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Enduring Freedom-int. di E. Deiana
- Subject: Enduring Freedom-int. di E. Deiana
- From: "Forum delle Donne" <forumdonne.prc at rifondazione.it>
- Date: Fri, 1 Feb 2002 17:44:35 +0100
Resoconto stenografico dell'Assemblea Seduta n. 87 del 28/1/2002 PRESIDENTE. E' iscritto a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà. ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, voglio partire da una domanda provocatoria posta da una nota giornalista del New York Times ai responsabili della campagna Enduring Freedom. La giornalista è Maureen Dowd, editorialista piuttosto nota nel suo paese. Lei ha chiesto: «La guerra è finita, oppure no? Se sì, l'abbiamo vinta, oppure no?». Si tratta di una domanda che pone sotto accusa non soltanto, e forse non eminentemente, le scelte dell'amministrazione statunitense ma, in maniera radicale, il contesto che quelle scelte hanno reso possibile e legittimato, un contesto di assoluta sospensione delle regole e delle certezze del diritto. Non stiamo discutendo di Enduring Freedom, ma soltanto della tecnica con cui rendere possibile e legittima la guerra. Credo che, anziché discutere del proseguimento della missione, bisognerebbe discutere della guerra, di cosa ha suscitato e di cosa ci propone per la prossima fase. Enduring Freedom incombe sul mondo come una maledizione biblica ormai, un pericolo ancestrale, un incubo planetario. I suoi effetti micidiali non riguardano soltanto quanto è avvenuto in Afghanistan, un paese martirizzato, martoriato più volte, bombardato oltre ogni limite della decenza militare - e perfino oltre ogni possibilità di accoglimento, sul suo suolo, di ordigni militari -, sempre più dipendente (e chissà per quanto tempo) da una carità occidentale che si rivela, come sempre, pelosa e striminzita, fino all'avarizia. Quegli effetti non riguardano soltanto i prossimi obiettivi su cui, nel silenzio più assoluto, si va appuntando l'operazione Enduring Freedom: non se ne sa nulla; probabilmente, a norma del nuovo codice penale militare di guerra, far circolare notizie sugli intendimenti dell'amministrazione americana costituirebbe un crimine di guerra per chiunque, anche per i civili). Quei territori, quegli Stati, quei paesi del mondo contro cui si appuntano le prossime mosse di Enduring Freedom sono gli stessi che gli Stati Uniti hanno definito di natura «canagliesca» e, per ciò stesso, sulla base di tale definizione, passibili di essere, in ogni momento, obiettivi dei bombardamenti occidentali. Ma quegli effetti riguardano tutti noi, perché sono effetti di addormentamento della coscienza civile, di assuefazione e di banalizzazione del male, di ottundimento dell'intelligenza. Non riesco a capire come si possa, in quest'aula, continuare a far finta di niente nonostante ciò che sta avvenendo, i risultati della guerra in Afghanistan e le prospettive che si delineano (che sono drammatiche). Come non vedere, per esempio, nella tragedia che si sta consumando all'interno del conflitto tra Israele e Palestina, un effetto diretto e coerente con l'impostazione non di lotta al terrorismo, ma di dominio del mondo, che sta dietro l'operazione Enduring Freedom? Essa, infatti, ha rivelato subito la sua natura e le intenzioni che la guidano: vendetta e ritorsione, violazione di ogni regola del diritto internazionale e tragici effetti collaterali, cioè la morte di migliaia di innocenti civili afgani. Tutto questo, ovviamente, non ha nulla a che vedere con l'attivazione di ciò che sarebbe stato necessario: una forte e responsabile politica internazionale di individuazione, traduzione in giudizio, isolamento dei responsabili dell'11 settembre e dei gruppi terroristici da cui essi provengono, da cui sono sostenuti e che, con ogni probabilità, trarranno nuova linfa da questa vicenda bellica. Enduring Freedom risponde a tutta un'altra strategia: ha altri obiettivi, altre intenzioni e altri programmi. La Palestina è lì a dimostrarlo: i suoi destini, infatti, sono iscritti nella dinamica di sconquasso e riassetto geopolitico - sconquasso dell'assetto esistente e riassetto geopolitico dell'area mediorientale ed asiatica - che gli strateghi di «Libertà duratura» hanno voluto mettere in movimento. Il significato di questa operazione, la strategia, i tentativi di ridefinizione degli assetti geopolitici sarebbero argomenti di discussione di prima grandezza da sviluppare in questa sede. Intanto, in Palestina, siamo al secondo atto dalla guerra globale, mentre si studiano i piani attraverso cui la punizione di Bush deve svilupparsi verso qualche altro paese tra quelli sotto tiro: la Somalia, pare certo, più avanti l'Iraq e, forse, ad un certo punto, altri paesi. Tra l'altro, dato che è presente il sottosegretario Cicu, vorrei chiedergli dove siano, in questo momento, le forze italiane arruolate nell'operazione Enduring Freedom, quale sia la loro destinazione, quali compiti stiano svolgendo, a chi debbano obbedire... SERGIO COLA, Relatore per la II Commissione. A Bin Laden! ELETTRA DEIANA. ...a chi debbano obbedire - onorevole Cola, non mi faccia dire una battuta feroce - qualora scattasse un'altra operazione militare diretta. Torno sulla questione palestinese perché rivela il dramma di questo Parlamento e delle forze politiche che, più volte, hanno sottolineato la necessità di un impegno italiano a sostegno delle regioni del popolo palestinese e della ricerca di una soluzione di giustizia, oltre che di pace. Vorrei ricordare che tutte le forze di maggioranza e d'opposizione si sono impegnate in una specie di controbilanciamento parlamentare rispetto all'impegno di guerra. Il Premier Berlusconi si è impegnato molto a sostenere un nuovo piano Marshall per il rilancio della Palestina. Impegni, promesse. Nel frattempo si consuma una tragedia senza fine, rispetto alla quale non trovo le parole per definire le «non parole» che giungono dalle forze di Governo e da questo ramo del Parlamento. Non si tratta soltanto di abbandonare, da parte degli Usa, Arafat, di lasciarlo tragicamente senza sponde né aiuti internazionali capaci di resistere alla lucida determinazione di Sharon di innalzare il livello dello scontro e di trasformare un problema storico di giustizia per il popolo palestinese nell'ennesimo episodio di terrorismo, da combattere con i modi con cui in Afghanistan è stato combattuto il terrorismo di Al Qaeda. Gli Stati Uniti, coadiuvati puntualmente dall'alleato britannico, stanno costruendo la seconda fase della guerra globale permanente. Chiuso - o quasi - il capitolo afgano, Bush e Blair hanno concentrato tutte le loro attenzioni sulla Palestina e sul suo leader storico. Il premier inglese, con ineffabile humour tutto britannico, è arrivato a dichiarare di aver perso la pazienza con Arafat. Il Premier Blair ha perso la pazienza! Il disegno angloamericano, purtroppo, è abbastanza chiaro: attaccando Arafat e la dirigenza dell'Olp, Washington spinge i palestinesi tra le braccia del radicalismo islamico, così come la guerra in Afghanistan non fa altro che moltiplicare le spinte terroristiche. Lo fa con la consapevolezza di aggravare la tensione, di rompere tutti i ponti diplomatici eretti in decenni di pazienti trattative che i palestinesi hanno portato avanti. Lo fa con almeno tre obiettivi: esacerbare la situazione mediorientale, perché ciò è funzionale a quell'operazione di destabilizzazione degli assetti geopolitici nell'area mediorientale di cui parlavo in precedenza; costretti a frenare la minaccia dell'islamismo radicale, gli Stati Uniti saranno in tal modo liberi di continuare a gestire il proprio primato politico militare su scala mondiale, assurgendo a veri difensori della libertà contro un nuovo impero del male, ben raffigurato simbolicamente dalla figura di Bin Laden. La guerra in Afghanistan è servita a rafforzare questa prospettiva. Gli Stati Uniti diventerebbero, in questo modo - come negli anni della «guerra fredda» - l'unica potenza in grado di condurre e dirigere questa nuova guerra planetaria. Le scelte del Governo e di questo Parlamento sono state d'accodamento totale all'amministrazione Bush e stanno all'interno di questo disastro con conseguenze sempre più negative, come si evince dal disegno di legge approvato dal Senato. Tale provvedimento, con operazione che ritengo assolutamente impossibile, ha fuso, in tempi rapidissimi, con un avventurismo istituzionale indescrivibile, due disegni di legge: il decreto-legge concernente l'operazione Enduring Freeedom e quello contenente le modifiche al codice penale militare di guerra. Poco fa, con candore ineffabile ed inanellando parole in libertà, il collega Rizzi ha parlato di svolta epocale, di rottura storica, di capovolgimento planetario. Al di là della retorica patriottarda ad esse sottesa, che consiglierebbe ad un esponente della Lega di sottoporsi a terapia psicoanalitica, quelle parole significativamente chiariscono la portata di questo provvedimento. Un codice di guerra del 1941 - adottato, quindi, in epoca fascista, nel corso di una guerra fascista, prima della Costituzione e mai messo a confronto con quest'ultima - viene riesumato in un modo che costituisce, di per sé, materia di riflessione. Non si tratta, evidentemente, soltanto di dover colmare un vuoto: si vuole disegnare, oggi, un ben determinato contesto politico, culturale e simbolico in rapporto alla questione della guerra e della pace. A questo proposito, ho presentato una questione pregiudiziale, che verrà discussa domani, relativa al carattere anticostituzionale di questo disegno di legge, che incorpora modifiche al codice penale militare di guerra, ma ne lascia immutato l'impianto complessivo, in una maniera simbolico-politica che tende alla costruzione di un contesto di senso della guerra, prima ancora che di un dispositivo giuridico (gli interventi dei colleghi del centrodestra lo confermano ampiamente). Voglio ricordare le preoccupazioni manifestate, al riguardo, da un magistrato al di là di ogni sospetto (si intende, dal punto di vista delle idee e della formazione politica): il procuratore generale militare della Repubblica, dottor Vinicio Bonagura. In occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, nella sua relazione, egli ha pronunciato parole di preoccupazione per l'approccio minimalista - così si è espresso - al tema delle garanzie costituzionali in materia di giustizia, nonché per la frettolosità con cui è stato affrontato il problema. Se, infatti, il contesto effettivamente richiedesse di far fronte ad una necessità epocale, com'è stato sottolineato, proprio la grandiosità di tale impegno avrebbe richiesto una discussione ampia, un diverso metodo, una circolazione delle idee, un confronto a tutto campo ben più densi ed articolati di quelli che hanno preceduto il «pasticciaccio» che stiamo esaminando; il significato - ripeto, eminentemente politico - del provvedimento è stato testé chiarito, in forma immediata e senza soverchie mediazioni politiche, dal collega Rizzi: sostanzialmente, si vuole bensì dare seguito, attivare un processo inedito, promuovere una svolta epocale, ma in che cosa? Nella rottura qualitativa, irriducibile, che questa maggioranza vuole operare rispetto al dettato costituzionale: la guerra non è più un incidente di percorso oppure un'operazione che può essere imbellettata ideologicamente con addolcimenti linguistici e slittamenti semantici, quali peacekeeping, peaceforcing, missione di pace, e via dicendo; la guerra è guerra! La nostra pregiudiziale ha, anzitutto, un valore politico-simbolico (al di là degli appunti di natura giuridica), derivante da un punto di vista che privilegia il ristabilimento della legalità costituzionale ed il ripristino del valore fondativo di cui all'articolo 11 della Costituzione. La frettolosità, la retorica con cui si parla di questo disegno di legge, di questa incorporazione delle modifiche del codice, con cui si preannuncia l'impegno del Governo ad una riedizione totale del codice penale militare di guerra, significa esattamente che c'è l'intenzione di chi le propone e di chi le accoglie purtroppo - ho ascoltato l'intervento dell'onorevole Minniti, che spesso va oltre le intenzioni del centrodestra in materia di guerra - di affermare che siamo in un'altra epoca, che siamo oltre la Costituzione, che la Costituzione ormai è carta straccia e che c'è bisogno di altro. C'è bisogno di assumere la guerra come elemento per dirimere le questioni internazionali - come sta avvenendo - o forse per preparare l'inganno semantico, perché in Italia ci sono molte culture pacifiste - cattolici, persone di sinistra, eredi del movimento operaio (non so come potremmo essere definiti a norma dell'articolo 187 del codice penale militare di guerra) - e quindi c'è una certa resistenza a questa cultura di guerra. C'è bisogno di preparare l'inganno, quindi, con una riedizione del codice di guerra che chiama guerra in un altro modo. Ecco, io finisco qua; la discussione si svilupperà domani anche più specificamente sugli articoli; intanto preannuncio, ovviamente, per tutte le cose che ho detto, il voto contrario del gruppo di Rifondazione comunista. Forum delle donne di Rifondazione comunista Viale del Policlinico 131 - CAP 00161 - Roma Tel. 06/44182204 Fax 06/44239490
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