[Nonviolenza] Telegrammi. 5308



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5308 del 30 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Aldo Capitini: La mia opposizione al fascismo
2. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
3. Jean-Marie Muller: L'uomo nonviolento di fronte alla morte
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. ALDO CAPITINI: LA MIA OPPOSIZIONE AL FASCISMO
[Nuovamente riproponiamo il seguente articolo di Aldo Capitini originariamente apparso su "Il ponte", anno XVI, n. 1, gennaio 1960, disponibile anche nel sito www.nonviolenti.org]

Non e' facile elevarsi su quel patriottismo scolastico che ci coglie proprio nel momento, dai dieci ai quindici anni, in cui cerchiamo un impiego esaltante delle nostre energie, una tensione attiva e appoggiata a miti ed eroi.
Quaranta anni successivi di esperienza in mezzo ad una storia movimentatissima ci hanno ben insegnato due cose: che la devozione alla patria deve essere messa in rapporto e mediata con ideali piu' alti e universali; che la nazione e' una vera societa' solo in quanto risolve i problemi delle moltitudini lavoratrici nei diritti e nei doveri, nel potere, nella cultura, in tutte le liberta' concretamente e responsabilmente utilizzabili.
Quella "patria" che la scuola ci insegno', che era del Foscolo e del Carducci, e diventava del D'Annunzio e del Marinetti, non poteva essere il centro di tutti gli interessi; e percio' potei essere nazionalista tra i dieci e i quindici anni, ma non poi restarlo quando vidi la guerra in rapporto, meno con la nazione, e piu' con l'umanita' sofferente e divisa; quando dalla letteratura vociana e di avaguardia salii (da autodidatta e piu' tardi che i coetanei) alla piu' strenua, vigorosa, e anche filologica classicita', vista nei testi latini, greci e biblici, come valori originali; quando portai la riflessione politica, precoce ma intorbidata dall'attivismo nazionalistico, ad apprezzare i diritti della liberta' e l'apertura al socialismo come cose fondamentali, insopprimibili per qualsiasi motivo.
Umanitario e moralista, tutto preso dalla ricostruzione della mia cultura (eseguita tardi ma con consapevolezza) e anche dal dolore fisico, il dopoguerra 1918-'22 mi trovo' del tutto estraneo al fascismo, anche se avevo coetanei che vi erano attivissimi: non sentii affatto l'impulso ad accompagnarmi con loro. Anzi, mi permettevo nella mia indipendenza, di leggere la "Rivoluzione liberale", di offrire lieto il mio letto ad un assessore socialista cercato dagli squadristi, e la mattina della "Marcia su Roma" sentii bene che non dovevo andarci, perche' era contro la liberta'.
Certo, per chi e' stato, purtroppo (e purtroppo dura ancora), educato a quel tal patriottismo scolastico, per chi non ha potuto nell'adolescenza non assorbire del dannunzianesimo e del marinettismo, qualche volta il fascismo poteva sembrare un qualche cosa di energico, di impegnato a far qualche cosa; e comprendo percio' le esitazioni e le cadute di tanti miei coetanei, che hanno come me press'a poco gli anni del secolo.
Se io fui preservato e salvato per opera di quell'evangelismo umanitario-moralistico e indipendente, per cui non ero diventato ne' cattolico (pur essendo teista) ne' fascista, e preferii rinunciare alla politica attiva, a cui pur da ragazzo tendevo, scegliendo un lavoro di studio, di poesia, di filosofia, di ricerca religiosa; tanti altri, anche per il fatto di essere stati in guerra (io ero stato escluso perche' riformato), lungo il binario del patriottismo, del combattentismo, dello squadrismo, videro nel fascismo la realizzazione di tutto.
Queste mie parole sono percio' un invito a diffidare del patriottismo scolastico, che puo' portare a tanto e a giustificare tanti delitti, e un proposito di lavorare per un'educazione ben diversa. Questa e' dunque la prima esperienza che ho vissuto in pieno: ho potuto contrastare al fascismo fin dal principio perche' mi ero venuto liberando (se non perfettamente) dal patriottismo scolastico; esso fu uno degli elementi principalmente responsabili dell'adesione di tanti al fascismo.
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Ed ora vengo alla seconda esperienza fondamentale. Si capisce che mentre il fascismo si svolgeva, quasi insensibile com'ero alla soddisfazione "patriottica", mi trovavo contrario alla politica estera ed interna. Per l'estero io ero press'a poco un federalista, e mi pareva che un'unione dell'Italia, Francia, Germania (circa centocinquanta milioni di persone) avrebbe costituito una forza viva e civile, anche se l'Inghilterra fosse voluta rimanere per suo conto; ma ci voleva uno spirito comune, che, invece, il nazionalismo fece rovinare. Ebbi sempre un certo rispetto per la Societa' delle Nazioni; e mi pareva che l'Italia avesse avuto molto col Trattato di Versailles, malgrado le strida dei nazionalisti. Approvavo il lavoro di Amendola e degli altri per un patto con gli Jugoslavi, che ci avrebbe risparmiato tante tragedie e tante vergogne.
Per la politica interna la Milizia in mano a Mussolini, il delitto Matteotti, la dittatura e il fastidio, a me lettore e raccoglitore di vari giornali, che dava la lettura di giornali eguali, l'avversione che sentivo per il saccheggio e la distruzione e l'abolizione di tutto cio' che era stata la vita politica di una volta, le Camere del lavoro, le varie sedi dei partiti, le logge massoniche; mi tenevano staccato dal fascismo.
Sapevo degli arresti, delle persecuzioni. Dov'era piu' quel bel fermento di idee, quella vivacita' di spirito di riforme che avevo vissuto dal '18 al '24? Quanti libri liberi, riviste ("Conscientia" per esempio, che conservavo come preziosa), erano finiti! L'Italia che avrebbe dovuto riformarsi in tutto, era ora affidata ad un governo reazionario e militarista! E io ricordavo il mio entusiasmo per le amministrazioni socialiste: come seguivo quella di Milano, quella di Perugia, mia citta'!
Non ero iscritto a nessun partito, non partecipavo nemmeno, preso da altro, alla dialettica politica, ma le amministrazioni socialiste mi parevano una cosa preziosa, con quegli uomini presi da un ideale, umili di condizione, e "diversi", la' impegnati ad amministrare per tutti.
Sicche' ero contrario al regime, e la seconda esperienza fondamentale lo confermo': fu la Conciliazione del febbraio del '29.
Non ero piu' cattolico dall'eta' di tredici anni, ma ero tornato ad un sentimento religioso sul finire della guerra, e lo studio successivo, anche filosofico e storico sulle origini del cristianesimo, di la' dalle leggende e dai dogmi mi aveva concretato un teismo di tipo morale.
Guardando il fascismo, vedevo che lo avevano sostenuto in modo decisivo due forze: la monarchia che aveva portato con se' (piu' o meno) l'esercito e la burocrazia; l'alta cultura (quella parte vittima del patriottismo scolastico) che aveva portato con se' molto della scuola. C'era una terza forza: la Chiesa di Roma. Se essa avesse voluto, avrebbe fatto cadere, dispiegando una ferma non collaborazione, il fascismo in una settimana. Invece aveva dato aiuti continui. Si venne alla Conciliazione tra il governo fascista e il Vaticano.
La religione tradizionale istituzionale cattolica, che aveva educato gli italiani per secoli, non li aveva affatto preparati a capire, dal '19 al '24, quanto male fosse nel fascismo; ed ora si alleava in un modo profondo, visibile, perfino con frasi grottesche, con prestazione di favori disgustose, con reciproci omaggi di potenti, che deridevano alla " scuola liberale " e ai "conati socialisti", come cose oramai vinte! Se c'e' una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista, e' di aver chiarito per sempre che la religione e' una cosa diversa dall'istituzione romana.
Perche' noi abbiamo avuto da fanciulli un certo imbevimento di idee e di riti cattolici, che sono rimasti la', nel fondo nostro; ed anche se si e' studiato, e si sanno bene le ragioni storiche, filosofiche, sociali, anche religiose, per cui non si puo' essere cattolici, tuttavia ascoltando suonare le campane, vedendo l'edificio chiesa, incontrando il sacerdote, uno potrebbe sempre sentire un certo fascino.
Ebbene, se si pensa che quelle campane, quell'edificio, quell'uomo possono significare una cerimonia, un'espressione di adesione al fascismo, basta questo per insegnare che bisogna controllare le proprie emozioni, non farsi prendere da quei fatti che sono "esteriori" rispetto alla doverosita' e purezza della coscienza.
La Chiesa romana credette di ottenere cose positive nel sostenere il fascismo, realmente le ottenne. Ma per me quello fu un insegnamento intimo che vale piu' di ogni altra cosa. Non aver visto il male che c'era nel fascismo, non aver capito a quale tragedia conduceva l'Italia e l'Europa, aver ottenuto da un potere brigantesco sorto uccidendo la liberta', la giustizia, il controllo civico, la correttezza internazionale; non sono errori che ad individui si possono perdonare, come si deve perdonare tutto, ma sono segni precisi di inadeguatezza di un'istituzione, ancora una volta alleata di tiranni.
Fu li', su questa esperienza che l'opposizione al fascismo si fece piu' profonda, e divenne in me religiosa; sia nel senso che cercai piu' radicale forza per l'opposizione negli spiriti religiosi-puri, in Cristo, Buddha, S. Francesco, Gandhi, di la' dall'istituzionalismo tradizionale che tradiva quell'autenticita'; sia nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati spenti dall'autoritarismo ecclesiastico congiunto con l'indifferenza generale italiana per tali cose.
Vidi chiaro che tutto era collegato nel negativo, e tutto poteva essere collegato nel positivo. Mi approfondii nella nonviolenza. Imparai il valore della noncollaborazione (anzi lo acquistai pagandolo, perche' rifiutai l'iscrizione al partito, e persi il posto che avevo); feci il sogno che gli italiani si liberassero dal fascismo noncollaborando, senza odio e strage dei fascisti, secondo il metodo di Gandhi, rivoluzione di sacrificio che li avrebbe purificati di tante scorie, e li avrebbe rinnovati, resi degni d'essere, cosi' si', tra i primi popoli nel nuovo orizzonte del secolo ventesimo.
Divenni vegetariano, perche' vedevo che Mussolini portava gli italiani alla guerra, e pensai che se si imparava a non uccidere nemmeno gli animali, si sarebbe sentita maggiore avversione nell'uccidere gli uomini.
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Nel lavoro di suscitamento e collegamento antifascista, svolto da me dal 1932 al 1942, sta la terza esperienza fondamentale: il ritrovamento del popolo e la saldatura con lui per la lotta contro il fascismo. Figlio di persone del popolo, vissuto in poverta' e in disagi, con parenti tutti operai o contadini, i miei studi (vincendo un posto gratuito universitario nella Scuola normale superiore di Pisa) ed anche i primi amici non mi avevano veramente messo a contatto con la classe lavoratrice nella sua qualita' sociale e politica.
Anche se da ragazzo ascoltavo con commozione le musiche di campagna che il primo maggio sonavano di lontano l'Inno dei lavoratori, di la' dal velo della pioggia primaverile, non conoscevo bene il socialismo. Avevo visto dal mio libraio le edizione delle opere di Marx e di Engels annerite dagli incendi devastatori dei fascisti milanesi alla redazione dell'"Avanti!", ma, preso da altro lavoro, non le avevo studiate.
Accertai veramente la profondita' e l'ampiezza del mondo socialista nel periodo fascista, quando le possibilita' di trovare documentazioni e libri (lo sappiano i giovani di ora, che se vogliono possono andare da un libraio e acquistare cio' che cercano) erano di tanto diminuite, ma c'era, insieme, il modo di ritrovare i vecchi socialisti e comunisti, che erano rimasti saldi nella loro fede, veramente "fede" "sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi", malgrado le botte, gli sfregi, la poverta', le prigioni, le derisioni degli ideali e dei loro rappresentanti uccisi ("con Matteotti faremo i salsicciotti") e sebbene vedessero che le persone "dotte" erano per Mussolini e il regime.
Ritrovare queste persone, unirsi con loro di la' dalle differenze su un punto o l'altro dell'ideologia, festeggiare insieme il primo maggio magari in una soffitta o in un magazzino di legname, andare insieme in campagna una domenica (che per il popolo e' sempre qualche cosa di bello), e talvolta anche in prigione: nella lotta contro il fascismo si formo' questa unione, che non fu soltanto di persone e di aiuto reciproco, ma fu studio, approfondimento, constatazione degli interessi comuni dei lavoratori e degli intellettuali contro i padroni del denaro e del potere: si apriva cosi l'orizzonte del mondo, l'incontro di Occidente e Oriente in nome di una civilta' nuova, non piu' individualistica ne' totalitaria.
*
Questo io debbo al fascismo, ma in quanto ebbi, direi la Grazia, o interni scrupoli o ideali che mi portarono all'opposizione. Opponendomi al fascismo, non per cose di superficie o di persone o di barzellette, ma pensando seriamente nelle sue ragioni, nella sua sostanza, nel suo esperimento e impegno, non solo me ne purificavo completamente per cio' che potesse essercene in me, ma accertavo le direzioni di un lavoro positivo e di una persuasione interiore che dovevo continuare a svolgere anche dopo.
Il fascismo aveva unito in un insieme tutto cio' contro cui dovevo lottare per profonda convinzione, e non per caso, per un un male che mi avesse fatto, per un'avversione o invidia verso persone, o perche' avessi trovato in casa o presso maestri autorevoli un impulso antifascista. Nulla di questo ebbi, ed anche percio' ad un'attiva opposizione con propaganda non passai che lentamente e dopo circa un decennio.
Posso assicurare i giovani di oggi che il mio rifiuto fu dopo aver sentito le premesse del fascismo proprio nell'animo adolescente, e dopo averle consumate; sicche' i fascisti mi apparvero dei ritardatari. Ero arrivato al punto in cui non potevo accettare:
1, il nazionalismo che esasperava un riferimento nazionale e guerriero a tutti i valori, proprio quando ero convinto che la guerra avrebbe indebolito l'Europa, e che la nazione dovesse trovare precisi nessi con le altre;
2, l'imperialismo colonialistico, che, oltre a portare l'Italia fuori dalla sua influenza in Europa, nei Balcani e a freno della Germania, era un metodo arretrato, per la fine del colonialismo nel mondo;
3, il centralismo assolutistico e burocratico con quel far discendere tutto dall'alto (per giunta corrotto), mentre io ero decentralista, regionalista, per l'educazione democratica di tutti all'amministrazione e al controllo;
4, il totalitarismo, con la soppressione di ogni apporto di idee e di correnti diverse, si' che quando parlavo ai giovanissimi della vecchia possibilita' di scegliersi a vent'anni un partito, che aveva sue sedi e sua stampa, sembrava che parlassi di un sogno, di un regno felice sconosciuto;
5, il prepotere poliziesco, per cui uno doveva sempre temere parlando ad alta voce, conversando con ignoti, scrivendo una lettera, facendo un telefonata;
6, quel gusto dannunziano e quell'esaltazione della violenza, del manganello come argomento, dello spaccare le teste, del pugnale, delle bombe a mano, e, infine, l'orribile persecuzione contro gli ebrei;
7, quel finto rivoluzionarismo attivista e irrazionale sopra un sostanziale conservatorismo, difesa dei proprietari, di cio' che era vecchio e perfino anteriore alla rivoluzione francese;
8, quell'alleanza con il conservatorismo della chiesa, della parrocchia, delle gerarchie ecclesiastiche, prendendo della religione i riti e il lato reazionario, affratellandosi con i gesuiti, perseguitando gli ex-sacerdoti;
9, quel corporativismo con una insostenibile parita' tra capitale e lavoro che si risolveva in una prigione per moltitudini lavoratrici alla merce' dei padroni in gambali ed orbace;
10, quel rilievo forzato e malsano di un solo tipo di cultura e di educazione, quella fascista, e il traviamento degli adolescenti, mentre ero convinto che della libera produzione e circolazione delle varie forme di cultura una societa' nazionale ha bisogno come del pane;
11, quell'ostentazione di Littoria e altre poche cose fatte, dilapidando immensi capitali, invece di affrontare il rinnovamento del Mezzogiorno e delle Isole;
12, l'onnipotenza di un uomo, di cui era facile vedere quotidianamente la grossolanita', la mutevolezza, l'egotismo, l'iniziativa brigantesca, la leggerezza nell'affrontare cose serie, gli errori e la irragionevolezza impersuadibile, mentre ero convinto che il governo di un paese deve il piu' possibile lasciare operare le altre forze e trarne consigli e collaborazione, ed essere anonimo, grigio anche, perche' lo splendore stia nei valori puri della liberta', della giustizia, dell'onesta', della produzione culturale e religiosa, non nelle persone, che in uniforme o no, nel governo o a capo dello Stato, sono semplicemente al servizio di quei valori.
*
Percio' il fascismo, nel problema dell'Italia di educarsi a popolo onesto, libero, competente, corretto, collaborante, mi parve un potenziamento del peggio e del fondo della nostra storia infelice, una malattia latente nell'organismo e venuta fuori, l'ostacolo che doveva, per il bene comune, essere rimosso, non in un modo semplicemente materiale, ma prendendo precisa e attiva coscienza delle ragioni per cui era sbagliato, e trasformando in questo lavoro se' e persuadendo gli altri italiani.

2. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
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Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

3. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: L'UOMO NONVIOLENTO DI FRONTE ALLA MORTE
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo quarto: "L'uomo nonviolento di fronte alla morte" (pp. 91-101). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

Secondo Tommaso d'Aquino "la virtu' della forza ha la funzione di mantenere la volonta' umana nella linea del bene morale, nonostante il timore di un male corporale. [...] Ora, il piu' terribile dei mali corporali e' la morte, che ci toglie tutti i beni" (1). Cosi', secondo Tommaso, "la forza ha la funzione di rafforzare l'anima contro i pericoli della morte" (2). Egli afferma allora che l'atto principale della virtu' della forza non e' di attaccare ma di sopportare: "Sopportare e' piu' difficile che attaccare" (3). Poiche' colui che sopporta l'attacco dell'avversario senza rendere colpo su colpo affronta la paura della morte, mentre colui che attacca l'avversario non fa che allontanare quella paura. "Per colui che attacca – scrive Tommaso d'Aquino - il pericolo resta allontanato, mentre e' presente per colui che sopporta l'attacco. [...] Colui che sostiene l'urto non teme, benche' abbia un motivo attuale di temere, ma colui che attacca non ha alcun motivo di timore presente allo spirito" (4).
Commentando questi pensieri di Tommaso d'Aquino, Jacques Maritain scrive: "La forza che colpisce mira a distruggere il male con l'aiuto di un altro male [fisico] inflitto ai corpi. Da cio' viene che il male, per quanto possa essere diminuito, passera' ancora dall'uno all'altro, e cio' senza fine. [...] La forza che sopporta tende a annullare il male ricevendolo e esaurendolo nell'amore, assorbendolo nell'anima sotto forma di dolore accettato; la' il male si arresta, non andra' oltre" (5).
Al contrario di chi colpisce, l'uomo che sceglie la nonviolenza ha coscienza che, rifiutando di uccidere, si assume il rischio di essere ucciso. Non e' detto che questo rischio sia necessariamente piu' grande per il nonviolento che per il violento. E' possibile, e anche probabile, che questo rischio sia meno grande per il nonviolento. Ma, comunque sia, la vera differenza non sta in questo. Cio' che cambia veramente e' che il nonviolento affronta direttamente il rischio di morire senza poter ricorrere a sotterfugi. Anche lui sente la paura della morte – e come potrebbe essere diversamente? – ma, scegliendo la nonviolenza, egli ha scelto di farle fronte e di tentare di superarla senza barare. E' per questo che, in definitiva, solo colui che accetta di morire puo' assumere il rischio di essere ucciso senza minacciare di uccidere. "Se si sa con tutta l'anima - scrive Simone Weil -  che si e' mortali e se si accetta questo con tutta l'anima, non si uccide" (6). La vera saggezza, la vera liberta', e' nel poter affrontare la morte senza paura, nel poter dire come Socrate, proprio mentre e' condannato a morte: "Della morte non me ne importa proprio un bel niente, ma di non commettere ingiustizia o empieta', questo mi importa soprattutto" (7). Diventando libero riguardo alla morte, l'uomo diventa libero riguardo alla violenza; padroneggiando l'angoscia della morte, egli acquista la liberta' della nonviolenza. Ma accettare di morire piuttosto di uccidere, non e' accettare la morte. Tutto al contrario, per protestare realmente contro la morte bisogna prima di tutto rifiutare di uccidere.
Spesso le grandi persone spirituali hanno raggiunto il linguaggio della filosofia per esprimere che l'amore per gli altri uomini implica di superare la paura della morte. Cosi', Guy Riobe', che fu un autentico mistico cristiano, scrive: "L'amore vero degli uomini implica che ci si faccia il prossimo degli altri, riconosciuti come altri, come differenti da noi, come stranieri a noi, nel loro mistero inviolabile. L'incontro fraterno di due esseri racchiude sempre una sfida alla morte; c'e' sempre un muro di separazione da superare; e quell'incontro non raggiunge la sua vera perfezione che nella risposta vittoriosa a questa sfida. E' chiaro che la sfida raggiunge proporzioni estreme quando si tratta per l'uomo di incontrare fraternamente il suo nemico o, piu' generalmente, quando gli uomini hanno da superare i muri della separazione che sono stati elevati tra i loro popoli o tra gli universi culturali ai quali appartengono" (8).
Nella logica della violenza, accettare di morire per la buona causa e' anzitutto voler uccidere per quella causa. Nella logica della nonviolenza, si tratta ugualmente di accettare di morire per la buona causa, ma di morire per non uccidere, perche' la volonta' di non uccidere precede la volonta' di non morire, e perche' la paura di uccidere e' piu' forte della paura di morire. La paura della morte diventa allora la paura della morte dell'altro. La trascendenza dell'uomo e' questa possibilita' di preferire il morire per non uccidere che l'uccidere per non morire, perche' la dignita' della propria vita ha piu' valore ai propri occhi che non la propria vita stessa. Poiche' da' senso alla vita dell'uomo, per questo il rischio della nonviolenza vale realmente la pena: esso vale la pena di soffrire e, se si presenta il caso, di morire.
Quando sara' vittima di un complotto dei poteri stabiliti, coalizzati contro di lui, Gesu' di Nazareth affrontera' la morte in atteggiamento di totale nonviolenza. Poiche' sa che sara' arrestato e consegnato ai suoi giustizieri, sente "tristezza e angoscia" (9), ma sapra' superare l'una e l'altra. Quando uno dei suoi compagni vorra' ricorrere alla violenza per difenderlo, gli chiedera' di rimettere la sua spada nel fodero (10). In seguito, e' con la piu' grande determinazione che egli fara' fronte ai suoi accusatori che lo condanneranno a morte. Gesu' muore cosi' in perfetta conformita' con il consiglio che aveva dato ai suoi amici: "Non temete niente da coloro che uccidono il corpo e dopo di cio' non possono farvi niente di piu'" (11).
Se Gesu' di Nazareth ha un tale atteggiamento davanti alla morte, e' perche' per lui – come ha sottolineato Rene' Girard – "la decisione di nonviolenza non puo' essere un impegno revocabile, una specie di contratto di cui non si sarebbe tenuti a rispettare le clausole che nella misura in cui le altre parti contraenti le rispettassero ugualmente" (12). E' dunque per essere fedele alle esigenze di nonviolenza che Gesu' accetta di morire piuttosto che ricorrere alla violenza: "Si tratta di morire, perche' continuare a vivere significherebbe sottomettersi alla violenza" (13). Rene' Girard esprime cosi' cio' che costituisce il centro stesso della saggezza di Gesu': "Non bisogna esitare a dare la propria vita per non uccidere, per uscire, cosi' facendo, dal cerchio dell'omicidio e della morte" (14). Bisogna quindi prendere alla lettera il precetto secondo il quale "colui che vuole salvare la propria vita la perdera'" (15) perche' "gli sara' necessario, in effetti, uccidere il suo fratello e questo e' morire, nel disconoscimento fatale dell'altro e di se stesso" (16). Quanto a colui che accetta di perdere la sua vita, "egli e' il solo a non uccidere, il solo a conoscere la pienezza dell'amore" (17).
Assumere il rischio della nonviolenza e' voler assumere totalmente il rischio della vita. La bellezza della vita, la sua grandezza e la sua nobilta', stanno nell'assumere il rischio della morte e superarlo ad ogni istante. Se la morte e' presente al nostro fianco dall'inizio della nostra vita, non dovremmo prendere coscienza che noi non ci avviciniamo ad essa, ma anzi ce ne allontaniamo ad ogni istante? Ogni istante di vita e' una vittoria sulla morte. Il senso stesso della vita e' quello di vincere la morte ad ogni istante. La morte in realta' non e' presente ma sempre futura: ogni giorno e' rinviata. Abbiamo dunque ancora il tempo di vivere. E' scegliendo la nonviolenza, preferendo il rischio di morire al rischio di uccidere, che l'uomo afferma il senso trascendente della vita. La violenza appare allora come la negazione della trascendenza della vita.
La violenza e la nonviolenza sono guardate e giudicate attraverso il prisma deformante dell'ideologia della violenza: noi mettiamo sul conto del coraggio, dell'onore, dell'eroismo la morte di colui che e' ucciso in un combattimento violento, mentre mettiamo sul conto dello scacco e dell'inefficacia la morte di colui che muore in un combattimento nonviolento. Riteniamo, da una parte, che lo scacco della violenza non sia un argomento che prova la sua inefficacia, ma pensiamo che provi piuttosto che la vittoria esige piu' violenza; e dall'altra parte, riteniamo che lo scacco della nonviolenza sia un argomento che prova la sua inefficacia e pensiamo che provi che solo la violenza puo' permettere di ottenere la vittoria.
L'estremo tragico dell'opzione per la nonviolenza non e' di morire per non uccidere, bensi' di non uccidere quando la violenza potrebbe forse permettere al mio prossimo piu' prossimo di non morire. L'uomo raggiunge qui il limite ultimo dell'esigenza della nonviolenza. Tuttavia, conviene non dimenticare che colui che ha optato per la violenza puo' ugualmente conoscere una situazione altrettanto tragica, perche' la sua azione rischia di provocare una maggiore violenza che uccide il suo prossimo piu' prossimo. Ma, inoltre, se conosce tale rischio, l'uomo violento pensa che vi sfuggira', mentre l'uomo nonviolento deve farvi fronte in tutta consapevolezza.
*
La nonviolenza e' un atteggiamento corporeo
Bisogna che non solamente la ragione, ma anche il corpo si decida alla nonviolenza. Il soggetto che ha paura della violenza, cioe' della morte, e' un essere incarnato, di carne, corporeo. La paura e' corporale e, per dominarla, il soggetto deve dominare il proprio corpo. Le tecniche che permettono all'individuo di conoscere e padroneggiare meglio il proprio corpo sono a questo punto molto utili per camminare sulla via della nonviolenza. Nell'azione nonviolenta e' il corpo che si avventura e rimane in prima linea, si espone ai colpi, sfida la violenza e affronta la morte. Se il corpo e' davvero troppo riluttante, paralizzato dalla paura e si impunta, sara' difficile alla ragione di ragionare. E' importante che il corpo si prepari e si alleni a padroneggiare se stesso, le sue emozioni e paure.
Cosi', la nonviolenza e' allo stesso tempo un atteggiamento corporale e razionale. Ogni pensiero e' inseparabile dalla sua espressione corporale. Il pensiero del soggetto incarnato si radica nel suo corpo, ed e' nell'azione nonviolenta che il soggetto fa l'esperienza corporale della nonviolenza. E' nell'azione nonviolenta che l'uomo di carne puo' pensare la nonviolenza e non gli e' possibile avere un pensiero chiaro e preciso della nonviolenza se essa non si radica in una esperienza corporea dell'azione nonviolenta.
La filosofia e' sempre una ri-flessione, cioe' un ritorno su di se', sulla propria esperienza e la propria azione. Se il filosofo non ha l'esperienza corporea della nonviolenza, come potra' elaborarne un pensiero razionale? Bisogna avere provato nel proprio corpo che l'azione nonviolenta e' possibile – il che non significa sempre vittoriosa – per arrivare a una concezione chiara della filosofia della nonviolenza. Non basta fare esperienza della violenza per comprendere la nonviolenza, bisogna inoltre fare esperienza della nonviolenza, cioe' dell'azione nonviolenta. La nonviolenza, in definitiva, non puo' essere pensata se non e' vissuta. Cosi', la filosofia della nonviolenza non e' intelligibile che attraverso l'esperienza dell'azione nonviolenta. Se la filosofia resta esterna all'azione nonviolenta – come chi, restando fuori da una casa, non puo' vederne che i muri – accadra' che ne constatera' solo i limiti, le debolezze, e sara' incapace di comprenderne la dinamica interna che le da' la sua forza.
Dunque, potra' il filosofo riflettere sulla nonviolenza se non e' lui stesso un "militante"? Ma l'uomo ragionatore diffida del militante. Costui non ha forse la cattiva reputazione di essere un attivista? Poiche' prende partito, non gli si rimprovera di cadere nell'intolleranza? Non e' egli sospetto di avere idee troppo fisse per essere ancora capace di riflettere? Certo, nessuno dubita che il militante sia un uomo di convinzioni, ma – paradossalmente – e' proprio per questo che si dubita che possa essere uomo di riflessione. Come se l'agire con convinzione non gli permettesse di avere la distanza necessaria alla riflessione, come se fosse meglio non agire per meglio riflettere!... Non conviene invece mettere in questione l'immagine del filosofo che riflette tenendosi fuori dalle beghe della citta'? Come se il fatto di non impegnarsi, di non prendere partito permettesse di riflettere meglio!... Non bisogna piuttosto affermare che, se la filosofia e' una ri-flessione sull'azione, il filosofo non puo' non agire e, in questo senso, non puo' non essere un militante? Noi pensiamo in effetti che si debba procedere a una riabilitazione filosofica della militanza. Non e' senza significato che il termine militante abbia la stessa radice etimologica della parola militare (dal latino miles, soldato): come il militare  pratica l'arte del combattimento armato, il militante nonviolento pratica l'arte della lotta nonviolenta.
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Le quattro virtu' cardinali
Il vero coraggio dell'uomo forte - e il coraggio, come suggerisce il suo senso etimologico, e' proprio dell'uomo: il termine latino virtus, di cui e' la traduzione, ha la radice vir, che significa "uomo" – e' l'essere pronto ad assumere il rischio della nonviolenza piuttosto che quello della violenza. Il coraggio e' una delle quattro virtu' cardinali, sulle quali deve poggiare come su dei cardini - cardinale viene dal latino cardo che designa il cardine, o ganghero, di una porta - la vita dell'uomo morale, che intende conformare i suoi pensieri e i suoi atti alle esigenze del bene. E infatti, come si dice, l'uomo che si abbandona alla violenza "esce dai gangheri". Piu' ancora che la collera, la violenza e' una follia. Le altre tre virtu' cardinali sono la prudenza, la temperanza e la giustizia, e anch'esse sono dei fondamenti dell'atteggiamento nonviolento dell'uomo morale. Secondo Aristotele, "la prudenza e' una disposizione, accompagnata dalla giusta ragione, rivolta verso l'azione e riguardante cio' che e' bene e male per l'uomo" (18). "Le persone prudenti – egli precisa - si caratterizzano per la loro capacita' di determinarsi saggiamente, la saggia deliberazione e' la rettitudine del giudizio conforme all'utilita' e riferentesi a qualche scopo di cui la prudenza ha permesso il giusto apprezzamento" (19). La violenza, in effetti, e' sempre una in-prudenza ed esiste un legame organico tra la virtu' della prudenza e l'esigenza di nonviolenza. Sulla temperanza, Aristotele dice che "costituisce un giusto mezzo relativamente ai piaceri" (20). "La nostra facolta' di desiderare – egli scrive - deve conformarsi alle prescrizioni della ragione. Cosi', per l'uomo temperante e' necessario che ci sia accordo fra questa facolta' e la ragione. Tutte e due si propongono infatti lo stesso scopo, che e' il bene" (21). Quanto alla giustizia, Aristotele la definisce come "la disposizione che ci rende capaci di compiere atti giusti, ce li fa compiere effettivamente, e ci fa desiderare di compierli" (22).
Ma, per un malinteso tragico fra storia e geografia, le virtu' cardinali sono nate in esilio, in terra di violenza. Lungo i secoli, la gente d'armi le ha costrette a parlare la loro lingua, a condividere le loro credenze, a sottomettersi alle loro ideologie, ad adottare i loro usi e costumi, a sostenere le loro cause. Ma oggi esse rivendicano che si riconosca la loro vera identita' e richiedono che le si lasci vivere in terra di nonviolenza. E' urgente organizzare il loro rimpatrio.
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Il perdono
Bisogna ammetterlo: il perdono non ha una buona reputazione. E' troppo spesso rivestito di una connotazione religiosa che imbroglia il suo significato associandolo all'oscura nozione di peccato. Le religioni storiche – e in modo del tutto particolare il cristianesimo – hanno cosi' sviluppato tutta una retorica sul perdono dei peccati che in definitiva non concerneva molto la storia degli uomini. E' dunque un'impresa difficile, ma allo stesso tempo necessaria, legittima e feconda, riportare l'atteggiamento del perdono nel suo ordine proprio, quello della filosofia.
L'importanza decisiva dell'esigenza etica del perdono nelle relazioni umane e' messa in evidenza da cio' che la sua negazione implica fatalmente: la catena spietata delle vendette e delle rivincite. La vendetta e' stretta reciprocita', e' pura imitazione della violenza dell'avversario. Anzitutto il perdono viene a spezzare questa reciprocita' e questa imitazione. Mentre il risentimento, il rancore e l'odio imprigionano l'individuo nelle catene del passato, il perdono viene a liberarlo e a permettergli di entrare nell'avvenire. "Il perdono - scrive Vladimir Jankelevitch - scioglie cosi' l'ultimo laccio che ci legava al passato, che ci teneva indietro e ci tratteneva in basso: lasciando irrompere l'avvenire e accelerandone l'avvento, il perdono conferma bene la direzione generale e il senso di un divenire che mette l'accento tonico sul suo futuro" (23). La vendetta prolunga e ripercuote nell'avvenire le conseguenze distruttrici di un atto malefico commesso in circostanze che ora non esistono piu'. La vendetta e' inopportuna, intempestiva, anacronistica; essa viene sempre fuori tempo.
Colui che perdona non ignora affatto il desiderio di vendetta, ma decide di superarlo e sorpassarlo. La decisione di non vendicarsi puo' essere presa proprio per il fatto che, precisamente, il desiderio di vendetta c'e', ben presente in noi, e vuole trascinare la nostra decisione. E' per questo che il perdono richiede un grande coraggio. E' perch' la vendetta e' desiderabile che il perdono e' un dovere difficile. Il perdono non e' frutto dell'inclinazione, non si radica in un sentimento, ma in una decisione della volonta'; e' un atto, e' un'azione, e' – dice Jankelevitch – "un evento" (24) che avviene nella storia per cambiarne il corso. "Il perdono - scrive Hannah Arendt - e' la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in modo inatteso, non condizionato dall'atto che l'ha provocato, e che libera dalle conseguenze dell'atto sia colui che perdona sia colui che e' perdonato" (25).
Il perdono, certo, non perde la memoria del passato – l'oblio non e' una virtu' ma solo una distrazione – ma si rivolge risolutamente verso l'avvenire. Esiste un "dovere della memoria" del passato, che e' un dovere di vigilanza per l'avvenire, ma bisogna ugualmente vegliare a che la memoria del male  non ingombri il futuro. "L'oblio - scrive Emmanuel Levinas - annulla le relazioni con il passato, mentre il perdono conserva il passato perdonato nel presente purificato. L'essere perdonato non e' l'essere innocente" (26). Cosi' il perdono non distrugge il ricordo, ma e' una scommessa sull'avvenire. Questa scommessa puo' essere perduta, ma non perde per questo il suo senso. Il perdono e' senza condizioni, e' dunque senza garanzie. Il perdono e' un dono, dunque non si merita e non si riprende. Per divenire effettiva nel divenire storico, la decisione di perdonare deve stabilirsi nella durata. Quando uno dei suoi compagni gli chiede se dovra' perdonare fino a sette volte le offese che gli fara' subire suo fratello, Gesu' risponde: "Io non ti dico di perdonare fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette volte" (27). Mentre la vendetta e' una forma di disperazione, il perdono e' interamente animato dalla speranza di ricominciare. Rifiutare la vendetta e offrire il perdono al proprio avversario non e' affatto rinunciare alla giustizia. Questo presuppone che vendicarsi non e' affatto farsi giustizia, cio' che noi effettivamente siamo portati ad ammettere. Tutto al contrario, perdonare è aprire il cammino della giustizia.
Il dovere del perdono si situa nel cuore stesso dell'esigenza di nonviolenza. Perdonare, in definitiva, e' sempre perdonare una violenza. Perdonare, e' decidere unilateralmente di rompere la catena senza fine delle violenze che si giustificano le une con le altre, e' rifiutare di continuare indefinitamente la guerra, e' voler fare la pace con gli altri come con se stesso. Infatti, colui che e' preoccupato di vendicarsi, non si trova in pace. Perdonare, e' pacificare il nostro avvenire, rifiutando di restare noi stessi prigionieri di un ciclo perpetuo di violenze. La vendetta rende veramente la vita impossibile e la morte molto probabile.
Ma il rifiuto della vendetta non e' tutta l'opera del perdono. Questo deve ancora ricostruire una nuova relazione tra l'offeso e l'offensore. Qui conviene distinguere il perdono personale, quando l'offesa stessa si inscrive direttamente in un rapporto da persona a persona, e il perdono impersonale, quando l'offesa si colloca nel rapporto da una collettivita' ad un'altra, cioe' in un rapporto sociale o politico. In una relazione personale si tratta di perdonare al proprio prossimo; in un rapporto politico si tratta di perdonare a qualcuno lontano da noi. In un caso come nell'altro, il perdono rende possibile, se non la riconciliazione, almeno la conciliazione, cioe' permette di ristabilire, o di stabilire, delle relazioni di giustizia. Ma, affinche' queste relazioni diventino effettive, importa che colui che ha fatto il male riconosca le proprie responsabilita', entri lui stesso nella storia del perdono e partecipi alla sua dinamica.
In realta', i grandi massacri della storia non sono stati generati da rancori personali, ma da odi collettivi. Sono dunque soprattutto questi che bisogna spegnere e solo l'opera del perdono puo' arrivarvi. Il perdono appare allora come un momento decisivo dell'azione politica che si da' per finalita' la liberazione della storia dal meccanismo cieco della violenza.
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Note
1. Tommaso d'Aquino, Somma teologica, 2-2, questione 123, articolo 4.
2. Idem ibidem, articolo 5.
3. Idem ibidem, articolo 6.
4. Idem, ibidem.
5. Jacques Maritain, Du regime temporel et de la liberte', Paris, Desclee de Brouwer, 1933, p. 207; tr. it. Strutture politiche e liberta', a cura di A. Pavan, Brescia 1968.
6. Simone Weil, Cahiers II, op. cit. p. 147; tr. it. cit.
7. Platone, Apologia di Socrate, XX, 32-d (trad. it. di Manara Valgimigli).
8. Citato da Jean-François Six, Le Pere Riobe', un homme libre, Paris, Desclee de Brouwer, 1988, p. 69.
9. Vangelo di Matteo, 26, 37.
10. Idem, ibidem, 26, 51-52.
11. Vangelo di Luca, 12, 4.
12. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, op. cit., p. 230; tr. it. cit.
13. Idem, ibidem, p. 237.
14. Idem, ibidem, p. 238.
15. Vangelo di Matteo, 16, 25.
16. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, op. cit., p. 238; tr. it. cit.
17. Idem, ibidem.
18. Aristotele, Etica Nicomachea, libro VI, capitolo V.
19. Idem, ibidem, libro VI, capitolo X.
20. Idem, ibidem, libro III, capitolo V.
21. Idem, ibidem, libro III, capitolo XII.
22. Idem, ibidem, libro V, capitolo I.
23. Vladimir Jankelevitch, Le pardon, Paris, Aubier, 1967, p. 24. In italiano vedi: Il perdono, IPL, Milano 1969; Perdonare?, Giuntina, Firenze, 1987.
24. Idem, ibidem, p. 12.
25. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, Paris, Calmann-Levy, Presses Pocket, 1988, p. 307; tr. it. dell'originale The Human Condition, The University of Chicago, Usa, 1958, Vita activa. La condizione umana, RCS Libri, Milano 1997; Saggi Tascabili Bompiani, Milano 1998.
26. Emmanuel Levinas, Totalite' et Infini, op. cit., p. 316; tr. it. cit.
27. Vangelo di Matteo, 18, 21-22.

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Walter Laqueur (a cura di), Dizionario dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004, 2007, pp. XXXIV + 934.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5308 del 30 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
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