operazione colomba in medio oriente, Hebron



ASSOCIAZIONE
COMUNITÀ PAPA GIOVANNI XXIII
Associazione Internazionale Privata di Fedeli di Diritto Pontificio
Civilmente riconosciuta con D.P.R. 5-7-'72 - n. 596
Iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche presso il Tribunale di
Rimini al n.16



OPERAZIONE COLOMBA
Corpo Civile e Nonviolento di Pace

DOVE OPERATION
Non-violent Peace Corps
Via della Grotta Rossa n.6
47900 Rimini, Italia

Tel. ++39 0541 751498
Fax. ++39 0541 751624

operazione.colomba at libero.it
www.geocities.com/opcol


Un giorno a Hebron  di Andrea Pagliarani , Operazione Colomba


Z. l'abbiamo incontrata ad Hebron, è una donna palestinese come se ne
vedono tante in giro, piccola, robusta e col velo in testa. C'è qualcosa di
particolare però nella sua voce, nel suo modo di sorridere, negli occhi
penetranti e tranquilli.
Il quartiere di Hebron in cui vive è una delle realtà più allucinanti del
conflitto israelo-palestinese.Il 20 per cento della città è presidiato
militarmente dai soldati israeliani, a causa dell'insediamento che ospita
400 coloni ebrei piazzato in pieno centro storico. Nella stessa zona vivono
anche più di 20.000 palestinesi costretti a sottostare ad una serie di
ingiunzioni che servono alla sicurezza dei coloni, la più dura ed
inaccettabile di queste è quella del coprifuoco, appena succede qualcosa,
appena succede un incidente dalle parti di Hebron, a tutta la popolazione
del quartiere viene imposto un coprifuoco di 24 ore su 24: vuol dire che
nessuno pur uscire dalle proprie case ne per andare al lavoro, ne per fare
la spesa, spesso nemmeno per andare a scuola o per motivi medici. Z. è una
di queste persone. Provare a mettere per iscritto e descrivere l'atmosfera
è impossibile, le strade sono deserte, i negozi sprangati, si vedono solo
militari e coloni in giro. sembra quasi un quartiere semidisabitato, non si
direbbe che dietro alle finestre, al di là delle porte chiuse, all'interno
di quelle mura con i portoni sbarrati ci siano migliaia di persone,
esattamente come cento metri prima dei blocchi di cemento, dove la città è
sotto controllo palestinese e ferve con la confusione del mercato, le urla
dei venditori, i clacson dei taxi. Ogni tanto sbuca da un balcone o da una
finestra sbarrata il volto di un bambino che ci
saluta o ci indica di fare attenzione perché più avanti i militari hanno
fermato un'ambulanza o hanno picchiato e arrestato qualcuno. Pensiamo che
questo è il dodicesimo giorno consecutivo di coprifuoco, dodici giorni in
cui
quei bambini non sono usciti a giocare, dodici giorni di prigione. Entriamo
nella casa di Z. assieme a dei volontari americani che sono li da anni e
che cercano di essere dei deterrenti alla violenza e di promuovere
iniziative
nonviolente. Z. ci offre il tè, e comincia a parlare con tono tranquillo,
senza melodrammi. ci racconta del famoso massacro del 1994 a opera di un
colono, in cui 29 palestinesi intenti a pregare nella moschea sono stati
falciati da raffiche di mitra, e soprattutto ci racconta della
quotidianità, dei coloni che non sono semplicemente fanatici religiosi
convinti di difendere la loro terra sacra (Hebron è il luogo in cui secondo
la tradizione è nato il popolo ebraico, con la manifestazione di Dio ad
Abramo), sono persone abituate ad uccidere, criminali comuni. Ci parla del
suo rapporto con i militari, che spesso e volentieri le sono entrati in
casa e addirittura non le permettevano di stare sul tetto della sua casa,
dove lei aveva improvvisato un piccolo orticello; il militare sul suo tetto
la maltrattava ogni volta che saliva a innaffiare le piante, dicendole cose
volgari e umilianti, poi ha iniziato ad urinare dentro le taniche
dell'acqua, quell'acqua che serve per uso domestico. Lei gli ha detto di
smetterla, ma senza risultato, fino al giorno in cui gli ha detto che se
non l ' avesse
finita e non le avesse permesso di pulire la tanica lo avrebbe sbattuto giù
dal tetto; il soldato è andato a lamentarsi con i superiori, dicendo che
era stato minacciato e lei, ridendo del fatto che un soldato armato fino ai
denti potesse sentirsi minacciato da una donna, ha accettato di farsi
interrogare, di mettere per iscritto le sue dichiarazioni per denunciare il
comportamento del soldato, che evidentemente violava ogni forma di regola
di comportamento. Non mollava Z., chiedeva la punizione per quel militare ,
è una donna istruita che conosce le leggi e i propri diritti, e quella
volta
aveva messo proprio in difficoltà i suoi interlocutori. Si è risolto tutto
con un chiedere scusa, dire che in fondo era un bravo ragazzo, e che non
voleva fare niente di male; il suo commento è stato:" vedete, se uno non
conosce i priori diritti o non è abbastanza energico per farli valere, può
solo tacere e subire; io che sono istruita e testarda ho ottenuto solo che
il soldato venisse trasferito : questa è la nostra situazione". Continua
"Giorni dopo l'ho incontrato di nuovo in strada, stava maltrattando un
ragazzo, e mi sono fermata ad osservare. Anche in quell'occasione sono
stata insultata e umiliata, ma io non ho mollato, non stavo facendo
nient'altro che osservare; il soldato, pur di non farmi tornare dal
superiore, e ripetere l'esperienza della volta precedente, mi ha chiesto
scusa, e non mi ha più importunato".
Z. ci porta poi sul tetto della sua casa, a dare un 'occhiata e vediamo
qualcosa che non ci saremmo aspettati: tutte le persone che per strada non
si vedono, tutti i reclusi, sono sui tetti a prendere il sole,
chiacchierare, ascoltare musica; i bambini vanno da un tetto all'altro (le
case sono tutte attaccate e col tetto a terrazza) e giocano. Z. ci mostra i
militari appostati più in alto, che ci guardano col binocolo e osservano
tutti. Ogni tanto le urlano "va in casa, va in casa" e lei gli urla di
rimando "sono già a casa". Come quella volta che avevano barricato
l'ingresso della sua via con sbarre
di ferro, reti e filo spinato e lei con indifferenza ha iniziato a smontare
tutto; i militari le hanno urlato "sei pazza! come ti permetti? cosa stai
facendo?" e lei "sto semplicemente andando a casa, come volete voi". La
nostra visita è finita, Z. ci accompagna alla porta e ci fa strada per
cinque metri lungo la via. Subito arrivano i soldati, sono arrabbiati, la
chiamano e le dicono di avvicinarsi. Sostengono che lei ha violato il
coprifuoco, perché è uscita dal portone. Inizia il dialogo, e troviamo
conferma ai racconti ascoltati poco prima, veramente non molla mai questa
donna, in questo caso le sarebbe bastato annuire e rientrare in casa per
evitare problemi, ma vuole evidentemente approfittare della nostra presenza
per renderci partecipi dal vivo di quello che ci ha raccontato. Il militare
le parla in ebraico, e la nostra presenza gli da chiaramente fastidio. Z.
lo sa bene, ogni frase che il soldato le dice subito la traduce a noi.
''sta dicendo che io non posso ricevere visite perché sono sotto il
coprifuoco'' e ancora "sostiene che i bambini non possono andare a scuola
perché c'è il coprifuoco" e via cosi. Vanno avanti a parlare, il soldato
sempre più in difficoltà, forse si trattiene anche perché ci siamo noi
stranieri, lei sempre tranquilla. Alla fine i soldati se ne vanno, danno
l'impressione di conoscerla bene quella donna che crea sempre un sacco di
grattacapi, e lei non perde neanche quest'occasione e dice loro in inglese,
di modo che possiamo capire anche noi: "scusatemi, mi dispiace crearvi
sempre così tanti problemi" poi, voltandosi verso di noi "sono così
contenta di averlo fatto" noi la salutiamo e allontanandoci commentiamo che
forse ha esagerato, forse non dovrebbe provocare così sfacciatamente.
Pensandoci bene però sono contento che ci siano persone come Z. che amano
"fight nonviolently (combattere in modo nonviolento)" come dice lei, e che
sono un esempio per chi crede in questo tipo di lotta, una speranza per chi
è schiacciato dall'oppressione e non trova la forza di reagire, e un monito
per tutti coloro che credono nella violenza come strumento di lotta sia
essa di oppressione o di liberazione.
Z. ha promesso che ci manderà i suoi articoli, ha intenzione di raccontare
quello che succede, le storie della gente. Noi aspettiamo fiduciosi, e
speriamo di trovare qualcuno disposto a pubblicare qualche articolo un po'
"scomodo".