Se qualcuno aveva ancora dei dubbi...da
"la repubblica" del 23 ottobre 2001:
LA GUERRA DEL GREGGIO SI FA, MA NON SI
DICE
MASSIMO RIVA
Nel dibattito sulla campagna militare contro Osama Bin Laden e il regime
talebano in Afghanistan, c'è una parola che ogni tanto compare e però fa fatica
a conquistare quella centralità che le sarebbe dovuta. Questa parola è
"petrolio". I primi ad evitare di usarla sono i seguaci dello sceicco terrorista
che, nei loro proclami di guerra santa, rovesciano sull'Occidente ogni genere di
recriminazione storica o di violenta minaccia attuale, ma nulla dicono sul nodo
cruciale del greggio. Altrettanto, però, sta accadendo anche all'interno della
grande alleanza che si è formata attorno agli Stati Uniti dopo la tragedia
dell'11 settembre. Il giusto principio della difesa dei paesi occidentali dai
pericoli del terrorismo islamico viene argomentato, in nome dell'esigenza di
tutelare la sicurezza e la libertà della vita sociale e individuale, sotto mille
aspetti fondamentali. Fuorché uno: la certezza di quei rifornimenti energetici,
che pure sono una componente non secondaria della vita in Occidente. Questo
processo di oscuramento appare davvero singolare per almeno due ragioni
geoeconomiche piuttosto serie. Nella grande area islamica fra il Kazakhstan e il
Mar Rosso, alla quale Bin Laden indirizza i suoi appelli alla mobilitazione
politicoreligiosa nel nome di Allah, è concentrato il 65/70 per cento delle
riserve del mondo intero. Al tempo stesso, le maggiori economie dell'Occidente
fronteggiano una dipendenza esterna da petrolio in una misura del 60 per cento
del fabbisogno negli Stati Uniti e di poco inferiore (il 58) in Europa. Sono
cifre che fanno riflettere perché indicano una condizione di vera e propria
sudditanza. Per giunta, aggravata da tre fattori pesanti. Primo: le mitiche
riserve americane, agli attuali livelli di consumo, hanno un orizzonte di vita
di poco superiore ai dieci anni. Secondo: i giacimenti europei del Mare del Nord
costituiscono appena l'1,5 per cento delle riserve mondiali. Terzo:
l'emancipazione dal petrolio resta per l'Occidente un traguardo lontanissimo in
quanto lo sviluppo di fonti energetiche davvero sostitutive del greggio
richiederà qualche decennio. Sembra il caso di ricordare che un analogo
processo di rimozione della parola petrolio ha un precedente nel 1990, durante
la guerra del Golfo. Anche allora il ricorso alle armi per liberare il Kuwait
dall'occupazione irakena fu spiegato soprattutto con l'esigenza di restaurare il
diritto internazionale violato, mentre un velo di ipocrisia fu steso sul tema
petrolifero. Benché fosse del tutto evidente che il pericolo maggiore da
contrastare era che Saddam Hussein, sommato il proprio greggio a quello dei
pozzi kuwaitiani, avrebbe potuto puntare sull'Arabia Saudita e diventare così il
padrone dell'Opec. Con esiti facilmente immaginabili sui prezzi di una materia
prima energetica essenziale: non solo per il benessere del mondo occidentale, ma
addirittura per la vita stessa dei paesi più poveri del pianeta. Oggi è
sorprendente notare come la stessa storia si stia ripetendo. Certo, dopo le
stragi di New York e Washington, innanzi tutto viene il dovere di combattere le
organizzazioni terroristiche perché queste hanno infranto sanguinosamente le più
elementari regole della convivenza civile e minacciano di continuare a farlo. Ma
questo non può far dimenticare che l'Afghanistan si trova nel cuore di un'area
geopolitica nella quale si concentrano le maggiori risorse petrolifere del
mondo. Se Osama Bin Laden o chiunque altro al suo posto riuscisse a costruire -
facendo leva sulla guerra santa contro gli infedeli - un fronte comune dei
popoli e dei regimi che stanno fra il Kazakhstan e il Mar Rosso, non l'Opec ma
il mercato petrolifero mondiale avrebbe trovato il suo padrone assoluto. Con
conseguenze che è eufemistico definire devastanti per un'economia planetaria
ancora così dipendente dalle forniture di greggio, come hanno mostrato le cifre
precedenti. Sia chiaro: queste considerazioni non possono né devono
legittimare una sorta di militarizzazione del mercato petrolifero internazionale
per iniziativa dei paesi consumatori. Ma che questi ultimi si organizzino per
impedire che uno speculare tentativo di militarizzazione sia realizzato dai
paesi produttori sembra il minimo indispensabile. Ed è proprio in questa ottica
che non si spiega il diffuso "understatement" sull'argomento. Che non parlino
delle loro inconfessabili ambizioni in proposito i vari Saddam o Bin Laden è
perfettamente logico perché costoro non hanno alcun interesse a scoprire le
proprie carte. Anche Hitler, nel ‘38 a Monaco, assicurò che non avrebbe toccato
la Polonia. Molto meno comprensibile è che siano i maggiori governi
dell'Occidente a non avere il coraggio esplicito di porre l'esistenza di un
articolato mercato petrolifero mondiale fra i punti irrinunciabili della propria
dottrina di politica internazionale. In realtà, tutti sappiamo che il nodo
petrolifero è oggi ben presente all'attenzione delle cancellerie d'Europa e
d'America, come lo era nel 1990. Tuttavia, è proprio questa linea del "si fa,
ma non si dice" che appare oggi pericolosa. Innanzi tutto, perché rischia di
alimentare equivoci dannosi nella comunicazione tra governanti e governati nel
momento più sbagliato: il ricorso alla forza nella lotta ai terroristi si
profila come una guerra di lunga durata e, quindi, richiederà un appoggio
continuo e costante da parte dell'opinione pubblica. Ma poi anche perché,
nascondendo la centralità della questione petrolifera, si falsano già ora i
termini del dibattito politico tra favorevoli e contrari agli interventi armati
in corso. Al riguardo la lezione dell'Italia è esemplare. Come mai, per
esempio, gli interventisti della sinistra evitano di usare l'argomento del
petrolio nei loro dibattiti coi pacifisti? Perché sembrano manifestare una sorta
di complesso di inferiorità dinanzi agli slogan antimilitaristi di chi sa
proporre non soluzioni ma fughe dai problemi? Forse pesa ancora sulle loro
coscienze l'antico vizio di considerare gli interessi economici come un frutto
avvelenato della logica capitalista? E' ora e tempo per tutti di rimettere i
piedi sulla dura terra. Un mercato petrolifero mondiale sotto il tallone di un
potere ideologicomilitare come quello che sognano Bin Laden e altri personaggi
della sua risma sarebbe un colpo esiziale per le economie dell'Occidente. Altro
che le domeniche a piedi, così desiderate dai Verdi nostrani. Altro che un'equa
divisione internazionale del lavoro, come piacerebbe a Fausto Bertinotti. A
piedi rischieremmo di andare per tutta la settimana, mentre a milioni di persone
l'automobile non servirebbe solo perché non avrebbero più un luogo di lavoro da
raggiungere. Per non dire delle immense tragedie che si consumerebbero nei paesi
più miserabili, dove si muore di fame anche perché già adesso un barile di
greggio è merce troppo cara. Coraggio, quindi: si parli di petrolio e senza
falsi pudori.
*************************************************************************************************** La
nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una
società inadeguata. Aldo Capitini
***************************************************************************************************
|