[Nonviolenza] Telegrammi. 5306



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5306 del 28 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Sosteniamo Narges Mohammadi e la lotta delle donne in Iran. Chiediamo la liberazione dell'attivista Premio Nobel per la Pace e che siano accolte le sue richieste di rispetto dei diritti umani
2. Benito D'Ippolito: Vladimiro e Volodimiro
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: La nonviolenza come esigenza filosofica (parte prima)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. SOSTENIAMO NARGES MOHAMMADI E LA LOTTA DELLE DONNE IN IRAN. CHIEDIAMO LA LIBERAZIONE DELL'ATTIVISTA PREMIO NOBEL PER LA PACE E CHE SIANO ACCOLTE LE SUE RICHIESTE DI RISPETTO DEI DIRITTI UMANI

Sosteniamo Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace, detenuta in Iran per la sua lotta nonviolenta in difesa dei diritti umani e per l'abolizione della pena di morte.
Sosteniamo la lotta nonviolenta delle donne in Iran per la dignita' umana di tutti gli esseri umani.
Sia liberata Narges Mohammadi e tutte le prigioniere e tutti i prigionieri di coscienza, tutte le detenute e tutti i detenuti politici, tutte le persone innocenti perseguitate e sequestrate, in Iran come ovunque.
Cessi l'oppressione delle donne in Iran come ovunque nel mondo, siano rispettati i diritti umani di tutti gli esseri umani.
*
Chiediamo al Parlamento e al governo italiano di premere sul governo iraniano affinche' a Narges Mohammadi sia restituita la liberta' e le sue richieste di rispetto dei diritti umani siano accolte.
Chiediamo al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo e alla Commissione Europea di premere sul governo iraniano affinche' a Narges Mohammadi sia restituita la liberta' e le sue richieste di rispetto dei diritti umani siano accolte.
Chiediamo al Segretario Generale e all'Assemblea Generale dell'Onu di premere sul governo iraniano affinche' a Narges Mohammadi sia restituita la liberta' e le sue richieste di rispetto dei diritti umani siano accolte.
*
Chiediamo a tutte le persone di volonta' buona, a tutti i movimenti democratici, a tutte le istituzioni sollecite del bene comune e della dignita' umana, a tutti i mezzi d'informazione impegnati per la verita' e la giustizia, d'impegnarsi a sostegno di Narges Mohammadi e delle donne iraniane.
*
Donna, vita, liberta'.

2. REPETITA IUVANT. BENITO D'IPPOLITO: VLADIMIRO E VOLODIMIRO

Questo e' lo specchio, lo specchio del principe.
Vladimiro si specchia e vede Volodimiro
si specchia Volodimiro e Vladimiro vede.
Si strizzano gli occhi si stringono la mano
da quella stretta sangue umano stilla.

Questo e' l'enigma, l'enigma del potere.
Un governante manda a morte un popolo
il proprio o l'altrui a lui che gliene cale?
Che chi li comanda vuole il loro sterminio
al momento di marciare molti non sanno.

Tutto e' chiarissimo e tutto gronda sangue.
Chiunque fornisce armi alla guerra
coopera al massacro d'inermi e d'innocenti.
Chiunque della guerra si fa propagandista
strozza con le sue mani chi della guerra e' vittima.

La Nato tutti i pozzi ha avvelenato.
Senza esitare l'impero americano
la guerra atomica in Europa ha preparato.
i governanti europei l'ecatombe
dei popoli europei stanno eseguendo.

Io vedo cio' che ogni persona vede.
Io dico quello che ogni persona sa:
che occorre insorgere contro i governi assassini
che occorre abolire gli eserciti e le armi
che occorre salvare tutte le vite.

Ogni vittima ha il volto di Abele.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Solo la nonviolenza puo' salvare
l'umanita' che e' una
e quest'unico mondo che vive.

3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
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Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: LA NONVIOLENZA COME ESIGENZA FILOSOFICA (PARTE PRIMA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo terzo: "La nonviolenza come esigenza filosofica" (pp. 67-89). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

Quando l'uomo prende coscienza della violenza come di una perversione radicale della sua relazione all'umanita', la propria e quella dell'altro, egli scopre che deve opporle un no categorico. Questo rifiuto di riconoscere la legittimita' della violenza fonda il concetto di nonviolenza.
Quando l'uomo prova la violenza, in se' e nell'altro, egli scopre la richiesta di nonviolenza che porta in se'. Certo, questa richiesta della ragione, questa esigenza della coscienza, questa rivendicazione dello spirito sono nell'uomo prima che egli incontri la violenza, ma e dopo averla sperimentata che egli prende coscienza della disumanita', irragionevolezza, e non-senso della violenza. Noi consideriamo l'esigenza di nonviolenza nell'uomo come anteriore e superiore al desiderio di violenza. Ma e' urtandosi - dolorosamente - con la realta' della violenza che l'uomo ha l'idea della nonviolenza. Egli comprende allora che non puo' costruire la sua umanita' e rivendicare la sua identita', conquistare la sua verita' e acquistare la sua autenticita', che situandosi risolutamente nella dinamica della nonviolenza. La nonviolenza non e' la conclusione di un ragionamento, non e' una deduzione, ma una opzione della ragione. L'uomo comprende che non puo' dare un senso alla sua vita che rifiutando di cedere alla sollecitazione della violenza. Dire no alla violenza, affermando che l'esigenza di nonviolenza fonda e struttura l'umanita' dell'uomo, e' rifiutare il vassallaggio che la violenza esige da ciascuno ed e' voler restare padroni del proprio destino. Ed e' importante non soltanto rifiutare di legittimare la violenza: bisogna delegittimarla.
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La nonviolenza, principio della filosofia
Non e' possibile pensare l'uomo nel suo rapporto con la violenza - la violenza che si inscrive nella relazione con gli altri uomini - senza concepire e affermare l'esigenza di nonviolenza. L'opzione per la nonviolenza appare come l'evento primordiale che inaugura la conoscenza filosofica. L'architettura che struttura la filosofia, tanto come ontologia (conoscenza dell'essere), quanto come etica (conoscenza del bene), e come metafisica (conoscenza dell'assoluto), riposa sull'esigenza di nonviolenza. E' questa esigenza che da' senso e trascendenza alla vita dell'uomo. Il primo fondamento dell'etica e' l'obbligo, secondo la formula di Simone Weil, di "sforzarsi di diventare tali che si possa essere nonviolenti" (1).
La nonviolenza non e' una filosofia possibile, non e' una possibilita' della filosofia, e' la struttura della filosofia. Non e' possibile alcuna filosofia che non affermi che l'esigenza di nonviolenza e' incontestabile, e' l'espressione irrecusabile dell'umanità dell'uomo, e' costitutiva dell'umano nell'uomo. Disconoscere questa esigenza o, peggio ancora, rifiutarla, e' negare la possibilita' umana di spezzare la legge della necessita', e' negare all'uomo la liberta' di affrancarsi dalla fatalita' per diventare un essere ragionevole.
La nonviolenza diventa allora il principio della filosofia, cioe' la sua proposizione prima e direttiva, il suo inizio e il suo fondamento. In altri termini, la ricerca filosofica, che ha l'ambizione di approssimare la saggezza che da' senso alla vita dell'uomo, si fonda sul principio di nonviolenza. Questo principio non e' posto a priori, ma dalla ri-flessione e, nella ri-flessione, e' universale.
Ogni filosofia che non delegittimi la violenza e non opti per la nonviolenza, manca al suo scopo. Perche' la violenza, interamente compiuta da mani d'uomo, che accumula nella storia distruzioni, sofferenze, crudelta' e morti, e' davvero lo scandalo di questo mondo e ogni filosofia che non la contesti radicalmente lascia, in definitiva, libero corso al suo dilagare nella storia. Anche solo per difetto, una tale filosofia scende a patti con le ideologie che invitano al crimine per difendere le cause giuste, che diventano allora detestabili; da' credito alle propagande che giustificano l'omicidio sviluppando una retorica che, con tutti i possibili travestimenti della verita', offre buoni pretesti ai peggiori maneggi e la propria garanzia agli innumerevoli massacri che insanguinano regolarmente la terra degli uomini.
Paradossalmente, sara' rimproverato a chi ha optato per la nonviolenza di essere intollerante verso quelli che non hanno fatto questa scelta. La tolleranza non dovrebbe essere una delle dimensioni essenziali della nonviolenza? Se la tolleranza e' il rispetto degli altri, la nonviolenza implica in effetti il piu' grande rispetto del proprio interlocutore. Ma questo rispetto non soltanto non esclude il confronto delle idee, ma lo richiede. Non e' vero che tutte le idee siano rispettabili. Se la violenza e' detestabile, le idee che la appoggiano e la giustificano sono esse stesse detestabili. A fondamento della convinzione di chi ha optato per la nonviolenza, c'e' la presa di coscienza che la violenza e' intollerabile. Egli non potra' quindi che trovarsi in profondo disaccordo con chi la tollera e non gli sara' possibile tacere questo disaccordo. Poiche' ogni tolleranza della violenza, ma anche delle idee e delle ideologie che fondano questa tolleranza, gli sembrano essere gia' una complicita' oggettiva con la violenza che mutila e uccide l'umanita' degli uomini. E' nella natura stessa di ogni disaccordo di essere conflittuale. Certo, e' un conflitto di idee e non di persone, ma sarebbe inutile nascondersi che le idee implicano anche le persone. Chi ha optato per la nonviolenza non puo' evitare questo conflitto.
Non soltanto deve accettarlo e assumerlo, ma spesso non potra' non provocarlo. Cosi', l'esigenza di nonviolenza richiama la virtu' dell'intransigenza. Percio' l'opzione per la nonviolenza non va senza un grande rigore dell'intelligenza, che rifiuta le facilita' della compiacenza e implica una certa durezza.
Generalmente, e' invocando la necessita' che l'uomo afferma di dover ricorrere alla violenza. Ma la giustificazione della violenza con la necessita' e' la prova che la violenza non ha una giustificazione umana. L'uomo, infatti, non realizza la sua umanita', non conquista la sua liberta' che al di la' della necessita'. E' precisamente per il fatto che la violenza porta il marchio inalterabile della necessita', che essa e' disumana. Mettendosi al servizio della violenza, l'uomo si sottomette al concatenamento della necessita', e, per questo, aliena la sua umanita' e perde la sua liberta'. La necessita' e' proprio cio' da cui deve imparare a liberarsi per conquistare la sua dignita' di essere libero. Dunque, necessita' non e' legittimita'. Nella Repubblica di Platone, Socrate fustiga il sofista che inganna il popolo "chiamando giusto e bello il necessario, perche' non ha visto e non e' capace di mostrare agli altri quanto la natura del necessario differisce, in realta', da quella del buono" (2). Simone Weil fara' valere spesso questa distinzione stabilita da Platone tra il necessario e il bene. Scrive nelle Intuizioni precristiane: "C'e' una distanza infinita tra l'essenza del necessario e quella del bene" (3). Anche quando la violenza appare necessaria, l'esigenza di nonviolenza rimane; la necessita' della violenza non sopprime l'obbligo di nonviolenza.
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L'ahimsa
L'origine della parola nonviolenza e' la parola sanscrita ahimsa, impiegata nei testi della letteratura buddhista e induista, di cui nonviolenza e' la traduzione letterale. Essa e' formata dal prefisso negativo a e da himsa, che significa il desiderio di nuocere, di fare violenza a un essere vivente. L'ahimsa e' dunque l'assenza di ogni desiderio di violenza, cioe' il rispetto, nel pensiero, nella parola, nell'azione, della vita di ogni essere vivente. Se si sta all'etimologia, una traduzione possibile sarebbe in-nocenza. Le etimologie di queste due parole sono infatti analoghe: in-nocente viene dal latino in-nocens e il verbo nocere (fare del male, nuocere) proviene esso stesso da nex, necis, che significa morte violenta, omicidio. Cosi' l'innocenza e' a rigor di termini la virtu' di colui che non si rende colpevole verso altri di alcuna violenza omicida. Tuttavia ai nostri giorni la parola innocenza evoca piuttosto la purita' sospetta di colui che non commette il male piu' per ignoranza o incapacita' che per virtu'. La nonviolenza non deve essere confusa con questa innocenza, pero' questa distorsione del senso della parola e' significativa: come se il fatto di non commettere il male rivelasse una specie di impotenza... La nonviolenza riabilita l'innocenza come la virtu' dell'uomo forte e come la saggezza dell'uomo giusto.
Il primo dei cinque precetti insegnati dal Buddha riguarda l'ahimsa: "Fare in modo di non uccidere degli esseri viventi" (4). In un altro testo, il Buddha insegna che tra le otto vie che permettono all'uomo di liberarsi da ogni volonta' cattiva e di raggiungere cosi' la saggezza, c'e' "l'intenzione corretta" che comporta "l'intenzione di non nuocere", la "parola corretta" che implica di "evitare l'ingiuria", e "l'azione corretta" che consiste nell'"evitare di uccidere" (5).
Secondo Patanjali, il fondatore della filosofia dello yoga, l'ahimsa e' la prima esigenza etica alla quale deve sottomettersi colui che vuole giungere alla perfezione; in altre parole il "trattenere" la violenza e' il primo esercizio che deve praticare colui che vuole impegnarsi sulla via della purificazione. L'insegnamento di Patanjali e' contenuto nello Yoga-Sutra, un breve testo composto di 195 aforismi suddivisi in 4 capitoli. Si ignora tutto della vita di Patanjali. Non si sa neppure se e' vissuto nel II secolo a.C. oppure nel IV secolo della nostra era. Quel che e' certo e' che l'insegnamento dello Yoga-Sutra corrisponde ad una saggezza molto antica. Nel secondo libro, Patanjali espone "le regole di vita nella relazione con gli altri": esse sono "la nonviolenza, la verita', il disinteresse, la moderazione, il rifiuto di possessi inutili". Queste regole di vita sono universali, perche' "non dipendono ne' dal modo di esistenza, ne' dal luogo, ne' dall'epoca, ne' dalle circostanze". Quello che perturba l'atteggiamento dell'uomo quando egli infrange queste regole di vita, sono i suoi pensieri e "questi pensieri - come la violenza, che la si viva, che la si provochi o la si approvi - sono causati dall'impazienza, dalla collera e dall'errore". Se, con il suo atteggiamento interiore, l'uomo vive in uno stato di nonviolenza, egli puo' arrivare a disarmare la violenza degli altri: "se qualcuno e' stabilito nella nonviolenza, attorno a lui l'ostilita' sparisce" (6).
La parola ahimsa ha una forma negativa, ma il suo significato e' positivo, poiche' si tratta di una liberazione rispetto ad un desiderio di violenza che, esso, e' interamente negativo. Il senso di ahimsa e'  positivo tanto quanto quello della parola sanscrita arogya, che designa la salute e il cui significato letterale e' "assenza di malattia". L'ahimsa e' molto piu' di una proibizione, e' un'esigenza. E' un principio.
La violenza, in definitiva, e' un errore del pensiero. Il simbolo del pensiero giusto e' una bilancia giusta. E la bilancia simboleggia anche la giustizia. Un giudizio giusto e' un giudizio equilibrato. E il fondamento della giustizia e' un pensiero giusto. Solo un pensiero giusto puo' rifiutare la violenza, delegittimarla, privarla del diritto di cittadinanza che le e' stato indebitamente riconosciuto dalle ideologie dominanti. Solo un pensiero giusto puo' fondare l'esigenza di nonviolenza. Per la sua etimologia (dal latino pensare), pensare vuol dire prima di tutto pesare. Il pensiero giusto e' la ricerca di un pensiero equilibrato. Ogni squilibrio nel giudizio e' un errore di pesata, un errore di pensiero. E il giudizio squilibrato introduce uno squilibrio nel comportamento, nell'azione, che si manifesta nella violenza. Per la sua essenza stessa, la violenza e' squilibrio. Lo scopo della nonviolenza e' la ricerca di un equilibrio attraverso lo stesso conflitto.
Se noi abbiamo di primo acchito una concezione negativa della nonviolenza, e' perche' abbiamo una percezione positiva della violenza. Precisamente a causa della sua forma negativa, e' stato detto spesso che la parola nonviolenza e' scelta male e che sarebbe preferibile immaginarne un'altra che esprima in maniera positiva il rispetto dell'umanita' nell'uomo. In realta', queste parole esistono gia' in grande numero, e tra di esse si trova in prima fila la parola amore. Si puo' effettivamente far valere l'argomento che l'amore vero implica l'esigenza di nonviolenza. Ma la parola amore ha molti significati: in linguaggio semantico, e' un parola polisemica (dal greco poly, numeroso, e semainein, significare). I linguisti ci fanno osservare che piu' alta e' la frequenza di una parola, piu' essa e' polisemica. In realta', la parola amore e' stata talmente usata che e' consunta. Il piu' spesso, l'insegnamento dell'amore, attraverso le diverse tradizioni spirituali, si e' trovato prigioniero di una retorica che non ha impedito agli uomini di sottomettersi alla legge della violenza. Quante volte l'amore e la violenza sono state congiunte l'uno all'altra nella stessa esaltazione di una causa forzatamente sacralizzata? Quante volte si e' predicata la violenza in nome dell'amore? "L'amore, scrive Simone Weil, fa la guerra altrettanto bene come la pace. L'amore va alla guerra piu' naturalmente che alla pace, per quel fanatismo che fonda la tirannia. [...] La pace non sara' fondata dall'amore ma dal pensiero" (7).
Cosi', il piu' delle volte, gli spiritualisti, che siano di ispirazione religiosa o meno, hanno voluto predicare l'amore mentre si adattavano molto bene alla violenza. Ora, come ha sottolineato Henri-Bernard Vergote, non si potrebbe parlare di spiritualita' se non in rapporto con la nonviolenza. E tuttavia, bisogna notarlo, "per non aver saputo riconoscere lucidamente nella violenza l'assoluta opposizione dello spirito, e dunque di ogni via che si richiami ad esso, sotto forma religiosa o laica, una certa "spiritualita'" se ne e' quasi sempre fatta incosciente complice, fornendole l'alibi insperato di una legittimazione che ne rende l'esercizio meno brutale perche' meno apparentemente contestabile. Si potrebbe anche progettare una storia della violenza che non sarebbe niente altro che una storia di questo disconoscimento" (8).
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Elogio della bonta'
L'amore, per la relazione di troppo forte prossimita' che pretende avere con l'assoluto, si trova troppo spesso messo in ombra dalla violenza. E' per questo che, per parlare dell'esigenza di nonviolenza, noi preferiamo fare l'elogio della bonta'. Cosi' facendo, non intendiamo affatto opporre la bonta' all'amore, ma, al contrario, esprimere che l'amore vero si manifesta nella bonta' che esclude ogni violenza. La filosofia della nonviolenza non postula affatto la bonta' naturale, intrinseca, dell'uomo. Egli non e' buono ma puo' essere buono. Non e' nella sua essenza di essere buono ma di poter essere buono. Cio' implica che e' ugualmente nella sua essenza di poter essere malvagio. E' nella natura dell'uomo poter essere buono e/o cattivo. Questa ambivalenza caratterizza la sua essenza.
L'uomo fa esperienza della bonta' non quando e' buono lui stesso – del resto, come potrebbe avere la certezza di esserlo? -, ma quando incontra un altro uomo che da' prova di bonta' verso di lui. Io faccio esperienza della bonta' dell'altro per il bene che questa bonta' mi fa, per il benessere che mi da'. Grazie alla bonta' dell'altro, io mi sento bene, nel mio corpo, nella mia vita. Grazie alla bonta' dell'altro, io provo la dolcezza del vivere. Per il fatto che, esprimendomi la sua bonta', l'altro mi considera, io stesso posso prendermi in considerazione; letteralmente, egli mi da' tutta la sua considerazione.
E' dunque alla bonta' che il filosofo preferira' rivolgere un inno, esprimendosi sullo stesso registro sul quale Paolo di Tarso scrisse una volta un inno alla carita' (9), nella quale egli vedeva la pienezza dell'amore. La bonta' rifiuta ogni discriminazione verso le persone; e' attenta a ciascuno. La bonta' rende giustizia ad ognuno, ma da' piu' di cio' che la giustizia esige. La bonta' accoglie l'altro, lo sconosciuto, lo straniero con sollecitudine. La bonta' e' benevola, vuole bene; si sforza di fare bene. La bonta' e' magnanima. La bonta' non si spazientisce; non va in collera. La bonta' non attacca lite con nessuno; non provoca. La bonta' ha la forza di non rendere male per male; non si vendica. La bonta' non usa violenza perche' la violenza non e' buona; la bonta' e' essenzialmente nonviolenta. La bonta' e' indulgente. La bonta' gioisce della felicita' degli altri e soffre della loro infelicita'. La bonta' e' simpatia, e' com-passione. La bonta' s'inquieta per l'altro; essa genera la sollecitudine (dal latino sollicitudo, inquietudine). La bonta' e' fedele; e' inalterabile nel tempo. La bonta' e' un dono; non esige niente in cambio. La bonta' e' disinteressata; non cerca alcun vantaggio o ricompensa. La bonta' non si fa notare; essa fugge l'ostentazione. La bonta' agisce subito; non rinvia nel futuro quello che il presente le chiede. La bonta' prende la difesa dei piu' deboli e dei piu' privi di risorse; resiste alle pretese dei potenti e alle tracotanze dei ricchi. Ma anche nel conflitto, che essa non fugge, la bonta' non ricerca che la bonta'.
Lao-tse, nel capitolo 49 del Tao Te King (10), fa parlare il saggio in questi termini: "Io tratto con bonta' quelli che hanno la bonta'; io tratto con bonta' quelli che sono senza bonta'. E cosi' raggiungo la bonta'".
Presentandosi come negazione, la parola nonviolenza non esprime che una condizione necessaria al rispetto dell'umanita' nell'uomo. Questa condizione non e' sufficiente, ma e' assolutamente necessaria. E' una condizione sine qua non, senza la quale e' impossibile definire un atteggiamento che sia rispettoso della vita umana. La questione posta all'uomo dalla violenza e' preliminare ad ogni altra. Importa che l'uomo le dia una risposta definitiva che sia un rifiuto. Ogni esitazione, ogni tergiversazione e' gia' una complicita', una confessione di debolezza. E' per questo che la parola nonviolenza e' il termine piu' giusto, il piùu' rigoroso e il piu' razionale, per esprimere cio' che vuole significare. E' decisivo perche' esprime un principio. L'esigenza di nonviolenza e' un imperativo categorico: bisogna prima di tutto rifiutare ogni complicita' personale con la violenza - e la peggiore delle complicita' e' quella dell'intelligenza - per tentare di sgombrare i cammini che conducono verso il pieno e intero riconoscimento dell'umanita' nell'uomo. "Per essere pronti a sperare in cio' che non inganna, scrive Bernanos, bisogna per prima cosa disperare di cio' che inganna" (11). Cosi', per porre la nostra speranza nei mezzi che non ingannano, bisogna anzitutto disperare della violenza come mezzo per costruire un mondo umano. La prima esigenza della giustizia verso altri e' di non fare loro alcun male, di non nuocere ad essi in nulla.
Secondo Arthur Schopenhauer, il fondamento principale dell'atteggiamento dell'uomo di fronte all'altro uomo e' la "pieta'"; essa, tutto all'opposto di un sentimento di condiscendenza mescolata al disprezzo, ha la sua radice nella compassione per l'altro che e' essenziale alla coscienza umana. Schopenhauer sottolinea il carattere negativo dell'esigenza contenuta nella pieta': "L'efficacia di questo motivo morale vero e naturale e' dunque in primo grado del tutto negativa. Primariamente, noi siamo tutti inclinati all'ingiustizia e alla violenza, perche' i nostri bisogni, le nostre passioni, le nostre collere e i nostri odii, si offrono alla nostra coscienza del tutto direttamente [...]; al contrario, le sofferenze che la nostra ingiustizia e la nostra violenza hanno causato ad altri, non si offrono al nostro spirito se non per una via indiretta, con l'aiuto della rappresentazione. [...] Tale e' dunque il modo di azione della pieta' nel suo primo grado: essa paralizza quelle potenze nemiche del bene morale che abitano in noi, e cosi' risparmia ad altri i dolori che io causerei loro; essa mi grida: "Alt! fermati!"; essa copre i miei simili come uno scudo, li protegge dalle aggressioni che senza di essa il mio egoismo e la mia cattiveria tenterebbero" (12). Cosi' la giustizia, che ha la sua sorgente nella pieta', non comanda se non del negativo: essa esige da me di non infliggere alcuna sofferenza ad altri e di non far loro alcun torto. Al grado superiore, la pieta' agisce in modo positivo e mi spinge a venire in aiuto al mio prossimo. Ugualmente, la bonta', che e' per Shopenhauer l'espressione superiore della compassione, mi tratterra' anzitutto dal fare torto ad altri in qualunque cosa, poi, in seguito, mi chiedera' di soccorrere ogni uomo che soffre.
Le prescrizioni della coscienza morale sono piu' imperative e piu' categoriche quando spingono l'uomo a non fare il male che quando lo invitano a fare il bene. E' sempre cosi': noi abbiamo piu' certezza in relazione al male che in relazione al bene ed e' prendendo coscienza del male che arriviamo alla conoscenza del bene. "In rapporto al male, scrive Hans Jonas, noi non siamo nell'incertezza; la certezza in rapporto al bene noi non la otteniamo, in generale, se non mediante il rovesciamento del male" (13). Se l'obbligo di nonviolenza non e' una certezza per l'uomo, la condotta della sua vita rischia fortemente di non essere affidata che a delle incertezze. Cosi' l'obbligo di non volere la morte dell'altro e' il primo "comandamento" dell'etica. "Se il comandamento, scrive Paul Ricoeur, non puo' mancare di rivestire la forma della proibizione, e' precisamente a causa del male: a tutte le figure del male risponde il no della morale. La' risiede senza dubbio la ragione ultima per la quale la forma negativa della proibizione e' inattaccabile" (14). Ma Ricoeur sottolinea subito che la proibizione non e' che l'espressione di una affermazione la quale, in realta', la precede: "Sul piano dell'obiettivo etico, in effetti, la sollecitudine, in quanto scambio mutuo della stima di se' tra le persone, e' del tutto una affermazione. Questa affermazione, che si puo' ben dire originaria e' l'anima nascosta della proibizione. E' quell'affermazione che, in ultima analisi, arma la nostra indignazione, cioe' il nostro rifiuto della indegnita' inflitta ad altri" (15).
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"Non uccidere"
La nonviolenza e' l'attualizzazione nella storia umana della piu' profonda esigenza della coscienza razionale e dunque universale dell'uomo, che si e' espressa nell'imperativo, anch'esso formalmente negativo: "Non uccidere", il quale si oppone a tutte le ragioni che ordinano all'uomo: "Uccidi". (Qui non ha importanza che questa esigenza abbia talvolta rivestito una forma religiosa. Al contrario sarebbe importante comprendere perche' le religioni, lungo tutta la loro storia, hanno legittimato cosi' tante carneficine). Questa proibizione dell'omicidio si impone perche' il desiderio di uccidere si trova nell'uomo. L'omicidio e' proibito perche' e' possibile, e perche' questa possibilita' dell'uomo e' inumana. La proibizione e' imperativa perche' la tentazione e' imperiosa; e la proibizione e' tanto piu' imperativa quanto piu' la tentazione e' imperiosa. Tuttavia, l'imperativo "Non uccidere" non e' un comandamento che viene dal di fuori o dall'alto e che si impone alla coscienza umana per una costrizione esteriore; e' un comandamento che l'uomo da' a se stesso per una esigenza interiore della sua coscienza. E' l'uomo auto-nomo che afferma l'affermazione etica di non uccidere, l'uomo auto-nomo, cioe' l'uomo libero.
L'esigenza "Non uccidere" non puo' sopportare alcuna eccezione. Volere cercare dei pretesti - se li si cerca, li si trovera' facilmente - per giustificare una eccezione, e' negare l'esigenza. Anche quando la violenza apparisse necessaria, la proibizione dell'omicidio resterebbe imperativa e l'esigenza di nonviolenza permarrebbe. La necessita' puo' costringere l'uomo, ma essa non gli da' alcun diritto. La necessita' di uccidere e' un dis-ordine, non e' un contro-ordine; essa non rende innocente l'omicida. La necessita' di uccidere non sopprime affatto il comandamento di non uccidere. Soltanto se gli uomini tengono fermamente questa posizione il comandamento di non uccidere li liberera' dalla necessita' di uccidere. Se la necessita' di uccidere sopprime il comandamento di non uccidere, allora diventa lecito a ciascuno, ogni volta che stimera' di trovarsi nella situazione di legittima difesa, portare l'argomento della necessita' per uccidere e per giustificare il suo omicidio. Si conosce la storia: e' precisamente la storia dell'umanita' fino a giorni nostri...
Karol Wojtyla vuota della sua sostanza il comandamento "Non uccidere" quando afferma, nell'enciclica Evangelium vitae, che esso "ha un valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente" (16); con cio' stesso, egli aggira e rende inoperante l'esigenza etica di nonviolenza. Poiche', ai nostri occhi, l'altro uomo che e' nostro nemico e contro il quale noi pretendiamo difendere i nostri diritti, non e' mai innocente; al contrario, noi invochiamo sempre molte buone ragioni per dichiararlo colpevole, precisamente allo scopo di renderci innocenti dal doverlo uccidere. Solo il nostro nemico porta la necessita' di questo omicidio: "E' colpa sua!". E' precisamente a questa conclusione che arriva Karol Wojtyla. Dopo avere riconosciuto il diritto alla legittima difesa - cioe' in realta' il diritto alla legittima violenza -, egli conclude: "In tale ipotesi, l'esito mortale deve essere attribuito all'aggressore stesso che vi si e' esposto con la sua azione" (17). Con la stessa logica, egli riconosce la legittimita' della pena di morte. Certo, egli non la ammette che in "casi di assoluta necessita'" ed egli pensa che oggi "in seguito ad una organizzazione sempre piu' efficace dell'istituzione penale, questi casi sono ormai assai rari, se non anche praticamente inesistenti" (18). Ma questa riserva in merito all'applicazione della pena di morte importa poco qui. Il comandamento "Non uccidere" perde il suo senso dal momento in cui si considera che esso non implichi il rifiuto assoluto della pena di morte. Alla lettera, e' una questione di principio.
Nei suoi Dialoghi filosofici Confucio enuncia a piu' riprese la Regola d'Oro, alla quale devono conformare tutta la loro vita quelli che vogliono acquistare la virtu' di umanita'. Egli la formula cosi': "Quello che voi non volete che gli altri vi facciano, non fatelo voi a loro" (19). Qui, la Regola d'Oro e' ancora formulata in maniera negativa. Gesu' di Nazareth, lui, enuncia sotto una forma positiva la Regola d'Oro a cui devono conformarsi gli uomini saggi: "Tutto ciòo' che desiderate che gli altri facciano per voi, fatelo voi stessi per loro" (20). Egli insegna cosi' tutta l'esigenza dell'amore del prossimo. Ma, come scrive Leone Tolstoj, "se noi non possiamo fare al prossimo quello che vorremmo che lui facesse a noi, almeno non facciamo a lui quello che non vorremmo che lui ci facesse" (21). Poiche', aggiunge "prima di fare il bene bisogna mettersi fuori dal male, in condizioni che permettano di agire bene" (22). Prima di essere ritenuti responsabili di tutto il bene che noi non facciamo, siamo gia' responsabili di tutto il male che facciamo.
La reciprocita' degli atteggiamenti e dei comportamenti positivi nelle relazioni tra gli individui e tra le comunita' e' uno dei fondamenti della giustizia e della concordia tra gli uomini. La reciprocita' - o, piu' esattamente, la possibilita' della reciprocita' - e' dunque un criterio decisivo della condotta dell'uomo morale. Questo principio di reciprocita' arriva a fondare la legge dell'universalita' che deve regolare l'azione dell'essere ragionevole. Ora, precisamente la violenza non puo' essere universalizzata senza che, molto semplicemente, la vita divenga impossibile (23). La Regola d'Oro puo' allora enunciarsi cosi’: "Agisci verso gli altri in modo che gli altri possano agire nello stesso modo verso chiunque". Cio' implica in primo luogo e anzitutto l'imperativo categorico seguente: "Non agire verso gli altri in modo tale che se gli altri agissero nello stesso modo la vita sarebbe impossibile". E questo esige anzitutto da ciascuno che egli rinunci a esercitare la violenza verso altri. Cosi', solo la nonviolenza puo' fondare l'universalita' della legge morale alla quale devono conformarsi gli esseri ragionevoli.
Nemmeno la violenza dell'altro giustifica la mia violenza, la mia contro-violenza. Che l'altro sia violento verso di me non mi da' alcun diritto a ricorrere alla violenza contro di lui. Forse potrei invocare la necessita' ma certamente non il diritto. L'esigenza dell'"amore del nemico" formulata da Gesu' di Nazareth (24) esprime con chiarezza che l'esigenza di nonviolenza permane riguardo al violento, all'aggressore, all'omicida.
Quando Michel Serres tenta di definire una saggezza per l'uomo di oggi, egli la fonda sul rifiuto della violenza: "Prima di organizzare il bene dell'altro, il che si risolve spesso nel fargli violenza, cioe' del male, l'obbligo minimale richiede che si eviti con cura di fargli questo male" (25). Serres riconosce che "l'obbligo massimale" consisterebbe nell'amare, e non soltanto l'uomo, straniero o prossimo che sia, ma anche la specie umana globale, tutti gli esseri viventi e il pianeta Terra tutto intero, ma, per ottenere questo, bisogna lottare conto la violenza che precipita gli uomini nell'infelicita'. "Il senso nasce dal male e dal problema con cui esso ci schiaccia. [...] La morale universale [...] poiche' concerne il problema del male oggettivo, e poiche' si riassume nella questione della violenza, si riassume a sua volta nel vecchio comandamento: "Non uccidere", che noi conserviamo, evidentemente, e in esso solo: "Tu non ti abbandonerai affatto alla violenza" (26).
Secondo il Libro dei morti degli antichi egizi, colui che e' appena morto, per essere salvato deve fare una "confessione negativa" nella quale attesta che non ha commesso alcuna violenza verso i suoi simili:
"Io porto nel mio cuore la verita' e la giustizia, perche' ne ho sradicato tutto il male.
Io non ho causato sofferenza agli uomini.
Io non ho usato violenza contro la mia parentela.
Io non ho sostituito l'ingiustizia alla giustizia.
Io non ho frequentato i malvagi.
Io non ho commesso dei crimini.
Io non ho fatto lavorare per me con eccesso.
Io non ho intrigato per ambizione.
Io non ho maltrattato i mie servi. [...]
Io non ho privato l'indigente del necessario alla sua sussistenza. [...]
Io non ho permesso che un servitore fosse maltrattato dal suo padrone.
Io non ho fatto soffrire qualcuno.
Io non ho provocato la fame.
Io non ho fatto piangere gli uomini miei simili.
Io non ho ucciso ne' ordinato di uccidere.
Io non ho provocato delle malattie tra gli uomini. [...]
Io non ho cercato di aumentare i miei domini usando mezzi illeciti ne' di usurpare i campi altrui.
Io non ho manipolato i pesi della bilancia ne' la sua barra.
Io non ho levato il latte dalla bocca del bambino.
Io non mi sono impadronito del bestiame sulle praterie. [...]
Io non ho ostruito le acque quando dovevano scorrere.
Io non ho tagliato le dighe costruite sulle acque correnti.
Io non ho spento la fiamma di un fuoco quando questo doveva bruciare" (27).
Colui che sceglie la nonviolenza corre il rischio di subire la violenza altrui. Uno dei fondamenti filosofici della nonviolenza e' che e' una disgrazia piu' grande per l'uomo esercitare la violenza che subirla. L'estrema conseguenza di questo principio e' che, riguardo all'etica, e' meglio essere uccisi che uccidere, essere vittima che carnefice, e che bisogna temere l'uccidere piu' che la morte. Anche davanti alla morte, Socrate intende rimanere fedele al principio secondo il quale "non e' mai bene essere ingiusto, ne' rispondere all'ingiustizia con l'ingiustizia, ne', quando viene fatto a noi del male, vendicarsi restituendo male" (28). E nel Gorgia, a Polo che gli domanda se egli preferirebbe subire l'ingiustizia anziche' commetterla, Socrate risponde: "Io non vorrei ne' una ne' l'altra cosa, ma se fossi costretto a commettere ingiustizia o subirla, io preferirei subirla piuttosto che commetterla" (29). Aristotele riaffermera' lo stesso principio nell'Etica Nicomachea: "Tutto considerato, commettere l'ingiustizia e' piu' grave che soffrirla; perche' l'atto ingiusto va assieme alla cattiveria e comporta il biasimo. [...] Al contrario, l'ingiustizia subita non comporta ne' cattiveria ne' ingiustizia" (30). Tuttavia, Aristotele non dedurra' mai da questo principio l'esigenza della nonviolenza.
*
Note
1. Simone Weil, Cahiers I, Paris, Plon 1953, p. 154; trad. ital. di G. Gaeta, Adelphi, Milano III ediz. 1991.
2. Platone, Repubblica, libro VI, 493c.
3. Simone Weil, Intuitions prechretiennes, Paris, Fayard 1985, p. 83-84; tard. ital. di M.H. Pieracci e C. Campo, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967 e Rusconi, Milano 1974.
4. Aforismi e discorsi del Buddha, a cura di Mario Piantelli, Tea, Milano 1988, p. 207.
5. Ibidem, pp. 338-339.
6. Patanjali, Yoga-Sutras, Paris, Albin Michel 1991, II, pp. 30-35. In italiano Gli aforismi sullo yoga (Yoga-sutra), trad. di C. Pensa, Torino 1962.
7. Simone Weil, Ecrits historiques et philosophiques, Paris, Gallimard, 1998, tome II, vol. 1, p. 48.
8. Henri-Bernard Vergote, Esprit, violence et raison, in Etudes, mars 1987, p. 363 ss.
9. Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinti, cap. 13.
10. Con la grafia Tao-te-Ching, una traduzione italiana di A. Devoto, a cura di J.J.L. Duyvendak, e' pubblicata da Adelphi, Milano 1978.
11. Georges Bernanos, La liberte' pour quoi faire?, Paris, Gallimard, 1953, p. 249.
12. Arthur Schopenhauer, Le fondement de la morale, Paris, Le Livre de Poche, 1991, p. 162; trad. ital. Il fondamento della morale, di A. Torrazza, Firenze, Le Monnier, 1962.
13. Hans Jonas, Il principio responsabilita'. Un'etica per la civilta' tecnologica, trad. ital. di Paola Rinaudo, Einaudi, Torino 1990, p. 35.
14. Paul Ricoeur, Soi-meme comme un autre, Paris, Le Seuil, 1990, p. 258; trad. ital. a cura di D. Iannotta, Iaca Book, Milano 1993.
15. Idem, ibidem.
16. Karol Wojtyla, Evangelium vitae, paragr. 57.
17. Idem, ibidem, paragr. 55.
18. Idem, ibidem, paragr. 56.
19. Confucio, I Dialoghi, libro VI, cap. XII, art. 2; libro VIII, cap. XV, art. 23, in Opere, a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1974, pp. 141, 171.
20. Vangelo secondo Matteo 7, 12.
21. Leon Tolstoj, Une seule chose est necessaire, Paris, Librairie Universelle, 1906, p. 315.
22. Leon Tolstoj, Que faire?, Paris, Editeur Albert Savine, 1891, p. 212; traduz. ital. di L. Capo, Mazzotta, Milano 1979.
23. "Quale ladro tollera di essere derubato da un altro ladro?" (Agostino, Confessioni, II, 4, 9). Questa semplice osservazione dimostra che anche chi la viola riconosce di fatto l'universalita' della legge morale, come se dicesse: "io mi permetto di violarla, ma non lo permetto a nessun altro; io non la rispetto, ma la legge obbliga tutti". Lo stesso violatore ne afferma il valore, perche' ne esige il rispetto da parte degli altri verso di se'. L'offesa si autodenuncia come offesa ed esalta la legge [nota del traduttore].
24. Vangelo secondo Matteo 5, 44.
25. Michel Serres, Eclaircissements, Paris, Editions Fran@ois Bourin, 1992, p. 294.
26. Idem, ibidem, p. 293.
27. Livre des morts des anciens egyptiens, Paris, Stock Plus, 1985, pp. 213-214. Due traduzioni italiane: Il libro dei morti degli antichi egiziani, tradotto sul papiro di Torino, a cura di B. de Rachewiltz, Milano 1958; Il libro dei morti degli antichi egiziani, ricostruzione e commenti a cura di Gregorio Kolpaktchy, versione italiana di Donato Piantanida, Ed. Ceschina, Milano, senza data; alle pp. 206-207 il testo citato.
28. Platone, Critone, 49d.
29. Platone, Gorgia, 469b,c.
30. Aristotele, Etica Nicomachea, libro V, cap. XI, 1138a.
(Parte prima - segue)

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Marthe Robert, L'antico e il nuovo, Rizzoli, Milano 1969, pp. 288.
- Marthe Robert, Da Edipo a Mose'. Freud e la coscienza ebraica, Sansoni, Firenze 1981, pp. IV + 172.
- Marthe Robert, Solo come Kafka, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. X + 214.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5306 del 28 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
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