[Nonviolenza] Telegrammi. 5303



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5303 del 25 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. I tormenti del vecchio
2. Enrico Peyretti: Il movimento che dobbiamo sviluppare
3. Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier
4. Jean-Marie Muller: In un mondo di conflitti
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. MEMENTO. I TORMENTI DEL VECCHIO

Vedo la mia vita finire e finire il mondo vedo
tra atroci dolori guerre insensate trionfo del male piu' stolto e abissale
il mare colore del vino si muta nel mare colore del sangue
il cielo si spegne di ogni luce e un fuoco nero brucia ogni cosa pulsante
gridano le pietre e nessuno le ascolta

*

Se fosse vero che l'ultima parola
e' sempre e solo quella delle armi
migliaia di anni di crescita lentissima
della coscienza e della civilta'
vani sarebbero stati e una fame di vento

Se fosse vero che l'umana famiglia
sempre dovra' subire l'imperio
di dittature folli e sanguinarie
a nulla sarebbero valsi
tanta paziente tenacia tanto costante eroismo
nel contrastare il male e spezzarne le catene

Se fosse vero che convivere e' impossibile
e sola igiene del mondo e' la guerra
e tutti si ha da essere vittime o carnefici
allora che finisca adesso il mondo
ed in un qualche altrove che non so
qualcuno provi di nuovo quest'avventura
e sappia realizzare la pace e la giustizia

*

Invece cosi' vecchio e cosi' stanco
so bene quale sia ancora e ancora il mio dovere
continuare a contrastare la guerra e le uccisioni
continuare a recare aiuto a chi di aiuto ha bisogno
ad ogni voce prestare attento ascolto
essere equanime e misericordioso
condividere il pane e i versi di Omero
al vile fascismo non arrendersi mai
preferire subire il male anziche' compierlo
chiamare ogni oppresso alla resistenza necessaria

Consenti all'umanita' di essere umana
dimostrane tu la possibilita'
continua la lotta del recanatese
dell'enciclopedico Dionigi
della Rosa Rossa e della Rosa Bianca
di Anna e Simona e Virginia che tutto sapevano
e non si arresero mai alla violenza e alla menzogna

Di ogni oppressa e ogni oppresso sii ancora compagno
ogni oppressa e ogni oppresso chiamando alla lotta
affinche' cessi questa notte di orrori
e venga il tempo della pace e della gioia
la sobria gioia della comprensione
reciproca che riconosce e unisce
ogni essere umano senziente e pensante
nell'impegno comune per il bene comune
che non ha fine anche se il mondo intero
dovra' finire e breve ci e' la vita
e poiche' breve allora non sprecarla
e poiche' nulla dura sia allora questo l'attimo
in cui tu fai la cosa buona e giusta
in cui tu senti tutto il valore del mondo che vive

*

Chiamiamo nonviolenza la lotta necessaria
chiamiamo nonviolenza l'antifascismo nitido

chiamiamo nonviolenza l'impegno ad abolire
la guerra le armi l'oppressione

chiamiamo nonviolenza l'impegno ad inverare
l'uguaglianza di diritti di ogni essere umano
la comune responsabilita' per quest'unico vivente mondo
il riconoscimento della complessita' preziosa e fragile
e il sentimento del legame che ci unisce
al mondo intero

chiamiamo nonviolenza l'amore che agisce
ed ecco infine detta la parola
segreta che il pudore impedisce di dire

oppresse e oppressi di tutti i paesi
unitevi
per la comune salvezza dell'umanita' e del mondo

*

Vedo la mia vita finire e finire il mondo vedo
tra atroci dolori guerre insensate trionfo del male piu' stolto e abissale
il mare colore del vino si muta nel mare colore del sangue
il cielo si spegne di ogni luce e un fuoco nero brucia ogni cosa pulsante
gridano le pietre e nessuno le ascolta

2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: IL MOVIMENTO CHE DOBBIAMO SVILUPPARE
[Ringraziamo Enrico Peyretti per averci messo a disposizione questo suo intervento in una riflessione del Centro studi "Sereno Regis" di Torino a partire dall'articolo di Heribert Prantl "Paura e silenzio, dov'e' finito il pacifismo?" apparso sul quotidiano "Il manifesto"]

In realta' - speriamo - l'attenzione c'e' e cresce. Questi ultimi giorni di agosto sono socialmente di attivita' ridotta. Alla ripresa di settembre si dovra' lavorare, in politica interna e internazionale, non solo per fermare i missili, ma per procedere nel passo culturale-etico-politico-istituzionale del superamento della guerra, nulla di meno, come fu della schiavitu' legale e dell'assolutismo regale.
Lo Stato moderno e' la divisione dei poteri, la partecipazione democratica e l'affermazione dei diritti umani. Ma e' ancora il diritto di uccidere vittime prive di alcuna tutela giudiziaria, condannate dallo stato come "nemici". Questo e' la guerra, nulla di meno.
Lo Stato moderno si arroga la licenza di uccidere. Le conquiste umane precedenti sono annullate dal carattere arbitrariamente omicida dello Stato, che nelle proprie vittime annulla il proprio significato umanizzatore.
Il diritto internazionale non e' ancora capace di istituire e far valere il diritto fondamentale alla vita.
Il movimento che dobbiamo sviluppare e' la Costituzione umanitaria e democratica di tutta la Terra, che implica il disarmo degli stati "sovrani" cioe' insubordinati alla legge umana. Nulla di meno.

3. REPETITA IUVANT. SCRIVIAMO AL PRESIDENTE STATUNITENSE BIDEN PER CHIEDERE LA GRAZIA PER LEONARD PELTIER

Scriviamo al presidente statunitense Biden per chiedere la grazia per Leonard Peltier.
E' consuetudine dei presidenti statunitensi giunti a fine mandato di concedere la grazia ad alcuni detenuti.
Leonard Peltier e' un illustre attivista nativo americano, difensore dei diritti umani di tutti gli esseri umani e della Madre Terra.
Leonard Peltier, che a settembre compira' 80 anni, da 48 anni e' detenuto per un crimine che non ha commesso.
Leonard Peltier e' gravemente malato, e le sue malattie non possono essere curate adeguatamente in carcere.
Affinche' non muoia in carcere un uomo innocente, affinche' Leonard Peltier possa tornare libero e trascorrere con i suoi familiari questo poco tempo che gli resta da vivere, la cosa piu' importante ed urgente da fare adesso e' scrivere a Biden per chiedere che conceda la grazia a Leonard Peltier.
*
Per scrivere a Biden la procedura e' la seguente.
Nel web aprire la pagina della Casa Bianca attraverso cui inviare lettere: https://www.whitehouse.gov/contact/
Compilare quindi gli item successivi:
- alla voce MESSAGE TYPE: scegliere Contact the President
- alla voce PREFIX: scegliere il titolo corrispondente alla propria identita'
- alla voce FIRST NAME: scrivere il proprio nome
- alla voce SECOND NAME: si puo' omettere la compilazione
- alla voce LAST NAME: scrivere il proprio cognome
- alla voce SUFFIX, PRONOUNS: si puo' omettere la compilazione
- alla voce E-MAIL: scrivere il proprio indirizzo e-mail
- alla voce PHONE: scrivere il proprio numero di telefono seguendo lo schema 39xxxxxxxxxx
- alla voce COUNTRY/STATE/REGION: scegliere Italy
- alla voce STREET: scrivere il proprio indirizzo nella sequenza numero civico, via/piazza
- alla voce CITY: scrivere il nome della propria citta' e il relativo codice di avviamento postale
- alla voce WHAT WOULD YOU LIKE TO SAY? [Cosa vorresti dire?]: scrivere un breve testo (di seguito una traccia utilizzabile):
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
le scriviamo per chiederle di concedere la grazia al signor Leonard Peltier.
Leonard Peltier ha quasi 80 anni ed e' affetto da plurime gravi patologie che non possono essere adeguatamente curate in carcere: gli resta poco da vivere.
Leonard Peltier ha subito gia' 48 anni di carcere per un delitto che non ha commesso: la sua liberazione e' stata chiesta da Nelson Mandela e da madre Teresa di Calcutta, dal Dalai Lama e da papa Francesco, da Amnesty International, dal Parlamento Europeo, dall'Onu, da milioni di esseri umani.
Egregio Presidente degli Stati Uniti d'America,
restituisca la liberta' a Leonard Peltier; non lasci che muoia in carcere un uomo innocente.
Distinti saluti.
*
Sollecitiamo chi legge questo comunicato ad aderire all'iniziativa e a diffondere l'informazione.
Free Leonard Peltier.
Mitakuye Oyasin.

4. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: IN UN MONDO DI CONFLITTI
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riproponiamo il capitolo primo: "In un mondo di conflitti" (pp. 29-42). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione]

In un mondo di conflitti
La nonviolenza e' un'idea ancora nuova in Europa e nel mondo intero. Di per se', la parola nonviolenza suscita molti equivoci, malintesi e confusioni. Cio' che anzitutto fa difficolta' e' il fatto che questa parola esprime una negazione, un'opposizione, un rifiuto. Per questo essa contiene numerose ambiguita'. Ma ha il vantaggio preciso e decisivo di obbligarci a guardare in faccia le molte ambiguita' della violenza, mentre noi siamo sempre tentati di occultarle per potervici meglio adattare. La nonviolenza non esprime un minore, ma un piu' grande realismo riguardo alla violenza. Si tratta di prenderne tutta la misura, di traversarne tutto lo spessore, di pesarne tutto il peso.
Sara' possibile precisare il significato della nonviolenza solo se preliminarmente avremo precisato il significato della violenza. Importa anzitutto chiarire a che cosa la nonviolenza dice no, a che cosa si oppone, che cosa rifiuta. Questo non sara' ancora sufficiente perche', sapendo quello che la nonviolenza non e', non sapremo ancora cio' che essa e'. Per saperlo, dovremo precisare cio' che la nonviolenza ricerca, cio' che essa vuole affermare, cio' che essa propone, quello che e' il suo progetto.
La parola "violenza" e' certamente una di quelle piu' spesso impiegate nei discorsi e negli scritti di tutti. Tuttavia, se facciamo attenzione al significato che le diamo, ci accorgiamo che ha molte accezioni differenti. Questa confusione di linguaggio esprime la confusione di pensiero. E questa doppia confusione non puo' che generare confusione nelle discussioni e nei tentativi di dialogo. Questa incomprensione si raddoppia necessariamente quando ci arrischiamo a parlare di nonviolenza. E' essenziale operare subito una chiarificazione concettuale che ci permetta di intenderci sul significato delle parole che impieghiamo. Occorre che distinguiamo molti concetti che abbiamo l'abitudine di confondere: il conflitto, l'aggressivita', la lotta, la forza, la costrizione e la violenza propriamente detta.
*
Il conflitto
"In principio e' il conflitto". La nostra relazione agli altri e' costitutiva dalla nostra personalita'. L'esistenza umana dell'uomo non e' il suo essere-al-mondo, ma il suo essere-agli-altri. L'uomo e' essenzialmente un essere di relazione. Io non esisto se non in relazione con altri. Tuttavia, il piu' delle volte, io sperimento il mio incontro con l'altro anzitutto come una avversita', come un fronteggiarsi. La venuta dell'altro presso di me e' un disturbo. L'altro e' l'invasore della mia area di tranquillita'; egli mi strappa alla mia quiete. L'altro, con la sua esistenza, sorge, nello spazio di cui mi ero gia' appropriato, come una minaccia per la mia esistenza. L'altro e' colui i cui desideri si oppongono ai miei desideri, i cui interessi urtano i miei interessi, le cui ambizioni si levano contro le mie ambizioni, i cui progetti contrastano i miei progetti, la cui liberta' minaccia la mia liberta', i cui diritti invadono i miei diritti.
L'arrivo dell'altro al mio fianco e' pericoloso, o almeno puo' esserlo. Questo arrivo puo' anche non essere pericoloso, ma io non ne so nulla: per questo lo sento come pericoloso. L'altro non mi vuole necessariamente del male; puo' essere anche che voglia farmi del bene, ma io non lo so. Per questo, l'altro, lo sconosciuto, fa pesare un'incertezza sul mio avvenire; egli mi pone nell'insicurezza. L'altro mi inquieta, mi fa pura. In ogni modo, anche se non e' armato di cattive intenzioni l'altro mi disturba. Probabilmente sara' ingombrante. Bisognera' bene che io gli faccia posto, gli ceda il mio posto e forse piu' di questo. Io sento anzitutto la prossimita' dell'altro come una promiscuita'. Forse l'altro non viene a minacciarmi, forse viene solo a domandarmi aiuto? Ma questa domanda e' ancora una minaccia, un disturbo. La mia paura dell'altro si raddoppia quando egli non mi somiglia, quando non parla la mia lingua, quando non ha lo stesso colore di pelle, quando esibisce la sua fede in un Dio che non e' il mio. Costui piu' di tutti gli altri mi disturba: perche' non e' restato a casa sua?
Rene' Girard ha sviluppato una tesi che chiarisce la maniera in cui gli uomini arrivano a rivaleggiare tra loro. All'inizio della sua riflessione Rene' Girard fa questa constatazione: "Non c'e' niente, o quasi, nei comportamenti umani che non sia appreso e ogni apprendimento si riconduce all'imitazione" (1). Da qui, Girard tenta di elaborare una scienza dell'uomo "precisando le modalita' propriamente umane dei comportamenti mimetici" (2). Al contrario di quelli che vedono nell'imitazione un processo di armonia sociale, Girard intende mostrare che essa e' essenzialmente un principio di opposizione e avversione, di rivalita' e di conflitto. Infatti, cio' che e' in gioco nei comportamenti mimetici degli uomini, e' l'appropriazione di un oggetto, il quale, dal momento che e' desiderato allo stesso tempo da molti membri di un gruppo, diventa causa di rivalita'. "Se un individuo vede uno dei suoi simili tendere la mano verso un oggetto, e' immediatamente tentato di imitare il suo gesto" (3). Secondo Rene' Girard, e' questa rivalita' mimetica, la cui posta e' l'appropriazione dello stesso oggetto, che e' all'origine dei conflitti tra gli individui. E il conflitto e' l'affrontarsi della mia volonta' a quella dell'altro, poiche' ciascuno vuole far cedere la resistenza dell'altro.
L'individuo sente gelosia per l'altro che gode del possesso di un oggetto che lui non possiede. Cosi' il sentimento di gelosia, che mette voglia dell'oggetto posseduto dall'altro e' una delle energie piu' potenti dei conflitti che oppongono gli individui tra loro.
Il potere sugli oggetti genera un potere sugli altri. Il desiderio del possesso e il desidero del potere sono profondamente legati l'uno all'altro. Nel fatto stesso del rivaleggiare tra loro per l'appropriazione degli oggetti, gli individui lottano tra loro per l'affermazione del proprio potere. Esiste cosi' un legame organico tra la proprieta' e il potere. La posta in gioco nei conflitti che oppongono gli uomini e' spesso una sfida di potere. Certo, e' importante che ciascuno possieda sufficienti oggetti per soddisfare i propri bisogni vitali – nutrirsi, avere un alloggio, vestirsi – cosi' come deve avere sufficiente potere per far rispettare i suoi diritti. Ma se i desideri di possesso e di potere sono legittimi nella misura in cui permettono all'individuo di diventare autonomo dagli altri, quei desideri hanno una tendenza naturale a esigere sempre di piu' e a svilupparsi sempre di piu'. Niente gli basta e non sono mai soddisfatti. "Non sanno fermarsi"; non conoscono limiti. Il desiderio esige al di la' di cio' che domanda il bisogno, molto al di la'. "C'e' sempre dell'illimitato nel desiderio" (4) scrive Simone Weil. In un primo tempo, l'individuo cerca il potere per non essere dominato dagli altri, ma, se non se ne guarda, subito e' superato il limite a partire dal quale egli cerca di dominare gli altri. Percio', la rivalita' tra gli uomini non puo' essere superata se non dal momento in cui ciascuno limita i propri desideri. "I desideri limitati - nota Simone Weil - sono in accordo con il mondo; i desideri che racchiudono l'infinito non lo sono" (5).
L'individuo non puo' fuggire una situazione di conflitto senza rinunciare ai suoi diritti. Egli deve accettare quella situazione, perche' e' attraverso il conflitto che ciascuno potra' farsi riconoscere dagli altri. Certo, il conflitto puo' essere distruttivo, ma puo' anche essere costruttivo. La funzione del conflitto e' quella di stabilire un contratto, un patto tra gli avversari che soddisfi i diritti rispettivi di ciascuno, e di intervenire cosi' per costruire delle relazioni di equita' e giustizia tra gli individui all'interno di una stessa comunita' e tra le differenti comunita'. Il conflitto e' un elemento strutturale di ogni relazione con gli altri e, di conseguenza, di ogni vita sociale.
Ogni situazione politica e' conflittuale, almeno potenzialmente. La coesistenza tra gli uomini e tra i popoli deve diventare pacifica, ma restera' sempre conflittuale. La pace non e', non puo' essere, e non sara' mai, l'assenza di conflitti, ma il loro controllo, la gestione e la risoluzione dei conflitti con mezzi diversi della violenza distruttiva e omicida. Cosi' l'azione politica deve essere un cercare la risoluzione (dal latino resolutio: l'atto di snodare) nonviolenta dei conflitti.
In realta' non si puo' parlare di nonviolenza se non in situazione di conflitto. Il discorso pacifista, sia giuridico sia spiritualista, s'inganna e va a finire nell'idealismo, quando stigmatizza il conflitto per fare un'apologia esclusiva del diritto, della fiducia, della fraternita', della riconciliazione, del perdono e dell'amore. In questi casi si abbandona la storia per fuggire nell'utopia.
La nonviolenza non presuppone dunque un mondo senza conflitti. Essa non ha per progetto politico di costruire una societa' in cui le relazioni tra gli uomini riposino soltanto sulla fiducia. Questa puo' essere stabilita solo attraverso relazioni di prossimita', puo' essere instaurata solo verso il prossimo. In linea generale, nella societa', ogni relazione con il lontano, con l'altro-che-io-non-conosco, e' una sfida e conviene affrontarla nella diffidenza. Cosi', l'organizzazione della vita in societa' non e' fondata sulla fiducia, ma sulla giustizia. Questo implica che siano create delle istituzioni, che siano elaborate delle leggi che prevedano delle modalita' pratiche di regolazione sociale dei conflitti che in ogni momento possono sorgere tra gli individui.
Ma, in ultima analisi, il conflitto non deve essere considerato come la norma della relazione con l'altro. L'uomo puo' essere un lupo per l'altro uomo, ma allora vive come un lupo, non come un uomo. L'umanita' dell'uomo non si realizza al di fuori del conflitto, ma si realizza al di la' del conflitto. Il conflitto e' nella natura degli uomini, ma quando questa non e' ancora trasformata dalla qualita' dell'umano. Il conflitto e' il primo, ma non deve avere l'ultima parola. Esso e' il modo primario, ma non quello essenziale della relazione all'altro. E' fatto per essere superato, oltrepassato. L'uomo deve sforzarsi di stabilire una relazione con l'altro uomo pacificata, spogliata di ogni minaccia e di ogni paura. Di fronte a colui che gli sta davanti, l'uomo non deve porsi in una relazione di ostilita', in cui ciascuno e' il nemico dell'altro, ma deve volere stabilire con lui una relazione di ospitalita', in cui ciascuno e' ospite dell'altro. E' significativo che le parole ostilita' e ospitalita' appartengano alla stessa famiglia etimologica: all'origine le parole latine hostis e hospes designano tutte e due lo straniero. Egli puo' essere respinto come un nemico o puo' essere accolto come un ospite.
L'ospitalita' esige piu' che la giustizia. La sola giustizia, cioe' il semplice rispetto dei diritti di ognuno, non basta per fondare una relazione da uomo a uomo. Essa tiene ancora i vicini separati l'uno dall'altro. Farsi rispettare e' ancora farsi temere. Di sua natura, il rispetto implica una certa distanza. Tenersi in rispetto, e' ancora tenersi lontani l'uno dall'altro. Per formare una comunita' umana, gli uomini sono chiamati a intrattenere tra loro delle relazioni di reciprocita' fondate sulla condivisione e sul dono. Diciamolo in anticipo, il luogo dell'ospitalita' e il luogo della bonta'.
*
L'aggressivita'
La violenza e' talmente presente al cuore della storia degli uomini che siamo talvolta tentati di pensare che essa sia inscritta nel cuore stesso dell'uomo. La violenza cosi' sarebbe "naturale". Sarebbe dunque vano scommettere sulla nonviolenza perche' cio' sarebbe andare contro la legge stessa della natura. In realta' non e' la violenza ad essere inscritta nella natura umana, ma l'aggressivita'. La violenza non e' altro che una delle espressioni dell'aggressivita', e non e' una necessita' naturale che l'aggressivita' si esprima nella violenza.
L'uomo puo' diventare un essere razionale, ma e' anzitutto un essere istintuale e pulsionale. Gli istinti costituiscono un fascio di energie. Quando questo fascio e' ben stretto, esso struttura e unifica la personalita' dell'individuo. Ma se si allenta, l'individuo tutto intero si destruttura e si disunisce. L'aggressivita' e' una di queste energie: come il fuoco, essa puo' essere benefica o malefica, distruttrice o creatrice.
L'aggressivita' e' un potere di combattivita', di affermazione di se', che e' costitutiva della mia personalita'. Essa mi consente di affrontare l'altro senza tirarmi indietro. Essere aggressivo, e' affermarmi davanti all'altro andando verso di lui. Il verbo aggredire deriva dal latino aggredi, la cui etimologia ad-gradi significa avanzare verso. E' soltanto in un senso derivato che aggredire significa marciare contro: questo deriva dal fatto che, nella guerra, marciare verso il nemico e' marciare contro di lui, cioe' attaccarlo. Cosi', per la sua etimologia, il verbo aggredire (ad-gredire) non implica violenza piu' del verbo pro-gredire, che significa marciare in avanti. Dare prova di aggressivita' e' accettare il conflitto con l'altro senza sottomettersi alla sua legge. Senza aggressivita' io sarei sempre in fuga davanti alle minacce che gli altri fanno pesare su di me. Senza aggressivita', io sarei incapace di superare la paura che mi paralizzerebbe e che mi tratterrebbe dal combattere il mio avversario e dal lottare contro di lui per far riconoscere e rispettare i miei diritti. Per andare verso l'altro bisogna dare prova di audacia e di coraggio, perche' e' andare verso uno sconosciuto, e' partire all'avventura.
La paura e' in ogni individuo e non serve reprimerla rifiutando di confessarla. Si tratta, al contrario, di prenderne coscienza, di sforzarsi di assumerla, di addomesticarla e di superarla, sapendo bene che questo sforzo deve ricominciare incessantemente. Questa paura genera nell'uomo, talvolta a sua insaputa, un'ansieta', un'angoscia, una sofferenza che lo predispongono a mettersi in atteggiamento di ostilita' e intolleranza verso l'altro. Un fattore irrazionale interviene allora nello sviluppo dei rapporti fra gli uomini, e puo' diventare predominante. Ma la paura non e' vergognosa, e' semplicemente umana. Quello che puo' essere vergognoso e' il cedere alla propria paura. Perche' la paura e' cattiva consigliera tanto quando ci invita alla sottomissione che quando ci incita alla violenza. Dominare la propria paura, padroneggiare le emozioni e le passioni che essa suscita, ci permette di esprimere la nostra aggressivita' con mezzi diversi da quelli della violenza distruttrice. A questo punto, l'aggressivita' diventa un elemento fondamentale della relazione all'altro; questa potra' diventare una relazione di rispetto mutuo e non di dominazione-sottomissione.
In realta', davanti a un'ingiustizia, la passivita' e' un atteggiamento piu' diffuso della violenza. La capacita' di rassegnazione degli uomini e' considerevolmente piu' grande della loro capacita' di rivolta. Inoltre, uno dei primi scopi dell'azione nonviolenta e' quello di "mobilitare", cioe' di mettere in movimento quegli stessi che subiscono l'ingiustizia, di risvegliare la loro aggressivita' per prepararli alla lotta, di suscitare il conflitto. Quando lo schiavo e' sottomesso al suo padrone, non c'e' conflitto. Al contrario, e' proprio allora che "l'ordine" e' stabilito e che regna "la pace sociale", senza che niente ne' alcuno vengano a rimetterla in discussione. Il conflitto non avviene se non a partire dal momento in cui lo schiavo dimostra sufficiente aggressivita' per "avanzarsi verso" ( ad-gradi) il suo padrone, per osare fargli fronte, e rivendicare i propri diritti. La nonviolenza suppone prima di tutto che si sia capaci di aggressivita'. In questo senso, bisogna affermare che la nonviolenza e' l'opposto piu' della passivita' e della rassegnazione che della violenza. L'azione nonviolenta collettiva deve permettere di incanalare l'aggressivita' naturale degli individui, in modo che essa non si esprima con i mezzi della violenza distruttiva, che rischiano di mettere in moto altre violenze e altre ingiustizie, ma con dei mezzi giusti e pacifici, che possano costruire una societa' piu' giusta e piu' pacifica. In realta', la violenza non e' altro che una perversione dell'aggressivita'.
La collera, che puo' impadronirsi dell'individuo facendogli perdere ogni controllo di se', e' uno straripamento dell'aggressivita'. Ma noi sappiamo che la collera e' la manifestazione di una debolezza e non di una forza di carattere. "Ira brevis furor est". "La collera - scrive Orazio – non e' altro che una breve follia". Il poeta latino poi precisa: "Colui che non sapra' dominare la sua collera vorra' piu' tardi non aver fatto quello che il risentimento e la passione gli avevano consigliato quando cercava nella violenza una pronta soddisfazione per il suo odio implacato. [...] Governa le tue passioni: se esse non obbediscono, comandano; bisogna imporre loro un freno, bisogna tenerle alla catena" (6).
Gesu' di Nazareth non si limita a condannare chi e' omicida di suo fratello; egli accusa gia' chi "monta in collera contro il proprio fratello" e lo ingiuria (7). Giovanni di Betsaida esprime bene il pensiero di Gesu' quando afferma: "Chiunque odia suo fratello e' un omicida" (8). L'odio, infatti, e' gia' omicida.
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La lotta
L'esistenza e' una lotta per la vita. Per difendere i miei diritti, ma anche per difendere i diritti di quelli con cui voglio essere solidale, io devo entrare in lotta con chi li minaccia o vi attenta. "Quale follia - affermava Peguy contro i pacifisti – voler legare la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo a una Dichiarazione di Pace! Come se una Dichiarazione di Giustizia non fosse gia' in se' stessa una dichiarazione di guerra. [...] Come se un solo punto di diritto, un solo punto di rivendicazione potesse apparire nel mondo senza diventare subito un punto di turbamento e di origine di guerra" (9). Se noi prendiamo questa parola guerra nella sua accezione piu' larga (intendendo cosi' una lotta, un affrontamento, un combattimento), dal punto di vista dei principi formali, Peguy ha ragione contro i pacifisti: questi rimangono prigionieri del loro rifiuto della guerra e non propongono altri mezzi per combattere l'ingiustizia e difendere i diritti dell'uomo.
Certo, l'azione nonviolenta vuole prima esaurire tutte le possibilita' di dialogo con l'avversario, facendo appello alla sua ragione per tentare di convincerlo e alla sua coscienza per tentare di convertirlo. Se quello accetta la discussione, allora e' possibile aprire con lui un negoziato per cercare di arrivare a un accordo che renda giustizia ad ognuno. Sfortunatamente, gli appelli alla ragione raramente sono sufficienti per risolvere un conflitto. Cio' che caratterizza in genere una situazione di ingiustizia e' proprio l'impossibilita' di dialogo tra i contendenti. Ed e' proprio per il fatto che il dialogo e' impossibile che e' necessaria la lotta. Dal momento che non e' possibile risolvere il conflitto con il dialogo, la lotta e' il solo mezzo per rendere il dialogo possibile. La funzione della lotta e' di creare le condizioni del dialogo stabilendo un nuovo rapporto di forza che obblighi l'altro a riconoscermi come un inter-locutore necessario. A questo punto diventa possibile aprire un negoziato per cercare i termini di un accordo che metta fine al conflitto.
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La forza
C'e' un'altra confusione frequente: quella tra l'uso della violenza e l'esercizio della forza. Ogni lotta e' una prova di forza. In un determinato contesto economico, sociale e politico, ogni relazione con gli altri si inscrive in un rapporto di forza. La ricerca della giustizia e' la ricerca di un equilibrio tra forze antagoniste in modo che i diritti di ciascuno siano rispettati. La lotta ha la funzione di creare un nuovo rapporto di forza con lo scopo di stabilire questo equilibrio. "L'ordine sociale - scrive Simone Weil – non puo' essere che un equilibrio di forze" (10). La giustizia sociale e' l'equilibrio di forze che si esercitano in senso contrario. Per questo "la bilancia in equilibrio, immagine del rapporto uguale di forze, e' stata dalla piu' lontana antichita', e soprattutto in Egitto, il simbolo della giustizia" (11). L'ingiustizia risulta quindi dallo squilibrio delle forze, per il quale le piu' deboli sono oppresse dalle piu' forti. Allora, agire per la giustizia e' ristabilire l'equilibrio delle forze e questo non e' possibile se non esercitando una forza che impone un limite a quella che introduce lo squilibrio. Cosi', per Simone Weil, la "bella azione", e' "l'azione che conclude, che sospende il dialogo indefinito degli squilibri opposti, che stabilisce l'equilibrio unico corrispondente alla situazione data" (12). L'azione nonviolenta vuole essere questa "bella azione" che mira a stabilire quell'equilibrio di forze che assicura la giustizia e la pace.
Questo equilibrio di forze permette agli uomini di vivere in simbiosi (dal greco sun, con, e bios, vita) gli uni con gli altri. La simbiosi e' una "vita in comune" fondata su relazioni reciprocamente vantaggiose per tutti i soci; e' un'associazione tra molti esseri viventi che permette loro di soddisfare i loro rispettivi bisogni senza nuocere agli altri. Essi, dunque, hanno tutti ugualmente interesse a rispettare i termini di questa associazione, nonostante le costrizioni che essa impone loro. Essa e' cosi' durevole perche' e' vantaggiosa per ciascuno.
Michel Serres ha fatto l'elogio del "contratto di simbiosi", che permette agli avversari di diventare soci decidendo di vivere insieme nel rispetto mutuo dei loro interessi e diritti. "Che cos'e' un nemico - egli si chiede - chi e' lui per noi, e come trattarlo? In altre parole, per esempio, che cos'e' il cancro? Un insieme di cellule maligne che cresce e che noi dobbiamo ad ogni costo espellere, tagliare, rigettare? Oppure qualcosa come un parassita con cui dobbiamo negoziare un contratto di simbiosi?". Per parte sua, Michel Serres, "propende per la seconda soluzione, come fa la vita stessa" (13). Per questo "e' meglio trovare degli equilibri simbiotici, anche imperfetti, che rilanciare una guerra, sempre perduta" (14).
E' vano pretendere che il diritto debba prevalere sulla forza con lo screditare la forza in nome del diritto. In una societa' di giustizia e di liberta', la vita politica e' retta dal diritto, ma il rispetto del diritto e' assicurato dalla forza. Alain esprime l'errore fondamentale del pacifismo giuridico quando scrive: "Non la soluzione di un problema di diritto con i mezzi della forza, ma, tutto al contrario, la soluzione di un problema di diritto con i mezzi del diritto" (15). In realta', di per se' stessi questi "mezzi del diritto" rimangono inoperanti per risolvere "un problema di diritto". E' proprio dell'idealismo il conferire al diritto una forza specifica che agirebbe nella storia e sarebbe il vero fondamento del progresso. Tutto dimostra, al contrario, che una tale forza non esiste. Max Scheler ha messo bene in evidenza l'illusione della "forza del diritto": "Una tale forza spontanea - egli scrive - inerente all'idea stessa del diritto, non esiste affatto. Ogni diritto 'positivo' non e', quando appare, che una formulazione giuridica dei rapporti di forza dati, delle situazioni di interessi date" (16).
In realta', soltanto la forza organizzata nell'azione che poggia sul numero puo' essere efficace per combattere l'ingiustizia e ristabilire il diritto. E' dunque vano volere screditare la forza in nome del diritto, poiche', nei fatti, il diritto non puo' avere altra garanzia che la forza. Ma la forza non e' la violenza, e non e' possibile screditare la violenza se non si ha, prima di tutto, riabilitata la forza dandole tutto il suo posto e riconoscendole tutta la sua legittimita'. E' anche essenziale rifiutare allo stesso tempo tanto il preteso realismo che giustifica la violenza come fondamento dell'azione pubblica, quanto il preteso spiritualismo che rifiuta di riconoscere la forza come inerente all'azione politica. E poiche' la forza non esiste che nell'azione, non e' possibile denunciare e combattere la violenza se non proponendo un altro metodo di azione che non debba niente alla violenza omicida, ma che sia capace di stabilire dei rapporti di forza che garantiscano il diritto.
Il discorso strategico che fonda la pertinenza del concetto di lotta nonviolenta rifiuta i discorsi idealisti che vorrebbero stabilire la pace sulla "forza della giustizia", "la forza della ragione", "la forza della verita'" o "la forza dell'amore". Certo, queste espressioni non sono senza significato. Cosi', esiste un senso nel quale si puo' parlare di "forza della verita'", e non e' mai vano "dire la verita'". Ma si tratta allora di una forza di persuasione che non si impone dall'esterno; bisogna accoglierla. La verita' non puo' essere riconosciuta che da colui che ha deciso liberamente di aderirvi. La forza della verita' non potrebbe costringere colui che rifiuta di sottomettersi ad essa. La menzogna trionfa piu' facilmente della verita'. Il trionfo porta il marchio della violenza; ne ha gia' tutto il ridicolo abbigliamento. Colui che annuncia alto e forte il trionfo della verita' e' un uomo pericoloso. Egli lustra gia' le sue armi.
Certo, in un conflitto e' teoricamente possibile che quelli che sono responsabili dell'ingiustizia, poiche' sono pure degli uomini e portano in loro il senso della giustizia, accettino liberamente di riconoscere i loro torti e rendano giustizia ai loro avversari, ma, praticamente, questa non e' la cosa piu' probabile. E se essi non accettano di farlo di buon grado, bisognera' bene che vi siano costretti e forzati. Il piu' spesso, come ha notato Pascal nella dodicesima Lettera Provinciale: "La violenza e la verita' non possono niente l'una sull'altra". Poiche', se e' vero che "tutti gli sforzi della violenza non possono indebolire la verita', e non servono che a darle maggiore rilievo", e' non meno vero che "tutte le luci di verita' non possono niente per arrestare la violenza, e non fanno che irritarla ancora di piu'" (17).
Cosi' la giustizia e la verita' sono generalmente incapaci, da se' stesse, di forzare il padrone a riconoscere i diritti dello schiavo. La forza, in realta', non esiste se non grazie all'azione ed e' l'unione che fa la forza dell'azione. E' per questo che coloro che subiscono le ingiustizie devono unirsi per agire insieme al fine di ottenere giustizia. "Il popolo unito - dice un proverbio spagnolo - non sara' mai vinto: el pueblo unido jamas sera' vencido".
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La costrizione
Devo dunque, per avere ragione del mio avversario, esercitare su di lui una reale forza di costrizione che lo obblighi a rendermi giustizia. Se lo scopo a lungo termine dell'azione nonviolenta e' di ottenere dal mio avversario che diventi ragionevole, l'obiettivo che essa si propone a breve termine e' di costringerlo, senza attendere che egli si lasci convincere.
Costringere qualcuno e' obbligarlo ad agire contro la sua volonta': poco fa egli non voleva, ma ora vuole. Egli accetta alla fine cio' che prima rifiutava. Egli accetta perche' non puo' fare altrimenti o, piu' precisamente, perche' se egli facesse altrimenti ne risulterebbero per lui piu' inconvenienti che vantaggi. Egli accetta perche', tutto ben considerato, facendo altrimenti, avrebbe piu' da perdere che da guadagnare. Egli accetta perche', in fin dei conti, e' suo interesse accettare. Egli si trova costretto a cambiare i criteri delle sue scelte e delle sue decisioni. Allora egli fa delle concessioni, allora cede. Egli ottempera (ob-tempera), cioe', davanti alla costrizione che gli e' fatta, egli tempera i suoi desideri, modera le sue ambizioni, riduce le sue esigenze tenendo conto delle esigenze degli altri. Mette dell'acqua nel suo vino (in latino temperare significa prima di tutto mescolare, diluire).
La lotta nonviolenta non puo' ridursi a un semplice dibattito di idee, essa e' realmente un combattimento nel quale si oppongono molte forze. Nei conflitti economici sociali e politici, gli avversari non sono delle persone, nemmeno dei gruppi di persone, ma dei gruppi di interesse. E non e' generalmente possibile che si stabilisca tra loro un dialogo razionale, dove la verita' possa trionfare dell'errore con l'esporre una dimostrazione che nessuna obiezione potrebbe contraddire. I rapporti tra questi gruppi sono dei rapporti di potere e, di fronte a sfide di potere che mettono in causa degli interessi antagonisti, gli uomini, generalmente, non sono ragionevoli. E' per questo che, quando si tratta di lottare contro le ingiustizie strutturali del "disordine stabilito", e' la costrizione esercitata dall'azione collettiva che e' determinante per il successo di una resistenza nonviolenta.
Certo, tra i membri di un gruppo, alcuni possono essere sensibili alla giustezza della causa difesa dal gruppo avverso. Essi potranno allora divenirne in qualche modo gli avvocati in seno al proprio gruppo. Ma, secondo ogni probabilita', essi non saranno che una piccola minoranza e correranno il rischio di essere rifiutati come dei traditori. Il loro ruolo, tuttavia, potrebbe essere importante quando, avendo la lotta cambiato il rapporto di forza, verra' il momento di cercare una soluzione negoziata del conflitto.
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Note
1. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, recherches avec J.D. Oughourlian et Guy Lefort, Paris, Grasset, 1983, p. 15; ; tr. it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983.
2. Idem, ibidem.
3. Idem, ibidem, p. 16.
4. Simone Weil, Cahiers I, Paris, Plon, 1951, p. 140; ; tr. it. Quaderni I, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano, III edizione 1991.
5. Idem, ibidem, p. 80.
6. Orazio, Epistole, libro I, epistola II, 59-64.
7. Vangelo secondo Matteo, 5, 21-22.
8. Prima lettera di Giovanni, 3, 15.
9. Peguy, L'Argent suite, Oeuvres en prose, 1909-1914, Paris, Gallimard, 1961, Bibliotheque de la Pleiade, pp. 1250-1251.
10. Simone Weil, Cahiers III, Paris, Plon, 1956, p. 11; tr. it. Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988.
11. Simone Weil, Attente de Dieu, Paris, Le Livre de Poche chretien, 1963, p. 129; tr. it. Attesa di Dio, a cura di J.M. Perrin, Rusconi, Milano 1984.
12. Simone Weil, Cahiers I, op. cit., 1951, p. 52; tr. it. citata.
13. Michel Serres, Eclaircissements, Paris, Editions François Bourin, 1992, p. 281.
14. Idem, ibidem, p. 282. Michel Serres parla di "contratto di simbiosi" anche in Il contratto naturale, Paris, Flammarion, 1992, p. 67.
15. Alain, Convulsions de la force, Paris, Gallimard, 1939, p, 214.
16. Max Scheler, L'idee de paix et le pacifisme, Paris, Editions Aubier Montaigne, 1953, p. 110.
17. Pascal, Oeuvres completes, Paris, Le Seuil, 1963, p. 429.

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Edoarda Masi, Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano 1991, pp. 480.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5303 del 25 agosto 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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