Palestina, nel labirinto del conflitto



Vi invio questa buona lettura espunta da
www.aprile.org . come preparazione alla iniziativa sarebbe bello che
chiunque trovi qualche notizia interessante in proposito, la giri alla
lista. Io lo farò.
Leonardo

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Palestina, nel labirinto del conflitto
In viaggio nelle città assediate dai carri armati. Il negoziato è l'unica
soluzione


Nicola Manca

Palestina. 7 marzo.
Con una delegazione di parlamentari europei - tra gli altri Luisa Morgantini
e Gianni Pittella - ci siamo immersi per quattro giorni nello scenario di
guerra della Palestina. Visti da qui, senza il filtro televisivo, le
immagini, i rumori, le persone trasmettono altre sensazioni: si percepisce
il dramma dei civili, la paura, lo sgomento quotidiano. La prima tappa ci
porta a Ramallah con due fuoristrada dell'Unione europea. Il funzionario che
ci accompagna ci fa firmare un foglio che li solleva da ogni responsabilità
su quanto può accaderci. Da Gerusalemme a Ramallah il viaggio è breve:
colpisce l'estensione degli insediamenti dei coloni. Ci rechiamo da Abu-Ala
(presidente del consiglio legislativo palestinese): lamenta l'isolamento,
l'impossibilità concreta di riunire il parlamento. Vediamo Arafat a
Ramallah, poche ore dopo i bombardamenti. Le preoccupazioni sono le stesse
di Abu-Ala. In questi anni di conflitto - ci dice Arafat - la perdita di
vite umane e i danni economici sono enormi, incalcolabili.

8 marzo.
Il pomeriggio a Gerusalemme, in Paris Square, si svolgono due
manifestazioni: una dei pacifisti di Peace now, l'altra - a pochi metri
dalla prima - dell'estrema destra. Impensabile, da noi, nella stessa piazza
due manifestazioni così diverse e opposte negli obiettivi. Le macchine che
passano intorno alla piazza segnalano il consenso agli uni o agli altri. I
giovani della destra ripetono ossessivamente contro le donne in nero e i
militanti di Peace now i loro slogan : "Uccidete i vostri fratelli", "Volete
la morte di Israele".
A Gerusalemme est, nella parte araba, i segni della crisi si fanno sentire
più che altrove. Molte botteghe restano aperte in attesa di clienti, ma sono
pochi i turisti che si incontrano nel quartiere. La sera, le tv arabe
trasmettono in continuazione le immagini degli scontri e dei rastrellamenti.
Dall'albergo che ci ospita sentiamo il rombo degli F-16, il rumore delle
pale degli elicotteri, le sirene delle ambulanze. Si contano i morti, gli
attentati: l'ultimo in un bar vicino alla casa del premier Ariel Sharon. Le
vittime sono giovani, inermi, civili.

9 marzo.
Arrivati a Betlemme ci rendiamo conto che lo sbarramento è impressionante:
carri armati lungo la strada e al check point. Possiamo procedere solo a
piedi, percorrendo unicamente la strada principale. Passa i controlli con
noi una donna palestinese smarrita e terrorizzata dalla visione dei carri
armati. Si vedono i segni dei bombardamenti, il centro sanitario della Croce
rossa palestinese è distrutto, le macerie sono lungo tutta la strada. Non
incontriamo nessuno per i primi cento metri, il coprifuoco è totale. Fino
alla piazza della Natività, le sole presenze sono quelle dei bambini, che
incuranti di tutto si raggruppano per strada. Solo più avanti incontriamo
qualche palestinese armato e poi macchine della tv araba che percorrono le
strade velocemente. Cerchiamo il nostro contatto con i cellulari, non
sappiamo se andare avanti o fermarci.
Finalmente arriva una rappresentante dell'Autorità nazionale palestinese e
possiamo continuare con più tranquillità. La giovane palestinese, militante
della prima Intifada, ha perso tutto: la famiglia, la casa. Dopo due anni di
carcere, si occupa del recupero dei bambini e coordina le attività di
assistenza per le donne.
Incontriamo nella sede del municipio le diverse autorità: il sindaco e il
capo della polizia. Sono esasperati, ma non rassegnati. Sono esausti per i
continui bombardamenti, chiedono un impegno forte a noi europei. Nella
piazza gruppi di poliziotti e milizie armate presidiano e si muovono in
diverse direzioni cercando di mantenere la loro rete di contatti. Ci
avvisano che alcune case sono occupate dai cecchini israeliani e di
conseguenza dovremmo muoverci con i taxi o con macchine della polizia per
recarci all'ospedale. Quest'ultimo, costruito dalla cooperazione italiana, è
una delle poche strutture ancora funzionanti. All'ingresso decine di persone
attendono notizie dei feriti. C'è un clima di composta e grande sofferenza:
alcuni pregano, alcuni aspettano in silenzio. All'interno troviamo molti
feriti. Un gruppo di persone sta portando via con una barella a spalla un
giovane morto nella notte, colpito dal fuoco degli elicotteri. Parte il
corteo funebre e noi lasciamo l'ospedale per fare ritorno negli uffici del
comune. Nel pomeriggio è previsto il rientro a Gerusalemme in taxi.
Passaporti ben visibili in mano e braccia alzate, avanziamo lentamente verso
il check point.

14-15-16 marzo.
A cinque giorni dalla prima missione, torno in Palestina con Marina Sereni,
responsabile esteri dei Ds. A Tel Aviv si tiene la riunione del Simec
(Comitato per il Medioriente dell'Internazionale socialista). I lavori si
svolgono in due momenti distinti: la mattina del 14 a Ramallah con la
presenza dell'Autorità nazionale palestinese e di Fatah: sono presenti
Arafat, Rabbo, Al-Hassan, Ilan-Halevi. Arafat auspica un'iniziativa
americana che consenta il ritiro immediato di Israele dai territori.
L'incontro si svolge in modo concitato, interrotto dalle telefonate che
arrivano ad Arafat da Barcellona. Lo stesso Zinni, inviato del presidente
Bush in Medioriente, è arrivato da poche ore a Gerusalemme. Non ci sono i
laburisti israeliani, non è stato possibile garantirne la sicurezza. Due i
punti cardine per la delegazione palestinese: l'iniziativa saudita ed il
vertice di Beirut della Lega araba. L'ultima risoluzione del Consiglio di
sicurezza dell'Onu che ribadisce il diritto dei palestinesi ad uno Stato è
salutata con favore. Rabbo - ministro dell'informazione palestinese -
definisce la situazione del suo popolo non dissimile da quella vissuta dalla
popolazione di Sarajevo e lamenta l'assenza di un'opposizione reale al
governo di Sharon.
Nel pomeriggio incontriamo Yossi Belin, uomo di punta della coalizione
israelo-palestinese, che spinge per un dialogo ed è critico con il suo
partito al governo. Belin rovescia il ragionamento di Shimon Peres, che
l'indomani ci dirà che la presenza dei laburisti israeliani al governo è
utile per non spingere ancora più avanti il conflitto, contenere la spinta a
destra del Likud e di Sharon, lasciare aperto un margine per il negoziato.
Belin, al contrario, ritiene la presenza al governo dei laburisti una
copertura e una legittimazione della politica di Sharon. Sostiene che senza
l'appoggio dei laburisti Sharon non avrebbe spinto così avanti l'escalation
militare. Il punto essenziale dell'iniziativa della "coalizione
israelo-palestinese" è il ritiro dai territori occupati.
Le stesse cose vengono ripetute da Yossi-Sarid (presidente del Meretz) la
mattina dopo, in apertura della sessione del comitato dell'Internazionale
socialista a Tel-Aviv. Considera grave - ripercorrendo le vicende del
recente passato - la non accettazione degli accordi di Taba da parte di
Arafat, "Il terreno del confronto era buono". Quella rottura - sostiene
Sarid - ha consegnato il paese nelle mani di Sharon. Fa risalire al 1967 la
gravità della situazione, sostiene che l'occupazione e gli insediamenti dei
coloni sono degli errori gravi che alimentano il terrorismo. La delegazione
laburista, prima con Benjamin Ben Eliezer e poi con Shimon Peres, ribadisce
la linea della presenza al governo ritenendola essenziale per non consegnare
il paese alle destre. La discussione è difficile, in forme diverse si
manifestano da parte dei partiti socialisti dubbi e perplessità su questa
scelta. Le difficoltà del Partito laburista sono evidenti, se la situazione
non dovesse mutare potrebbe accentuarsi uno scontro durissimo e dagli esiti
incerti.
Nella mattinata del giorno dopo incontriamo, all'università di Gerusalemme,
Sari Nusseibeth. E' un esponente della coalizione israelo-palestinese che
cerca di mantenere aperto il dialogo nella società civile, è tra coloro che
ritengono fondamentale questo dialogo: si tratta di un investimento per il
futuro. In mattinata, abbiamo visitato Betlemme con il console italiano e
con il padre francescano Ibrahim. Siamo stati dalle suore che vivono vicino
al campo profughi, poco lontano da un insediamento di coloni. Quella zona,
come tutta Betlemme, è occupata dai carri armati. Abbiamo visto in
prossimità del convento una casa dove due famiglie palestinesi "convivono"
con una pattuglia militare israeliana che alla nostra vista si affaccia
facendo cenno di allontanarci. Questa è la nostra ultima tappa, prima della
partenza. Ci restano pochi minuti per salutare le suore, padre Ibrahim e
tornare all'albergo American Colony a Gerusalemme. Nel cortile soleggiato
dell'hotel, sotto gli alberi di frutta, consumiamo un piccolo pasto e un
profumato caffè arabo.
Poche ore dopo, sull'aereo che ci riporta a Roma, non posso fare a meno di
sentirmi paradossalmente sollevato. Abbiamo lasciato alle spalle una
situazione tragica, dove la vita di ognuno resta in pericolo se non ci
saranno due Stati e due popoli con reciproche garanzie di sicurezza e
stabilità. L'Europa, l'Italia e la sinistra europea devono fare la loro
parte per riaprire il dialogo tra israeliani e palestinesi.






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