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Quirra: rassegna stampa
- Subject: Quirra: rassegna stampa
- From: "Marcao" <caomar at tiscalinet.it>
- Date: Thu, 28 Feb 2002 14:39:52 +0100
OGGI 21-2-02 La Nuova Sardegna ha pubblicato l'orrore che preannunciavo da tempo. <Quirra, i numeri della paura. Escalaplano:negli anni 80 sono nati almeno nove bambini deformi>. Scusate ma non so scaricare gl articoli. Mariella 19\02\2002 BASI MILITARI. Denunciata anche la tragica fine di un allevatore che aveva l'ovile vicino a Capo San Lorenzo Uranio, altre morti sospette Monitoraggio ambientale e screening sulla popolazione? P.M. VILLAPUTZU. Contaminazioni radioattive: emergono altre morti sospette. La famiglia di un pastore con l'ovile vicino a Capo San Lorenzo ha denunciato la sua tragica fine, ponendola in rapporto alle esercitazioni belliche. VILLAPUTZU. I sospetti cominciano a trovare drammatiche conferme: si sono verificati altri casi di tumore del sistema emolinfatico nell'area di Quirra, oltre quelli denunciati nei giorni scorsi dal medico Paolo Pili. Basta infatti solo allargare l'arco temporale di riferimento, per trovare ulteriori conferme: intorno alla base militare di Capo San Lorenzo, è accaduto qualcosa di terribile. Qualcosa che ha contribuito ad elevare oltre ogni soglia statistica fisiologica, l'incidenza di leucemie e linfomi. Come una semina maligna di dolore e di morte. Ecco, infatti, l'ennesima denuncia. Si tratta di un allevatore che si è spento tra atroci sofferenze nel 1986. La diagnosi dei medici del reparto doi ematologia dell'ospedale di Nuoro non lasciava molte speranze: leucemia. Il fatto ci è stato riferito dalla figlia, che ha chiesto di mantenere l'anonimato. Una richiesta più che legittima e che deve essere rispettata. Il suo racconto ci offre però alcuni elementi, che sono estremamente utili per catalogare l'ennesimo caso in quello che è ormai diventato il "caso Quirra". L'uomo, infatti, viveva nella frazione di Villaputzu, a ridosso della base militare di Capo San Lorenzo. Di più: aveva un'azienda agricola proprio vicino alla recinzione che separa il Sarrabus dall'universo separato delle "stellette". Oltre ai dieci casi denunciati dal dottor Paolo Pili e oltre ai due casi accertati all'interno della base, eccone dunque ancora un altro. La tragica contabilità è ora salita a tredici. Insomma, a questo punto i timori del sindaco Antonio Pili sono più che giustificati. «Io ho vissuto lì per tanti anni - dice la figlia dell'allevatore morto nel 1986 e che da anni si è trasferita lontano da Quirra - e posso assicurare che i casi di un certo tipo di malattie, in quella zona, sono molti di più di quelli emersi finora». E mentre le stellette stanno ancora a guardare, il mondo della politica regionale continua a mostrare una vergognosa indifferenza rispetto al "caso Quirra". Nessun pronunciamento, anche di maniera. Nessun impegno di verifica come risposta alla coraggiosa denuncia del sindaco di Villaputzu, Antonio Pili. E' un silenzio assordante che qualifica politicamente chi finge di non accorgersi che, in un lembo dimenticato e disperso della Sardegna, si sta silenziosamente consumando un dramma. Ogni altro commento è semplicemente inutile. 16\02\2002 Il sottosegretario alla Difesa Cicu: «Faremo chiarezza sul poligono» Il governo promette accertamenti su Capo San Lorenzo dopo i dodici casi di leucemia e di linfoma a Quirra Interrogazione del senatore Malabarba a Martino dal nostro inviato Piero Mannironi VILLAPUTZU. Ormai le rassicurazioni di maniera non bastano più: se non le si puntella con i fatti, hanno solo il peso lieve delle parole. Cioé, servono poco o nulla. Il "caso Quirra" è infatti un'inquietante eccezione statistica che deve essere interpretata e spiegata. Davanti a dieci casi di tumore del sistema emolinfatico in una frazione di appena 150 anime, non si può continuare a far finta di niente. Come se non bastasse, poi, altri due casi sono stati registrati tra il personale militare della base di Capo San Lorenzo. E' vero: non c'è il conforto scientifico di un'indagine epidemiologica in grado di dare il crisma formale dell'anomalia. Ma basta un po' di buonsenso e la voce dell'esperienza professionale di un medico di base, per capire che, nell'area del poligono di Capo San Lorenzo, sta accadendo qualcosa di strano. Di drammaticamente strano. Il sospetto che in quell'area siano state usate armi all'uranio impoverito, cioé quello che i militari chiamano depleted uranium, è oggi molto forte. Poi, come se non bastasse, ha contribuito a diffondere una giustificata inquietudine, la notizia che sul Monte Cardiga sono state trovate tracce di Cesio 134 e Cesio 137. Per capire di cosa si tratta, basti dire che la nuvola radioattiva sprigionatasi dalla centrale di Chernobyl, era composta di Cesio 134. E che il caso sia di estrema delicatezza, lo si capisce dalle parole del sottosegretario alla Difesa, Salvatore Cicu. Dopo le smentite secche e irritate dei giorni scorsi, Cicu è tornato ieri sul problema con un atteggiamento più prudente. Forse perché la morte per leucemia, proprio l'altro ieri, di un dipendente civile della base di Capo San Lorenzo, è stata una crudele coincidenza che ha in qualche modo vaporizzato dichiarate certezze. «Per quanto riguarda i pericoli derivanti dall'utilizzo di munizionamento all'uranio impoverito - ha detto il sottosegretario alla Difesa - al ministero non hanno mai abbassato la guardia: le indagini e gli accertamenti stanno proseguendo e ad aprile Mandelli fornirà altri risultati derivanti dalle ricerche della sua commissione. Comunque, le preoccupazioni sorte in Sardegna dopo il verificarsi di altri casi sospetti a Quirra, meritano tutto il nostro impegno a far chiarezza con ogni indagine esperibile in modo trasparente e rapido». «Al momento confermo quanto ho detto a Perdasdefogu proprio la scorsa settimana - ha continuato Cicu -. Ovvero che, esaminati i documenti militari del poligono, non si rileva negli ultimi dieci anni nessuna attività addestrativa e sperimentale in cui sia stato utilizzato munizionamento all'uranio impoverito». «Ma di questo anche la popolazione deve esserne certa e deve sentirsi tranquillizzata - ha concluso Cicu -. Quindi, sin dai prossimi giorni, chiederò incontri con gli esperti medici e scientifici e con i vertici della sanità militare. E chiederò loro di poter mettere a disposizione dell'opinione pubblica prove e ricerche che fughino ogni dubbio e facciano chiarezza sulla situazione di Quirra». Un impegno formale, quindi. Ma il sottosegretario non sfiora neppure quella che è la vera contraddizione sulla quale si è sviluppato il dibattito sull'uranio impoverito. Il governo, infatti, mentre da una parte nega che il depleted uranium possa essere una delle cause dell'insorgenza di tumori del sistema emolinfatico, dall'altra afferma che l'uso di armi con questo tipo di munizionamento è proibito nei poligoni italini. Ma come, se si sposano i risultati della commissione Mandelli secondo la quale l'uranio non è pericoloso, per quale motivo se ne deve vietare l'uso nelle aree di sperimentazione e di addestramento? Il problema vero è che nessuno nega oggi alle "stellette" il diritto di sperimentare tecnologie innovative. D'altra parte è del tutto evidente che i nostri soldati non possono essere inviati in scenari di guerra, senza che venga loro garantito un certo livello di sicurezza operativa. E siccome è notorio che molti eserciti utilizzano da anni munizionamento al depleted uranium, è logico che venga sperimentata la tenuta delle corazzature dei nostri carri armati (i Leopard e gli Ariete). Tra l'altro, è ormai notorio che il sistema più efficace per contenere l'effetto devastante dei proiettili all'uranio impoverito è proprio quello di ricorrere a corazzature dello stesso materiale. Il problema, quindi, è quello di un rapporto leale e trasparente con il personale militare e con la popolazione civile. Insomma, devono esistere dei protocolli affidabili di sicurezza che tutelino la salute di tutti. Non un problema di ostilità ideologica nei confronti dei militari, quindi, ma un problema di civilà e di etica, oltre che un problema politico. Come era inevitabile, intanto, il "caso Quirra" è arrivato in Parlamento. Dopo l'interrogazione del diessino Rossano Caddeo, ieri è stata presentata un'altra interrogazione al ministro della Difesa Martino dal senatore di Rifondazione Comunista Luigi Malabarba. «Le norme che regolano l'attività dei poligoni di tiro prevedono, in particolare per i poligoni sperimentali - scrive Malabarba -, la sperimentazione di tutte le armi in uso, con particolare riguardo alla valutazione della vulnerabilità dei nostri mezzi rispetto all'offesa da parte di armi potenzialmente impegate dal nemico. Le armi all'uranio impoverito sono ormai in uso da molti anni da parte di numerosi paesi, tra cui Usa, Russia, Gran Bretagna ed ex Jugoslavia». Dopo questa premessa, Malabarba chiede risposte al ministro della Difesa su quattro punti. E cioé: 1) se sia stato sperimentato, in quanto assolutamente doveroso, l'impiego di armi all'uranio impoverito nei riguardi della vulnerabilità dei nostri mezzi blindati e corazzati; 2) per quali motivi nei nostri poligoni dovrebbe essere proibito l'uso di queste armi, visto che Forze armate italiane ritengono che l'uranio debba ritenersi innocuo per il personale; 3) se esistono disposizioni che vietano ai militari stranieri che utilizzano i poligoni italiani, di fare uso di proiettili all'uranio e per quali motivi; 4) se esistono mezzi di controllo per verificare che i paesi stranieri si attengono alle norme eventualmente emanate dall'Italia che proibirebbero l'uso di queste armi. Domande legittime che attendono una risposta doverosa: il "caso Quirra" fa paura. cuore segreto della Sardegna Nel poligono di Perdas si sperimentano armi da mezzo secolo Giancarlo Bulla VILLAPUTZU. Da quasi mezzo secolo è considerata una delle aree militari più importanti del Paese. E non solo. Perchè in questo territorio aspro e tormentato si sono sperimentate armi di tutti i tipi. Armi del nostro esercito, ma anche armi di nazioni alleate e, qualche volta, perfino di nazioni che, almeno secondo la politica ufficiale dei nostri governi, erano da considerarsi nemiche. Come la Libia. E qui l'industria delle armi da decenni testa i suoi giocattoli di morte. Il "Poligono sperimentale di addestramento interforze del salto Quirra" sorge nella parte sud orientale della Sardegna, in una regione trova a cavallo delle provincie di Cagliari e Nuoro. E' suddiviso in due grandi e complessi sottoinsiemi: un «poligono a terra» con sede a Perdasdefogu e «un poligono a mare», con sede a Capo San Lorenzo. Il primo occupa una superficie di circa 12 mila ettari e si estende su tutta quella zona del Salto di Quirra che, partendo dai confini sud-orientali dell'abitato di Perdasdefogu, arriva quasi ai margini della baia di Capo San Lorenzo. Il secondo occupa invece una superficie di 2000 ettari e si estende per quasi 50 chilometri lungo il tratto orientale della costa compreso tra Capo Bella Vista a nord (Arbatax) e Capo San Lorenzo a sud (Villaputzu). La storia del poligono comincia nella seconda metà degli anni '50, quando i vertici dell'aeronautica militare italiana avvertirono la necessità di disporre di un poligono di tiro per la sperimentazione di nuove armi. Soprattutto quelle missilistiche. Lo stato maggiore dell'Aeronautica, con la disposizione emanata sul foglio d'ordini numero 24 del 20 agosto 1956, costituì il «Poligono di armamento aeronautico del Salto di Quirra», che veniva posto alle dipendenze della direzione generale delle armi e munizioni e del comando aeronautica della Sardegna che ne curavano rispettivamente «l'impiego e le questioni territoriali, di presidio, logistiche, amministrative contabili e disciplinari». Il poligono nacque essenzialmente per scopi scientifici. E più precisamente, per le ricerche metereologiche spaziali, sperimentali e per l'esecuzione di prove in volo di vari prototipi di missili aerobersagli e addestrativi. Dopo l'atto formale di costituzione, vennero avviati i lavori per realizzare le prime strutture operative della base di Perdasdefogu. Il 25 ottobre del 1956 l'inizio delle attività, con una serie di lanci di missili «Contraves», che si concluse 2 giorni dopo. Successivamente, lo stato maggiore della difesa il 1º luglio del 1959 decise di rendere il poligono di armamento «scientifico aeronautico» interforze e assunse l'attuale denominazione. Con dispaccio del 28 agosto 1962 lo stato maggiore aeronautico istituì, dopo aver incorporato la baia esistente tra Capo San Lorenzo e Torre Murtas, il distaccamento del poligono del Salto di Quirra con sede a Capo San Lorenzo. Dopo lo scioglimento del consiglio tecnico scientifico della difesa, fine giugno 1980, il poligono passò alle dirette dipendenze dello stato maggiore dell'Aeronautica. 12\02\2002DALLA PRIMA PAGINA Gli interessi militari e i diritti fondamentali dei cittadini Piero Mannironi I muri sono caduti. E le ideologie, che per quasi 50 anni sono state il cemento di drammatiche divisioni, sono impallidite. Forse si sono dissolte. Ogni giudizio su quanto è accaduto tredici anni fa, èadesso affidato alla storia: sarà nel divenire del tempo che dovranno essere cercate le risposte per leggere il senso e le conseguenze di questa rottura epocale. Per capire le ragioni vere di un profondo cambiamento dello scenario internazionale e degli equilibri di potere, che hanno portato all'affermazione di certi valori culturali ed economici e alla repentina vaporizzazione di altri. E' all'interno di questo contesto, dentro questa cornice, che dovrebbe cominciare una nuova riflessione sul rapporto tra la Sardegna e le ragioni di Stato, che hanno imposto all'Isola il peso di una presenza militare che oggi appare antistorica. Capire cioé se è arrivato il momento di rivedere il senso della presenza delle stellette e del loro peso nella vita delle nostre comunità. Senza occhiali ideologici, ma con il pragmatismo che nasce dalle nuove esigenze collettive. E che la Sardegna abbia avuto un ruolo fondamentale nello scacchiere internazionale nel dopoguerra non è mai stato un segreto. L'Isola era infatti considerata dal Pentagono, fin dal lontano aprile 1954, «a pivotal geographic location». Ovvero, il cuore, il punto critico, del sistema politico-militare, creato dall'Alleanza atlantica nello scenario europeo. Di più: l'accordo di reciproco impegno, firmato il 26 novembre 1956 tra il Sifar (l'allora servizio segreto militare italiano) e la Cia era basato «da parte statunitense, sul presupposto che i piani dello stato maggiore della difesa italiana prevedessero l'attuazione di tutti gli sforzi per mantenere l'isola di Sardegna». Il grande interesse di Washington per l'Isola è confermato da una nota della Cia del 7 ottobre 1957, nella quale si legge: «La Sardegna è considerata nei piani di guerra degli Usa». Per comprendere a fondo la particolare attenzione per la Sardegna da parte degli americani e del nostro stato maggiore, c'è poi il capitolo di Stay-behind. L'Isola è stata infatti il cuore dell'armata segreta di Gladio, la struttura clandestina, creata per fronteggiare un'eventuale invasione delle truppe del patto di Varsavia, ma anche per combattere una guerra non ortodossa contro la crescita comunista nel nostro Paese. Di più: la Sardegna era considerata tanto preziosa sul piano strategico, che era stato approntato dalla Nato un complesso piano militare, per impedire che l'Isola finisse nelle mani dell'Armata Rossa. Sarebbe cioé diventata l'avamposto più avanzato dell'Occidente nel quadrante mediterraneo. Gli Stati Uniti confermarono il loro interesse per la Sardegna, creando la base d'appoggio per sommergibili nucleari nell'isola di Santo Stefano, nell'arcipelago della Maddalena. Nel 1972, in base a un accordo siglato dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti, su un lembo di Sardegna sventolò la bandiera a stelle e strisce. E Santo Stefano diventò così la base dei sommergibili a propulsione nucleare «hunter killer», della classe Los Angeles: immensi squali d'acciaio, che portano nel loro ventre i micidiali missili Slcm Tomahawk, armati con testate atomiche. Nel 1986 una polemica furiosa incendiò il clima politico: il trattato del 1972 non era stato ratificato dal Parlamento, come invece impone la Costituzione. L'allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini, sostenne la scelta di Andreotti, arrivando a negare l'evidenza. Grossi calibri della politica nazionale, come Mario Segni e l'attuale ministro forzista (allora democristiano) Beppe Pisanu, scesero in campo, difendendo una posizione politica di fedeltà al Patto Atlantico. Nonostante non potessero smentire che la nostra norma fondamentale - la Costituzione appunto - era stata dolorosamente ferita, si mobilitarono per mantere la segretezza di quell'accordo con Washington. Insomma, prevalse la ragion di Stato: si affermò la logica delle alleanze internazionali sul patto sociale e politico, dal quale è nata l'Italia repubblicana. Ma dietro questo scontro politico, sicuramente esasperato dalle contrapposizioni ideologiche, emerse anche un problema delicatissimo. Un problema che deve essere il punto di partenza della nuova riflessione da avviare sul rapporto con l'invadente presenza dei militari. Si scoprì infatti, che l'allora ministro della Protezione civile, Zamberletti, era impotente davanti all'infausta possibilità che un incidente potesse provocare un inquinamento radioattivo nell'arcipelago della Maddalena. «Il piano di emergenza esiste - dichiarò imbarazzato Zamberletti al nostro giornale -, ma non ne posso parlare perché è coperto dal segreto». Come a dire: il piano c'è, ma dovendo restare chiuso in un cassetto, non serve proprio a nulla. Detto in soldoni: come si dovrebbe comportare la popolazione civile, nel caso si verificasse una perdita di radioattività dai sommergibili nucleari statunitensi «hunter killer»? Una domanda che è sempre rimasta senza risposta. E che dire della triste commedia del monitoraggio ambientale? Per rispondere all'allarme creato dalla nascita di alcuni bambini affetti da cranioschisi, venne istituito un sistema di monitoraggio ambientale, che avrebbe dovuto segnalare eventuali anomalie nel livello di radioattività nel mare dell'arcipelago. La competenza di questo controllo venne affidata alla Provincia di Sassari. Ma il professor Parodo, allora docente universitario di fisica e responsabile del servizio di controllo, si dovette presto arrendere: gli americani, infatti, non hanno mai permesso che fosse attivata la centralina posizionata proprio vicino alla nave-officina, alla quale si appoggiavano i sommergibili atomici. Ecco, dunque, la sostanza del problema: possono gli interessi militari sopravvanzare i diritti fondamentali dei cittadini sardi? Qualche decina di posti di lavoro, l'affitto di qualche locale, un'incentivazione al piccolo commercio e la concessione di qualche appalto a un'impresa locale, possono «comprare» il diritto alla salute e alla sicurezza di tutti? Possono giustificare un silenzio che è poi soprattutto una rinuncia? L'interrogativo, poi, ha oggi un peso diverso. La guerra fredda è infatti finita e le ideologie non costituiscono più la radice di una possibile ostilità. E allora, perché non si riesce a costruire un rapporto più trasparente tra stellette e civili? Tra esigenze strategiche e diritti dei cittadini? Il «caso Quirra» ripropone oggi drammaticamente il problema di questo rapporto. L'anomalo aumento di tumori del sistema emolinfatico intorno alla base di Capo San Lorenzo non può restare senza una risposta. Se una Regione troppo lontana, persa nelle sue incomprensibili alchimie politiche, si dimostra indifferente alle legittime paure del sindaco di Villaputzu Antonio Pili, perché i militari non spazzano via le nebbie del dubbio sull'uso di armi non convenzionali nei loro poligoni? Nessuno gli chiede di rinunciare al loro dovere e ai loro compiti. Ma loro devono sentire l'obbligo di garantire la sicurezza del loro personale e dei civili. Usando cautele e prudenze e, soprattutto, assicurando un continuo monitoraggio ambientale e sanitario. I militari non possono pretendere un'apertura di credito senza condizioni, limitandosi a smentire la presenza di scorie di uranio e di cesio nel poligono. Prova evidente di esercitazioni pericolose per la collettività. No, non basta più smentire. D'altra parte, nel Sarrabus, poche centinaia di milioni di lire sono poco più di una elemosina per pagare la rinuncia dei Comuni della zona allo sfruttamento economico di 11mila 727,4471 ettari di territorio commissione Difesa a Nuoro «A Perdas né cesio né uranio» Antonio Bassu NUORO. Per la delegazione della commissione Difesa del Senato, che ieri mattina si è incontrata a Nuoro col sindaco Mario Zidda e il presidente della Provincia, Francesco Licheri, non c'è nessun "caso Quirra" e tantomeno c'è stato uso di cesio 134 e uranio impoverito nel poligono di Perdasdefogu. Lo ha detto il presidente Domenico Contestabile, ribadendo che «la procura militare di Cagliari ha formalmente chiesto i dati relativi alle sperimentazioni fatte, fin dalla nascita, nel poligono di Perdasdefogu, allo scopo di accertare se ci sia stato uso di armi all'uranio e cesio. Stando alle verifiche il test è risultato negativo. Dunque debbo credere alle assicurazioni datemi dai vertici del comando militare. Mi stupisco, oltre a essere deluso, per le preoccupazioni manifestate da alcuni amministratori del Salto di Quirra circa il possibile uso, fatto in passato, di armi con munizioni contenenti uranio impoverito nelle attività di addestramento. Così come sono deluso per la diffidenza mostrata circa le assicurazioni che ho avuto modo di dare agli amministratori di Perdasdefogu sulle attività nella base interforze. Non ci sarà alcun decremento a favore del poligono di Capo San Lorenzo». La certezza viene dal fatto che «recentemente - ha concluso Contestabile - sono stati fatti importanti investimenti per potenziare la sala controllo e la sala comando del poligono di Perdasdefogu. Sarebbe da pazzi, pertanto, abbandonare tutto, in una fase successiva, per spostarsi a Capo San Lorenzo. Ho piena fiducia nel comandante della base, soprattutto per la sua grande professionalità». Il presidente della Provincia Francesco Licheri, dopo l'incontro a porte chiuse, ha detto che, dopo le preoccupazioni manifestate dalle popolazioni e dagli amministratori di Villaputzu e Perdasdefogu l'amministrazione provinciale chiederà ufficialmente alla commissione del ministero della Difesa e alle autorità militari di fare totale chiarezza. Non solo sul futuro di Perdasdefogu, ma anche sulla questione del possibile uso, nella sperimentazione, di armi all'uranio impoverito. 12\02\2002 Quirra, escalation di linfomi e leucemie Tracce di Cesio 134 e 137 all'interno del poligono di Perdasdefogu? Un medico denuncia: «Dieci casi di tumore nella frazione» dal nostro inviato Piero Mannironi VILLAPUTZU. Prima di tutto i fatti. Dati crudi, cioé. E' la premessa necessaria per sviluppare un'analisi che deve essere sterilizzata da tentazioni ideologiche e da possibili riserve mentali. Nessuna pretesa, quindi, di essere interpreti di realtà scomode e nessuna presunzione di offrire verità, inseguendo facili suggestioni. E i fatti sono semplicemente e drammaticamente questi: negli ultimi dieci anni, dieci persone si sono ammalate di tumori del sistema emolinfatico in un'area molto limitata della Sardegna. Alcuni sono morti, altri sono guariti e altri ancora combattono una difficile battaglia per la vita. Stiamo parlando di Quirra, una manciata di case sparse nelle dolci campagne del Sarrabus. Neppure 150 anime. Si tratta di numeri che fanno oggettivamente sballare ogni statistica. In parole povere: a Quirra c'è un'anomalia nell'insorgenza e nella diffusione di malattie come la leucemia, i mielomi e i linfomi. Ma c'è di più: il dato è infatti purtroppo parziale. Perché in questa triste contabilità devono essere computati altri tre casi che, pur essendosi verificati tra persone che hanno vissuto in questa area ristretta, sono stati denunciati altrove. Per essere più precisi, quindi, si deve parlare addirittura di tredici casi di tumore al sistema emolinfatico. Troppi, decisamente troppi per codificare il fenomeno in una semplice anomalia statistica, dettata dal caso. E' perciò necessario cercare di capire, tentare di verificare se esiste un rapporto di causa-effetto che possa spiegare l'alta concentrazione di queste patologie nella frazione di Quirra. Paolo Pili è uno di quei medici che sembrano appartenere a un altro tempo: sempre con la borsa in mano, sempre pronto a correre in casa dei suoi assistiti, con i quali ha un solido rapporto umano oltre che professionale. E' lui che, per primo, ha denunciato il "caso Quirra". E' lui che ha parlato pubblicamente della sua inquietudine di medico e di uomo davanti al proliferare di leucemie e linfomi tra i suoi pazienti. Ma le sue parole, incredibilmente, sembrano essersi perdute in una silenziosa indifferenza. Le autorità sanitarie non hanno infatti disposto accertamenti, non hanno fatto verifiche. Insomma, non hanno fatto proprio nulla per cercare di capire che cosa stia accadendo nella piccola frazione di Villaputzu. «Non sono uno specialista di igiene pubblica e di ricerca epidemiologica - dice Paolo Pili -, ma questo non significa che non posso rilevare e denunciare un elemento che, da medico, non può che allarmarmi. Sia ben chiaro: io non voglio avanzare alcuna ipotesi, non voglio avventurarmi nella ricerca di eventuali rapporti di causa-effetto legati all'insorgenza di questo tipo di patologie. Mi limito soltanto a dire che, in dieci anni, dieci miei pazienti si sono ammalati di tumori del sistema emolinfatico nella sola frazione di Quirra. E per essere più precisi, i casi sono stati riscontrati quasi tutti negli ultimi cinque anni». «L'elemento che mi ha molto colpito - continua -, è che tutti questi casi sono stati riscontrati in un'area molto circoscritta: si tratta di persone che vivevano e lavoravano nel raggio di quattro chilometri intorno alla base militare di Capo San Lorenzo. Per far capire meglio le dimensioni dell'incidenza di questo tipo di tumori, mi sembra importante dire che, nei dieci anni precedenti, a Quirra non sono stati diagnosticati linfomi e leucemie. Ciò che dico, ovviamente, non ha una rilevanza statistica, ma è del tutto evidente che ci troviamo davanti a un'anomalia che deve necessariamente far pensare». Per far capire ancora meglio le dimensioni del fenomeno, Pili offre un altro elemento di riflessione: «In tutta Villaputzu, oltre cinquemila abitanti, in casi di tumore del sistema emolinfatico nello stesso arco di tempo, sono stati solo due. Un'incidenza, insomma, che mi sembra in linea con la media statistica generale». E infatti c'è un dato che, anche se indirettamente, sembra confermare quanto dice Paolo Pili. Nei primi anni Novanta, l'Istituto di Igiene dell'Università di Sassari pubblicò infatti una mappatura sulla diffusione dei diversi tipi di tumore in Sardegna nel periodo compreso tra il 1984 e il 1987. Per essere più precisi, la base di quel lavoro era il rilevamento del tasso di mortalità e non l'incidenza delle patologie neoplastiche. Facendo una comparazione con le altre aree dell'Isola, e adottando l'indicatore omogeneo della mortalità da leucemie, la zona di Villaputzu, Muravera e San Vito non presentava anomalie statistiche. Insomma, la situazione non era diversa da quella del resto della Sardegna. Ecco perché la denuncia di Paolo Pili appare ancora più dirompente: molti elementi fanno infatti pensare che, negli ultimi dieci anni, in quella zona sia accaduto qualcosa che ha favorito l'insorgenza di alcuni tumori. Come non può sfuggire un'altra osservazione del medico: i casi sono concentrati in un'area molto, molto ristretta. Cioé intorno alla base di Capo San Lorenzo e alla Vitrociset, una fabbrica che produce componenti per sistemi d'armamento molto sofisticati. Impossibile, a questo punto, non porsi la domanda: ma c'è qualcosa, nella base o nel poligono, che può avere concorso a questa drammatica escalation di casi di tumore? Come è impossibile non riconsiderare le denunce fatte lo scorso anno dall'ammiraglio Falco Accame, ex presidente della Commissione Difesa della Camerae attualmente presidente dell'Anavafaf. Cioé l'associazione dei familiari delle vittime arruolate nelle forze armate. «Nei poligoni sardi - aveva detto Accame - è stato fatto uso di armi all'uranio impoverito». I militari hanno sempre smentito, ma Accame non ha ceduto di un millimetro: «Quello del Salto di Quirra è un poligono sperimentale e pertanto è del tutto logico che venga verificata l'efficacia offensiva delle nostre armi e quelle dei nostri potenziali nemici. Proprio per questo motivo, sono convinto che nelle esercitazioni svoltesi nel poligono siano state utilizzate armi all'uranio impoverito». «Se le autorità militari dicono la verità - continua Falco Accame -, allora non dovrebbero avere difficoltà ad acconsentire che, nella base e nel poligono, venga effettuato un monitoraggio ambientale, per accertare se esiste un inquinamento radioattivo». Sarà un caso, ma, negli ultimi anni, anche all'interno della base di Capo San Lorenzo sono stati registrati alcuni casi di tumori del sistema emolinfatico. «Due impiegati civili della base - dice il dottor Paolo Pili - sono miei pazienti, per cui sono purtroppo sicuro della diagnosi. Poi ci sono i militari...». E qui il problema si complica, perché poco o nulla filtra dall'«universo delle stellette». Ma due casi sono comunque esplosi drammaticamente. Il primo è quello di un giovane militare di leva napoletano, Roberto Buonincontro, morto nel 1996 a soli 23 anni. Diagnosi che non lasciava molte speranze: linfoma di Hodgkin. Prima di spirare, Roberto raccontò alla madre e al fratello «che lavorava in una caserma piena di armi di tutti i tipi e che, spesso, per pulirle, doveva indossare tute e maschere speciali». Di più: il povero Buonincontro raccontò anche di «essere stato portato per tre giorni in una vallata dell'entroterra, dove c'erano tante armi, alcune delle quali mai viste prima». Poi, è di questi giorni il caso di Fabio Cappellano, un giovane militare di Lamezia che, nel 1999, ha partecipato ad esercitazioni militari nel Salto di Quirra. Anche per lui, diagnosi terribile: cancro. La proposta del fisico nucleare Giorgio Cortellessa «Possibile uno screening con un esame sui capelli» dal nostro inviato VILLAPUTZU. Ci sarebbe un veleno maligno sul Monte Cardiga. Silenzioso e perfido. Un veleno che, ironia del destino, ha un nome dolce, quasi poetico: Cesio. Sì, perché il suo nome in latino, significa "azzurro come il cielo". Per essere più precisi, si tratta di Cesio 134 e Cesio 137. Un nome legato, nella coscienza collettiva, alla tragedia di Chernobyl. Dalla centrale ucraina, infatti, si sprigionò una nube carica di Cesio radioattivo che attraversò mezza Europa. La domanda è: come è possibile che ci sia Cesio sul Monte Cardiga? Giorgio Cortellessa, fisico nucleare di fama internazionale e da sempre impegnato nelle battaglie civili dell'associazione "Scienziati contro la guerra", non crede che si tratti di tracce del fall-out di Chernobyl. «Non conosco i dati del rilevamento - dice -, ma è evidente che, in questo caso, le tracce di Cesio 134 e 137 dovrebbero trovarsi un po' in tutta la Sardegna e non concentrate in un solo punto». Cortellessa ritiene più logico pensare che, in quell'area, siano state usate armi caricate con proiettili all'uranio impoverito. «Noi sappiamo - dice - che l'uranio impoverito, il "depleted uranium", proviene dagli impianti che riprocessano le barre di combustibile nucleare spento. Parlo di barre di uranio. In quei proiettili, quindi, restano le tracce dei prodotti di fissione. Come il Cesio, appunto. Insomma: l'ipotesi che nel poligono del salto di Quirra siano state usate armi all'uranio impoverito non è per niente fantasiosa». Ma Cortellessa non esclude neppure che le tracce del Cesio 134 e 137 possano ricondurre a uno stoccaggio di scorie radioattive. «Anche questa è un'ipotesi plausibile - dice -. D'altra parte, non è certo un segreto che la Sardegna sia stata spesso utilizzata come un pattumiera di rifiuti pericolosi». E infine una provocazione. «Ho lavorato per anni all'Istituto superiore di Sanità, dove un mio amico scienziato ha perfezionato una tecnologia che consente di verificare, da un'analisi spettrografica dei capelli, la presenza di alcuni elementi tossici nell'organismo. Un esame a costo zero. Allora io propongo: facciamo uno screening sulla popolazione di Villaputzu. Così sarà possibile sapere se qualcosa sta avvelenendo la gente». L'INTERVISTA «Si faccia chiarezza» Il sindaco di Villaputzu Antonio Pili Giancarlo Bulla VILLAPUTZU. Inquietudine. Ma ora anche un po' di paura. Qui nel Sarrabus, il "caso Quirra" sta confermando antichi timori. E cioè che all'interno della vastissima area demaniale del poligono sperimentale interforze del Salto di Quirra, siano state usate armi con munizionamento non convenzionale. Tanto per essere più chiari: armi caricate con proiettili all'uranio impoverito. Il tam-tam sotterraneo si sta intensificando e ora si dice che, oltre a scorie di uranio, sia stata trovata una concentrazione anomala di Cesio 137. Certo, finora non esiste una verifica scientifica che provi una relazione di causa ed effetto tra la tossicità di questi materiali radioattivi e patologie gravi, come i tumori del sistema emolinfatico. Ma ormai, nel comune sentire, si sta consolidando la convinzione che ci sia un nesso tra la presenza di scorie nucleari e la dozzina di patologie tumorali riscontrata nella popolazione civile. L'epicentro di questa escalation di leucemie e di linfomi è la piccola frazione di Quirra (appena 150 abitanti), che si trova vincino al poligono a mare di Capo San Lorenzo. Naturale, quindi, la domanda che ormai si pongono tutti: esiste una correlazione diretta tra i casi di tumore riscontrati e le attività che vengono svolte all'interno del poligono? Altro interrogativo: cosa si deve fare per restituire la tranquillità alla gente? Lo abbiamo chiesto al sindaco di Villaputzu, Giuseppe Antonio Pili, che è anche medico. Sino alla fine del mese di ottobre dello scorso anno è stato primario della prima divisione Pneumoncologica dell'ospedale Binaghi di Cagliari. «I casi di tumore al sistema emolinfatico accertati sono decisamente troppi per essere attribuiti alla casualità - dice -. Tuttavia non posso affermare che questi casi siano legati alle attività che si svolgono nel poligono. Come, però, non posso neppure escluderlo. I casi accertati inducono una grossa curiosità dal punto di vista clinico oltre a un interesse scientifico». - Che iniziative ha assunto? «Ho più volte chiesto l'intervento dell'Asl, dell'assessorato regionale alla Sanità e del ministero della Sanità. Finora, però, nessuno è intervenuto». - I militari hanno ripetutamente smentito l'uso di uranio impoverito nel corso delle attività di sperimentazione e di addestramento. Si sente rassicurato? «Queste assicurazioni non mi sembrano sufficienti. Devo però prenderne atto. Pur avendo un ottimo rapporto col comando della base, non sono a conoscenza delle loro attività: cosa sparano e quali armi usano». - Cosa ritiene debba essere fatto con urgenza? «Prima di tutto deve essere fatta un'indagine epidemiologica sulla popolazione residente e un monitoraggio ambientale permanente delle aree militarizzate. Solo così si farà uscire la popolazione dall'incubo e si sarà in grado di dare risposte certe». Il sindaco Pili non dice di più. La sua preoccupazione è comunque evidente. Al Comune di Villaputzu, che ha un'estensione complessiva di 19.103 ettari, sono stati espropriati 2.400 ettari da destinare alle attività militari. Cioè oltre il 12% del suo territorio. 1.544 ettari fanno parte dell'area demaniale del poligono a terra e 866 di quella a mare. In cambio, il Comune ha ricevuto dallo Stato, come indennità, 940 milioni all'anno per le annualità ' 91-'94 e 600 milioni all'anno per le annualità '95-'99. «Non sappiamo - dice Pili - quanto ci verrà corrisposto adesso. Le contrattazioni per stabilire la quota degli indennizzi, avviene infatti tra la Regione e il ministero della Difesa. I Comuni sono esclusi. Chiediamo che d'ora in avanti siano i Comuni oberati da servitù militari a contrattare direttamente l'importo degli indennizzi che sono irrisori (poco meno 250.000 lire a ettaro), rispetto al bene che ci è stato sottratto».
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