missioni italiane all'estero-E. Deiana



Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 117 del 18/3/2002

Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Ascierto; Molinari;
Migliori; Lavagnini: Disposizioni concernenti il trattamento giuridico ed
economico del personale delle Forze armate e dei Corpi armati dello Stato
impiegati in operazioni di pace, per esigenze di ordine pubblico, in
occasione di pubbliche calamità e in servizio all'estero
(1038-1108-1142-1514)(ore 15,33).

ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, il gruppo di Rifondazione comunista è
contrario alla proposta di disciplina giuridica ed economica del personale
militare impiegato in missioni internazionali. La finalità dichiarata dalla
proposta in esame è quella di definire un quadro normativo uniforme per la
disciplina dei profili attinenti al trattamento giuridico, assicurativo,
retributivo e previdenziale del personale impegnato in ciascuna missione.
In questo modo si intende rispondere alla necessità di una disciplina
stabilmente applicabile alle missioni. Necessità che è stata più volte
sottolineata nei pareri resi dal Comitato per la legislazione della Camera
dei deputati, in occasione dei diversi decreti-legge che hanno presieduto
all'invio delle missioni italiane. Il Comitato ha anche lamentato il fatto
che la partecipazione di contingenti italiani a tali missioni, al di fuori
del territorio nazionale, non sia oggetto, nel nostro ordinamento, di una
specifica ed organica disciplina normativa. Non crediamo che una tale
materia possa rimanere confinata in un ambito meramente tecnico-burocratico,
senza fare i conti con la necessità di una discussione ampia sul contesto
politico e strategico odierno in cui la proposta viene avanzata.
Si rischia di introdurre un elemento di razionalizzazione della prassi di
inviare missioni italiane all'estero, un automatismo vincolante per la
regolazione di missioni rispetto alle quali - noi pensiamo - occorrerebbe un
dibattito a tutto campo, ovvero una rimessa in discussione delle ragioni che
sono state all'origine di questa escalation della partecipazione italiana
alle missioni.
Un passo avanti su questa scia, senza un dibattito parlamentare adeguato - e
non c'è nessun dibattito parlamentare adeguato -, costituisce per noi il
rischio di un'ulteriore deriva acostituzionale in cui è stata spinta, ormai
da diversi anni, l'intera materia dell'uso della forza militare e del
concetto di difesa. Come deputati del gruppo di Rifondazione comunista siamo
contrari a questo passaggio parlamentare proprio per le ragioni che ho
dianzi espresso. Riteniamo che sull'insieme di questa materia non si possa
procedere come si sta facendo, attraverso aggiustamenti successivi,
adattamenti che paiono di routine, quali la disciplina dei diritti
patrimoniali dei militari, sotto il pretesto di rendere razionale una
materia che sfugge oramai a qualsiasi razionalità di politica
internazionale, o perlomeno che risponde ad una razionalità che noi non
condividiamo affatto.
Con le missioni italiane all'estero - questo è il nostro giudizio -,
concorriamo oramai apertamente a legittimare e sostenere un contesto
internazionale segnato drammaticamente dalla rottura di ogni regola e di
ogni vincolo del diritto internazionale e dall'affermarsi del primato della
guerra come strumento di regolazione dei conflitti, dall'evidenziarsi di
nuove gerarchie e gerarchizzazioni tra paesi e zone del mondo, foriera di
dinamiche devastanti, di contrapposizioni, di scontri e di nuovi conflitti.
La logica delle missioni è quella di portare la pace dopo aver fatto la
guerra: è una logica nefasta e micidiale! Non si tratta di pace: sono azioni
di controllo del territorio che noi riteniamo radicalmente negative. Dopo la
guerra in Afghanistan, mentre prosegue l'operazione Enduring freedom col suo
carico inquietante di sempre nuovi esiti bellici contro altre zone del
mondo, si dovrebbe avvertire in questa sede parlamentare la necessità
urgente ed improcrastinabile di una seria pausa di riflessione, cercando di
non attivare altri automatismi di tipo militare e bellicistico, e di
bloccare invece quelli che già stimolano le logiche di guerra.
Tutto quello che riguarda l'impegno italiano, in politica internazionale,
dovrebbe essere oggi sottoposto ad un severo giudizio: ci si dovrebbe
sforzare di capire se le cose vadano nel senso giusto e se alle parole, alle
intenzioni dichiarate, corrispondono i fatti.
Per l'operazione di partecipazione italiana ad Enduring Freedom è stata
approvata una legge che ripristina il codice penale militare di guerra.
Nella proposta di legge in discussione oggi, un emendamento del Governo ha
cancellato l'articolo 2, che collocava le missioni sotto il codice penale
militare di pace. Vorremmo una spiegazione: non si fa riferimento al codice
di guerra, ma il vuoto giuridico che si è aperto è inquietante o, perlomeno,
non rassicurante.
Il contesto internazionale - a nostro giudizio anche prima dell'11
settembre, ma, dopo l'attentato alle Torri gemelle di New York, in modo
paradigmatico e ineludibile - conferisce al nostro impegno militare
all'estero, qualsiasi siano le intenzioni formalmente dichiarate, le
iniziative, le attitudini e le azioni che i militari italiani realizzano
laggiù (alcune delle quali - quasi tutte - possono essere anche ispirate da
nobili sentimenti), il carattere della complicità con le strategie di guerra
messe in atto e minacciate dagli Stati Uniti e appoggiate, in misura certo
diversa, ma sostanzialmente convergente, da tutti i grandi paesi
occidentali, Italia compresa. Si tratta di complicità con la guerra e con
una politica della difesa che non ha più nulla a che vedere con le
caratteristiche che ad una tale politica attribuiva la Costituzione
italiana - attribuisce, almeno fino a quando resterà in vigore -, ma si
trasforma in uno strumento di intervento, utilizzato per subentrare dopo la
guerra: guerra e dopoguerra, all'insegna della forza militare, per
presidiare, controllare e colonizzare i territori su cui prima è stata
scatenata la guerra.
Siamo nel quadro di una ormai avvenuta metamorfosi negativa del concetto
nobile di difesa, che provvedimenti come quello oggi in discussione non
fanno che assecondare e potenziare ulteriormente, depotenziando il controllo
parlamentare sull'uso della forza militare e contribuendo all'assuefazione
dell'opinione pubblica sull'uso militare come normale strumento di
intervento nelle faccende internazionali. In tal modo, i concetti di difesa
e di guerra subiscono, inevitabilmente, un continuo slittamento di senso,
oltre che di pratica concreta: la difesa non è più tale, ma è intervento
attivo sulla scia della guerra, giustificata con la solita bugia sistematica
«perché non ci sono alternative». Dieci anni di guerra alle spalle ci dicono
che le cose stanno esattamente così. Come si fa ad approvare questo
provvedimento, se non è chiaro come finirà in Afghanistan, se il Governo non
ci dice nulla su una guerra che è finita, ma che continua, violando tutti i
diritti internazionali, tutti gli articoli che fino a ieri presiedevano alla
salvaguardia di una minima civiltà delle relazioni internazionali tra i
paesi e tra le diverse zone del mondo? Soprattutto, come si fa ad approvare
questo provvedimento se non sappiamo - perché il Governo continua a tacere -
se ci sarà nei prossimi mesi una missione italiana che si recherà a Baghdad
per un'operazione di peacekeeping?
Noi non crediamo che possano essere presi provvedimenti di nessun tipo in
questa materia se prima non si chiarisce il complesso della materia
strategica e politica entro cui decisioni italiane di questo genere possano
essere assunte.
Per tutte queste ragioni preannunciamo il nostro voto sarà contrario.






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