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L'impero americano d'occidente
- Subject: L'impero americano d'occidente
- From: Daniele Barbieri - Carta <pkdick at fastmail.it>
- Date: Fri, 7 Jun 2002 15:17:53 +0200
Semplice, ma efficace analisi. Chiedo scusa a chi l'ha gia' letta sul "Manifesto". Enrico Pieroni ------------------------------------------------- da "il manifesto", domenica 26 maggio 2002 ANALISI L'impero americano d'occidente TOMMASO DI FRANCESCO E MANLIO DINUCCI «Si vis pacem para bellum» (se vuoi la pace prepara la guerra), insegnavano nell'antica Roma. La pace era naturalmente la «pax romana», imposta ai nemici sconfitti che, accettando di essere subalterni, venivano ammessi nell'impero. Lo stesso cerca di fare la moderna Washington: imporre alla Russia - a ciò che resta della superpotenza nemica - la «pax americana». Essa viene suggellata dal Trattato di Mosca, che permette agli Stati uniti di accrescere il vantaggio nel settore degli armamenti nucleari strategici dopo avere stracciato lo storico trattato Abm contro la proliferazione nucleare, e dalla Dichiarazione di Roma, che associa formalmen te la Russia (senza darle alcun potere effettivo) alla Nato sotto la leadership statunitense. Prosegue così il riorientamento della strategia statunitense, iniziato con la fine della guerra fredda. Durante la guerra fredda era chiaro quale fosse il nemico degli Stati uniti: l'«impero del male», rappresentato dall'Unione sovietica. A un certo punto però esso crolla, lasciandoli nella posizione di unica superpotenza, ma di fronte a un grave dilemma: qual è ora il nemico? Senza più la «minaccia sovietica», come avrebbero potuto gli Usa continuare ad armarsi e mantenere la loro indiscussa leadership nei confronti degli alleati, soprattutto europei? Viene allora introdotta la formula delle «minacce regionali», sulle cui base sono condotte le prime due guerre del dopo- guerra fredda: quella del Golfo (sotto la presidenza del repubblicano Bush senior) e quella contro la Jugoslavia (sotto la presidenza del democratico Cl inton). Ambedue focalizzate sul nemico numero uno del momento, prima Saddam Hussein, quindi Slobodan Milosevic. Con la prima guerra, gli Usa rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell'area strategica del Golfo, dove sono concentrati i due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Con la seconda, rafforzano la loro presenza e influenza in Europa nel momento critico in cui se ne stanno ridisegnando gli assetti, e rivitalizzano la Nato attribuendole (col consenso degli alleati) il diritto di intervenire fuori area. E' a questo punto che la Nato comincia a estendersi ad est, inglobando i primi tre paesi dell'ex Patto di Varsavia (Polonia, Ungheria e Repubblica ceca). L'adesione all'Alleanza atlantica diventa perfino l'unico criterio di valutazione «democratica» dei nuovi regimi e avviene a costi elevatissimi per i bilanci di questi fragili stati, sempre più mirati all'improduttivo rinnovo di spese militari. Ma il mondo però non va c ome decidono alla Casa bianca. L'economia statunitense, pur restando la maggiore, perde terreno soprattutto nei confronti di quella dell'Unione europea. Contemporaneamente, in Arabia saudita e nel mondo arabo vi sono crescenti segni di insofferenza di fronte al predominio statunitense e alla presenza militare Usa nella penisola arabica, confermata dal disastro della politica americana in Medio Oriente; mentre in Asia il riavvicinamento russo-cinese prospetta la possibilità di una coalizione in grado di sfidare gli Usa. «Anche se gli Stati uniti non avranno di fronte nel prossimo futuro un rivale di pari forza - sottolinea il Pentagono nel documento strategico del 30 settembre 2001 - esiste la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi. In Asia, in particolare, esiste la possibilità che emerga un rivale militare con una formidabile base d i risorse»: un riferimento a Pechino e al suo temuto e concorrenziale gigantismo economico che disegna in apertura del nuovo millennio uno scenario insidioso. Ciò avviene proprio nel momento in cui gli Stati uniti cercano di occupare, prima di altri, il vuoto lasciato dal crollo dell'Unione sovietica in Asia centrale (area di enorme importanza sia per le risorse energetiche del Caspio e i relativi corridoi petroliferi) sia per la posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India. In questo momento critico, l'attacco terroristico dell'11 settembre (sulla cui versione ufficiale vi sono crescenti dubbi) permette agli Stati uniti di lanciare una formidabile campagna militare, politica e mediatica: l'operazione «Libertà duratura», di cui la guerra in Afghanistan è solo l'inizio. A motivarla ufficialmente è la necessità di combattere non solo Osama bin Laden, nemico numero uno del momento, ma «un nemico oscuro, che s i nasconde negli angoli bui della terra». Con questa motivazione, gli Stati uniti hanno deciso il più grosso aumento del budget del Pentagono negli ultimi vent'anni: da 329 miliardi di dollari nell'anno fiscale 2002 a 383,4 nel 2003, che, compresi i 17 miliardi per la conservazione dell'arsenale nucleare, salgono a 400, circa la metà della spesa militare mondiale. Si aggiungono a questi i 17 miliardi di dollari spesi in sette mesi per la guerra in Afghanistan (cifra ufficiale del Dipartimento della difesa). Si tratta di un enorme investimento, finalizzato ad accrescere la supremazia militare della «potenza globale» statunitense (come la definisce il documento del Pentagono), nei confronti non solo degli avversari ma anche degli alleati, nella fase critica in cui si ridefiniscono gli assetti mondiali del dopo guerra fredda. Nello stesso quadro rientra l'occupazione fisica di aree un tempo facenti parte dell'Unione sovietica e del suo blocco di alleanze: gli Usa si stanno preparando a una presenza militare permanente nelle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale (Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kazakhstan, Georgia) così come in Bulgaria e Romania, dopo aver disseminato nei Balcani (dalla Bosnia al Kosovo) decine di basi militari. Contemporaneamente Washington opera per l'ulteriore espansione a est della Nato, che ingloberà il prossimo novembre molti dei 10 paesi candidati - Lituania, Estonia, Lettonia (le prime repubbliche dell'ex-Unione sovietica ad essere ammesse), Slovenia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Albania, Macedonia e Croazia - che verranno in tal modo ad essere collegati non tanto alla Nato quanto direttamente agli Stati uniti e alla loro strategia. Significativo è che, nel lanciare la guerra in Afghanistan, gli Usa abbiano scavalcato anche la Nato, aggregando all'operazione singoli paesi europei (come Gran Bretagna e Francia). Gli Usa si fidano infatti solo fino a un cer to punto dell'Europa. Lo conferma lo studio Global Trends 2015, elabo rato dal Nic (National Intelligence Council) e dalla Cia: tra i possibili scenari del 2015 vi è quello che «l'alleanza tra Usa ed Europa crolli, a causa in parte dell'intensificazione delle guerre commerciali e della competizione per la leadership sulle questioni della sicurezza». Potrebbe allo stesso tempo - secondo gli analisti dell'intelligence statunitense - verificarsi che «la Cina, l'India e la Russia formino de facto un'alleanza geostrategica nel tentativo di controbilanciare l'influenza statunitense e occidentale» e/o che «i maggiori paesi asiatici stabiliscano un Fondo monetario asiatico o (cosa meno probabile) una Organizzazione asiatica per il commercio, minando il Fmi e la Wto e quindi la capacità degli Stati uniti di esercitare la leadership economica globale». Brutti presagi, per l'impero americano d'occidente.
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