[Nonviolenza] Telegrammi. 5318



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5318 del 9 settembre 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
2. Jean-Marie Muller: Gandhi, l'esigenza della nonviolenza
3. Segnalazioni librarie
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

2. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: GANDHI, L'ESIGENZA DELLA NONVIOLENZA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo tredicesimo: "Gandhi, l'esigenza della nonviolenza" (pp. 241-258). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

Il nome e il volto di Gandhi sono diventati familiari agli occidentali e, tuttavia, il suo pensiero e la sua azione sono ancora da loro largamente disconosciuti. Generalmente, essi nutrono per lui quell'ammirazione da lontano che si presta volentieri ai personaggi circondati da un leggendario alone di saggezza, ma vogliono tenersene distanti. Non si danno la pena di avvicinarlo per ascoltarlo e comprenderlo. Cosi' Gandhi resta largamente ignorato anche in mezzo alla sua celebrita'.
Tutti associano la parola nonviolenza al nome di Gandhi, ma, anche qui, la nonviolenza di Gandhi appare "eccezionale", e non ha dunque niente di "esemplare". Cosi', predomina in Occidente l'idea che il pensiero di Gandhi sia caratterizzato da un vago orientalismo, il quale non riguarderebbe chi si preoccupa del realismo e dell'efficacia, cioe' chi vuol essere "ragionevole". Eppure, l'apporto di Gandhi e' essenziale alla comprensione della nonviolenza. C'e' un prima e un dopo Gandhi tanto nella riflessione filosofica sull'esigenza etica di nonviolenza che fonda l'umanita' dell'uomo, quanto nella sperimentazione della strategia dell'azione nonviolenta che permette la risoluzione pacifica dei conflitti. Ma e' vero, d'altra parte, che il pensiero di Gandhi non e' di facile accesso. Le sue parole e i suoi scritti sono innumerevoli, ma sono sempre di circostanza e, per essere compresi correttamente, devono essere restituiti al contesto preciso in cui sono stati formulati. Gandhi non ci ha lasciato nessun trattato sintetico che ci presenti chiaramente la sua concezione della nonviolenza. Dobbiamo trovare il tempo di andare a decifrarla in mezzo a tutte le sue dichiarazioni. Inoltre, Gandhi e' un personaggio complesso. "Era – affermava Nehru con conoscenza di causa – uno straordinario paradosso, quest'uomo" (1). Il suo pensiero presenta spesso dei contrasti che urtano i nostri ragionamenti cartesiani e ci sconcertano. Dobbiamo fare lo sforzo di superare questi contrasti, fosse anche, talvolta, aggirando certe sue affermazioni. Non potremmo dunque fissare il pensiero di Gandhi in un qualche "gandhismo", che si presenti come una dottrina chiusa in se stessa. Gandhi non ci offre delle risposte da ripetere, ma ci invita a porre con lui delle domande essenziali la cui posta e' il senso stesso della nostra esistenza e della nostra storia. E, come lui ha tentato di fare nel suo tempo, tocca a noi inventare qui e ora le migliori risposte possibili.
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La ricerca della verita'
Quando Gandhi scrivera' la sua autobiografia la intitolera' Storia dei miei esperimenti con la verita'. La vita, per lui, non ha altro scopo ne' altro senso che la ricerca della verita'. "Nella realta' – egli afferma – non c'e' niente, non esiste niente, salvo la verita'. (...) Solo la devozione a questa verita' giustifica la nostra esistenza. La verita' deve costituire il centro di tutta la nostra attivita'" (2). Egli ha la convinzione profonda che la verita' dell'uomo e' inscritta nell'uomo stesso il quale non deve distrarsi a cercarla all'esterno. Gandhi si chiede: "Che cosa e' la verita'? E' una questione difficile. Io l'ho risolta per me dicendo che e' cio' che ci dice la via interiore" (3). Per decidere della sua vita, ogni uomo non ha altra possibilita' che prestare attenzione a questa "piccola voce tranquilla" (4) che parla in lui. Essa e' la sola voce che possa guidarlo sul cammino della verita'. Questa "voce della coscienza" e' "il giudice supremo della legittimita' di ogni atto e di ogni pensiero" (5).
Cosi' l'uomo deve assumere pienamente la sua autonomia di essere libero e responsabile: deve promulgare lui stesso le leggi alle quali deve conformare i suoi pensieri, le sue parole e le sue azioni (auto-nomo, dal greco autos, egli stesso, e nomos, legge, e' colui che e' retto dalle sue proprie leggi), senza rimettersi a nessuna autorita' esteriore, sia religiosa che sociale o politica, che gli detti la sua condotta. Una tale sottomissione sarebbe in realta' una dimissione con la quale l'individuo alienerebbe la sua liberta'. Certo, questa autonomia comporta inevitabilmente la possibilita' di ingannarsi, ma e' soltanto assumendo questo rischio che l'uomo puo' arrivare alla verita'. "Nei nostri sforzi per avanzare – scrive Gandhi – puo' darsi che noi ci inganniamo, a volte anche pesantemente. Ma l'uomo e' un essere che deve dirigere se stesso; questa autonomia suppone il potere di commettere degli errori e di correggerli ogni volta che se ne commettono" (6). Gandhi e' convinto che l'uomo sincero, se s'inganna sperimentando cio' che egli crede essere la verita', non possa non scoprire il proprio errore. "In questa ricerca disinteressata della verita' – egli pensa – nessuno puo' smarrirsi a lungo. Dal momento in cui ci si avvia sulla cattiva strada, vi si inciampa e cosi' si e' diretti di nuovo verso la buona strada" (7). Invece, sarebbe proprio promettendo obbedienza ad una autorita' esteriore che l'individuo correrebbe il rischio di persistere nell'errore.
Il cercatore di verita' deve convincersi che e' sempre per strada e che non raggiungera' mai la fine del cammino. La verita' che egli coglie e' frammentaria, relativa, parziale e dunque imperfetta. E' per questo che l'uomo non deve mai voler imporre la sua verita' agli altri. "La regola d'oro della nostra condotta – afferma Gandhi – e' dunque la tolleranza reciproca" (8). Quando gli si faceva notare che la ricerca della verita' conduce gli individui a delle opinioni differenti, rispondeva: "Proprio per questo la nonviolenza e' un corollario necessario. Senza di cio', sarebbe la confusione, o peggio" (9).
La verita' ricercata da Gandhi non si situa sul registro delle idee astratte, ma su quello degli atteggiamenti concreti. Poiche' l'uomo e' essenzialmente un essere di relazione, cio' che importa prima di tutto e' la verita' della sua relazione con l’altro. In altre parole, la verita' dell'uomo non e' tanto nella giustezza delle sue idee quanto nella giustezza della sua relazione all'altro. Ora, la violenza viene a "falsare" questa relazione, la deforma, la sfigura, la snatura. Non e' dunque possibile stabilire una vera relazione all'altro se non avendo cura di evitare ogni violenza verso di lui. Come ha sottolineato Joan Bondurant, tutta la filosofia gandhiana e' centrata sull'idea che "il solo test della verita' e' l'azione fondata sul rifiuto di fare del male ad altri" (10). La verita' non si trova nell'uomo considerato nella sua individualita', ma nella sua relazione all'altro, in una relazione che rispetti la verita' dell'altro.
Gandhi immagina che la nonviolenza sia stata scoperta da qualche "antico saggio in cerca della verita'", il quale comprese che colui che persiste a voler distruggere gli esseri che gli suscitano delle difficolta', e' su una falsa via. Egli fece anche l'esperienza che "piu' ricorreva alla violenza piu' si allontanava dalla verita'" (11). Poiche' gli uomini partecipano tutti della stessa umanita', fare violenza all'umanita' dell'altro e' attentare alla propria umanita', e questa doppia violenza e' distruttrice della verita'. "La nonviolenza – scrive Gandhi – e' il fondamento della ricerca di verita'. Non passa giorno che io non mi accorga, in realta', che questa ricerca e' vana se non si fonda sulla nonviolenza. Opporsi a un sistema, attaccarlo, e' bene; ma opporsi al suo autore e attaccarlo, questo si risolve nell'opporsi a se stessi, nel diventare il proprio aggressore" (12). Cosi' Gandhi arriva a convincersi che "la violenza e' un suicidio" (13). Non soltanto e non anzitutto perche' la violenza che l'uomo esercita contro il suo avversario lo trascina insieme a lui in un ingranaggio nel quale rischia fortemente di trovarsi lui stesso stritolato, ma soprattutto perche' la violenza che egli commette, quand'anche gli permettesse di vincere, porta un grave attentato alla sua propria umanita'. L'uomo e' il primo a subire la violenza che esercita: e' lui stesso ferito nel piu' profondo del proprio essere dalla propria violenza, e puo' esserlo mortalmente.
Gandhi si convince che l'esigenza di veracita' si confonde con l'esigenza di nonviolenza. "Senza la nonviolenza – scrive – non e' possibile cercare e trovare la verita'. La nonviolenza e la verita' sono cosi' strettamente allacciate che e' praticamente impossibile scioglierle e separarle l'una dall'altra. Sono come le due facce di una stessa medaglia, o piuttosto di un disco metallico liscio e senza alcuna immagine. Chi puo' dire quale ne e' il dritto e quale il rovescio? Tuttavia, la nonviolenza e' il mezzo e la verita' il fine. I mezzi, per essere dei mezzi, devono essere sempre alla nostra portata, cosicche' la nonviolenza ' il nostro supremo dovere" (14).
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Il compimento del bene
Certo, Gandhi non ignora che esiste nell'uomo un istinto che lo trascina a fare violenza all'altro per soddisfare i suoi bisogni, per saziare i suoi desideri e difendere i suoi interessi. Ma questo istinto di violenza corrisponde alla parte animale della natura umana, mentre esiste ugualmente nell'uomo una esigenza di nonviolenza che corrisponde alla parte spirituale della sua natura: "In quanto animale, l'uomo e' violento, ma in quanto spirito e' nonviolento. Quando si sveglia alle esigenze dello spirito che e' in lui, gli diventa impossibile restare violento" (15). Cosi', secondo Gandhi, l'uomo, per realizzare la sua umanita', deve fare lo sforzo di conformarsi, nel suo atteggiamento verso gli altri, all'esigenza di nonviolenza. "La nonviolenza – egli afferma – e' il mio primo articolo di fede, ed e' anche l'ultimo articolo del mio credo" (16). Cosi', la verita' che Gandhi ricerca non e' soltanto la verita' del pensiero, ma e', nello stesso tempo, la verita' dell'azione. La verita' e' indissolubilmente il pensiero giusto e l'azione giusta. Se il pensiero giusto e' necessario all'azione giusta, la ricerca della verita' ha per finalita' non la comprensione del vero ma il compimento del bene. La verita', in definitiva, non e' teorica ma etica. Cio' che e' essenziale per l'uomo non e' avere ragione, ma essere buono. Si puo' nutrire l'illusione di avere ragione da soli contro gli altri – oppure da soli con la propria comunita', la propria razza, la propria nazione o religione – ma non si puo' essere buoni che con gli altri. La volonta' di avere ragione genera la guerra; la pace non puo' venire che dalla decisione di essere buoni. La bonta' e' la prima e l'ultima espressione della verita'. Cio' implica il rifiuto, una volta per tutte, di fare il male per difendere il vero, che e' precisamente la contraddizione nella quale si trovano rinchiuse le ideologie della violenza.
La prima esigenza della verita' e' di astenersi da ogni violenza verso ogni essere vivente. Questa esigenza di nonviolenza resta negativa e non basta a se stessa, pero' e' primordiale. Essa non compie tutte le esigenze della verita', ma essa sola permette di compierle. La verita', tuttavia, non esige soltanto di astenersi dal fare del male agli altri, essa richiede di voler loro del bene, cioe' di manifestare loro della bonta'. "La nonviolenza – scrive Gandhi – e' assenza completa di cattiva volonta' verso tutto cio' che vive. La nonviolenza, nella sua forma attiva, e' buona volonta' per tutto cio' che vive. Essa e' amore perfetto" (17).
Nel corso delle sue esperienze, Gandhi scopre che "e' con l'amore che si puo' arrivare piu' vicini alla verita'" (18). Secondo lui, esiste un legame cosi' stretto, una correlazione cosi' profonda, una coerenza cosi' essenziale tra la verita', l'amore e la nonviolenza che, in definitiva, esiste tra loro una vera e propria identita'. Le ideologie dominanti ingannano e fanno smarrire gli uomini volendo far loro credere che e' possibile coniugare insieme l'amore e la violenza, occultando cosi' l'antinomia fondamentale che esiste tra queste cose. "Il termine "amore" – fa notare Gandhi – ha molti significati differenti, almeno in inglese, e l'amore umano, nel senso di passione, puo' essere anche degradante" (19). Per comprendere bene il pensiero di Gandhi quando evoca l'amore che si trasforma in passione e non esita allora a ricorrere alla violenza per raggiungere i suoi fini, non dobbiamo pensare anzitutto all'amore tra due esseri umani, ma piuttosto all'amore degli individui per il loro clan, la loro nazione, la loro razza, la loro religione, eccetera. Poiche' sono soprattutto questi amori che sono suscettibili di diventare micidiali.
Gandhi si rifiuta di credere che sia necessario ricorrere alla violenza per combattere la violenza degli uomini irragionevoli. In realta', l'effetto prodotto rischia fortemente di essere contrario a quello che si ricerca. Poiche', allora, "la catena di violenze si allunga e si rafforza" (20).  La violenza, che e' sempre un male, non puo' avere presa sul male per combatterlo. Non e' possibile lottare contro il male che opponendogli una resistenza che si radica nel bene. "La scienza ci insegna – osserva Gandhi con molta pertinenza – che una leva non puo' muovere un corpo se non ha un punto d'appoggio fuori dal corpo al quale si applica. Allo stesso modo, per superare il male, bisogna tenersi fuori da esso, sul terreno stabile del bene senza mescolanza" (21). Rispondere alla violenza con la violenza e' sottomettersi alla logica della violenza e rafforzare la sua influenza sulla realta'. La sola maniera di resistere alla violenza e' dunque spezzare la sua logica cominciando ad astenerci noi stessi dall'andare a rafforzarla. "La nonviolenza – afferma Gandhi – non consiste nel rinunciare ad ogni lotta reale contro il male. La nonviolenza, come io la concepisco, e', al contrario, una lotta contro il male piu' attiva e piu' reale che la legge del taglione, la cui natura stessa ha l'effetto di sviluppare la perversita' del male" (22).
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La virtu' dell'intrepidezza
Gandhi pone l'essere intrepido al primo posto delle virtu' dell'uomo forte. Intrepido, secondo il significato etimologico della parola (dal verbo trepidere, tremare), e' chi non trema davanti al pericolo. "L'intrepidezza – egli scrive – rivela che l'individuo e' libero da ogni timore esteriore, che sia quello della malattia, delle ferite fisiche, della morte o del perdere i propri beni" (23). Per testimoniare la verita' e combattere l'ingiustizia, bisogna anzitutto che l'uomo superi la paura che lo abita e gli consiglia di restare al riparo da ogni pericolo. "La forza – afferma Gandhi – sta nell'assenza di paura" (24).
Colui che e' liberato dalla paura, non sentira' piu' il bisogno di proteggersi dal pericolo riparandosi dietro le armi. Il violento, in realta', e' un uomo che ha paura. "I coraggiosi – scrive Gandhi – non sono quelli armati di spade, di fucili, eccetera, ma sono gli intrepidi. Solo quelli che sono posseduti dalla paura si muniscono di armi" (25). Chi vuole la pace deve avere il coraggio di sfidare le armi di quelli che preparano la guerra. "Io sono un uomo di pace – afferma Gandhi – (...). Io voglio la pace che e' racchiusa nel petto dell'uomo che si espone alle frecce del mondo intero, ma che il potere dell'Onnipotente protegge da ogni male" (26).
L'uomo che sceglie la nonviolenza ha coscienza che, rifiutando di uccidere, si assume il rischio di essere ucciso. Gli occorre dunque addomesticare la paura generata da questo rischio: "Come bisogna imparare ad uccidere per praticare l'arte della violenza, cosi' bisogna sapere prepararsi a morire per addestrarsi alla nonviolenza. La violenza non libera dalla paura, ma cerca di combattere la causa della paura. Al contrario, la nonviolenza e' esente da ogni paura. (...) Di conseguenza, secondo che ci si addestri alla violenza o alla nonviolenza, bisogna fare appello a delle tecniche diametralmente opposte" (27). Liberandosi dalla paura della morte, l'uomo si libera dal proprio desiderio di violenza: "Per difendersi, non c'e' affatto bisogno di avere la forza di uccidere. Sarebbe meglio avere la forza di morire. Se si fosse pronti a morire, non si desidererebbe nemmeno piu' opporre violenza alla violenza" (28). Superando la paura della morte, l'uomo accede alla liberta': "Vivere libero significa essere pronto a morire, se e' necessario per mano del proprio prossimo, ma mai ad ucciderlo. Qualunque ne sia la ragione, ogni omicidio o altro attentato alla persona e' un crimine contro l'umanita'" (29). Quando l'uomo muore conformandosi all'esigenza di verita' che e' in lui, questa morte non e' una disfatta, al contrario essa celebra la sua vittoria sulla violenza. "Quanto a me – scrive Gandhi – non puo' capitare niente di meglio a uno che ha scelto la nonviolenza che trovare la morte nell'atto stesso della nonviolenza, cioe' nell'inseguire la verita'" (30). La disfatta sarebbe nel negare, nel rinnegare l'esigenza della verita' permettendo di ricorrere alla violenza. La morte incontrata sul cammino della verita' e della nonviolenza e' la suprema vittoria dell'uomo intrepido che non ha tremato davanti ai pericoli e alle sofferenze, e' la vittoria di colui che ha rifiutato di difendere la propria vita e ha accettato di morire per salvaguardare il senso della sua vita. "Per niente al mondo – scrive Gandhi - io voglio soffocare questa piccola voce che e' la mia coscienza, ovvero l'espressione di cio' che c'e' di piu' profondo in me. (...) Questa piccola voce non mi inganna mai. Per ora, essa mi dice: "Non aver paura. (...) Sii pronto a morire per testimoniare cio' che da' un senso alla tua vita"" (31).
E' possibile, del resto, che il fatto di rifiutarsi di imitare la violenza dell'avversario, mentre lui pensava di meritare una replica, lo sorprenda, lo disorienti, lo sconcerti e alla fine lo disarmi. Poiche' – nota Gandhi - "non c'e' soddisfazione ad uccidere colui che fa buona accoglienza alla morte, ed e' per questo che ai soldati piace attaccare il nemico quando rende colpo su colpo e risponde alla violenza con la violenza" (32).
Il consenso dato alla morte da colui che accetta il rischio della nonviolenza e' l'opposto di una accettazione passiva, di una rassegnazione. "Non si puo' insegnare la nonviolenza – scrive Gandhi – a chi ha paura di morire e non ha l'energia di resistere. Un topo senza difesa non e' nonviolento per il fatto che si lascia mangiare dal gatto" (33). Chi ha optato per la nonviolenza non muore perche' la morte lo raggiunge alle spalle, ma trova la morte guardandola in faccia, muore perche' resiste alla violenza che lo aggredisce. La sua morte stessa e' resistenza. Ma l'uomo non puo' giurare nulla e nessuno sa quale sara' il proprio atteggiamento al momento della prova suprema. "Ho in me la nonviolenza dei forti? – si chiede Gandhi -. Solo la mia morte lo dira'. Se, in seguito a un attentato, io muoio pregando per il mio assassino e conservando in cuore il sentimento della presenza di Dio, allora soltanto sara' possibile dedurne che io ho la nonviolenza dei coraggiosi" (34). Gandhi e' morto esattamente come aveva intravisto. Noi sappiamo oggi quello che lui stesso ignorava: egli possedeva realmente in se' la nonviolenza dei forti.
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Il primato della ragione
Una delle ragioni per le quali i filosofi hanno largamente ignorato Gandhi, e' probabilmente perche' egli ha dato all'espressione della sua convinzione sulla nonviolenza, una connotazione religiosa. Predomina l'impressione che la sua riflessione sulla nonviolenza si inscriva nel registro della religione e che bisognerebbe in qualche modo arrivare a condividere la sua fede in Dio per condividere la sua convinzione. Qui c'e', ci sembra, un malinteso, ma si deve riconoscere che Gandhi ne e' largamente responsabile. Ha lui stesso confuso il suo messaggio sulla nonviolenza abbinandolo il piu' delle volte ad un riferimento a Dio, mentre, in realta', egli non e' un uomo "religioso", nel senso che non ha una relazione personale con un Dio personale. Secondo lui, "Dio non e' una persona" (35), ma "una forza di vita che rimane immutabile e che sostiene tutti gli esseri" (36). Cosi', il Dio che egli venera e' senza nome e senza volto. "Io non ho visto Dio – confessa – e non lo conosco. (...) Io non dispongo di alcuna parola per caratterizzare la mia credenza in Dio" (37). Per Gandhi, in definitiva, Dio non e' che la verita' inscritta nel piu' profondo dell'essere umano. Cosi', egli arriva a sostituire all'affermazione religiosa "Dio e' la verita'", la seguente proposizione: "La verita' e' Dio" (38). C'e' piu' che una sfumatura tra gli approcci implicati dalle due formulazioni. Chi pensa che "Dio e' la verita'" considera che gli basta dar fede alla parola di Dio rivelata dalla religione – cioe' dalla sua religione – per possedere tutta la verita'. Egli si persuade allora facilmente che chiunque rifiuta di credere a questa parola e' nell'errore. E, per difendere la verita' e combattere l'errore, si fa un dovere non soltanto di fare a pezzi le eresie, ma anche di scatenare battaglia contro gli eretici. E' dunque grande il rischio che la proposizione "Dio e' la verita'" diventi un'affermazione totalitaria che genera la guerra santa. Gandhi fa notare che in effetti "milioni di uomini si sono impadroniti del nome di Dio e hanno commesso invocandolo atrocita' indescrivibili" (39).
Pensare che "la verita' e' Dio" implica un procedimento intellettuale e spirituale tutto diverso. Poiche', in questo caso, la verita' non si fa conoscere dall'uomo mediante una rivelazione esteriore, ma mediante una esigenza interiore che si esprime nella "piccola voce tranquilla" della sua coscienza, cioe' nella  sua ragione. E' dunque proprio la ragione che conduce Gandhi alla scoperta dell'esigenza di nonviolenza. "La ragione – egli non esita ad affermare – e' un altro nome della nonviolenza" (40). Gandhi afferma cosi' il primato della ragione sulla religione e intende giudicare lui stesso della verita' dei testi sacri secondo le esigenze della sua coscienza. Egli scrive: "Io non posso lasciare che un testo sacro soppianti la mia ragione" (41). E' per questo che non esita a rifiutare nelle religioni cio' che la sua ragione non approva. "Io respingo – egli afferma – ogni dottrina religiosa che non sia consonante alla ragione e che si opponga alla morale. (...) Non si deve mai patteggiare con l'errore, quand'anche fosse sostenuto da qualche testo sacro" (42).
Il criterio decisivo secondo cui Gandhi giudica l'insegnamento delle religioni e' la loro conformita' con l'esigenza morale. "Fin dalla mia giovinezza – scrive – ho imparato ad apprezzare il valore delle scritture sulla base del loro insegnamento etico" (43). Cosi' Gandhi e' "fermamente persuaso che non c'e' altra religione che la verita'" (44). Egli non vuole "servire altro Dio che la verita'" (45); egli non vuole "adorare Dio che sotto la forma della verita'" (46).
In queste condizioni diventa legittimo domandarsi se Gandhi non avrebbe dato maggiore chiarezza e forza al suo messaggio di nonviolenza se lo avesse separato dalla scoria religiosa per esprimerlo con maggiore rigore filosofico. In mancanza di cio', tocca a noi farlo se vogliamo esprimere la portata universale del suo messaggio.
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La resistenza nonviolenta
Per Gandhi, la ricerca della verita' si identifica con la lotta per la giustizia. E' nel Sudafrica, dove soggiornera' dal 1893 al 1914, che egli organizza per la prima volta una resistenza nonviolenta. Il suo obiettivo era di permettere agli indiani immigrati in questo paese di far valere i loro diritti di fronte al potere razzista bianco. "Fu trattando questo problema – scrivera' Gandhi nel 1942 – che mi venne in mente questo metodo della nonviolenza. I diversi provvedimenti che io presi allora non erano l'opera di un visionario o di un sognatore. Erano l'opera di un uomo pratico alle prese con dei problemi pratici" (47). Un'altra volta, egli precisera' come ebbe l'idea di organizzare la lotta degli indiani del Sudafrica e presentera' la nonviolenza come un metodo d'azione che costituisce un'alternativa alla violenza: "Fino al 1906, io mi affidavo unicamente al potere della ragione. (...) Ma dovetti convenire che il potere della ragione era diventato inoperante nella piu' critica situazione che io avessi incontrato nel Sudafrica. (...) Era l'ora della vendetta. Si parlava di devastare tutto. Fu allora che dovetti scegliere fra diventare complice di questa violenza oppure trovare un altro metodo che permettesse di risolvere la crisi risparmiando un massacro. Mi venne allora l'idea che noi dovessimo rifiutare di obbedire a una legislazione degradante e lasciare che le autorita' ci mettessero in prigione se questo piaceva loro" (48).
Quando comincia a organizzare la lotta, Gandhi utilizza l'espressione "resistenza passiva" per designare il movimento che crea. "Tra gli inglesi – egli nota – ogni volta che una piccola minoranza disapprovava qualche legge nociva, invece di rivoltarsi, quella minoranza adottava l'atteggiamento di resistenza passiva non sottomettendosi alla legge e incorrendo nei castighi per la sua disobbedienza" (49). Tuttavia, egli prende coscienza, quando la lotta si sviluppa, che questa espressione "dava senza dubbio luogo a confusione" (50) e "rischiava di dare origine a terribili malintesi" (51). Piu' precisamente, "la resistenza passiva era, nella sua concezione, l'arma del debole e come tale fu considerata. Benche' essa eviti la violenza che il debole non puo' usare, non la esclude affatto se, a parere di chi usa la resistenza passiva, le circostanze lo esigono" (52).
Per Gandhi era essenziale far comprendere che, se gli indiani rinunciavano a ricorrere alla violenza, non era per debolezza, ma, al contrario, perche' avevano la forza di superare il loro desiderio di vendetta per cercare una soluzione pacifica al conflitto che li opponeva ai bianchi. Da quel momento, egli volle inventare una parola nuova per designare la sua lotta. Alla fine, trovo' il termine sanscrito Satyagraha: "Satya (verita') – spiega Gandhi – implica l'amore e Agraha (fermezza) e' sinonimo di forza. Io cominciai dunque a chiamare il movimento indiano "Satyagraha". Intendevo con cio' la forza che nasce dalla verita' e dall'amore. Da allora abbandonammo del tutto l'uso dell'espressione "resistenza passiva"" (53). Gandhi precisa ancora il senso del termine Satyagraha in questo modo: "Il suo significato fondamentale e' l'adesione alla verita', e dunque: la forza della verita'. Io l'ho chiamata anche forza dell'amore o forza dell'anima" (54).
A dire il vero, le espressioni "forza della verita'" e "forza dell'amore" usate da Gandhi fanno problema. In che senso si puo' parlare di "forza della verita'" quando si tratta di combattere una ingiustizia sociale garantita da una ideologia politica? La "forza della verita'" puo' bastare a convincere un avversario determinato a difendere i suoi poteri, i suoi interessi e privilegi? Puo' bastare per opporsi efficacemente alla forza della violenza di un nemico senza scrupoli? La "forza dell'amore" puo' toccare la coscienza e convertire un avversario deciso a ricorrere a tutti i mezzi per arrivare ai suoi scopi?
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Il potere della sofferenza
Per Gandhi, il punto d'appoggio della leva della resistenza nonviolenta e' la sofferenza di colui che intende restare fedele alla verita' e rifiuta di essere complice del male. Ecco il suo ragionamento: "Nell'applicazione del Satyagraha, ho scoperto molto presto che la ricerca della verita' non ammetteva l'infliggere violenza all'avversario, ma che era possibile condurlo a rinunciare all'errore con la pazienza e la compassione. (...) E la pazienza significa l'accettazione della sofferenza. Ma sul piano politico, la lotta a favore della popolazione consiste essenzialmente nell'opporsi all'errore delle leggi ingiuste. Quando non si e' riusciti a condurre il legislatore a riconoscere il suo errore per mezzo di petizioni e di azioni simili, la sola e ultima soluzione, se non ci si vuole sottomettere all'errore, consiste nell'utilizzare la forza fisica oppure nell'accettare la sofferenza attirando su se stessi la pena prevista nel caso di infrazione alla legge" (55).
Cosi', secondo la pura dottrina definita da Gandhi, l'obiettivo ricercato da colui che sceglie di resistere col mezzo della nonviolenza non e' costringere il suo avversario, ma convertirlo con l'accettare la sofferenza. E' per questo che egli "deve credere nella bonta' inerente alla natura umana" (56), e essere convinto che "la sofferenza accettata con umilta' per un causa giusta ha una sua forza propria, infinitamente piu' grande della forza della spada" (57). "Per ottenere un risultato decisivo – afferma ancora Gandhi – non basta convincere la ragione; bisogna ugualmente toccare il cuore e, di conseguenza, fare appello al potere della sofferenza" (58). Percio' egli non teme di presentarsi disarmato di fronte al tiranno: "Io cerco – dice – di smussare completamente la spada del tiranno, non colpendola con un acciaio piu' affilato, ma ingannando la sua attesa di vedermi opporgli una resistenza fisica. Egli trovera' in me una resistenza dell'anima che sfuggira' alla sua stretta. Questa resistenza dapprima lo abbagliera' e in seguito lo obblighera' ad inchinarsi" (59).
In questa prospettiva, secondo Gandhi, la resistenza nonviolenta non ha per scopo di mettere in difficolta' ne' di disturbare l'avversario per obbligarlo a cedere. La vittoria, per conseguenza, non dipende dal numero di quelli che si impegnano nella resistenza, ma soltanto dalla loro attitudine a soffrire per la verita' e la giustizia. "Io non credo – dice Gandhi – che la forza del numero sia necessaria quando la causa e' giusta" (60). Arriva fino ad affermare che la vittoria della nonviolenza sull'ingiustizia e' possibile se anche un solo uomo si vota totalmente alla verita' e manifesta un amore perfettamente puro verso i suoi avversari. Cosi' la disobbedienza civile costituisce una ribellione pacifica piu' efficace della rivolta armata. Questa resistenza non puo' essere spezzata se i resistenti sono determinati a far fronte alla più grandi prove, poiche' essa e' "fondata sulla credenza implicita nell'efficacia assoluta della sofferenza innocente" (61). "La fibra piu' coriacea – afferma infine Gandhi – deve ammorbidirsi nel fuoco dell'amore. Se non fonde, e' perche' il fuoco non e' abbastanza forte" (62).
Ma, anche qui, tali affermazioni fanno problema e ci sembra difficile seguire il ragionamento di Gandhi fino in fondo. Certo, come la violenza esaspera il desiderio di violenza dell'avversario, cosi' la nonviolenza puo' disinnescarlo. Contrariamente alla violenza, la resistenza nonviolenta lascia all'avversario uno spazio nel quale egli conserva la possibilita' di prendere coscienza dell'ingiustizia di cui e' responsabile e di decidere liberamente di modificare il suo comportamento. La sofferenza di chi ha scelto di non restituire colpo per colpo puo' in effetti toccare il cuore dell'avversario e disarmarlo. Ogni uomo puo' convertirsi e distogliersi dal male. La nonviolenza permette questa conversione dell'avversario, piu' ancora, essa la favorisce e la facilita, ma non ha il potere di imporla. Se questa conversione e' sempre possibile, l'esperienza dimostra che in molte circostanze non e' probabile. Quando Gandhi afferma la capacita' della nonviolenza di convertire l'avversario piu' indurito, riferendosi alla potenza assoluta della verita', dell'amore e della sofferenza, non puo' essere convincente. A questo punto, egli si chiude in una visione idealista dell'uomo ed enuncia una concezione irrealista della nonviolenza, visione e concezione che si trovano smentite dai fatti i quali, lo sappiamo, sono testardi.
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La strategia dell'azione nonviolenta
Se accade qualche volta a Gandhi di perdersi nell'idealismo nel volere render conto della sua fede nella nonviolenza, egli sa dare prova del piu' grande realismo nell'organizzazione dell'azione nonviolenta. Bisogna, in qualche modo, correggere l'idealismo di certe sue idee con il realismo della gran parte delle sue azioni. Del resto, lui stesso era troppo lucido per non piegare la sua teoria in funzione degli imperativi della pratica. Cosi', Gandhi ha coscienza che gli indiani che si sono impegnati nella campagna di non-collaborazione del 1920 non l'hanno fatto in quanto adepti convinti della pura dottrina della nonviolenza spirituale e, tuttavia, afferma che il loro impegno e' capace di liberare l'India dall'oppressione britannica. "Poiche' sono un uomo pratico – scrive – io non attendo che l'India abbia riconosciuto la possibilita' pratica della vita spirituale nel campo politico. L'India si considera come impotente e paralizzata davanti ai cannoni, i carri armati e gli aeroplani degli inglesi e adotta la non-collaborazione perche' si sente debole. Ma cio' servira' allo stesso scopo se un numero sufficiente mette in pratica questo metodo. L'India sara' liberata dal peso schiacciante dell'ingiustizia britannica" (63). Qui Gandhi sottolinea molto naturalmente che la forza del numero e' uno degli elementi determinanti dell'efficacia politica di una resistenza nonviolenta.
Nel gennaio 1942, quando Gandhi difende la sua politica davanti al Congresso di tutta l'India, e' facendone valere l'efficacia che egli giustifica la scelta della nonviolenza come metodo di lotta per ottenere l'indipendenza. "La nonviolenza e' per me un credo – afferma – e' l'afflato della mia vita. ma io non l'ho mai proposta come un credo all'India, ne' altrove a nessuno, salvo che, all'occasione, nel corso di conversazioni informali. Io l'ho proposta al Congresso come un metodo politico destinato a risolvere dei problemi politici. E' possibile che sia un metodo nuovo, ma non perde per questo il suo carattere politico. (...) Come metodo politico, la nonviolenza puo' sempre essere cambiata, modificata, trasformata, anche abbandonata a favore di un altro metodo. Se dunque vi dico che la nostra politica non deve essere abbandonata oggi, vi parlo con saggezza politica. Si tratta di perspicacia politica. Ci e' servita nel passato, ci ha permesso di percorrere molte tappe verso l'indipendenza, ed e' in quanto uomo politico che io vi avverto che sarebbe un grande errore progettarne l'abbandono. Se ho trascinato il Congresso dietro a me per tutti questi anni e' nella mia qualita' di uomo politico. Non e' giusto qualificare il mio metodo come religioso per il fatto che e' nuovo" (64).
Quando Nehru raccontera' la lotta per l'indipendenza dell'India, sottolineera' pure lui la dimensione politica della nonviolenza proposta da Gandhi. "Per anni ed anni – scrivera' – la dottrina della nonviolenza di Gandhi ha dominato l'evoluzione politica del nostro paese. (...) Ha svolto un ruolo capitale nella nostra vita politica e sociale; ha anche attirato considerevolmente l’attenzione del mondo intero. Beninteso, essa era antica come il pensiero umano. Ma forse Gandhi fu il primo ad applicarla come azione di massa a movimenti politici e sociali. (..) Io credo che si possa affermare con piena fiducia che il metodo della nonviolenza ci ha reso dei servizi inestimabili" (65). Altrove Nehru precisa: "Si e' detto che l'azione nonviolenta era una chimera; e' stata qui il solo mezzo reale di azione politica" (66).
Tuttavia, le cose non sono cosi' semplici come potrebbero lasciar pensare queste affermazioni di Gandhi e di Nehru. In realta', se Gandhi deve convincere i suoi interlocutori del Congresso che la nonviolenza che propone all'India e' un metodo politico e non religioso, e' precisamente perche' essi hanno qualche ragione di dubitarne. Se Gandhi vuole rassicurarli e' perche' in effetti essi sono inquieti, poiche' molte delle sue affermazioni, e non soltanto in conversazioni informali, hanno potuto far loro dubitare del carattere politico della sua nonviolenza. "Per noi e per il Congresso nel suo insieme – scrivera' ancora Nehru – la nonviolenza non era, non poteva essere una religione, una fede in un dogma infallibile. Non poteva essere che una politica, una tattica che prometteva certi risultati ed era alla luce di questi risultati che si doveva alla fine giudicarla" (67). E molte volte Nehru rimproverera' a Gandhi di mantenere una confusione tra la politica e la religione. "Io ce l'avevo terribilmente con lui – scrivera' – per questo modo di abbordare il terreno politico dal lato del sentimento e della religione, e per le sue frequenti allusioni a Dio nello stesso campo politico" (68).
Bisogna dunque prendere in parola Gandhi quando afferma che la nonviolenza e' "un metodo politico destinato a risolvere dei problemi politici" e analizzare le sue campagne di non-collaborazione riferendoci a dei criteri politici. La nonviolenza apparira' allora come un mezzo tecnico che permette di agire con efficacia per risolvere dei conflitti politici.
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Note
1. Pandi Nehru, Ma vie et mes prisons,  Paris, Danoel, 1952, p. 364; tr. it. Nehru Sri Jawaharla, Autobiografia, Feltrinelli, Milano, 1955.
2. Lettres a' l'ashram, trad J. Herbert, Paris, Albin Michel, 1960, p. 25-26. L'Autore cita Gandhi da raccolte francesi di suoi scritti, che non hanno sempre una edizione italiana corrispondente. Le migliori e piu' ampie raccolte italiane di scritti gandhiani sono: Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunita', Milano 1965, titolo originale: All Men are Brothers, Life and Thoughts of Mahatma Gandhi as Told in his Own Words, Navajivan, Ahmedabad; M. K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino, 1996; Mohandas K. Gandhi, La forza della verita'. Scritti etici e politici, vol. 1, Civilta', politica e religione, titolo originale The Moral and Political Writings of Mahatma Gandhi, Volume 1: Civilization, Politics and Religion, Oxford University Press, Oxford-New York, 1986. (n. d. tr.).
3. Ibidem, p. 99.
4. Tous les hommes sont freres, Vie et pensees du Mahatma Gandhi deapres ses oeuvres, trad. Guy Vogelweith, Paris, Gallimard, 1969, coll Idees, p. 137; titolo originale: All Men are Brothers, op. cit.; tr. it. Gandhi, Antiche come le montagne, op. cit.
5. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 125.
6. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 137.
7. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 28.
8. Ibidem, p. 133.
9. Citato da D. G. Tendulkar, Mahatma: Life of  Mohandas Karamka Gandhi, New Delhi, Publications Division, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, Patiala House, 1969, t. 1, p. 282.
10. Joan V. Bondurant, Conquest of Violence, The Gandhian Phiposophy of Conflict, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1969, p. 25.
11. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 32.
12. Autobiographie ou mes experiences de verite', trad. G. Belmond, Paris, Presses universitaires de France, 1964, p.348; titolo originale An Autobiography or the Story of my experiments with truth, Navajivan Trust, Ahmedabad; tr. it. dall'originale La mia vita per la liberta', Newton Compton, Roma 1973.
13. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 254.
14. Satyagraha, Ahmenabad, Navajivan Publishing House, 1958, p. 42.
15. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 156.
16. Citato da Jean Herbert, Ce que Gandhi a vraiment dit, Paris, Stock, 1969, p. 84.
17. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 107.
18. Ibidem, p. 102.
19. Ibidem.
20. Citato da Jean Herbert, op. cit., p. 88.
21. Ibidem.
22. Ibidem, p. 203.
23. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 56.
24. Ibidem, p. 125.
25. Ibidem, p. 55.
26. Ibidem, p. 126.
27. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 153-154.
28. Ibidem, p. 272.
29. Ibidem, p. 153.
30. M. K. Gandhi a' l'oeuvre, Suite de sa vie ecrite par lui meme, Paris, Les Editions Rieder, 1934, p. 288.
31. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 104.
32. M. K. Gandhi a' l'oeuvre, op. cit., p. 409.
33. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 180.
34. Ibidem, p. 105.
35. All Men are Brothers, op. cit., p. 76.
36. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 110.
37. Ibidem, p. 110-111.
38. Satyagraha, op. cit., p. 38.
39. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 103.
40. Citato da Suzanne Lassier, Gandhi et la non-violence, Paris, Le Seuil, 1970, coll. Maitres spirituels, p. 146.
41. What Jesus Means to Me, Ahmenabad, Navajivan Publishing House, 1959, p. 31.
42. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 139-140.
43. What Jesus Means to Me, op. cit., p. 29.
44. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 134.
45. The Mind of Mahatma Gandhi, compiled and edited by R. K. Prabhu and U. R. Rao, Ahmenabad, Navajivan Publishing House, 1969, p. 45.
46. All Men are Brothers, op. cit., p. 86.
47. Citato da D. G. Tendulkar, Mahatma: Life of  Mohandas Karamka Gandhi, op. cit., t. 6, p. 41.
48. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 161-162.
49. M. K. Gandhi a' l'oeuvre, op. cit., p. 172.
50. Ibidem, p. 169.
51. Ibidem, p. 171.
52. Resistance non-violente, Paris, Buchet/Chastel, 1986, p. 16.
53. M. K. Gandhi a' l'oeuvre, op. cit., p. 170.
54. Resistance non-violente, op. cit., p. 16.
55. Satyagraha, op. cit., p. 6.
56. Ibidem, p. 88.
57. Ibidem, p. 66.
58. Tous les hommes sont freres, op. cit., p. 108.
59. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 110.
60. Satyagraha, op. cit., p. 33.
61. Ibidem, p. 172.
62. Lettres a' l'ashram, op. cit., p. 115.
63. La Jeune Inde, Paris, Stock, 1948, p. 108-109.
64. Citato da D. G. Tendulkar, Mahatma: Life of  Mohandas Karamka Gandhi, op. cit., t. 6, p. 40-41.
65. Pandi Nehru, Ma vie et mes prisons, op. cit., p. 371; tr. it. Nehru Sri Jawaharla, Autobiografia, op. cit.
66. Citato da Andre' Malraux, Antimemoires, Paris, Gallimard, 1967, p. 204.
67. Pandi Nehru, Ma vie et mes prisons, op. cit., p. 94-95; tr. it. Nehru Sri Jawaharla, Autobiografia, op. cit.
68. Ibidem, p. 290.

3. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi, Torino 1964, 1974, pp. XXXVIII + 216.
- Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1973, 1997, pp. LXXVI + 176.

4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

5. PER SAPERNE DI PIU'

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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5318 del 9 settembre 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
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