[Nonviolenza] Telegrammi. 5305



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5305 del 27 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. A costo di sembrare il solito grillo parlante... (novembre 2023)
2. Cosa possiamo (e dobbiamo) realmente fare contro la guerra in corso in Europa? (aprile 2023)
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: Riflessione sulla violenza (parte seconda e conclusiva)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. A COSTO DI SEMBRARE IL SOLITO GRILLO PARLANTE... (NOVEMBRE 2023)

Ci sono alcune cose che vanno pur dette, e allora diciamole.
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Ogni manifestazione a favore dell'esistenza dello stato di Israele che non s'impegni anche per la nascita dello stato di Palestina rischia di essere inutile.
Ogni manifestazione a sostegno del popolo palestinese che non s'impegni anche a sostegno del popolo ebraico rischia di essere inutile.
Ogni manifestazione che condanni le stragi commesse da un'organizzazione terrorista e non quelle commesse da uno stato e' peggio che inutile.
Ogni manifestazione che condanni le stragi commesse da uno stato e non quelle commesse da un'organizzazione terrorista e' peggio che inutile.
*
Sia il popolo palestinese che il popolo ebraico sono realmente minacciati di genocidio.
E' compito dell'umanita' intera impedire questi genocidi, tutti i genocidi.
Per impedire il genocidio del popolo ebraico e' indispensabile l'esistenza dello stato di Israele.
Per immpedire il genocidio del popolo palestinese e' indispensabile l'esistenza dello stato di Palestina.
*
Allo stato di Israele chiediamo:
1. di cessare la guerra a Gaza e il sostegno alle violenze dei coloni in Cisgiordania.
2. di cessare di occupare i territori palestinesi e di riconoscere l'esistenza dello stato di Palestina nei territori della Cisgiordania e di Gaza devolvendo immediatamente tutte le funzioni giurisdizionali ed amministrative e le risorse relative all'Autorita' Nazionale Palestinese - intesa come governo provvisorio dello stato di Palestina fino alle elezioni democratiche -.
3. di sgomberare immediatamente le illegali colonie nei territori occupati, restituendo quelle aree al popolo palestinese.
4. di concordare con l'Autorita' Nazionale Palestinese l'avvio di tutti i negoziati necessari per risolvere le molte questioni da affrontare come due stati sovrani in condizioni di parita'.
5. di essere una piena democrazia abrogando ogni misura legislativa ed amministrativa di discriminazione razzista.
*
All'Autorita' Nazionale Palestinese chiediamo:
1. di assumere immediatamente il governo della Striscia di Gaza.
2. di adoperarsi ivi per l'immediata liberazione di tutte le persone rapite da Hamas.
3. di organizzare lo stato di Palestina indipendente e democratico.
4. di concordare con lo stato di Israele l'avvio di tutti i negoziati necessari per risolvere le molte questioni da affrontare come due stati sovrani in condizioni di parita'.
5. di adoperarsi affinche' nessuno stato arabo o musulmano possa piu' proseguire in una politica antisraeliana ed antiebraica prendendo abusivamente a pretesto la causa palestinese.
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All'Onu chiediamo:
1. un piano straordinario di aiuti per la Palestina.
2. una deliberazione dell'Assemblea Generale che riconoscendo i due stati di Israele e di Palestina vincoli tutti gli stati membri delle Nazioni Unite a cessare ogni politica di negazione dello stato di Israele, ogni politica di persecuzione antiebraica.
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Agli stati ed agli organismi politici sovranazionali d'Europa (l'Europa che e' il continente in cui si sono realizzati la bimillenaria persecuzione antiebraica e l'orrore assoluto della Shoah; l'Europa che e' il continente i cui principali stati hanno oppresso i popoli del resto del mondo con il razzismo, il colonialismo, l'imperialismo fin genocida) chiediamo:
1. di risarcire adeguatamente sia lo stato di Israele che lo stato di Palestina per le sofferenze inflitte ai loro popoli sia direttamente che indirettamente.
2. di contrastare il fascismo e il razzismo, l'antisemitismo e l'islamofobia, tutte le ideologie di odio e le organizzazioni che le praticano e le diffondono, e tutti i crimini conseguenti.
*
Fermare la guerra.
Fermare le stragi.
Restituire la liberta' a tutte le persone che ne sono state private.
Riconoscere e proteggere tutti i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Salvare le vite e' il primo dovere.

2. REPETITA IUVANT. COSA POSSIAMO (E DOBBIAMO) REALMENTE FARE CONTRO LA GUERRA IN CORSO IN EUROPA? (APRILE 2023)

Certo, continuare a soccorrere, accogliere, assistere tutte le vittime.
Certo, continuare a recare aiuti umanitari a tutte le vittime.
Certo, continuare a denunciare la criminale follia di chi la guerra ha scatenato.
Certo, continuare a denunciare la criminale follia dei governi che, invece di adoperarsi per far cessare la guerra e le stragi di cui essa consiste, alimentano l'una e quindi le altre.
Certo, continuare a denunciare il pericolo estremo e immediato che la guerra divenga mondiale e nucleare e distrugga l'intera umana famiglia riducendo a un deserto l'intero mondo vivente.
Certo, continuare a denunciare che la guerra sempre e solo uccide gli esseri umani,  sempre e solo uccide gli esseri umani,  sempre e solo uccide gli esseri umani.
Certo, continuare ad esortare chi nella guerra e' attivamente coinvolto a cessare di uccidere, a deporre le armi, a disertare gli eserciti, a obiettare a comandi scellerati, a rifiutarsi di diventare un assassino.
Certo, continuare a ricordare che salvare le vite e' il primo dovere di tutti gli esseri umani e di tutti gli umani istituti.
*
Tutto cio' e' buono e giusto, ma non basta.
Occorre fare anche altre cose che solo noi qui in Europa occidentale possiamo e dobbiamo fare.
E le cose che possiamo e dobbiamo fare sono queste:
1. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale contrastare anche qui la macchina bellica, l'industria armiera, i mercanti di morte, la follia militarista, i governanti stragisti: paralizzare i poteri assassini occorre.
2. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di mettere il veto ad ogni iniziativa della Nato, l'organizzazione terrorista e stragista di cui i nostri paesi tragicamente fanno parte: paralizzare immediatamente i criminali della Nato occorre, e successivamente procedere allo scioglimento della scellerata organizzazione.
3. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di cessare di armare ed alimentare la guerra e sostenere invece l'impegno per l'immediato cessate il fuoco ed immediate trattative di pace.
4. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei di restituire all'Onu la funzione e il potere di abolire il flagello della guerra.
5. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei la pace, il disarmo, la smilitarizzazione.
6. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei una politica della sicurezza comune dell'umanita' intera fondata sulla Difesa popolare nonviolenta, sui Corpi civili di pace, sulle concrete pratiche che inverino l'affermazione del diritto alla vita, alla dignita' e alla solidarieta' di tutti i popoli e di tutte le persone.
7. Con l'azione diretta nonviolenta fino allo sciopero generale imporre ai governi europei una politica comune di attiva difesa dell'intero mondo vivente prima che la catastrofe ambientale in corso sia irreversibile.
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E' questa la nostra opinione fin dall'inizio della tragedia in corso.
Ci sembra che senza queste azioni nonviolente la guerra, le stragi e le devastazioni non saranno fermate.
Troppi esseri umani sono gia' stati uccisi per la criminale follia dei governanti.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi per la salvezza comune dell'umanita' intera.
Sia massima universalmente condivisa la regola aurea che afferma: agisci nei confronti delle altre persone cosi' come vorresti che le altre persone agissero verso di te.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe.

3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo secondo: "Ri-flessione sulla violenza" (pp. 43-66). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

L'illusione di uccidere per vincere la morte
Nel suo libro Psicanalisi della situazione atomica, lo psichiatra e filosofo italiano Franco Fornari considera che noi assumiamo la vita e la morte con "una specie di cattiva fede" (30). Noi ci rifiutiamo di riconoscere "l'immanenza della morte in noi" e "ci rappresentiamo la morte come un fatto esteriore a noi stessi" (31): "in questo gioco della vita e della morte che si disputano la nostra esistenza, noi bariamo tenendo nascoste le carte della morte" (32).
L'angoscia della morte genera in noi la paura dell'altro, questo sconosciuto, questo straniero, indesiderabile, intruso. Di conseguenza, noi consideriamo l'altro come un nemico e gli attribuiamo l'intenzione di farci morire, quand'anche egli non manifesti nessuna ostilita' verso di noi. La paura crea il pericolo piu' spesso ancora di quanto il pericolo non crei la paura. L'uomo regredisce spesso nella situazione in cui si trovava quando, da piccolo, i rumori inoffensivi della notte gli facevano temere il peggio. Cosi', diventato l'altro colui che incarna la minaccia di morte che pesa su di noi, noi manteniamo l'illusione di sfuggire alla morte uccidendolo. "Allontanando da se' la morte - scrive Franco Fornari - gli uomini uccidono nella misura in cui, avendo posto la morte fuori da se stessi, la percepiscono come l'aggressione di un nemico che vuole ucciderli. E' per questo che ogni crimine e' ispirato dall'illusione di poter vincere la morte uccidendo il nemico" (33).
Franco Fornari si riferisce ai propositi espressi da Freud in un testo scritto all'inizio della seconda guerra mondiale e intitolato Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte: "Quando una decisione - scrive lo psichiatra austriaco - avra' messo fine al selvaggio scontro di questa guerra, ognuno dei combattenti vittoriosi ritornera' felice al suo focolare, ritrovera' la moglie e i figli, senza essere occupato ne' turbato dal pensiero dei nemici che avra' ucciso nel corpo a corpo o con un'arma a lunga gittata" (34). Cosi' l'uomo civilizzato non prova alcun sentimento di colpa di fronte all'omicidio. Freud fa notare che non era cosi' per l'uomo primitivo. "Il selvaggio - egli nota - non e' affatto un omicida impenitente. Quando torna vincitore dal sentiero di guerra non ha il diritto di entrare nel proprio villaggio ne' di toccare la sua donna prima di aver espiato i suoi omicidi di guerra con delle penitenze spesso lunghe e penose" (35). Freud conclude sottolineando che l'uomo primitivo dava cosi' prova di una "delicatezza morale che si e' perduta presso di noi, uomini civilizzati" (36).
Il filosofo cinese Lao Tzu esprime, nel capitolo 31 del Tao Te King, il medesimo obbligo, per colui che ha dovuto, costretto dalla necessita', ricorrere alla violenza contro il suo avversario, di prendere il lutto: "Per quanto molto brillanti, le armi non sono mai altro che strumenti di infelicita'; coloro che vivono le hanno giustamente in orrore. E' per questo che l'uomo del Tao non se ne occupa. [...] Per il nobile non ci sono armi che siano felici: lo strumento della disgrazia non e' il suo strumento. Egli vi ricorre suo malgrado, se e' necessario, amando sopra ogni cosa la quiete e la pace; anche nella vittoria egli non gioisce; perche' per gioirne, bisogna amare l'uccidere e colui che si compiace del massacro degli uomini, che cosa puo' realizzare nel mondo degli uomini? [...] Duolo e lamento per il massacro degli uomini, rito funebre per accogliere il vincitore".
Queste considerazioni di Lao Tzu sull'obbligo del lutto per l'uomo che ha ucciso il suo avversario non devono essere guardate con la disinvoltura divertita che si presta volentieri agli aneddoti edificanti su usi e costumi di un tempo passato. Conviene non soltanto prenderli sul serio, ma bisogna prenderli alla lettera. L'uomo veramente "civilizzato", se si e' trovato preso nella trappola delle necessita' che lo ha costretto a uccidere il suo avversario, non trova alcun gusto nel festeggiare una qualunque vittoria, non cerca di discolparsi con una qualunque giustificazione, ma  vuole prendere il lutto per colui che e' morto per mano sua. Le asserzioni di Lao Tzu e di Freud sono inconfutabili: dopo l'uccisione del nemico, la "civilta'" deve portare il lutto, mentre la "barbarie" incita a festeggiare la vittoria. Infatti, per festeggiare questa vittoria, "bisogna amare uccidere".
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Le donne dietro la guerra
La guerra e' un affare di uomini. Non che le donne non ne siano coinvolte; al contrario, la guerra le riguarda direttamente, ma esse si sono tenute dietro la guerra, o, piu' esattamente, esse sono state tenute dietro la guerra, il piu' delle volte invisibili, come sono state tenute dietro gli uomini. Piu' degli uomini, probabilmente, le donne hanno sofferto della guerra, ma le loro sofferenze e le loro lacrime erano rassegnate, silenziose, come la loro vita. Anche quando hanno maledetto la guerra, non hanno protestato contro di essa. Fino ad oggi le donne hanno subito la violenza degli uomini senza osare rivoltarsi. Le donne sono state oppresse e dominate dagli uomini e, il piu' delle volte, esse gli sono state soggette. Generalmente, le donne hanno accettato le leggi degli uomini; hanno dunque accettato le leggi della guerra.
Cosi', le virtu' guerriere che fanno gli eroi appartengono gli uomini; esse sembrano mancare alle donne. Come se le donne non avessero le qualita' richieste per portare la spada e tener testa alla morte sui campi di battaglia, come se non fossero degne di condividere la gloria dei guerrieri e dovessero essere riservate per il loro riposo e la loro consolazione. Ma, rifiutando di sottomettersi al potere degli uomini, le donne rifiuteranno di imitare la loro violenza? Niente sarebbe peggio che se, in nome dell'uguaglianza, esse rivendicassero il loro posto nella guerra. Poiche' "danno la vita" agli esseri umani, le donne avrebbero forse una ripugnanza "naturale" a dare loro la morte? Guardando al loro statuto biologico, avrebbero esse una disposizione "naturale" a rifiutare la violenza e a preferire la nonviolenza? La violenza sarebbe dunque essenzialmente maschile e la nonviolenza essenzialmente femminile? Probabilmente e' meglio dire che la violenza e' essenzialmente maschile e che la nonviolenza e' essenzialmente maschile e femminile. Cosi', non e' certamente inutile sperare che, liberandosi dal giogo degli uomini, le donne portino un contributo decisivo alla cultura della nonviolenza. Ma importa ugualmente che l'uomo liberi l'elemento femminile che e' costitutivo del suo essere.
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Colpevolezza e responsabilita'
L'uomo uccide per sfuggire all'angoscia della morte, ma, uccidendo, si trova davanti all'angoscia dell'omicidio. E' per questo che, nello stesso momento in cui uccide il suo nemico, l'uomo ha bisogno di giustificare il suo omicidio per negare il sentimento di colpa che si impadronisce di lui. Questo processo di giustificazione ha come conseguenza che l'uomo commette la violenza senza sentirla come tale. Egli puo' uccidere senza avere l'impressione di essere violento.
In realta' il bisogno imperativo che l'uomo prova di giustificare la propria violenza, manifesta che egli ha coscienza che essa non e' giusta.
E' per il fatto che egli si sente colpevole che ha bisogno di discolparsi e di protestare la sua innocenza giustificandosi. Egli ricorrera' dunque a dei sotterfugi che produrranno una deformazione e un indurimento della sua coscienza morale e cosi' potra' continuare ad agire senza sentirsi colpevole. Tutti i sistemi di legittimazione della violenza non sono nient'altro che dei sistemi di difesa dell'uomo che vuole proteggersi contro il sentimento di colpa che prova davanti alla propria violenza. Dire che la violenza ferisce l'umanita' di colui che la esercita non e' limitarsi ad affermare un principio metafisico astratto, ma e' esprimere una realta' psicologica che si inscrive nel vissuto dell'uomo violento. La violenza traumatizza letteralmente (traumatizzare, per la sua etimologia, significa ferire) colui che vi si abbandona. L'uomo ferisce se' stesso con la propria violenza, egli si ferisce nel piu' profondo del proprio essere e bisogna che si rivesta di una spessa corazza per non sentirne il dolore. La colpevolezza, piu' o meno repressa o piu' o meno confessata, dell'uomo che usa violenza contro il suo simile provoca in lui dell'angoscia. Le giustificazioni della violenza che gli sono offerte dall'ideologia dominante, hanno per scopo di permettergli di rassicurarsi e tranquillizzarsi. Se egli interiorizza queste giustificazioni, e' capace di convincersi che non ha fatto altro che il suo dovere e non soltanto puo' avere la coscienza tranquilla, ma puo' sentirsi fiero del compito che ha compiuto. Al contrario, se, malgrado tutto, egli ha coscienza che queste giustificazioni non sono che propaganda e che non puo' esserne soddisfatto, egli si trova solo di fronte al suo grave crimine, in preda ad una sofferenza che puo' invaderlo interamente. Questa sofferenza provocata dal trauma psichico subito puo' diventare mortale, cioe' egli puo' impazzirne. Appartengono alla guerra delle ferite che non si portano a tracolla. Cosi', gli attori e le vittime della violenza si trovano chiusi insieme nello stesso processo di avvilimento e di distruzione.
Poiche' si sente colpevole verso le vittime della propria violenza, l'uomo prova il bisogno di rigettarne la colpa sulla vittima stessa. Per rendersi innocente, l'individuo proietta il suo sentimento di colpa sul proprio nemico. E' lui il responsabile, e' lui il colpevole: "E' colpa sua". Anzitutto: "E' lui che ha cominciato!". E' sempre l'altro che ha cominciato. La violenza e' sempre una risposta alla violenza dell'altro-che-ha-cominciato. Allora: "Non ha altro che quel che si merita"; "Aveva solo da solo non cominciare". "Gli fa bene". Eh, no! Non e' proprio un far bene: fare violenza non e' mai fare bene a qualcuno, non e' mai fare il bene. Che l'altro abbia cominciato non e' una ragione per continuare. Se l'altro ha avuto torto nel cominciare, io non ho certamente ragione nel continuare. Se io continuo, ricomincera' per forza un raddoppiamento della violenza. E saremo l'uno e l'altro presi dentro una spirale di violenze senza fine.
La legittimazione dell'omicidio che l'individuo si appresta a commettere si accompagna necessariamente alla criminalizzazione di colui che egli si prepara ad uccidere. La tesi della legittima difesa trova qui il suo fondamento. E' sempre per difendersi contro colui che vuole ucciderlo che l'individuo diventa omicida. E' obbligato ad uccidere per non essere ucciso e potere cosi' continuare a difendere i valori "sacri" della sua causa. Allora l'omicidio non e' piu' sentito come una colpa, ma come un atto di coraggio che merita di essere onorato come tale. Questo cambiamento, questa inversione di senso dell'atto omicida caratterizza la perversione omicida dell'uomo alienato da cio' che abbiamo chiamato l'"ideologia della violenza".
Il sentimento di colpa non deve precipitare l'uomo in una cattiva coscienza morbosa, ma deve fargli prendere coscienza della sua colpa allo scopo di inventare un nuovo comportamento che rispecchi la dinamica della vita che e' in lui. Il sentimento di colpa di fronte alla violenza e' la sorgente della responsabilita' personale dell'individuo; esso deve generare un bisogno di riparazione e non di giustificazione.
Generalmente, l'individuo non ricorre alla violenza in maniera isolata, ma lo fa in seno al gruppo sociale a cui appartiene. Allora, la legittimazione della violenza gli e' data da questa comunita' che non soltanto la giustifica, ma la onora, la glorifica e la  sacralizza invocando la difesa dei suoi valori e dei suoi interessi. Il piu' delle volte, l'individuo aliena la sua responsabilita' personale nella collettivita'. Dal momento che questa giustifica l'omicidio presentandolo come l'ultimo mezzo di difesa dell'uomo civile contro i barbari, l'individuo non si sente responsabile della propria violenza. Non soltanto non prova alcuna colpevolezza, ma ne sente la fierezza.
Risulta un'altra conseguenza di questi processi di legittimazione della violenza: poiche' non vive piu' la violenza come tale, l'uomo perde la possibilita' di controllare la sua propria violenza. Una volta giustificata la violenza, non ci sono piu' limiti al suo sviluppo. Inoltre, la legittimazione della violenza provoca una reazione a catena per la quale tutte le violenze si trovano legittimate. Cosi', in definitiva, l'uomo non giudica la violenza per cio' che essa e' in realta', ma secondo la rappresentazione che se ne fa. Dal momento che questa gli fa apparire la violenza come un mezzo giusto e legittimo per combattere l'ingiustizia, egli non provera' alcuna ripugnanza ad uccidere. Le giustificazioni della violenza sono altrettante "derivazioni" (nel senso che Vilfredo Pareto ha dato a questa parola), cioe' delle costruzioni logiche superficiali che nascondono i sentimenti, i desideri e le passioni che sono i veri motivi delle azioni degli individui e dei gruppi sociali; lo scopo ricercato e' dare un'apparenza logica a delle azioni non logiche. Per giustificare la sua violenza l'uomo fabbrica e produce  dei falsi; l'uomo violento e' un falsificatore.
La violenza, per assicurare la sua presa sugli spiriti si appoggia su una propaganda. La violenza deve essere rivestita di prestigio e, come sottolineato da Simone Weil, "niente e' piu' essenziale a una politica di prestigio che la propaganda" (37). Certo, per giustificare la violenza non si possono invocare che delle cattive ragioni, ma, precisa Simone Weil, "dei pretesti impregnati di contraddizione e di menzogna sono tuttavia abbastanza plausibili quando sono i pretesti dei piu' forti. [...] Essi bastano per fornire una scusa alle adulazioni dei vili, al silenzio e alla sottomissione degli infelici e per permettere al vincitore di dimenticare che egli commette dei crimini" (38). Questi cattivi pretesti sono molto utili alla violenza perche' reprimono il pensiero che vorrebbe formulare un'obiezione di coscienza: "Questa arte di conservare le apparenze sopprime o diminuisce lo slancio che l'indignazione darebbe e permette al vincitore di non essere indebolito dall'esitazione" (39). La propaganda dunque ha la funzione di dare ragione a quelli che esercitano la violenza, perche' "bisogna essere realmente convinti che si ha sempre ragione, che si possiede non soltanto il diritto del piu' forte, ma anche il diritto puro e semplice, e questo anche quando non ce n'e' per nulla" (40). L'essenza stessa della propaganda e' la menzogna che imputa al nemico tutti i difetti, tutti i misfatti, tutti i crimini.
Nello stesso tempo la propaganda ha per scopo di convincere i membri di un gruppo che essi possiedono le qualita' di cui gli altri sono sprovvisti. "Infatti - scrive Raymond Rehnicer - la lotta intraspecifica non diventa possibile che quando ogni gruppo belligerante attinge la sua forza di sopravvivenza dalla convinzione ferma e inalterabile della propria superiorita' rispetto agli altri gruppi" (41). La propaganda ha cosi' per effetto di creare e mantenere uno "spirito di corpo" che assicura la coesione del gruppo. Forti di questa pretesa superiorita', i membri del gruppo saranno tanto piu' convinti che e' legittimo, addirittura necessario, combattere fino alla morte gli altri gruppi al fine di assicurare la sicurezza e la prosperita' del proprio gruppo.
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La sottomissione all'autorita'
L'uomo che esercita la violenza si trova non soltanto inserito, ma rinserrato nelle relazioni di dominio e di sottomissione, di comando e di obbedienza. Il piu' delle volte e' obbedendo agli ordini dell'autorita' supposta legittima nella collettivita' alla quale  appartiene, che l'individuo commette atti di violenza. E' per disciplina che l'uomo diventa torturatore, e' su comando che diventa uccisore. Per il soggetto obbediente, il comandamento universale della coscienza morale "Tu non ucciderai" si trova cancellato dal comandamento dell'autorita': "Tu ucciderai".
Molte esperienze hanno dimostrato che l'uomo e' capace di infliggere delle violenze particolarmente crudeli ad altri uomini privi di difesa, senza altro motivo che la sottomissione all'autorita'. Questa e' una scoperta di cui siamo lontani dall'aver tratto tutte le conseguenze, specialmente riguardo ad un'etica dell'esercizio del potere. Tra queste esperienze, quelle effettuate dallo psicosociologo americano Stanley Milgram, e da lui riferite nel libro Sottomissione all'autorita' sono forse le piu' significative. Un laboratorio di psicologia apparentemente conduce una ricerca sulla memoria e,  piu' precisamente, sugli effetti della punizione sul processo di apprendimento. A questo scopo recluta con degli annunci pubblicati sulla stampa locale delle persone che accettano di partecipare a questa ricerca. Il ricercatore chiede a ciascuna di queste persone d'infliggere a un "allievo" delle punizioni sempre piu' severe, mediante delle scariche elettriche d'intensita' crescente, ogni volta che costui commette un errore. In realta' "l'allievo" e' un attore che non riceve nessuna scarica elettrica, ma che deve esprimere una sofferenza e una protesta sempre piu' forti. A settantacinque volts geme, a centocinquanta supplica che si arresti l'esperimento, a duecentottantacinque volts la sua sola reazione e' un grido di agonia. "Per il soggetto, precisa Milgram, la situazione non e' un gioco, ma un conflitto intenso e del tutto reale. Da una parte la sofferenza manifesta dell'allievo lo spinge a fermarsi. Dall'altra parte lo sperimentatore, che e' l'autorita' legittima di fronte alla quale egli si ritiene impegnato, gli ingiunge di continuare. Ogni volta che esita a somministrare una scarica elettrica, egli riceve l'ordine di continuare. Per trarsi fuori da una situazione insostenibile egli deve dunque rompere con l'autorita'" (42). Mentre nessuna persona ha rifiutato di partecipare all'esperimento, si trova che circa i due terzi accettano di continuarlo fino al livello dello shock elettrico piu' elevato dello stimolatore. Milgram riassume cosi' l'insegnamento essenziale del suo studio: "Delle persone normali, prive di ogni ostilita', possono, compiendo semplicemente il loro compito, divenire gli agenti di un atroce processo di distruzione. Inoltre, anche quando non e' loro piu' possibile ignorare gli effetti funesti delle loro attivita' professionali, se l'autorita' gli domanda di agire contro le norme fondamentali della morale, sono rari quelli che possiedono le risorse interiori necessarie per resisterle" (43).
L'obbedienza alle ingiunzioni e agli ordini dell'autorita' e' uno dei fattori principali del comportamento umano. "Possiamo constatare, scrive Hannah Arendt, che l'istinto di sottomissione ad un uomo forte tiene, nella psicologia dell'uomo, un posto importante almeno quanto la volonta' di potenza e, da un punto di vista politico, forse piu' significativo" (44). Tra tutte le regole sociali interiorizzate dall'individuo dalla sua piu' tenera eta', il rispetto dell'autorita' occupa un posto centrale e preponderante. Tutto concorre, nella sua educazione, a convincere il bambino che l'obbedienza e' un dovere e una virtu' e che, di conseguenza, la disobbedienza e' una cattiva azione ed una colpa. Tuttavia, questo condizionamento non e' mai totale e, diventando adulto, l'uomo acquisisce una certa relativa autonomia personale e si da' certe regole di condotta in funzione di certi criteri morali che ha scelto lui stesso. Ma quando si trova incorporato in una organizzazione gerarchica, il suo modo di comportamento viene profondamente cambiato. Egli rischia allora di perdere l'essenziale delle sue acquisizioni personali; la sua vita intellettuale, morale e spirituale puo' subire una notevole regressione. L'individuo si trova posto in una situazione di dipendenza rispetto agli altri membri della collettivita' e, piu' ancora, in rapporto al capo. Secondo Freud, "piuttosto che un 'animale gregario', l'uomo e' un animale di orda, cioe' un elemento costitutivo di un'orda condotta da un capo" (45). Egli precisa: "L'individuo rinuncia al suo ideale dell'io, a favore dell'ideale incarnato dal capo" (46). Nella sottomissione dell'individuo all'autorita', esiste nello stesso tempo una parte di costrizione, risultato di molteplici pressioni, e una parte di consenso – ed e' molto difficile dire qual e' la misura esatta di ognuna di queste due parti. La propensione dell'individuo alla sottomissione si trova fortemente rafforzata dalle ricompense che onorano l'obbedienza e dalle punizioni che sanzionano la disobbedienza.
L'uomo che esercita la violenza per obbedienza all'autorita' si accontenta generalmente di "fare il suo dovere". Egli non vuole considerare altro che il valore morale indiscutibile di questa regola di condotta, e si sforza di occultare l'immoralita' di cio' che fa. Il valore morale dell'obbedienza predomina sulla immoralita' dell'ordine. Il soggetto puo' allora convincersi che egli fa bene ad obbedire, anche se cio' che fa e' male. Mentre egli obbedisce, e' preoccupato anzitutto dallo scrupolo di eseguire come si deve l'ordine ricevuto, in maniera di soddisfare l'autorita' che gli ha dato fiducia. L'occupazione tecnica tende a cancellare nel soggetto ubbidiente ogni preoccupazione etica.
L'obbedienza strumentalizza colui che si sottomette agli ordini dell'autorita'. Il soggetto obbediente si rimette all'autorita' per decidere sulla sua condotta e sulla legittimita' di essa. Per l'individuo sottomesso, la legittimita' dell'ordine dato e' fondata sulla legittimita' dell'autorita', e la legittimita' dell'atto comandato e' fondata sulla legittimita' dell'ordine. Colui che obbedisce, poiche' agisce sotto la copertura dell'autorita', non si sente responsabile delle conseguenze dei suoi atti. Egli ne attribuisce tutta la responsabilita' all'autorita' stessa. Cosi', l'uomo e' capace di rinunciare ad ogni giudizio sulla propria condotta, col protesto di ubbidire agli ordini dei suoi superiori. "L'uomo, scrive Stanley Milgram, e' incline ad accettare le definizioni dell'azione fornite dall'autorita' legittima. Detto in altre parole: benche' il soggetto compia l'azione, egli permette all'autorita' di decidere del suo significato. E' questa abdicazione ideologica che costituisce il fondamento cognitivo essenziale dell'obbedienza" (47).
L'uomo trova nella sottomissione una certa sicurezza che dovrebbe abbandonare se prendesse il sentiero ripido della disobbedienza aperta. Anzitutto, l'obbedienza garantisce all'individuo il restare integrato nel gruppo, nella comunita', nella societa'. Rompere con l'autorita' e' escludersi dalla collettivita' nella quale si trovano i mezzi per vivere in un relativo benessere; rifiutare di obbedire e' esporsi sicuramente a subire tutti i dispiaceri della scomunica e dell'esclusione. Poi, e soprattutto, nel sottomettersi all'autorita' l'individuo ha il senso di essere da essa protetto. Piu' ancora, egli ha in qualche modo il senso di partecipare al potere al quale si sottomette. "La mia obbedienza, scrive Erich Fromm, mi integra al potere che io venero e questo mi da' un'impressione di forza" (48). Percio', rompere con il potere e' ritrovarsi senza potere, solo, abbandonato, debole, impotente, almeno fino a che il potere sia disfatto, cio' che richiede molto tempo. Nessuno ha la sicurezza di sopravvivere al potere che egli contesta, ma che si prepara a stroncarlo. Tuttavia, riguardo all'esigenza morale non puo' esservi alcun dubbio: quando c'e' conflitto tra l'esigenza della coscienza e l'obbligo del comando, l'individuo deve rompere con l'autorita' e rifiutarsi di obbedire. L'obiezione di coscienza e' allora la sola via che permette all'individuo di preservare la sua autonomia, la sua responsabilita' e la sua liberta'.
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Note
30. Franco Fornari, Psychanalyse de la situation atomique, Paris, Gallimard, 1969, p. 12; edizione originale italiana, Psicanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano 1970.
31. Idem, ibidem, p. 12-13.
32. Idem, ibidem, p. 13.
33. Idem, ibidem, p. 23.
34. Sigmund Freud, Essais de psychanalyse, Paris, Petite Bibliotheque Payot, 1981, p. 34; traduzione italiana dall'originale contenuta in Freud e Einstein, Riflessioni a due sulle sorti del mondo, nuova edizione di Perche' la guerra?, prefazione di Ernesto Balducci, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 54.
35. Idem, ibidem.
36. Idem, ibidem, p. 35; traduzione italiana citata, p. 54.
37. Simone Weil, L'enracinement. Prelude a' une declaration des devoirs envers l'etre humain, Paris, Gallimard, 1962, pp. 33-34; tr. it. di Franco Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano, Leonardo, Milano 1996.
38. Simone Weil, Ecrits de Londres et dernieres lettres, Paris, Gallimard, 1957, p. 40.
39. Simone Weil, Attente de Dieu, op. cit., p. 143; tr. it. di O. Nemi, Rusconi, Milano 1991.
40. Simone Weil, L'enracinement, op. cit., p. 33.
41. Raymond Rehnicer, L'adieu a' Sarajevo, Paris, Desclee de Brouwer, 1993, p. 42.
42. Stanley Milgram,  Soumission a' l'autorite', Paris, Calmann-Levy, 1974, p. 20; originale Stanley Milgram, Obedience to Authority. An Experimental View, Harper & Row, 1975; tr. it. S. Milgram, Obbedienza all'autorita', Bompiani, Milano 1975; S. Milgram, Obbedienza all'autorita', Einaudi, Torino 2003.
43. Idem, ibidem, p. 22.
44. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence, Essais de politique contemporaine, Paris, Calmann-Levy, 1969, p. 148.
45. Sigmund Freud, Essais de psychanalyse, op. cit., p. 148.
46. Idem, ibidem, p. 158.
47. Stanley Milgram,  Soumission a' l'autorite', op. cit., p. 181.
48. Erich Fromm, De la desobeissance, Paris, Robert Laffont, 1983, p. 17; tr. it. La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano.

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, 1978, pp. LII + 284.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5305 del 27 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
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