VIAGGIO NELL'INSEDIAMENTO DI NOQDIM



(Il Mattino)

DALL'INVIATO A NOQDIM
VITTORIO DELL'UVA
L'immigrato russo Yuli Gelchinsky, che un tempo faceva l'ingegnere a
Katerinburg, è felice di guadagnarsi la vita tenendo tra le mani la
mitraglietta Uzi e cercando di penetrare i segreti della notte. Gli passano
l'equivalente di circa cinque euro l'ora per fare la ronda a bordo di un
pick-up lungo le stradine spesso sterrate di Noqdim, uno degli insediamenti
di Israele in terra beduina. Parla a fatica l'ebraico, ma è felice che i
suoi nipotini, resi orfani un paio di settimane fa da cecchini palestinesi
si esprimano nella lingua dei Padri. «Qui siamo in Giudea e non capisco che
cosa pretendano gli arabi», dice cercando a gran gesti il consenso di Yossi
Halfon, uno dei riservisti «comandato» alla difesa del settlement. I
cinquecento coloni di Noqdim vivono all'ombra di un paio di miti che li
rende irriducibili prigionieri della fede e della politica oltranzista. Tra
loro ha preso casa Avigdor Libermann, già ministro delle Infrastrutture
uscito dal governo Sharon di cui non condivideva scelte che giudicava
«moderate». Non c'è metro di strada fino alla non lontana Betlemme su cui
non si facciano pesare, scegliendo le «giuste» letture, ipotetiche opzioni
bibliche. Nessun «laboratorio della pace» potrebbe mai sorgere su queste
colline spazzate dal vento, disseminate di posti di blocco che molto
assomigliano a frontiere fortificate.
L'italiano Michele Amir, che è passato dal laicismo romano a più convinte
professioni di fede, pur restando un moderato, apre volentieri le porte
della propria casa i cui lavori non sono ancora ultimati. Gli è costata
centoventimila dollari. Per ottenerla ha dovuto superare l'esame del
segretariato dell'insediamento e quindi dell'Agenzia ebraica. Sua moglie,
Ifàt, conosciuta ad Efrat, ha rappresentato la migliore credenziale di cui
potesse disporre. È una buona madre e si vede. Proviene da una famiglia di
coloni nota per la sua religiosità. Ma soprattutto è di convinta di dover
esercitare un «diritto morale e divino» sulle terre in cui ha deciso di
stabilirsi e far crescere, Zwi e Osher, i suoi due vivacissimi figli, di 4 e
2 anni, destinati ad avere lunghe treccine e abiti neri.
«Entra in pace ed esci in pace», è scritto a lato della garitta dell'
esercito che a Noqdim sorveglia il viale di ingresso per meglio proteggere
105 famiglie. Molte delle case hanno meno di dieci anni. Presto sorgerà una
nuova sinagoga. Intorno si intravedono cantieri dove le cose vanno a rilento
da quando la manovalanza araba, costretta dal bisogno a sgobbare per il
nemico, ha perduto la libertà di movimento. Dal giorno in cui governa, Ariel
Sharon ha autorizzato altri 34 insediamenti integrando quasi del venti per
cento quelli esistenti. Ma la contabilità potrebbe risultare errata per
difetto. Nuovi settlement in costruzione a qualche centinaio di metri dei
vecchi vengono fatti passare per «incontestabili» propaggini dei nuclei
originari.
Non sembra una gran vita quella dei rosicchiatori, in nome della ortodossia,
delle terre arabe. Moqdim è al centro di un vasto recinto circondato da una
rete metallica. Di basso profilo si rivela la sua vita sociale. Se durante
lo shabbat, che andrebbe rispettato con il disimpegno totale, un salto di
tensione fa scattare il «salvavita» è necessario concordare con il rabbino
una soluzione che consenta di alzare la leva di un interruttore. Dispute
teologiche possono svilupparsi intorno a un biberon rimasto, nelle ore
dedicate al Signore, dentro un forno a microonde, il cui sportello, se
aperto, fa brillare una luce. Nella sinagoga, da cui si dominano le vallate
«nemiche» alcuni ci vanno portando in tasca il breviario e la pistola alla
cintola.
La sfida continua e può essere anche pagata con la vita. Appena il mese
scorso a Noqdim sono stati celebrati i funerali di due coloni caduti in un
agguato lungo la strada che costeggia Zadra, il più vicino villaggio
palestinese. Al lavoro e a scuola si va a bordo di autobus blindati cui
sempre più spesso l'esercito deve aprire la strada fino alla «blindata»
statale. Ma è un prezzo che molti giudicano se non equo, almeno dovuto nell'
osservanza di principi religiosi, che impastati con l'insofferenza, si
trasforma in odio nei confronti degli arabi.
Immersi nel proprio fervore i coloni si tengono lontani dalle dinamiche
politiche che pur si sviluppano nella zoppicante alternanza tra processo di
pace e conflitto. A una minoranza, guardata con sospetto, appartengono
quanti ammettono che se un giorno gli insediamenti dovessero essere
abbandonati, «non ci si potrebbe opporre all'esercito». Ogni ipotesi di
negoziato fa impallidire. «Ogni rinuncia indebolisce lo Stato», è la
linea-guida negli avamposti in cui 200mila e più oltranzisti si sono
collocati innalzando la bandiera di Israele in Cisgiordania e Gaza. «Io
credo nell'etenità del popolo di Israele. Dio non ha permesso ai nazisti di
annullarci e non lo consentirà ai palestinesi», è il messaggio che Ifàt Amir
trasmette ai suoi figli. La sua amica Timna e suo marito Asher Elper,
immigrato dalla Bielorussia, sono su posizioni ancor più «avanzate». «Il
problema lo si potrebbere risolvere in due giorni. Basterebbe arrestare la
banda dell'Anp e liberare il governo palestinese dall'influenza di Al Fatah
e dei poliziotti palestinesi venuti da Tunisi. Dopo tutto sono soltanto
trentamila persone. Poi basterà cacellare l'autonomia ritornando alla
situazione prededente».
Per gli spiriti «eletti» di Noqdim il processo di pace avvicina soltanto «il
prossimo olocausto del popolo ebraico» e Yasser Arafat è un assassino il cui
potere «nemmeno è stato legittimato dal popolo». Intollerabili vanno, poi,
considerati i diritti accampati dai palestinesi su «terre mai lavorate». Nel
nome del Signore si può trascorrere al buio lo shabbat e attestarsi a mano
armata sulla trincea del disprezzo. Che l'Altissimo non debba,
necessariamente, apprezzare è un dubbio che non sfiora nessuno.

Nello

change the world before the world changes you because  another world is
possible

www.peacelink.it/tematiche/latina/latina.htm