testimonianza da ramallah



Quarantotto ore a Ramallah

Pasqua 2002

Siamo partiti per Ramallah perché sentivamo il bisogno di essere vicini ai
nostri amici palestinesi e di essere là dove loro ci chiedevano di essere.
Il giorno prima eravamo passati in massa attraverso il check point di
Betlemme cogliendo di sorpresa i soldati di guardia ed eravamo sfilati in
quattrocento attraverso la città. La gente si faceva sulla porta e ai
balconi e ci diceva "non è qui dovete venire, dovete andare a Ramallah dal
nostro presidente" A Betlemme si aspettavano l'arrivo dell'esercito di ora
in ora, ma pensavano che il posto importante fosse Ramallah dove c'è Arafat.

Con i tempi palestinesi un po' elastici e quelli del gruppo ancora più
elastici, ci siamo avviati dall'albergo Ambassador di Gerusalemme alle 9 di
mattina. Io avevo anche una missione privata da compiere, dovevo
assolutamente vedere mia sorella Piera e suo marito Jamil e portare a loro
la mia solidarietà. Non sono per niente abituata alla guerra. Sul van che
ci trasportava verso i due check points avevo un po' di paura. Siamo
passati dal primo ufficialmente, quello di el-Ram. Abbiamo superato il
secondo come tutti i palestinesi fanno, a piedi, un po' affannati, su un
sentiero piuttosto scosceso e accidentato. Non è per la sicurezza loro che
gli Israeliani impongono i check-points, i check points si superano con una
certa disinvoltura se non si è vecchi, malati, partorienti o se non si
devono fare trasporti. I check-point hanno unicamente la funzione di
molestare la gente e di umiliarla, di farla aspettare in coda per ore per
poi dire "no, oggi non ti faccio ! passare", affinché per percorrere 20
chilometri ci si impieghino sei ore e si perdano giornate di lavoro, di
studio, di vita.

Al di là del check point di Qalandya ci aspettavano altri due vans e
abbiamo incominciato l'avvicinamento alla zona effettivamente sotto
assedio. I giovani palestinesi che ci conducevano avanzavano, spiavano
dagli angoli, facevano marcia indietro, avvistavano un carro armato,
svoltavano bruscamente a destra o a sinistra. Ad un certo punto la
situazione era un po' tesa e abbiamo dovuto fermarci per una mezz'oretta in
una zona sicura per aspettare che passasse il momento critico. E' arrivata
un'ambulanza con la bandiera della Croce Rossa e si è messa davanti al
nostro piccolo convoglio. Sali e scendi, gira e svolta ancora per un po' e
alla fine eravamo in salvo all'Hotel Ramallah dove dovevamo incontrare il
gruppo dei francesi e degli italiani che ci avevano preceduto il giorno
prima. Quelli che erano già lì ci hanno messo al corrente di ciò che
avevano fatto e di quello che si apprestavano a fare. I francesi avevano in
mente di andare al Mukata, il cosiddetto! quartier generale di Arafat,
passando per gli ospedali per donare il sangue e vedere di che cosa ci
fosse bisogno. Siamo partiti in un gruppo di circa cinquanta persone, i
francesi sono molto organizzati e determinati, un po' arroganti. Loro
andavano a passo serrato, quasi di corsa. La regola in zona di guerra è di
camminare in mezzo alla strada, di farsi vedere e di stare insieme il più
vicini possibile. Avevano i nostri pettorali bianchi e tutto quello che di
bianco potevamo portare. Avevo parlato con Piera al telefono e sapevo che
dovevo essere nei dintorni, ma non sapevo dove e mi prendeva l'ansia di non
riuscire a incontrarla, o vederla. Le strade erano vuote, la città
completamente deserta, si sentiva e si sarebbe sentito per tutti i due
giorni lo spaventoso sferragliare dei carri, si sentivano gli scoppi, gli
spari. Dietro ad una curva, eravamo quasi agli ospedali, in cima alla
salita c'era un carro armato con il suo bel cannone puntato su di noi. Era
in mezzo alla s! trada, tra i due ospedali che sono uno di fronte
all'altro. Aveva una voce, il carro, che diceva "Go away". In tono assai
minaccioso. Go Away, veniva fuori dal mostro, go away. La capa della
delegazione francese, molto tosta che si chiama Claude ha lasciato il
gruppo e è andata avanti adagio, gridava "I want to talk to you", aveva le
mani come le deve tenere la gente in questi casi , allargate ma non alte.
Diceva "I want to talk to you" con aria altrettanto imperiosa, ogni volta
che dal carro proveniva il go away. Mi sono ricordata in quel momento che
in Africa una studiosa di leoni ci aveva detto che se si incontra un leone
aggressivo bisogna alzare la voce e gridargli di andarsene con tono deciso.
Andavamo avanti piano piano tra un go away e un I want to talk to you.
Strano, ma il carro andava indietro. Siamo arrivati all'altezza del
cancello del primo ospedale sulla sinistra e ci siamo accorti di quello che
stava succedendo. L'esercito era lì per occupare gli ospedali, c'! erano
due cingolati nel cortile e dei soldati già dentro. Infermiere, infermieri
e dottori erano seduti per terra davanti al mezzo, con una fila di soldati
che gli puntava addosso il fucile, con i loro corpi volevano impedire al
mezzo di entrare e ai soldati di passare. Ci siamo infilati con loro e ci
siamo messi lì davanti ai soldati. La situazione si è inasprita quando su
due barelle spinte a mano sono arrivati due ragazzi morti, giovani, uno con
un buco nella tempia, e l'altro con un buco nel torace grande come un
cratere. Il personale dell'ospedale si è messo a gridare, ha preso i morti
e li ha portati davanti ai soldati, i soldati si sono spaventati, Roberto
Giudici si è mezzo per proteggere i dottori e gli infermieri. I morti sono
stati portati dentro l'ospedale, la tensione era alta. Fuori alcuni
parlamentavano con i soldati del carro armato. Poi miracolosamente soldati
hanno cominciato a ritirarsi indietro, liberando il cortile, il carro
armato a iniziato a indietreg! giare, i due cingolati li hanno seguiti, I
militari che erano già dentro all'ospedale sono usciti e tutti se ne sono
andati giù per la strada verso il centro città. Siamo stati festeggiati
come dei liberatori. Una forza di protezione di pensionati, , studenti,
impiegati, insegnanti, preti sbucati fuori dalla curva all'improvviso
avevano scacciato l'esercito.

I francesi hanno proseguito, sono arrivati al Mukata, si sono uniti al
presidente Arafat, e alcuni sono ancora là con lui. Se non ci fossero,
forse Arafat sarebbe già morto. Noi siamo rimasti agli ospedali, la gente
temeva che l'esercito sarebbe ritornato. E' successo infatti nel pomeriggio
quando è comparso un carro che, ci ha visto, ha fatto un elegante giro a U
e se ne è ripartito. Intanto noi avevamo offerto di donare il sangue. A
poco serve il sangue perché è raro che la gente arrivi ferita. In genere
l'esercito di occupazione fa in modo che arrivi già morta. Comunque la
nostra offerta di sangue è stata gradita, solo che siamo tutti mezze
calzette e quasi nessuno di noi aveva un sufficiente tasso di emoglobina,
forse per la gran paura.

Ci hanno dato da mangiare, ci hanno fatto un esame gratuito del sangue,
sani, ma debolucci, e ci hanno detto restate con noi.

Abbiamo deciso di passare la notte con loro, facendo turni di guardia. Ci
hanno dato le coperte estraendole da loro magazzino e ci hanno dato un
posto per dormire con anche il bagno. Lisa Clark e io siamo uscite in una
missione di protezione di un infermiere che andava in una casa del vicinato
a prendere la chiave del magazzino. Avevamo una paura tremenda. Nel buio,
anche solo attraversare la strada ci sembrava un salto nell'ignoto. Cinque
minuti di passeggiata velocissimi ci sono sembrati eterni e abbiamo tirato
tutti e tre un gran fiato quando siamo rientrati. Poco prima avevamo visto
le infermiere di un turno con i loro veli islamici bianchi avviarsi verso
casa strette l'una all'altra per farsi coraggio e poi girare a destra e
sparire inghiottite nella notte.

Nella notte, durante il mio turno di guardia, chiacchieravo con questi
medici e questi infermieri che ormai vivono all'ospedale perché non possono
tornare a casa. Di notte il cecchino diventa cattivo e nervoso e spara giù
dai piani alti, e i rastrellamenti non hanno comunque mai sosta. Sono gente
dolce e colta, amante del suo lavoro e fiera del suo ospedale. L'esercito
di occupazione sta cercando di distruggere tutte le infrastrutture
dell'Autorità Palestinese. Nella notte fredda, passeggiavo in su e in giù
con un tecnico della riabilitazione e parlavamo dei cosiddetti terroristi
suicidi. Non ho trovato nessuno, mai nessuno che non fosse pronto a
giustificare, a sostenere i gesti di questi martiri. E' inutile starsi a
raccontare storie. Al più ti dicono che non lo farebbero personalmente, al
massimo dichiarano di non essere ancora arrivati al limite della
disperazione. Al massimo ammettono che politicamente magari è
controproducente, o perfino dannoso, ma la! rabbia, la disperazione,
l'umiliazione, non si possono sempre incanalare in direzioni razionali.
Anche lui diceva quello che dicono tutti. C'erano lì tre ragazzini, forse
di diciassette, diciotto anni che si stringevano tremebondi l'uno
all'altro. Sono poliziotti, mi dicono, si sono tolti la divisa e sono
scappati dal centro. Sono terrorizzati. Sanno che se I militari li prendono
per loro sarà la fine. I medici non li possono far entrare nell'ospedale
perché' se vengono a fare un rastrellamento e li scoprono, anche per tutti
gli altri e' la fine. Gli dico di stare li, con noi, perché probabilmente
qui l'esercito non si avvicinerà troppo. C'è anche uno stremato giornalista
palestinese con giubbetto antiproiettile. Da oggi ce l'hanno anche con I
giornalisti e lui, essendo palestinese teme piu' degli altri. Qualcuno di
noi gli offre delle sardine sott'olio e dei biscotti, poi lo vedo dormire
su una sedia con la sua telecamera stretta al petto come un neonato. La
notte e' poi p! assata tranquilla, solo a un certo punto si e' visto
transitare un carro, e subito il fischietto della sentinella ha lacerato la
notte. Ma poi il carro se ne e' andato per i nevrotici fatti suoi e tutto
e' tornato tranquillo.

La mattina eravamo discretamente riposati. Parte un drappello composto da
Roberto Giudici, Floriana, Giordano e io per l'albergo Ramallah dove sono
arrivati altri italiani e riportarli all'ospedale. Floriana si e' aggregato
perché vuole andare a far visita alla sua amica Tea che con il marito Isham
e i due bambini vive a pochi passi dall'albergo Ramallah. Io mi sono
aggregata perché sono determinata a vedere la Piera. Ed eccoci in casa di
Isham e Tea che ci fanno una festa grandissima. Ogni visitatore
dall'esterno che riesce a rompere l'assedio e' visto come un liberatore. Io
sono nervosissima. Con l'aiuto di Isham riesco a capire quale e' la casa di
Jamil e Piera, proprio a cento metri più in basso. Le telefono e viene alla
finestra. Grande commozione. Ci sventoliamo bandiere bianche. Vicinissime e
lontanissime. Sotto nella strada ronzano troppi carri armati per potersi
fidare ad attraversare i duecento metri che ci separano. Abita su un
cruciale incrocio a! pochi passi dalla città vecchia, con il municipio
davanti e la zona e' presidiatissima. Ad un certo punto mi sembra che la
situazione si alleggerisca, Isham mi dice, dai proviamo, ti accompagno un
pezzetto. Corro giù per luna scaletta, attraverso la strada più in là
percorro altri cinquanta metri. La gente si affaccia e mi prepara la porta
aperta in caso di bisogno. La Piera scenda in strada incontro a me, e
finalmente possiamo abbracciarci. Andiamo di sopra, un te' nervosamente, mi
accorgo di aver dimenticato le sigarette che le avevo comprato, le consegno
i soldi che le ho portato, visito l'appartamento, e sono pronta a ripartire
dopo non pi' di venti minuti. Già i carri armati stanno di nuovo scendendo
la collina di fronte e in pochissimo tempo la zona ne è tutta di nuovo
piena. Ma non solo, arrivano dei blindati per il trasporto truppe che
vomitano decine di militari che corrono da tutte le parti in pieno assetto
di guerra. Preoccupati li guardiamo dal balcone. Telefono! : Piera, li
vedi? Si', mi risponde con voce rotta. Che vogliono? Niente di buono. C'è
tutto un correre, acquattarsi, i carri si fanno più sotto alla casa.
Vogliono proprio loro, mi terrorizzo. Infatti altra telefonata. Hanno preso
Jamil, lo hanno portato fuori con fucile piantato addosso. La Piera e'
stata chiusa in una camera con la vicina. Telefono a tutti quelli che
possono, telefono al giornalista Paolo Colombo facendogli una scenata e lui
mi mette giù il telefono. Isham vede che sono entrati nell'appartamento e
stanno andando avanti e indietro. Quando perquisiscono tirano giù le
tapparelle. Poi sapremo che lo fanno perché nessuno dal di fuori veda che
stanno rubando. Sapremo in seguito che hanno portato via i 500 dollari che
Jamil aveva in un cassetto chiuso a chiave. Non hanno sfondato le porte
perchè prudentemente erano state lasciate aperte, non hanno rubato i soldi
della colletta perchè la Piera se li era messi in borsa, sapendo bene che
il furto e' una prassi abitu! ale delle perquisizioni.

Quando tutto finisce si tira un sospiro di sollievo, il dente e' stato
tolto. Tanto il destino ineluttabile del Palestinese e' quello di subire
rastrellamenti interrogatori e arresti ogni due per tre, e quindi quando
succede ci si puo rilassare per un po'.

Cala la sera, nella casa di Isham e Tea i bambini giocano come tutti i
bambini, vanno e vengono dal vicinato, guardano la televisione, non
andranno a scuola ne' domani ne' dopo, ne' chissà per quanto tempo,
collezionano bossoli, contano i carri armati che sferragliano, dicono
parolacce se sentono il nome di Sharon, indicano gli incendi, sentono le
bombe, vedono i razzi sparati dagli elicotteri. La televisione e' sempre
accesa su el-Jazeera, oppure su Dubai. Il canale internazionale della Rai
ogni tanto trasmette quei classici servizi bipartisan in cui domina la voce
di Amos Luzzato, e si vedono vere e proprie falsità. Interpretano la
consueta cerimonia funebre palestinese come una festa in onore del martire
suicida. Isham spiega che invece tutte le cerimonie sono uguali, qualsiasi
sia la ragione della morte. I parenti e gli amici (qui le famiglie sono
tutte allargate, con anche centinaia di persone) vanno a fare visita alla
casa del morto, dove qualcuno, la ! madre se e' il figlio, canta le lodi
dello scomparso, anche se e' morto di polmonite e dice quanto era' bello,
bravo, coraggioso e valente. Tutti si abbracciano e si baciano, per
confortarsi, I palestinesi come tutti i popoli di qui, sono molto corporei
. Noi grandi parliamo della difficoltà di essere palestinesi, del doverlo
negare ad ogni controllo, di politica, di religione, di ebrei, di arabi, di
palestina, di palestina, di palestina. Ne dovranno passare degli anni prima
che le ferite delle umiliazioni, delle offese, degli insulti alla dignità,
della privazione di ogni diritto possano cicatrizzare. Il segno resterà
sempre.

Durante la giornata un altro gruppo e' andato in aiuto a Moustapha
Barghouti alla sede del Medical Relief Committee. Moustapha ha telefonato
dicendo che ha bisogno di internazionali da mandare sulle ambulanze per
proteggere I medici e gli infermieri che girano portando medicine e aiuti
in cibo. Infatti I militari fermano le ambulanze e, se I palestinesi sono
soli, li malmenano, li picchiano, li arrestano, li minacciano o
semplicemente impediscono loro di fare il loro mestiere. La televisione
trasmette in diretta la scena del fermo di una di quelle ambulanze.
Riconosco uno dei nostri, Francesco, dallo zainetto rosso e dal pettorale
di Action for Peace. Sono tutti inginocchiati contro un muro con le mani
dietro la nuca. Poi li lasciano sedere. Evidentemente i prigionieri
ottengono il permesso di fumare e capiamo che si tratta di un'azione
morbida. Li fanno sedere per terra, poi dopo un po' li portano tutti via.
Chissà' dove? Sappiamo che Luisa, Albino, Lisa, A! lberta, Walter sono
invece intrappolati al Medical Relief Committee, dove I soldati hanno
accerchiato l'edificio e intimano a tutti di uscire altrimenti bombardano.
I soldati sono convinti che nell'ospedaletto siano nascosti dei poliziotti
armati. Ora, essere poliziotti comporta necessariamente essere armati, ma
qui l'esercito ha già giustiziato con esecuzioni sommarie diversi
poliziotti. Le regole non ci sono più. Il medico Mohamed esce fuori a dire
che non c'è nessun uomo armato. Lo prendono come scudo e lo portano in giro
a fare la perquisizione. Ad un certo punto in cantina trovano una porta
chiusa della quale nella confusione non si trova la chiave. Ciò basta per
intimare a tutti di abbandonare l'edificio con le mani alzate, uomini di
qui, bambini di la' donne con I bambini. E poi cominciano a sparare colpi
di cannone. Dall'edificio vicino provengono degli spari. Cannoneggiano
anche quello. Un uomo, un civile, salta dalla finestra, il dottore e Luisa
vanno per soccorrer! lo, ma gli viene intimato di non avvicinarsi. C'è una
vera e propria rissa attorno al ferito con I militari che lo tirano da una
parte e I nostri che lo tirano dall'altra.

Andiamo a dormire mentre verso Betunia il cielo e' rosso fuoco e le bombe
assordano. Stanno assalendo la sede della forza di protezione palestinese,
dove sono asserragliati 400 palestinesi con donne e bambini. Andranno
avanti per tutta la notte, tenendo svegli tutti tranne me che dormo il
sonno dell'innocenza. Fuori dalla finestra a cinque metri dal mio letto,
staziona un grosso carro armato.

Al risveglio ci telefonano che arrivano a prenderci. Parlo un'ultima volta
al telefono con Piera. La saluto dalla finestra. Le raccomando stai
attenta. Mi raccomanda stai attenta. Ritorniamo a piedi indietro
all'ospedale, camminando in mezzo alla strada, senza guardare in giro,
senza rispondere alla gente che si affaccia sulle porte chiedendo,
implorando un po' di cibo, pane, latte, acqua. Mandate qualcuno, venite a
vedere, la mia mamma e' anziana, malata. Non possiamo fermarci. Come sempre
tutti gridano welcome, agitano le due dita a V.

Arriviamo all'ospedale. Arriva qualcuno dicendo che fuori in strada c'è una
donna ferita. Un cecchino le ha sparato mentre se ne tornava dopo una
medicazione. E' in terra, tre dei nostri cercano di avvicinarsi per
soccorrerla. Sparano anche su di loro per tenerli lontani. Poi la finiscono.

Continua ad arrivare gente. Qui non si capisce più' se siamo noi a
proteggere l'ospedale o l'ospedale a proteggere I giornalisti, I
poliziotti, gli internazionali. Un gruppo di noi decide di tornare a
Gerusalemme. A piedi se necessario. Luisa ci organizza una guida, ma
dobbiamo raggiungerla perché' e' troppo pericoloso per lei venire fino a
qui. Ci aspetta alla stazione televisiva palestinese, che da mesi e' stata
fatta saltare in aria e ne restano solo dei ruderi anneriti.
L'attraversamento della città' spettrale, sotto un pioggia sferzante, e'
piuttosto impressionante. Abbiamo vaghe indicazioni della strada da
percorrere, ma non siamo sicuri di dove andare. La gente si affaccia e
grida avete bisogno di aiuto? Noi sappiamo che e' meglio non rispondere per
non mettere in pericolo noi e loro. Dopo una camminata di un'oretta, alla
stazione televisiva non vediamo nessuno, poi vediamo venire su per la
strada una ragazzina con uno straccio bianco e un piccolo omb! rello. Lei
e' la nostra guida. Ne arriva anche un'altra, senza ombrello. Ci guidano
per la strada delle montagne, cosi' dicono, che non dobbiamo rivelare a
nessuno. Attraversiamo campi sentiamo il profumo del timo, ci sono i fiori
di primavera gialli e rosa, ci teniamo sotto gli ulivi ben potati e fioriti
quando ci sono, un pastore con un gregge fa un po' di tragitto con noi, a
cavallo di un asinello. Dico al Massimo: siamo come Ulisse che scappa da
Polifemo insieme alle pecore. Il fango del terreno argilloso si appiccica
alle scarpe e si scivola. Attraversiamo fossi e ci arrampichiamo per
muretti. Sembriamo una misera armata brancaleone, guidata da due giovanne
d'arco piccoline e magre, con l'ombrello.

Alla fine vediamo davanti a noi il paese di Qalandia. Abbiamo aggirato il
check point e siamo ormai in salvo. La gente viene fuori dalle case, thank
you, welcome, segni di vittoria. Ancora qualche chilometro e arriviamo al
check point di el-Ram. I soldati non ci fermano, ci dicono delle parole di
scherno, che non capiamo, ridono di noi. Effettivamente siamo proprio
buffi, tutti infangati e bagnati come pulcini. Al di la', ci e' stato
annunciato, dovrebbero esserci le macchine consolari e anche la stampa.
Sono certa che invece non vedremo nessuno. Il console di Gerusalemme si e'
sempre distinto per il suo indomito coraggio. Prendiamo un taxi.

CON LA PALESTINA NEL CUORE.

ADRIANA