[Nonviolenza] Telegrammi. 5304



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5304 del 26 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Ormai
2. Se si resta nella logica delle armi
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: Riflessione sulla violenza (parte prima)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. ULTIME NOTIZIE DAL REAME DI NUSMUNDIA. ORMAI

- Porca la miseriaccia zozza.
- Mannaggia alla malamorte, mannaggia.
- Eccheccavolo, mai una volta che si ragioni un attimo. E un attimo, no? Certe cose si dovrebbero decidere tutti insieme, no?
- Lo dicevo io, lo dicevo, ma non mi da' mai retta nessuno, nessuno. Eh, cazzarola.
- Signori, signori, per favore. In nome della nazione, e basta mo', concludiamo 'sto consiglio dei ministri, forza. Ormai le bombe atomiche le abbiamo fatte partire, e cosa fatta capo ha, adesso vediamo di fare quello che si deve fare, su. Con santa pazienza. Tranquilli, mi assumo tutta la responsabilita'. Gli aerei per svignarsela tutto il governo e famiglie sono gia' pronti. Calma, calma e gesso. Pensate a telefonare a casa. E niente bagagli, non c'e' bisogno che vi dica che ogni minuto e' prezioso. Andiamo, fare gli statisti non e' mica roba per frigna-frigna, eh.

2. L'ORA. SE SI RESTA NELLA LOGICA DELLE ARMI

Se si resta nella logica delle armi, allora tutti - tutti - gli assassini hanno ragione. Hanno sempre - sempre - ragione. Perche' nella logica delle armi sempre e solo prevale chi uccide, chi uccide di piu'.
E le vittime? Chi se ne frega, meglio a loro che a noi.
E il diritto? Ma quale diritto, non vi e' altro diritto che la forza.
E la civile convivenza? Ma quale civile convivenza, o si e' padroni o si e' servi, o si e' carnefici o si e' vittime, e lo sanno pure i sassi che tertium non datur.
E la pace altrice dei popoli? Ma quale pace, si vis pacem para bellum, la guerra e' lo stato naturale dell'umanita', la sola igiene del mondo. La pace e' la pausa mentre ci prepariamo a nuove conquiste, e dopo le conquiste e' il nome che diamo al deserto che abbiamo fatto.
E la dignita' umana? La dignita' umana? Ma vi siete visti? La dignita' umana, questa si' che fa ridere.
Se si resta nella logica delle armi, uccidere e' l'unica regola, l'unica condotta, l'unica virtu', l'unico fondamento della societa' - e di quale societa' -, l'unica sfera dell'esistenza - e di quale esistenza -.
Dove porti questa logica e' chiaro: alla distruzione dell'umanita' prevista da Zeno Cosini. E forse mai ci siamo stati cosi' vicini.
*
Nella storia del pensiero politico e dei movimenti di liberazione del Novecento - il mondo di ieri da cui proviene chi scrive queste righe - Gandhi ha visto per primo, e molto prima del fuoco di Hiroshima, che l'umanita' era giunta a un punto di non ritorno: o si sceglieva la nonviolenza, o il suicidio dell'intera umana famiglia tra le piu' immani sofferenze sarebbe stato inevitabile.
E cosi' e', ed oggi non vi e' chi in cuor suo non lo sappia: o l'umanita' decide di scegliere la nonviolenza, o di tutti la strage tra le piu' immani sofferenze e' inevitabile.
La questione si pone semplicemente e precisamente nei termini di un radicale aut-aut: o la nonviolenza o la fine dell'umanita'.
Abolire la guerra, gli eserciti e le armi: e' il passo che l'umanita' deve compiere oggi, prima che sia troppo tardi.
Sostituire la forza della ragione (la forza del diritto; il riconoscimento del diritto di ogni essere umano alla vita, alla dignita', alla solidarieta'; il dovere di soccorrere, accogliere, assistere ogni essere umano; la responsabile convivenza, la piena condivisione del bene e dei beni, l'impegno comune a proteggere quest'unico mondo vivente e quindi tutti i viventi; in una parola: la misericordia) alla violenza che tutto e tutti divora ed estingue.
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Ogni persona ragionevole arriva alla scelta della nonviolenza: se solo si sforza di pensare fino in fondo i suoi stessi pensieri, se solo riconosce la verita' di quell'antico motto: agisci ne confronti delle altre persone cosi' come vorresti che le altre persone agissero verso di te.
Solo la nonviolenza puo' liberare e salvare l'umanita'.
La nonviolenza e' la politica dell'umanita', la politica necessaria e fondamentale dell'umanita'.
Non c'e' piu' tempo da perdere.
Il momento della scelta della nonviolenza e' adesso.

3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
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Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo secondo: "Ri-flessione sulla violenza" (pp. 43-66). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso]

L'aggressivita', la forza e la costrizione che si esercitano con la lotta permettono il superamento del conflitto con la ricerca di un regolamento che renda giustizia ad ognuno degli avversari. Quanto alla violenza, essa appare immediatamente come un de-regolamento del conflitto che non gli permette piu' di compiere la sua funzione, cioe' di stabilire la giustizia tra i due avversari.
Ritorniamo alla tesi sviluppata da Rene' Girard sulla rivalita' mimetica. Due individui rivaleggiano per appropriarsi dello stesso oggetto. Questo e' tanto piu' desiderabile per ciascuno per il fatto che lo desidera l'altro. Molto presto, i due individui diventati avversari distoglieranno la loro attenzione dall'oggetto per rivolgerla interamente verso il loro rivale. E si batteranno, non tanto per acquistare l'oggetto, che essi tendono ora ad abbandonare o dimenticare, quanto per eliminare il loro rivale. Forse anche preferiranno distruggere l'oggetto del loro desiderio, piuttosto che lasciarlo diventare proprieta' dell'altro. La loro contesa "diventa rivalita' pura" (1). A partire da questo momento i rapporti mimetici tra i due rivali saranno dominati dalla logica della violenza. "La violenza - scrive Rene' Girard - e' un rapporto mimetico perfetto, dunque perfettamente reciproco. Ciascuno imita la violenza dell'altro e gliela rimanda 'con gli interessi'" (2).
La violenza, l'abbiamo gia' notato, sopraggiunge quando l'uomo desidera l'illimitato e quando il suo desiderio si trova contrastato dagli altri. "Io ho il diritto - nota Simone Weil - di appropriarmi di tutte le cose, e gli altri mi ostacolano. Devo prendere le armi per togliere di mezzo questo ostacolo" (3). La violenza si radica in un desiderio illimitato che urta contro il limite costituito dal desiderio degli altri.
La violenza appare in un conflitto quando uno dei protagonisti mette in atto dei mezzi che fanno pesare sull'altro una minaccia di morte. "Poiche' non bisogna ingannarsi – fa notare Paul Ricoeur - lo scopo della violenza, il termine che essa persegue implicitamente o esplicitamente, direttamente o indirettamente, e' la morte dell'altro – almeno la sua morte, o qualcosa di peggio che la sua morte" (4). Cosi', ogni violenza e' un processo omicida, di messa a morte. Il processo non andra' forse fino al suo termine, ma il desiderio di eliminare l'avversario, scartarlo, escluderlo, ridurlo al silenzio, sopprimerlo, diventera' piu' forte della volonta' di arrivare ad un accordo con lui. Dall'insulto all'umiliazione, dalla tortura all'uccisione, molte sono le forme di violenza e molte le forme di morte. Attentare alla dignita' dell'uomo e' gia' attentare alla sua vita. Fare violenza e' sempre far tacere, e privare l'uomo della sua parola e' gia' privarlo della sua vita.
Non conviene parlare della "violenza" come se esistesse da se' stessa in mezzo agli uomini, in qualche modo al di fuori di loro, e come se agisse da se'. In realta' la violenza non esiste non agisce che per opera dell'uomo; e' sempre l'uomo che e' responsabile della violenza.
Se, per definire la violenza, ci si pone dal lato di colui che la esercita, si rischia molto di ingannarsi sulla sua vera natura, entrando presto nei processi di legittimazione che giustificano i mezzi con il fine. Bisogna dunque definire la violenza situandosi anzitutto dalla parte di colui che la subisce. Qui la percezione e' immediata ed implica una concettualizzazione che considera il mezzo usato e non piu' il fine invocato. Secondo Simone Weil, la violenza "e' cio' che fa di chiunque le sia sottomesso una cosa". "Quando essa si esercita fino in fondo - precisa Simone Weil - essa fa dell'uomo una cosa nel senso piu' letterale, perche' ne fa un cadavere". Ma la violenza che uccide e' una forma sommaria e grossolana della violenza. C'e' un'altra violenza molto piu' varia nei suoi procedimenti e piu' sorprendente nei suoi effetti, e' "quella che non uccide; cioe' quella che non uccide ancora". "Essa uccidera' sicuramente, oppure forse uccidera', o anche e' soltanto sospesa sull'essere che in ogni momento essa puo' uccidere; in ogni caso essa cambia l'uomo in pietra. Dal potere di trasformare l'uomo in cosa facendolo morire procede un altro potere ben altrimenti prodigioso, quello di fare una cosa di un uomo che resta vivo" (5).
Tuttavia, cio' che distingue ancora da una cosa un uomo attaccato dalla violenza e che resta vivo, e' il fatto che egli soffra. Fare violenza e' far soffrire e la sofferenza puo' essere piu' temibile della morte. "La prova suprema della volonta' - scrive Emmanuel Levinas - non e' la morte, ma la sofferenza" (6). E' per questo, egli precisa, che "l'odio non desidera sempre la morte dell'altro o, almeno, non desidera la morte dell'altro se non infliggendogli questa morte come una suprema sofferenza. [...] Bisogna che nella sofferenza il soggetto conosca la propria reificazione, ma per questo e' necessario precisamente che il soggetto rimanga soggetto" (7).
Ci sembra possibile formulare una definizione della violenza a partire dal secondo imperativo stabilito da Kant nei Fondamenti della metafisica dei costumi: "Agisci in modo da trattare l'umanita', tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo" (8). Secondo Kant il fondamento di questo principio e' che, al contrario delle cose che non sono che dei mezzi, le persone esistono come fine in se'. "L'uomo – egli afferma - e in generale ogni essere ragionevole, esiste come fine in se', e non soltanto come mezzo di cui questa o quella volonta' possano usare a proprio arbitrio; in tutte le sue azioni, tanto in quelle che riguardano lui stesso quanto in quelle che riguardano degli altri esseri ragionevoli, egli deve sempre essere considerato nello stesso tempo come un fine" (9). Cosi', chi si serve degli altri uomini semplicemente come di un mezzo viola la loro umanita': egli fa loro violenza. Si puo' dunque definire cosi' la violenza riprendendo alla lettera il pensiero di Kant: essere violenti e' "servirsi della persona degli altri semplicemente come di un mezzo, senza considerare che gli altri, nella loro qualita' di esseri ragionevoli, devono sempre essere stimati nello stesso tempo come dei fini" (10).
La violenza, si dice, e' l'abuso della forza. Ma bisogna dire di piu': la violenza per se' stessa e' un abuso; l'uso stesso della violenza e' un abuso. Abusare di qualcuno e' violarlo. Ogni violenza che si esercita contro un uomo e' una violazione: violazione del suo corpo, della sua identita', della sua personalita', della sua umanita'. Ogni violenza e' brutalita', offesa, distruzione, crudelta'. La violenza attacca sempre il volto che essa deforma per effetto della sofferenza; ogni violenza sfigura un volto. La violenza ferisce e uccide l'umanita' di colui che la subisce.
Ma l'uomo non prova soltanto la violenza che subisce, egli esperimenta di essere lui stesso capace di esercitare violenza verso altri. L'uomo, riflettendo, cioe' tornando su se' stesso, si scopre violento. E la violenza ferisce e uccide ugualmente l'umanita' di colui che la esercita. "Colpire o essere colpiti - afferma Simone Weil - e' una sola e identica sporcizia. Il freddo dell'acciaio e' ugualmente mortale nell'impugnatura come nella punta" (11). Cosi', che si eserciti la violenza o che la si subisca "in ogni maniera il suo contatto pietrifica e trasforma un uomo in cosa" (12).
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La "violenza strutturale"
La violenza non e' soltanto la violenza diretta delle azioni violente; esiste anche la violenza indiretta delle situazioni violente. Negli anni 1960 il ricercatore norvegese Johan Galtung ha forgiato l'espressione di "violenza strutturale" per indicare la violenza generata dalle strutture politiche, economiche o sociali che creano delle situazioni di oppressione, di sfruttamento o di alienazione. Si e' dibattuta la questione per sapere se conveniva o no ricorrere allo stesso concetto, quello di "violenza", per designare insieme delle azioni violente delle situazioni di ingiustizia (13). Certo, l'intenzione distruttrice dell'azione violenta e' immediatamente percepibile, mentre e' piu' difficile scoprire questa intenzione nelle situazioni di ingiustizia. Tuttavia, non c'e' alcun dubbio che le vittime di queste situazioni subiscano una violenza che attenta alla loro dignita' e alla loro liberta', e puo' far pesare su di esse una reale minaccia di morte. Una situazione di ingiustizia corrisponde bene alla definizione che abbiamo dato della violenza: essa viola l'umanita' di quelli che hanno a soffrirne. E se ci riferiamo alla seconda massima di Kant, sulla quale ci siamo basati nel definire la violenza, in una situazione di oppressione, di sfruttamento o di alienazione, l'uomo e' precisamente trattato soltanto come un mezzo e non e' considerato come un fine in se'. Peraltro, non ci sembra che sia il criterio della intenzionalita' quello da usare qui, ma quello della responsabilita'. Ora, la responsabilita' umana si trova direttamente impegnata in queste situazioni di ingiustizia che non sono dovute a fattori imponderabili. Non soltanto "noi siamo tutti responsabili", ma non c'e' oppressione senza oppressore, non c'e' sfruttamento senza sfruttatore, non ci sono dittature senza dittatori.
Noi pensiamo dunque che non e' affatto per metafora che qualifichiamo come "violenza" le situazioni di ingiustizia che mortificano gli uomini e possono farli morire. Invece, e' soltanto per metafora che possiamo parlare di "violenza" della natura. Certo, la natura puo' uccidere ma essa non e' "violenta". Non solamente la natura non ha l'intenzione di uccidere, ma non ha alcuna responsabilita' dei morti che provoca. Cosi', nessuna responsabilita' e' impegnata nella eruzione di un vulcano, nel terremoto o nello scatenamento di un uragano. Quello che abbiamo qualificato come violenza non puo' essere che l'opera dell'uomo.
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Comprendere la violenza della rivolta
Spesso e' la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. E' importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi del giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell'oppressione, essa obbliga ad una solidarieta' attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il piu' delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non e' il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non e' il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell'ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. E' importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient'altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi e' anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo e' un obiettivo della solidarieta' verso di loro.
Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi e' piu' un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non e' tanto la ricerca di un'efficacia quanto la rivendicazione di un'identita'. E' il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza e' allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. E' l'ultimo mezzo di espressione di quelli che la societa' ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiche' essi non hanno avuto la possibilita' di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che e' loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa e' allora un "segnale d'allarme" che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della societa'. La violenza e' per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria  vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: "sono violento, dunque sono". E la violenza permette di farsi riconoscere tanto piu' per il fatto che essa e' proibita dalla societa'. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Cio' che gli attori della violenza ricercano e' precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo puo' essere vero per l'individuo come per il gruppo. Anche il gruppo puo' volere provare a se stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l'impiego della violenza. Esso cosi' obblighera' gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, la' dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una societa' ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, procura un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l'umiliazione di essere degli esclusi.
Ma comprendere la violenza non e' giustificarla. Infatti, se la violenza e' giusta quando serve una causa giusta, non diventera' allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si e' mai incontrato nel corso dei secoli, si e' mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa e' giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approvera' la violenza per la cattiva causa? Bastera' discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non bastera'. Se la violenza e' legittimata come un diritto dell'uomo, nessuno manchera' di prendere a  pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che la difesa dei suoi interessi gli impone di farlo. In realta' l'ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potra' piu' interrompere. La violenza diventa fatalita'. La nonviolenza intende spezzare questa fatalita'.
Secondo le ideologie che dominano le nostre societa', e' necessario opporsi alla prima violenza, dell'oppressione o dell'aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per finalita' di stabilire la giustizia o di difendere la liberta'. L'argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto - incessantemente avanzato per giustificare la violenza, e' che essa e' necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira – lo vedremo -  portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiche' qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l'intenzione di servire una causa giusta, cambia o no la natura della violenza? In altri termini, e' possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l'uso della violenza per una causa giusta non e' altro che l'uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale di questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perche' resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.
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L'uomo violento di fronte alla morte
L'atteggiamento dell'uomo nei riguardi della violenza e' largamente determinato dal suo atteggiamento riguardo alla morte. Nel piu' profondo di se' l'uomo conosce la paura: paura dell'altro, del futuro, dell'ignoto, che immagina carico di minacce e pericoli. Ma la paura dell'uomo si radica sempre nella sua paura di morire. Secondo Aristotele - e, con lui, tutta la tradizione filosofica occidentale - la virtu' dell'uomo forte, capace di superare la paura di fronte ai pericoli, e' il coraggio. "Evidentemente, - egli scrive nell'Etica a Nicomaco - noi temiamo i pericoli e, per parlare in generale, quel che ci fa paura sono i mali" (14). Ma l'uomo deve padroneggiare la sua paura dando prova di coraggio: "La caratteristica del coraggio - precisa Aristotele - e' proprio di sopportare con costanza quello che e' o sembra spaventoso per l'uomo, per la ragione che e' bene affrontare il pericolo e vergognoso evitarlo" (15). Ora il piu' spaventoso dei mali "e' la morte che e' il termine finale al di la' del quale non c'e' piu', sembra, ne' bene ne' male" (16). Aristotele si domanda allora in quali circostanze l'uomo da' prova di coraggio, e l'esempio che egli privilegia tra tutti e' la guerra. Cosi', l'uomo coraggioso si manifesta principalmente "nella morte che si trova in guerra, in mezzo ai pericoli piu' grandi e piu' gloriosi" (17). Aristotele non vuole altra prova che gli onori che dappertutto si decretano al coraggio militare. Egli conclude: "Cosi' si puo' legittimamente dichiarare coraggioso l'uomo che si fa vedere senza paura di fronte ad una bella morte e davanti a dei pericoli improvvisi, suscettibili di portare alla morte; questi si incontrano soprattutto nella guerra" (18). E quando afferma che "la legge ordina a ciascuno di comportarsi da uomo coraggioso" e' ancora all'esempio della guerra che lui si riferisce. Cosi' la legge fa obbligo al soldato "di non abbandonare il suo posto nel combattimento, di non fuggire, di non abbandonare le sue armi" (19). Quanto all'uomo che "sente una paura eccessiva" davanti ai pericoli, costui e' un "vile" (20).
Gia' per Platone il coraggio era una virtu' essenzialmente guerriera. Nella Repubblica, Socrate si rivolge a Adimante in questi termini: "Chi direbbe che una citta' e' vile o coraggiosa se non considerando quella sua parte che fa la guerra e porta le armi per essa?". E Adimante gli risponde: "Nessuno lo direbbe riguardo ad altra cosa" (21). Molti secoli piu' tardi con la voce di Zarathustra, Nietzsche affermera' la predominanza del coraggio guerriero su tutte le altre virtu': "La guerra e il coraggio hanno fatto piu' grandi cose che non l'amore del prossimo" (22). Hegel, lo vedremo, non dira' altra cosa da questa. Cosi', da sempre siamo abituati a pensare che l'uomo coraggioso e' colui che supera la sua paura per affrontare il rischio di morire ricorrendo alla violenza per difendere una causa giusta. Di un uomo che da' prova di coraggio di fronte ai pericoli, si dice che si agguerrisce, cioe', precisamente, che diventa capace di affrontare i rischi della guerra superando la paura.
Ma, in realta', la scommessa di colui che decide di impiegare la violenza, non e' forse di uccidere prima che di essere ucciso? L'uomo che sceglie la violenza assume il rischio di essere ucciso, ma non vuole saperlo; piu' esattamente, egli lo sa ma non vuole crederci, perche' e' interamente preso dalla volonta' di uccidere e vuole convincersi che uscirà vincitore dalla lotta a morte col suo avversario. In un dialogo immaginario con un generale il filosofo Alain dichiara all'uomo di guerra: "Poiche' il destino dei cittadini e' in fin dei conti di rischiare tutto, fino alla loro vita, non sceglieranno forse la pace, ad ogni costo? Poiche', infine, in ogni progetto di guerra c'e' rischio di morte. Quale rischio peggiore potrebbe aversi in un vero e franco progetto di pace?". Ma il generale gli risponde: "Il primo articolo della nostra dottrina e' di credere che si vincera'" (23). Cosi', per l'uomo che sceglie la violenza, il rischio di essere ucciso si trova occultato dalla certezza di vincere. Certo, questo rischio esiste realmente, poiche' si tratta di affrontare un avversario che e' altrettanto determinato ad uccidere per non morire e altrettanto certo di vincere, ma ciascuno finge di ignorarlo e preferisce non pensarci.
Poiche' sono tutti mortali, gli uomini non dovrebbero dimostrare compassione gli uni per gli altri? In realta', e' precisamente perche' sono mortali che gli uomini danno prova di crudelta' gli uni verso gli altri. L'uomo uccide, non solamente perche' non vuole essere ucciso, ma perche' non vuole morire: egli uccide per vincere la morte. Noi uccidiamo, afferma Simone Weil, "perche' cosi' ci sentiamo sottratti alla morte che infliggiamo" (24); noi uccidiamo per "vendicarci di essere mortali" (25). Cosi', in definitiva, cio' che per l'uomo giustifica la violenza e' che essa gli appare come l'unico mezzo per proteggersi contro la morte.
Nel suo grande libro Massa e potere, Elias Canetti analizza in profondita' "l'aspirazione a sopravvivere" (26) che si prova nel piu' profondo dell'essere umano. "La forma piu' bassa di sopravvivere – egli scrive - consiste nell'uccidere. [...] Si vuole uccidere l'uomo che vi sbarra il cammino, vi contraria, che si alza in piedi davanti a voi come un nemico. Si vuole abbatterlo per sentire che si esiste ancora e lui non piu'. [...]  Questo istante di confronto con l'ucciso riempie il sopravvissuto di un tipo singolare di forza, a nessun'altra comparabile. Non esiste un istante che piu' di questo voglia la ripetizione" (27). Cosi', sopravvivendo a quelli che uccide nel corso della battaglia, l'uomo prova la grande soddisfazione di sentirsi invulnerabile, in qualche modo immortale. "Questo mucchio di morti tutto attorno a lui - scrive Elias Canetti - il sopravvissuto li guarda felice, da privilegiato. [...] I morti giacciono senza appello, tra di loro sta dritto in piedi lui, ed e' come se la battaglia fosse stata scatenata perche' egli sopravvivesse. Quanto a lui, egli ha deviato la morte sugli altri" (28). Cio' che fa il prestigio del guerriero e gli da' la statura dell'eroe, cio' per cui gli altri uomini lo ammirano e lo invidiano, e' di essere sopravvissuto a tutti quelli che egli ha ucciso, cosi' come a tutti quelli che sono stati uccisi ai suoi lati, e di essere sopravvissuto tanto ai suoi nemici che ai suoi amici.
Non ci si dovrebbe forse meravigliare che gli uomini, nel corso degli anni e dei secoli, non abbiano considerato le dimensioni di tutte le sofferenze, di tutte le distruzioni, di tutte le morti che sono risultate dalle guerre, che non si siano rivoltati contro la fatalita' della violenza che essi stessi facevano pesare sulla loro storia, che non si siano alla fine risolti a spezzarla? Come avviene che essi non abbiano imparato nulla dal passato e che siano sempre stati pronti a ricominciare? Non e' precisamente per il fatto che essi non conoscono le guerre se non attraverso la memoria dei sopravvissuti che, tutto sommato, non hanno da lamentarsene? Necessariamente sono sempre i sopravvissuti che fanno i discorsi nelle cerimonie organizzate davanti ai monumenti ai morti. Per un minuto di silenzio in ricordo dei morti, quante ore di rumore in memoria dei sopravvissuti? Certo, il ricordo dei morti riempie la memoria dei sopravvissuti, ma questi hanno tutto il tempo di considerare che la sorte li ha grandemente favoriti. In realta', in maniera piu' o meno cosciente, onorando i morti, i sopravvissuti onorano se stessi; essi si onorano di essere sopravvissuti e ne provano una grande soddisfazione. Cosi', il narcisismo dei sopravvissuti dimentica le disgrazie delle vittime della guerra. E' la memoria dei sopravvissuti e non il ricordo dei morti che si perpetua di secolo in secolo e che costituisce la memoria collettiva dei popoli. Per cui questi, in definitiva, non conservano un cattivo ricordo degli orrori della guerra e non sentono il bisogno di delegittimare la violenza.
La storia non e' che la storia dei sopravvissuti. "Scritte dai vincitori, meditate sulle vittorie - nota Emmanuel Levinas - la nostra storia occidentale e la nostra filosofia della storia annunciano la realizzazione di un ideale umanista ignorando del tutto i vinti, le vittime e i perseguitati, come se non avessero alcun significato [...]. Umanesimo dei superbi! La denuncia della violenza rischia di risolversi in instaurazione di una violenza e di una superbia: di un'alienazione e di uno stalinismo. La guerra contro la guerra perpetua la guerra col toglierle la cattiva coscienza". Ma Levinas conclude stranamente dando prova di un ottimismo che noi abbiamo qualche difficolta' a condividere: "Il nostro tempo certamente non ha piu' bisogno di essere convinto del valore della nonviolenza" (29). Ci sembra piuttosto che esso ha ancora tutto da imparare dalla nonviolenza.
I violenti invocano il giudizio della storia che li giustificherebbe. Ma il giudizio della storia non esiste; sono i sopravvissuti che giudicano la storia. La storia non e' giudice, essa non puo' che essere giudicata ed e' giudicata dai vincitori. La storia sembra dare ragione ai violenti, ma e' solamente la storia dei violenti. La storia delle violenze, quanto ad essa, resta da scrivere e percio' bisognera' tenere conto del parere delle sue vittime.
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Note
1. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, op. cit., p.35; tra.it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983.
2. Idem, ibidem, p. 324.
3. Simone Weil, Cahiers, I, op. cit., p.47; tr.it. Quaderni I, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano, III edizione 1991.
4. Paul Ricoeur, Histoire et verite', Paris, Le Seuil, 1955, p. 277; tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Storia e verita', Marco editore, Lungro di Cosenza 1995.
5. Simone Weil, "L'Iliade ou le poeme de la force", in La source greque, Paris, Gallimard, 1953, pp. 12-13; tr. it. di Cristina Campo, La Grecia e le intuizioni precristiane,  Rusconi, Milano 1974. Precisiamo che, in tutti i suoi scritti, Simone Weil non fa alcuna distinzione tra i concetti di forza e di violenza e che identifica pienamente l'una con l'altra.
6. Emmanuel Levinas, Totalite' et Infini, Essai sur l'exteeriorite', Paris, Le Livre de Poche, 1992, Biblio-Essais, p. 267; tr. it. Totalita' e infinito. Saggio sull'esteriorita', a cura di A. Dall'Asta, Jaka Book, Milano 1982, p. 245.
7. Idem, ibidem, p. 266-267; tr. it. cit., p. 244-245.
8. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Sansoni editore, 1986, p. 67-68, corrispondenti alla p. 429 di Kants gesammelte Schriften, h.g. von der Koeniglich Prussischen Akademie der Wissenschaften, Band IV, Berlin, 1911.
9. Idem ibidem, p. 65.
10. Idem ibidem, p. 69.
11. Simone Weil, Ecrits historiques et politiques, Paris, Gallimard, 1960, p. 80.
12. Simone Weil, Intuitions prechretiennes, Paris, Fayard, 1985, p.54; tr. it. La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967.
13. Su questo argomento, cfr gli articoli di Christian Mellon, Violence des bombes et violence des structures, et Une inflation a' maitriser: le mot violence, pubblicati nella rivista Alternatives non-violentes, n. 37 e 38.
14. Aristotele, Etica a Nicomaco, libro III, capitolo VI; tr. it. di Armando Plebe, Etica nicomachea, Laterza, Bari 1979, 1115a, 5-10.
15. Idem, ibidem, libro III, capitolo IX; tr. it. cit. 1117a, 15-20.
16. Idem, ibidem; libro III, capitolo VI;  tr. it. cit., 1115a, 25-30.
17. Idem, ibidem, libro III, capitolo VI; tr. it. cit., 1115a, 30-35.
18. Idem, ibidem.
19. Idem, ibidem, libro V, capitolo I; tr. it. cit., 1129b, 15-20.
20. Idem, ibidem, libro III, capitolo VII; tr. it. cit., 1115b, 30-35.
21. Platone, La Repubblica, libro IV, 429a.
22. Nietzsche, Cosi' parlo' Zarathustra, Adelphi, Milano 1982, p. 52.
23. Alain, Convulsions de la force, op. cit., 1939, p. 284.
24. Simone Weil, Cahiers II, Paris, Plon, 1953, p. 116; tr.it. Quaderni II, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985.
25. Idem, ibidem.
26. Elias Canetti, Masse et puissance, Paris, Gallimard, 1966, p. 244; Massa e potere, Adelphi, Milano 1981.
27. Idem, ibidem, p.241-242.
28. Idem, ibidem, p. 242.
29. Emmanuel Levinas, Difficile liberte', Paris, Le Livre de Poche, 1990, Biblio-Essais, p. 239; traduzione italiana parziale Difficile liberta'. Saggi sul giudaismo, a cura di G. Penati, La Scuola, Brescia 1986.
(Parte prima - segue)

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1947, 1980, pp. XXII + 146.
- Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano 1948, 1976, pp. XXIV + 264.
- Albert Camus, L'uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1957, 1976, pp. 344.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5304 del 26 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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