le riparazioni, torniamo tutti da dove siamo venuti. Alcune delle foto dell interposizione scattate da fabio in digitale sono visibili all'indirizzo: http://www.inventati.org/liberapalestina/rafah2506.htm *** 24.06.02 C'è un blocco stradale sulla strada che dal check point israeliano di Abu Holi porta verso Khan Younis. Le macchine che arrivano da Gaza hanno magari aspettato un paio di ore ad Abu Holi, quelle che vanno verso Gaza si preparano all'attesa. Si trovano la strada sbarrata ma, a parte qualche eccezione, nessuno si arrabbia. Non sono gli israeliani che bloccano la strada, sono palestinesi seduti su delle sedie di plastica. Quelli in prima fila hanno dei cartelli in arabo e dei piatti vuoti in mano. Sono i lavoratori palestinesi rimasti disoccupati da almeno un anno e mezzo. La strada viene bloccata solo un ora al giorno ma il presidio dura tutto il giorno da almeno diciassette giorni. Hanno costruito un'ampia tettoia di fronte alla sede del governatore della regione di Khan Younis. Dicono di non essere soli ma di essere in accordo con i lavoratori di tutta Gaza e che delle tettoie simili ci dovrebbero essere anche a Gaza e a Rafah. Sono tanti sotto la tettoia e sono contenti di vederci, c'è molta voglia di comunicare, chi più timidamente e chi meno, dopo aver scoperto che non sappiamo l'arabo, ci chiedono se sappiamo l'ebraico, loro lingua da lavoro, visto che tutti fino a due anni fa lavoravano in Israele. Un anziano smuove vecchi ricordi di un inglese studiato a scuola e incomincia a spiegarci la loro situazione. Vogliono che l'Autorità Nazionale Palestinese gli aiuti. Mi dice che in due anni di disoccupazione hanno ricevuto per due volte un sussidio di 500 shekel per un totale di circa 220 euro. Il suo viso rugoso si contorce nel tentativo di trovare le parole ma il racconto continua, dicendo che non ha più i soldi per mantenere la famiglia. Arriva il presidente, i ricordi scolastici sono più recenti e l'inglese si fa un po' più fluente. I lavoratori chiedono all'amministrazione di garantire, energia elettrica, istruzione e sanità gratuiti per i lavoratori disoccupati e le loro famiglie. Chiedono anche l'aumento del sussidio. dicono che se le loro richieste resteranno inascoltate, bloccheranno la strada per più tempo, poi la lotta potrebbe continuare con lo sciopero della fame e l'occupazione del palazzo del governatore. Il discorso si sposta poi sugli sprechi e la corruzione interni all'Autorità Nazionale Palestinese che a detta loro ha sprecato, e continua a sprecare i molti aiuti economici giunti dai paesi arabi e dall'Europa. Ci dicono che loro non si possono permettere di comprare la frutta perché troppo costosa. Hanno quindi deciso un boicottaggio di tutta la frutta, costringendo i negozianti a non venderne più entro sei giorni, la pena per i trasgressori sarà di vedersi mangiati tutti i prodotti pronti alla vendita. Forse la protesta è un po' naïf ma non posso che provare simpatia per questi lavoratori. Quando c'è ne andiamo ci salutano tutti felici di aver raccontato la loro storia con la speranza che il loro problema venga ascoltato anche lontano da quella strada. *** 24.06.02 Ho conosciuto mio marito alla facolta' di farmacia dell'universita di Skopje in Macedonia e dopo qualche anno ci siamo sposati, abbiamo vissuto insieme undici anni poi, insieme, abbiamo deciso di venire a vivere in Palestina. Per me l'importante era di vivere in pace in casa mia, non importa in quale paese, era sufficente che uno di noi vivesse nella sua terra. Quando siamo arrivati a Khan Younis nel 1995, siamo andati a vivere ad Al Qararah con la famiglia di mio marito, poi abbiamo aperto una farmacia a Khan Younis ma dopo qualche tempo abbiamo constatato che era meglio avere un altra entrata e cosi' sono andata a lavorare come farmacista per la mezza luna rossa palestinese. Mi piaceva la vita qui, il mio lavoro era buono e anche il posto in cui vivevo era un posta tranquillo immerso nel verde, con molti alberi, l'unica cosa che non mi piaceva erano i filari di fichi d india lungo la strada. Tuttavia io sono cristiana, e qui hanno un altra cultura e un altro modo di vivere, e anche per questo dopo tre anni, insieme ai due fratelli di mio marito, un farmacista e un avvocato, con grandi sacrifici abbiamo costruito la nostra casa nuova a due piani dove ogni fratello aveva un appartamento di 170 metri quadrati dove vivere con la sua famiglia sulla terra del padre. Questa casa e a pochi metri dalla strada dei coloni, quando l' abbiamo costruita non era un posto pericoloso, ma l'inizio dell'intifada ha segnato la fine della nostra pacifica esistenza. Tutto e cominciato la sera del 22 novembre 2000 in Al Qarara, dove i primi carri armati hanno scortato i buldozers nella nostra via. Quando li ho visti arrivare ho pensato che finalmente avrebbero spianato quei filari di fichi d india spinosi, ma invece hanno sradicato i settanta alberi di ulivo del padre di mio marito, e stato orribile, sono corsa subito a casa e dal terrazzo vedevo i bulldozers che si avvicinavano alla mia casa, mi sembravano macchine strane, enormi, orribili come mostri. non avevo mai visto niente del genere e non sapevo cosa fare, cosi sono scesa dal terrazzo, il buldozer era fermo davanti alla porta di casa e io li pregavo di fermarsi sperando che provassero un poco di pena per me, ma se ne andarono solamente quando ebbero distrutto ogni cosa intorno alle case, la nostra e quella del padre di mio marito. In seguito venivano tutti i giorni e se vedete quel posto oggi, non c'e' piu' verde come prima, e diventato un deserto, abbandonato e desolato. Dopo quattro mesi abbatterono tutti i pali della luce, cosi avevamo i cavi dell'elettricita che correvano per terra lungo la strada. Ogni sera venivano con i bulldozer e due carriarmati di scorta e tagliavano l'acqua e la luce. e noi di giorno dovevamo riparare i danni da soli. Ho cercato di parlare con i soldati, come un essere umano, dicendo loro che non avevo mai pensato che fossero miei nemici, che se non ci volevano far vivere li lo dicessero chiaramente, ma che per favore non distruggessero piu' nulla. I soldati ascoltavano ma non rispondevano nulla, i soldati fanno il loro lavoro, io posso capirlo, ma continuavo a ripetergli che io non sono palestinese, che sono macedone e anche se i palestinesi si sarebbero arrabbiati con me , loro non erano miei nemici, io volevo solo vivere in pace a casa mia. In seguito alla sera ci toglievano la luce dalla camera da letto, allora io ero costretta ad andare a dormire sul pavimento della cucina con le mie due figlie. Poi misero il filo spinato davanti alla casa e io ero costretta a fare un lunghissimo giro per riuscire a rientrare in casa dopo il lavoro. Un anno dopo, quando il ponte sulla strada dei coloni fu terminato i soldati vennero con un ordine di evacuazione della casa e ci dissero che noi eravamo brave persone ma che la nostra casa era troppo vicina al loro ponte e che dovevamo andarcene in 48 ore, ma che siccome loro erano democratici, nelle 48 ore potevamo chiamare un avvocato ed appellarci all alta corte israeliana. In seguito a cio' tornavamo ogni tre giorni alla nostra casa, solo per affermare il nostro diritto alla proprieta' privata. L'ultima volta sono andata verso i soldati che mi hanno fermata chiedendomi cosa volessi - voglio andare a casa mia, quella e la mia casa - il soldato mi chiese se volevo prendere qualcosa ed io risposi che volevo solo andare a casa mia, allora lui chiamo' il suo comandante che arrivo dopo una mezzoretta con la sua jeep, e mi disse che siccome io ero una persona per bene mi avrebbe accompagnato a prendere quello che mi serviva ma che poi nessuno avrebbe mai piu potuto tornare. A volte mi chiedo come ho fatto a vivere per due anni in queste condizioni. ero molto avvilita e pensavo di non essere una buona madre perche' facevo vivere le mie figlie in queste condizioni e forse avrei dovuto fare qualcosa per portarle a vivere in un altro posto. Ho sempre pensato che se riuscivo a vivere in pace in casa mia con la mia famiglia non importava cio che succedeva fuori. ma i soldati non potevano capire questo e non capivano neppure che io non li odiavo. Ancora oggi e difficile per me comprendere perche' mi hanno obbligata ad abbandonare la mia casa. io sono una straniera in questo paese e l' unico posto dove non mi sentivo straniera era la mia casa. Oggi le mie figlie hanno una sei anni e l' altra quindici, la piu' grande e nata in Macedonia e forse ama la Macedonia piu' della Palestina. Se fossi sola tornerei a casa, a casa, a casa. Ma ho la mia famiglia qui, mia figlia ha iniziato i suoi studi in lingua araba e per lei sarebbe difficile ricominciare in un altra lingua. Io avevo un buon lavoro a Skopje ma oggi sarebbe difficile trovarne un altro, e cosa potrebbe fare mio marito? Non lo so. Sarebbe molto difficile ricominciare tutto dall'inizio, mio marito ama la sua terra e la sua famiglia, qui ha le sue amicizie e il suo lavoro, in Macedonia la situazione e' difficile e noi non abbiamo soldi, per tutte queste ragioni abbiamo deciso di rimanere qui, anche perche' mio marito non potrebbe accettare di vivere mantenuto da me, non resisterebbe per molto tempo in Macedonia. Il nonno di mio marito era di Jaffa e fu sfollato nel 1949 quando vennero ad abitare nella Striscia di Gaza, poi il padre di mio marito si sposo' e compro' questo terreno ad Al Qarara vicino alla strada dei coloni, infine i suoi figli hanno lavorato duramente per costruire questa nostra casa, ma i soldati ci hanno distrutto la vita senza alcuna ragione, senza che noi gli facessimo niente. Oggi viviamo tutti insieme in un appartamento in Khan Younis ma io mi sento sempre sotto pressione perche' il loro modo di vivere e troppo diverso dal mio e sono stanca, vorrei stare un po sola. Ho una casa ma non posso abitarci. *** 23.06.02 - STORIA DI KFEIE Mi chiamo Kfeie, il mio nome significa "è sufficiente, è abbastanza" e si può dire a Dio che per me "è sufficiente, è abbastanza" con i problemi. Sono nata a Bersceva, ma nel 1948 sono scappata con la mia famiglia che ancora ero piccola. La mia famiglia possiede ancora delle terre nel Negev ma noi non ci possiamo nemmeno andare. Siamo arrivati qui a Al Qararah, nella striscia di Gaza, noi siamo beduini, non riusciamo a vivere in città abbiamo bisogno di spazi aperti. Non ho speranza per il futuro, vedo nero. Mio marito è infermo, tredici anni fa si è ammalato, e non può più lavorare, prima, lavorava in Israele e con i soldi guadagnati manteneva tutta la famiglia, siamo riusciti a costruire anche una casa di un piano, quando mio figlio si è sposato ha costruito il secondo e si è stabilito con tutta la sua famiglia che è composta di sei persone. Circa tre mesi fa, nella stessa notte in cui è stato attaccato anche il villaggio di Abasan, stavamo tutti a casa quando, più o meno a mezza notte, un esplosione ha colpito il secondo piano della nostra casa. Il colpo era mirato alla finestra ma fortunatamente nessuno si è fatto male. Mio figlio, combattente palestinese, sapendo di essere ricercato dagli israeliani è scappato. Poco dopo sono arrivati sei carri armati e tre bulldozzer, poi dai megafoni ci hanno urlato di uscire tutti dalla casa. Quando siamo usciti, con solo i vestiti che avevamo indosso, i buldozzer hanno cominciato a distruggere la mia casa. I soldati non ci hanno nemmeno dato il tempo di prendere nulla, nemmeno i documenti, tutto è rimasto sepolto nelle macerie. I soldati sono rimasti a presidiare l'area fino alle cinque di mattina, poi se ne sono andati. Ora vivamo in una baracca e mio marito da quel giorno non ha nemmeno la forza di andare a vedere le rovine della nostra casa. La nostra famiglia è composta di sette persone: io e mio marito, che è invalido, un altro figlio è ceco e soffre di un lieve ritardo mentale, ho un figlio piccolo che fa le elementari e due figlie, una fa la scuola secondaria e l'altra è separata dal marito quindi è tornata a vivere con noi. L'unico che contribuiva al mantenimento della nostra famiglia era mio figlio maggiore che è un combattente, prima viveva nell'appartamento sopra il nostro con la sua famiglia, ma ora è stato costretto ad affittare un appartamento in città e soldi per noi non ha soldi ufficienti per mantenere anche noi. Prima dell'inizio di questa intifadah i servizi sociali ci aiutavano per la cura di mio marito ma ora le autrità ci dicono che non ci sono più soldi. Gli israeliani sono sempre stati nostri nemici, perchè ci hanno sempre preso le nostre terre. *** LA MAMMA DI A. RACCONTA Siamo venuti ad abitare a Khan Younis nel 1996, vivevamo in Arabia Saudita e, come chiunque altro volevamo rientrare nella nostra terra in seguito agli accordi di oslo e alla creazione dell ANP. Mio marito e un ingegnere edile e l'ANP gli aveva commissionato molto lavoro in palestina. oggi lavora ad Abu Dabi negli Emirati Arabi uniti, ma non riesce a raggiungermi in Palestina,io vivo qui da sola con le mie tre figlie e, finche era vivo, con A.. A. e S. erano legati da una profonda amicizia, anche piu' forte dei legami famigliari,erano sempre fuori insieme, stavano in casa molto poco. Un giorno il fratello minore di S. era andato a tirare sassi al check point di al Tufah, cosi' S. e mio figlio andarono a prenderlo per riportarlo a casa, ma sulla via del ritorno si divisero,da una parte S. e il suo fratellino e dall altra A.. Sulla via di casa A. si era riparato dietro un muro perche' i soldati gli sparavano, ma alcuni proiettili dum dum raggiunsero lo spigolo del muro ed esplodendo a pochi centimetri dalla sua faccia sbrecciarono lo spigolo, cosi' che le scheggie del muro lo ferirono ad un occhio. Quando lo portarono all'ospedale dissero che doveva essere operato perche' rischiava di perdere la vista, allora l'ANP lo fece trasferire in Arabia Saudita dove lo operarono due volte e riusci a recuperare la vista anche se doveva portare gli occhiali. Era un venerdi sera quando A. mi disse che andava ad un matrimonio a Raffah con i suoi amici S. e M., io non sapevo nulla di quello che faceva A. nella resistenza, pero' sentivo che sarebbe successo qualcosa di brutto, ma non sapevo che cosa. Piu' tardi chiamai mia sorella che vive a raffa due volte, la prima le chiesi di mandare suo figlio a vedere dove era A., la seconda volta parlai direttamente con suo figlio che era gia tornato a casa e mi disse che A. era ancora alla festa. Era gia notte quando mi chiamo il marito di mia figlia chiedendomi se A. era tornato a casa, gli risposi di no, che non era ancora rientrato. Quando mia sorella venne a Khan Younis e busso alla mia porta in lacrime capii che ahmed era morto. Dopo tre giorni dalla disgrazia vennero a trovarmi la madre e la sorella di S., che era morto insieme a mio figlio, ma io non riuscivo ancora a piangere, non so perche, forse il mio dolore era troppo grande. Oggi quando vedo la TV e guardo tutti quei giovani che muoiono nella West Bank, mi ricordo di A. e piango molto, ma non riesco a farlo davanti alle mie figlie. piango da sola, non voglio che altri vedano il mio dolore. A. era il mio unico figlio maschio e quando tutte le mie figlie saranno sposate io rimarro sola, non ho altri figli maschi che si prendano cura di me quando saro vecchia. *** LA MAMMA DI M. RACCONTA Sono nata a Sen Sen un villaggio a nord di Erez, fuori dalla striscia di Gaza. quando sono venuta ad abitare a Khan Younis con la mia famiglia avevo solo tre mesi, mio padre era stato ucciso durante la guerra del 1948 e noi siamo stati sfollati nella striscia di Gaza, e siamo venuti a vivere a Khan Younis. oggi viviamo qui in questa baracca di lamiere con il pavimento di sabbia perche ci hanno bombardato la casa. Mio figlio M. era sposato e andava a lavorare in Israele come bracciante agricolo o muratore, era lui che manteneva la nostra famiglia. Quando e morto ha lasciato due figli, uno di tre anni che porta il suo nome e uno di tre mesi nato dopo la sua morte. Non sapevo nulla della sua attivita nella resistenza armata, quella sera M. mi disse che andava ad un matrimonio con i suoi amici, S. e A.. Piu' tardi, quella notte, qualcuno venne a dirmi che M. era morto in uno scontro a fuoco con i soldati israeliani, poi venne un altro e mi disse che era rimasto ferito. Poi vennero i suoi fratelli e mi confermarono che era morto. Il giorno dopo portarono il corpo di M. a casa ed io potei vederlo e salutarlo per l ultima volta. Ora siamo senza di lui e i miei due figli non lavorano e non c'e' nessuno che ci aiuta ad andare avanti. L'ANP ci da una piccola pensione di guerra ma e insufficiente, anche l'UNRWA ci da 120 kg di farina ogni anno ma non ci basta per vivere. Mio marito e morto durante la prima intifada e io sono rimasta con due figlie e quattro figli, compreso M. che era il piu giovane, aveva dodici anni quando e morto suo padre e dopo 11 anni e morto anche lui sempre a cusa degli israeliani. I soldati mi hanno strappato il padre ancora prima che nascessi, poi hanno ucciso mio marito e ora mio figlio, mi hanno bombardato la casa costringendomi a vivere in questa baracca di lamiere, come posso desiderare la pace? Gli israeliani uccidono tutto cio che e palestinese, animali, alberi, case, persone, molti dei nostri figli sono orfani di padre, per questo vanno a combattere e nessuno li riesce a fermare. Noi amiamo la pace ma finche sharon sara al governo non ci potra essere pace. *** 22.06.02 - COMUNICATO CONGIUNTO BERRETTI BIANCHI-PAPA GIOVANNI XIII-OPERAZIONE COLOMBA Questa mattina quattro volontari dell'Operazione Colomba e dei Berretti Bianchi stanno cercando di entrare nell'area di Al Mawassi. L'area di Al Mawassi si estende nella fascia costiera nelle municipalità di Khan Younis e Rafah, nella parte meridionale della striscia di Gaza. La zona di Al Mawassi è considerata "zona gialla" dopo gli accordi di Oslo, cioè sotto completa amministrazione civile e militare israeliana. Le ottomila persone palestinesi che vi abitano sono sottoposte a numerose restrizzioni da parte delle autorità israeliane. Il coprifuoco viene imposto tutte le notti, è vietato ai palestinesi costruire nuove abitazioni o strutture pubbliche. La diretta vicinanza con gli insediamenti e la massiccia presenza di militari mette la popolazione civile in una continua situazione di pericolo, tensione e paura. Nell'area non sono presenti strutture sanitarie e per i palestinesi che vi abitano è molto difficile entrare e uscire dall'area. Vi sono casi di persone alle quali, pur essendo residenti nell'area, viene negata l'entrata e, spesso, sono costrette a bivaccare nelle vicinanze del check point nell'area di Tufah, considerata molto pericolosa a causa dei continui scontri tra l'esercito d'occupazione israeliano e le forze palestinesi. La situazione economica ad Al Mawasi è disastrosa per la difficolta, da parte dei contadini, di coltivare la loro terra, e di trasportare fuori i prodotti. Anche la pesca risente di queste restrizzioni, i due attracchi per pescherecci, giacciono inutilizzati, ormai da quasi due anni. L'accesso per i palestinesi non residenti è vietato e anche gli stranieri sono costretti a richiedere un particolare permesso presso le autorità militari israeliane. L'area di Al Mawasi è tra le più fertili e ricche di risorse idriche della striscia di Gaza e da circa vent'anni in parte occupata da insediamenti israeliani. Le autorità israeliane giustificano tutte le restrizzioni causate alla popolazione civile palestinese con il pretesto della sicurezza dei tremila coloni israeliani, costringendo cosi ottomila palestinesi, residenti nell'area, in una situazione che ricorda molto i ghetti ebraici della prima metà del secolo scorso. Miloon Kothari, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul Diritto alla casa, afferma, nel suo recente rapporto, che Israele giustifica questi insediamenti come necessari a causa del "naturale" incremento demografico. Ma, mentre il numero dei coloni cresce del 12% all'anno, la popolazione israeliana è aumentata appena del 2% all'anno. "Israele ha utilizzato la crisi attuale per consolidare l'occupazione dei territori palestinesi - ha riferito Kothari - La costruzione di nuovi insediamenti israeliani è incendiaria e provocatoria e i coloni sono liberi di esercitare violenze e di occupare le terre. Israele ha costruito più di 100 colonie - case per circa 200.000 Israeliani - sulla terra occupata durante la Guerra dei Sei giorni, e continua a costruirne." Condividiamo le affermazioni di Miloon Kothari e per questo siamo decisi ad entrare nell'area di Al Mawasi per poter testimoniare la situazione in cui la gente vive. *** 19 giugno - NOTIZIE DA KAHAN YOUNIS Poco dopo le 21,00 elicotteri apache decollano verso la striscia di gaza, i loro obbiettivi sono tre officine meccaniche, una alla periferia di Gaza city, la seconda dentro Gaza City e la terza a Kahan Younis. Alle 21,20 dal tetto della casa in cui viviamo ad Al Aassan Al Kabira, alla periferia di Khan Younis si possono vedere chiaramente i bengala che scendono dal cielo, lanciati da un caccia F16 dell aeronautica militare israeliana, e subito dopo i lampi giallastri delle esplosioni, provocate dai missili sparati dagli elicotteri apache sui bersagli illuminati dai bengala. in venti minuti circa l'operazione si conclude, un ferito a Gaza e due a Khan Younis, nessun morto. La mattina seguente andiamo sul posto dell attacco a Khan Younis e ci raccontano che hanno sparato quattro missili aria-terra dentro una piccola officina meccanica dove, secondo la stampa israeliana si fabbricavano bombe. Naturalmente tra i palestinesi nessuno ne sa nulla. Lo spostamento d aria causato dall'esplosioni ha fatto uscire i muri di mattoni dalle loro cornici di cemento armato. nel garage accanto all officina un auto blindata e implosa a causa dello spostamento d'aria, l'appartamento sopra il negozietto ha riportato danni strutturali ancora da valutare, ma fortunatamente nessuno della famiglia, che pure era in casa al momento delle esplosioni, si e fatto male. La casa di fronte e stata scoperchiata e ora la cucina, la camera da letto, lo studiolo e il bagno hanno per tetto un cielo di stelle. *** 19.06.02 - Comunicato Ci e' appena giunta notizia dell'ennesimo cieco, assurdo attentato a Gerusalemme. Altre cinque persone si aggiungono alle diciannove vittime innocenti morte nell'attentato di ieri (18.06) sempre a Gerusalemme. Da qualche settimana viviamo nella striscia di Gaza, nella municipalità di Khan Younis, dove andiamo a dormire con le famiglie che vivono, di notte, sotto coprifuoco solo perchè la loro casa sorge troppo vicino alla strada dei coloni la quale spacca in due parti la striscia di Gaza. La vita della gente è molto dura e in tutti gli aspetti della quotidianità l'occupazione è presente e condiziona tutto; dal lavoro all'istruzzione, dall'economia alla vita personale tutto ha a che fare con l'occupazione. La rabbia e la frustrazione di molti viene sfruttata dai gruppi che credono che la strategia degli attentati sia l'unica possibile, applicando una politica di morte che non ha altro risultato che dare ancora più forza a chi, in Israele e nel mondo, sostiene la brutale politica di Sharon. Molta parte della società civile palestinese, invece, lavora per convogliare la frustrazione e la rabbia della gente in forza positiva, per cercare forme alternative di lotta dove non vengano coinvolti i civili. Ci dissociamo totalmente con chi crede che la strategia violenta sia una strada che porta alla pace e con questo intendiamo sia gli attacchi suicidi in Israele ma anche la politica di occupazione, oppressione e umiliazione che Israele sta portando avanti nei territori occupati ancor prima dell'inizio dell'operazione "muraglia di difesa". In Israele molti la pensano come noi e sono molti ad aver capito che la sicurezza, per israeliani e palestinesi, si avra' solo partendo proprio dalla fine dell'occupazione: il motto dei pacifisti israeliani è "l'occupazione ci uccide". Impugnando il diritto di difesa, la politica messa in atto da Israele si dimostra oppressiva e violenta tanto quanto gli stessi attentati da parte palestinese, avendo quale unico effetto quello di fomentare ulteriormente l'odio e di favorire i gruppi estremisti. Operazione Colomba Berretti Bianchi *** 20/6 - STORIA DI R. "Era il 22 aprile del 2000. L'intifada non era ancora iniziata. Barak è a capo del governo isreliano e Clinton alla Casa Bianca. Sono le quattro del pomeriggio quando arriva la notizia che alcuni carri armati hanno oltrepassato la "linea verde". Subito Ri., 20 anni e suo cugino A., 12 anni, corrono verso quel punto a circa due chilometri dalle loro case, per vedere cosa succede. Quando arrivano sul posto vedono due carri armati che sostano a copertura di un caterpillar gigantesco che sta demolendo una casa ormai disabitata, troppo vicina alla fascia di sicurezza. Il manovratore ha le cuffie e pare ascoltare musica. I due ragazzi iniziano a tirare sassi al bulldozer, quando vedono alcuni militari scendere da un blindato e venire nella loro direzione, si nascondono dietro un cespuglio. In quel momento da uno dei carri armati aprono il fuoco con proiettili da 55 mm. Uno di questi colpisce Ri. di striscio alla testa, che cade in una pozza di sangue mentre A. piange terrorizzato. Da lontano altri vedono la scena e subito chiamano l'ambulanza che lo trasporta in un ospedale di Gaza, dove Ri. rimane in coma per 12 giorni. Quando i medici avevano perso le speranze, miracolosamente si è risvegliato. Tuttavia i medici consigliano il trasferimento di Ri. in un ospedale estero meglio attrezzato per la riabilitazione motoria. Ma questo non è mai stato possibile per ovvie ragioni di denaro e adesso anche a causa dell'intifada. Oggi Ri. vive "su di una carrozzina", e racconta la sua storia agli stranieri di passaggio (come noi), per trovare il modo di andare all'estero e ricominciare a camminare. E' paralizzato al braccio e alla gamba sinistra. Il proiettile ha lasciato una conca sulla parte destra del cranio, delle dimensioni di un pugno chiuso. *** 20/6 - STORIA DI S. Prima di venire in palestina abitavamo ad Abu Dabi negli Emirati Arabi Uniti, ci siamo trasferiti nella Striscia di Gaza nel 1992 in seguito agli accordi di Oslo e alla creazione dell Autorita Nazionale Palestinese. S. aveva 11 anni, io [R. la sorella] 12 e il nostro fratello maggiore F. 13, le mie sorelline erano molto piccole e i due fratellini sono nati qui. Quando siamo arrivati ala periferia di Khan Younis vicino al check point di Al Tufah, qui cera solo sabbia e i soldati israeliani non sparavano a nessuno. Mio padre torno a Abu Dabi per lavorare un altro anno e noi rimanemmo qui a vivere con i nonni, quando mio padre torno' aveva risparmiato abbastanza soldi per costruire questa casa dove abitiamo con tutta la nostra famiglia. La vita era buona non cerano probelemi con i soldati e noi potevamo vivere in pace, e stato solo nell autunno del 2000 che la nostra vita si e trasformata in un inferno a causa di Sharon. Ho chiesto a mia madre se ricordava altri periodi come questo e mi ha risposto di no, nemmeno la guerra del 1976 e stata cosi brutta. Questo e il peggior periodo della storia della palestina. Molti nostri amici sono morti,erano ragazzi giovani di 20, 21, 19 e 17 anni. Mio fratello S. era sempre molto arrabbiato per quello che succedeva qua ad Al Tufah, a Raffah e anche per quello che si vedeva in TV. Avevamo un amico che studiava all'universita di Gaza e ogni giorno attraversava il semaforo di Abu Hol, un giorno gli hanno sparato mentre era seduto in macchina in attesa di passare e l'hanno ucciso. Lui voleva solo andare a studiare, come molti altri quel giorno, ma l'hanno ucciso, hanno sparato su tutte le macchine in attesa di passare il semaforo. S. rimase molto turbato da quel fatto. Un giorno alcuni elicotteri apache fecero un incursione vicino al check point di Al Tufah e bombardarono alcune case, mio fratello F. si era nascosto in una di queste e un muro gli crollo addosso, un suo amico lo tiro fuori dalle macerie salvandogli la vita e lo accompagno all ospedale, di ritorno dall ospedale questo nostro amico ando' a sparare ad Al Tufah e fu ucciso. Quel giorno S. disse che voleva anche lui un kalashnikov per andare ad uccidere i soldati, per lui le continue aggressioni e tutti quei morti erano diventati un incubo insopportabile, cosi insieme ai suoi amici andava a sparare alla torretta del check point di Al Tufah, cosi per la rabbia di aver perso tanti amici e per l'impotenza e la disperazione di non aver alcun modo di difendersi dall'occupazione, solo cosi si poteva sentire meglio, perche' aveva fatto qualcosa, forse era inutile ma almeno aveva fatto qualcosa. Noi a quel tempo non sapevamo nulla di quello che faceva S., lui non ci raccontava nulla. Una volta gli israeliani hanno risposto al fuoco con il gas velenoso e anche S. lo ha respirato e lo hanno subito trasportato all ospedale, dove per una settimana e rimasto immobile nel letto, satva molto male. Molti altri in questa zona hanno respirato i gas velenosi dei soldati israeliani. Durante la convalescenza all'ospedale S. inontro un uomo della resistenza armata palestinese che lo arruolo' per combattere i soldati israeliani, S. non voleva uccidere civili ma voleva combattere i soldati perche' erano loro che ci aggredivano continuamente. Piu' tardi quando usci' dall'ospedale fu chiamato per una missione a Raffah, la citta al confine con l'Egitto. In quell'occasione fecero saltare in aria un carroarmato. Quando torno' a casa mi disse che un carro israeliano era esploso a Raffah, io gli chiesi come lo sapeva, perche' la TV non aveva detto nulla, ma lui rispose solo -io lo so-. Seppi che era stato lui solo dopo la sua morte quando me lo racconto un suo amico, si era specializzato in esplosivi e lo comandavano in missioni per far esplodere i carri armati e i bulldozer che demoliscono le nostre case. Tutti i giorni andava con i suoi amici e partecipava a queste missioni oppure andava a spare al check point di Al Tufah, ma non ci diceva nulla, solo che usciva con gli amici. Una sera usci di casa per andare ad una festa e mio padre gli disse di non fare tardi, verso la mezzanotte e mezzo, qualcuno busso alla porta e disse che c'era stato un ferito durante uno scontro a fuoco al check point di Al Tufah, lo avevano portato davanti a casa nostra, in strada, e volevano un auto per accompagnarlo all ospedale. F., mio fratello maggiore, usci per prendere l'auto e quando vide il ferito si rese conto che era S., suo fratello rimase li davanti al corpo insanguinato di S. che ra privo di sensi, rimase li e non sapeva cosa fare. Poi finalmente lo portarono allospedale e videro che era ferito ad una gamba, lo medicarono e lo ingessarono, S. rimase a casa immobilizzato dal gesso per due mesi, poi comincio ad essere impaziente e ando' a chiedere al dottore di cavargli il gesso, ma il dottore si rifiuto perche' non era nacora guarito, S. insistette e minaccio il dottore, lui doveva liberarsi dal gesso che lo costringeva a camminare con la stampella, quella li appesa al muro. Cosi nonostante il dottore gli avesse proibito di togliersi il gesso S. ando' da un amico e con il suo aiuto se lo tolse, quando torno' a casa stava molto male e rimase a letto per quattro giorni. Poi venne a cercarlo il suo amico Ahmed, ma io gli dissi che S. stava riposando e che non volevo svegliarlo, ma lui insistette che era molto importante cosi andai a chiamare S., che usci insieme ad Ahmed per andare al matrimonio di un loro amico. Dopo la festa partirono per una missione. I miei genitori erano andati a trovare dei parenti quella sera, e qualcuno telefono' a mio padre sul cellulare per informarlo che cerano stati tre feriti sul fronte di Raffah, mio padre che lavora alla TV palestinese trasmise la notizia in redazione, senza farci troppo caso. Poi il suo amico lo chiamo' nuovamente e gli chiese dove fosse S., mio padre rispose che era ad una festa, non poteva immaginare che invece era morto a Raffah, e il suo amico non sapeva come dirglielo, cosi gli chiese di mandare qualcuno a cercarlo. F. ando' a cercare S. ma non lo trovo in nessun posto. Mio padre capi che doveva essere successo qualcosa di grave e richiamo il suo amico, il quale gli disse che S. era stato ferito gravemente e stava all'ospedale di Raffah. Cosi' mio padre prese l'auto e corse a Raffah, quando arrivo' all'ospedale vide i tre corpi di S., A. e M., erano morti. Stavano preparando due mine anticarro da usare contro i buldozer, ma i soldati li avevano visti e gli avevano sparato una granata che aveva fatto esplodere anche le mine uccidendoli sul colpo. S. era tutto punteggiato di sheggie sul volto e gli altri due erano sfigurati e irricinoscibili. Quando mi dissero che S. era stato ferito non volli crederci, lui aveva moltissimi amici ed erano tutti la fuori, in strada, a sparare e piangere di rabbia, ma io non riuscivo a credere che gli fosse successo qualcosa e non volevo neppure uscire in strada, non volevo sapere nulla, i miei sentimenti mi soffocavano e non riuscivo a muovermi. Rimasi in casa a piangere per molte ore, mentre fuori gli amici di S. sparavano in aria, poi portarono a casa il corpo di S. per un ultimo saluto prima del funerale, allora lo vidi e credetti alla sua morte. Mio padre mi disse che Dio ci aveva dato il meglio e che S. era morto da martire. S. diceva sempre che lui viveva per questa terra, la nostra terra e che non voleva nulla per se, solo morire per la sua terra. S. aveva 19 anni, sua sorella R. di 22 ci ha raccontato la sua storia. Aggiornamenti continui su http://www.informationguerrilla.org/storie_dalla_palestina_dimenticata.htm
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