[Nonviolenza] Telegrammi. 5259



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5259 del 12 luglio 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Enrico Peyretti: Contro la vittoria
2. Segnalazioni librarie
3. La "Carta" del Movimento Nonviolento
4. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. ENRICO PEYRETTI: CONTRO LA VITTORIA
[Riproponiamo e nuovamente ringraziamo Enrico Peyretti per averci messo a disposizione il testo del suo intervento "Contro la vittoria" svolto nel convegno "Vincere o con-vincere", Monastero di Sezano (Verona), 2-4 gennaio 2023.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

Dov'e' la vittoria? Chiede l'osceno Inno di Mameli. Non andiamo a leggere la risposta. La vittoria in guerra non c'e'! Non c'e' come risultato giusto e positivo. La critica della guerra come tale, puo' partire dai suoi mezzi, uccidere e distruggere, come dal suo effetto: dominio, dolore. Ci occorre un energico ateismo rispetto all'idolo della vittoria, che esige sacrifici umani e inganna il vincitore. La vittoria bellica e' l'opposto della soluzione intelligente e vitale dei conflitti gestiti coi mezzi umani e con la difesa popolare nonviolenta (che e' realta' storica, non utopia). Presento una selezione dal mio libro Dov'e' la vittoria?, Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, Gabrielli editori, 2005.
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Propongo anzitutto la fine poesia di Elena Bono. La vittoria di David su Golia e' una delle vittorie in armi piu' celebrate e di piu' "santa" fama.

David sconfitto dalla vittoria su Golia

La notte e' troppo pesante sopra il mio capo
la luna non s'alza
non s'alza sulle colline,
io grido
e non mi risponde
la terra di bronzo.
Ma ieri chiamavo la luna su quelle colline
e il giovane vento a giocare
nella foresta
e i cani e le nuvole
l'acqua del fiume
ed il sonno.
Docile sonno, o mio agnello perduto
io non so dove.
Giochi che David
non giochera' mai piu'.
Se io fossi morto, mia madre
piangerebbe su di me,
s'io fossi ferito, qualcuno
laverebbe il mio sangue.
Non piange nessuno
se in qualche parte ho perduto
il mio vergine cuore;
se grondo del sangue di un altro
nessuno mi lava.
Tutti laggiu' fanno festa,
io sono qui solo
con quello che ho ucciso.
Alzati, rosso gigante
ammucchiato ai miei piedi,
riprenditi il tuo respiro le cento teste
e l'ira e le armi di bronzo.
Ridammi la semplice fionda
e il mio cuore
il mio veloce cuore
in corsa sulle colline.
Tu non rispondi, gigante di bronzo.
Terra, tu non rispondi.
E sia pure cosi'. E' inutile gridare.
Dunque la luna ieri
non si alzava per me.

(Elena Bono, Lamento di David sul gigante ucciso. Dalla raccolta Alzati, Orfeo, riproposta nella antologia Piccola Italia, Genova, 1981, pp. 37-38).

Questo David mirabilmente intuito nella sua tragedia di vincitore dalla acuta intelligenza poetica di Elena Bono, e' l'opposto di quella "assoluta aspirazione a sopravvivere", descritta da Elias Canetti (Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981), che giace nel profondo di ogni essere umano, germe di una volonta' di potere estrema, soddisfatta, al limite, dal restare vivo, eretto, nel mezzo della distesa dei "morti che giacciono senza appello".
In realta', il nuovo piu' vero David, riconosciuto dall'occhio della poetessa nelle tenebre della violenza sacralizzata, soffre davanti al nemico che giace morto, perche' ha la sensibilita' per avvertire che si e' auto-mutilato della presenza dell'altro, sempre indispensabile al nostro essere, anche quando e' nemico: "Io sono qui solo / con quello che ho ucciso". Il vincitore e' solo. C'e' forse una sconfitta maggiore? L'animo basso e violento si soddisfa temporaneamente di cio'. L'animo ricco di umanita' non puo' vivere nella vittoria. Sicche' - ecco la verita' poetica immensa di questo lamento profetico del vincitore, rivelazione biblica latente, dissotterrata dalla poesia - il nemico non va ucciso, se non vogliamo ucciderci con lui, ma, per seguire la legge della vita, va cercata una soluzione, un compromesso, una spartizione dei beni con lui, un risultato di vita e non di morte pervasiva.
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Oggi immagino l'aggredito che sfida l'aggressore: "Io da questo momento non ti sparo piu'. Vediamo se tu sei cosi' vile e iniquo da continuare ad uccidere e dominare. Vediamo se sei uomo con gli uomini, o macchina schiacciasassi. Noi non siamo sassi, noi siamo uomini sofferenti e coraggiosi, riconosciamo anche te come uomo, malato di armi, e attendiamo di ritrovarti uomo".
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"Una vittoria puo' definirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno e' vinto". Massima di Buddha, citata da Gorbaciov nel Discorso al Parlamento Indiano, il 27 novembre 1986, in occasione della Dichiarazione di New Delhi, firmata da lui e dal primo ministro indiano Rajiv Gandhi, che affermavano: "La nonviolenza deve essere alla base della vita della comunita' mondiale".
(cfr https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/aSt202209/220903gorbaciov.pdf)
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"Ora, chi gioisce di uccidere uomini non puo' realizzare i propri intenti sull'impero. (...) L'uccisione di una moltitudine di uomini e' pianta con dolore e lamentazioni; vinta una battaglia, ci si dispone come nei riti funebri".
(Lao-tzu, Tao-teh-ching, Il libro del Tao, traduzioni e edizioni diverse, n. 31).
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La vittoria e' vivere. A piu' riprese, nella storia, si presenta il dilemma tra la lotta incerta e la rassegnazione realistica. Il profeta biblico Geremia (VI secolo avanti Cristo), uomo della religione interiore e non formale, consiglia ai concittadini del regno di Giuda (Gerusalemme), coinvolto nel conflitto tra la potenza egiziana calante e quella babilonese ascendente, di accettare il dominio babilonese per avere salva la vita. Accusato come disfattista e traditore, imprigionato, alla fine i fatti gli daranno ragione, anche se lui scompare nel gorgo. Nel dramma suo e del suo paese, compare l'eterno scontro: da un lato l'assoluto orgoglioso "o vittoria o morte", che e' anche un culto della morte, un sacrificare la giustizia possibile alla giustizia assoluta; dall'altro lato la custodia dell'essenziale, che e' conservare la vita perche' sia possibile valorizzarla cercandone via via una maggiore giustizia.
(Cfr Bibbia, Geremia 21, 9, cfr 27, 12-17).
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Ascoltiamo Erasmo (1466-1536), il grande difensore della pace all'inizio del Cinquecento. Egli avverti' che lo Stato moderno si andava costituendo sul diritto di guerra, per il quale disponeva delle nuove terribili armi da fuoco, capaci di uccidere a distanza, e a tradimento. Cioe', la guerra era il primo reale articolo delle costituzioni statali, ancora non scritte. Erasmo propose un'alternativa storica che non fu seguita.
In guerra - scrive Erasmo - "il trionfo di questi e' il lutto di quelli... atroce e grondante di sangue e' la felicita'". (…) "Chi vince e' un assassino. Chi e' vinto muore, ma non e' meno colpevole: muore solo per non essere riuscito a compiere lui l'assassinio che tentava".
(Eugenio Garin, Erasmo, Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1988, passim).
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"Disse l'Inviato di Dio, il Profeta: "Quando due musulmani si affrontano, armati di spada, l'ucciso e l'uccisore andranno all'inferno". Gli chiese Abu Bakrah: "Questo per l'uccisore, o Inviato di Dio, ma perche' per l'ucciso?". Rispose il Profeta: "Perche' bramava uccidere il suo compagno"". Guardando gli eroi dei monumenti, vincitori, o "caduti", che cosa ricordiamo di loro?
(Detti e fatti del Profeta dell'Islam raccolti da al-Buhari, a cura di V. Vacca, S. Noja, M. Vallaro, Torino, Utet 1982, cap. II, La fede, pp. 83-94, n. 13; citato in Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli (a cura di), Per un percorso etico tra culture, Testi antichi di tradizione scritta, citato, p. 174).
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"Non sarebbe male che un popolo, a guerra finita e dopo aver concluso il trattato di pace, dopo la festa del ringraziamento decretasse un giorno di espiazione per chiedere perdono al Cielo, in nome dello Stato, per la grave colpa della quale il genere umano continua a macchiarsi, rifiutando di sottomettersi ad una costituzione legale che regoli i rapporti con gli altri popoli, e preferendo usare, fiero della sua indipendenza, il barbaro mezzo della guerra (per mezzo del quale tuttavia non si decide cio' che si cerca, vale a dire il diritto di ogni Stato). I festeggiamenti coi quali si rende grazie per una vittoria conseguita in guerra, gli inni cantati (alla maniera degli Ebrei) al Signore degli eserciti, (...) esprimono la soddisfazione d'avere annientato un bel numero di uomini, o distrutto la loro felicita'".
La guerra e' dunque per lui la "grave colpa", il "barbaro (e inutile) mezzo", e ringraziare Dio per la vittoria e' offesa all'idea morale di Dio, indifferenza alla crudelta' dei mezzi bellici, soddisfazione per aver dato morte e dolore.
Cosi' scrive Kant, in una nota del suo grande scritto Per la pace perpetua. Progetto filosofico (pubblicato nel 1795; traduzione e cura di Alberto Bosi; Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995, pp. 135-136).
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"Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, e' stata distrutta fino all'ultima pietra qualche citta', allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga [il Te Deum laudamus, preghiera usata nelle feste per la vittoria; n.d.r.], composta in una lingua sconosciuta a tutti coloro che hanno combattuto... La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo e' imperdonabile".
(Voltaire, alla voce Guerra nel suo Dizionario filosofico)
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Kant cita un detto antico, nel chiudere il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra: "La guerra e' un male, perche' fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Per la pace perpetua, Primo supplemento). Dunque, chi vince nella guerra? Il male. La pretesa della vittoria armata e' di sradicare un male. Ma essa e' radice di altro maggiore male. Oh, se la guerra togliesse di mezzo i malvagi! Ameremmo la guerra come amiamo il bene! Ma qui e' l'immenso inganno: sempre la guerra si ripresenta illudendo e ipnotizzando i buoni stolti con la promessa di togliere dal mondo la malvagita' togliendo chi la incarna. E sempre il risultato e' che chi fa la guerra diventa malvagio. Se siamo noi a voler togliere di mezzo uno o piu' malvagi, alla fine i malvagi saranno molti: noi.
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Sentite come dice bene uno che di guerre se ne intende: "Se non si odia non si puo' fare la guerra" (Benito Mussolini, discorso del 3 maggio 1943 alla riunione del nuovo direttorio del Partito Nazionale Fascista). Se non sei piu' malvagio del tuo nemico, non puoi fare a lui piu' male di quello che lui fa a te, percio' non puoi vincere, perche' la vittoria e' di chi fa piu' male.
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Lev Tolstoj (1828-1910). Mentre  Dostoevskij era legato alla chiesa russa e quindi, a volte, in posizione di forte patriottismo e nazionalismo, Tolstoj invece trovo' proprio nel fatto che la chiesa pregasse per una vittoria militare il motivo decisivo per rompere con la chiesa ortodossa russa. Egli fu in effetti scomunicato nel 1901. Ecco il testo di Tolstoj, nel piccolo libro Confessioni, steso nel 1879-1882, proibito in Russia, dove fu pubblicato solo nel 1906:
"In quel mentre in Russia c'era la guerra [guerra russo-turca, 1877-78; n.d.r.]. E i russi, in nome dell'amore cristiano, cominciarono ad uccidere i loro fratelli. Non pensare a questo, non era possibile. Non vedere che l'omicidio era un male contrario ai primi fondamenti stessi di ogni fede, non era possibile. E intanto nelle chiese si pregava per il successo delle nostre armi e i maestri della fede consideravano quell'omicidio come qualcosa che derivava dalla fede. E non soltanto tali uccisioni in guerra, ma durante i disordini verificatisi dopo la guerra, io ho visto dei membri della chiesa, dei suoi maestri, dei monaci, che approvavano l'uccisione di giovani sviati e abbandonati a se' stessi. E io rivolsi la mia attenzione a tutto quello che veniva fatto dagli uomini che professavano il cristianesimo e inorridii".
(Lev Tolstoj, Confessioni, Genova, Marietti 1820, 1996, cap. XV, p. 107-108).
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Benjamin Constant (1767-1830): "Le feste per la vittoria sono 'danza sulle bare'. Constant era convinto che nel mondo moderno grazie al commercio la guerra fosse ormai superata. Egli attacco' aspramente la sete di conquiste territoriali di Napoleone che considerava illiberali e non degne di una moderna organizzazione sociale e commerciale. Era l'Antica Liberta' ad essere guerriera, mentre uno Stato organizzato sui principi della Liberta' Moderna doveva essere pacifico in mezzo ad altre nazioni pacifiche.
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Anche il poeta cattolico per eccellenza, Alessandro Manzoni, condanna il ringraziamento religioso per la vittoria, i "cori omicidi", che Dio rifiuta; e mostra la colpevole crudele vanita' del vincitore. Permettetemi di ricordare che, da bambino, mio papa' Emilio mi commuoveva recitando commosso, a me e ai miei fratelli, questi versi di Manzoni rivelatori dell'orrore che e' la guerra:
"I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
Odo intorno festevoli gridi;
S'orna il tempio, e risona del canto;
Gia' s'innalzan dai cori omicidi
Grazie ed inni che abomina il ciel.
(Il Conte di Carmagnola, Coro dall'atto secondo)
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Un soldato tedesco andato in guerra volontario, chiuso nella sacca di Stalingrado (novembre 1942 - febbraio 1943), sa che non tornera' vivo. Scrive, nell'ultima lettera al proprio padre, che e' un generale: "Non c'e' nessuna vittoria, signor generale, ci sono solo bandiere e uomini che cadono, e alla fine non ci saranno ne' bandiere ne' uomini".
(Ultime lettere da Stalingrado, Torino, Einaudi, 1963, p. 50).
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"La Giustizia fugge dal campo dei vincitori", scriveva Simone Weil. Fugge per andare a pesare sull'altro piatto, a pareggiare la giusta bilancia. In questo brano Simone Weil dice che la societa' e' forza, e che, se si e' consapevoli dello squilibrio sociale, occorre "aggiungere peso sul piatto troppo leggero", con ogni mezzo, ma "bisogna aver concepito l'equilibrio, ed essere sempre pronti a cambiare parte, come la Giustizia". Ogni vittoria, per diventare giusta, deve essere riequilibrata, abbandonando i vincitori in favore dei vinti. "La Giustizia fugge dal campo dei vincitori" (Quaderni, III, trad. di Giancarlo Gaeta, Milano, Adelphi 1988, p. 158).
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Una vittoria chiamata pace non produce pace, ma violenza e guerra. Woodrow Wilson, nel 1917: "Deve essere una pace senza vittoria... La vittoria significherebbe che e' una pace imposta agli sconfitti, le condizioni di un vincitore imposte ai perdenti. Sarebbe accettata con umiliazione, con costrizione, e un sacrificio intollerabile, e lascerebbe una spina, un risentimento, un ricordo amaro sopra cui le condizioni della pace rimarrebbero, non per durare a lungo, ma solo come sostenute dalle sabbie mobili".
(Da un breve articolo, Trattato di Versailles: la pace ipotecata; Le Monde, del 31 luglio 2004).
Infatti, la "pace" di Versailles fu la madre del nazismo. In effetti, Versailles e' la maggiore dimostrazione storica di come la pace in quanto imposizione al vinto della volonta' del vincitore e' chiamata pace ma e' puramente guerra: e' proprio l'ultimo atto e lo scopo primo della guerra (come afferma von Clausewitz, il piu' classico dei polemologi).
La vittoria come risultato a somma zero, cioe' tanto guadagnato dal vincitore quanto perso dal vinto, e' guerra pura e semplice, dunque produce necessariamente volonta' di rivincita e altra guerra. Solo il risultato a somma positiva, cioe' un guadagno per l'uno e per l'altro dei contendenti, e' la conclusione di un conflitto davvero vittoriosa per tutti, e' chiusura del conflitto stesso, e merita il nome di pace. C'e' dunque una vittoria che e' guerra, e una vittoria che e' pace. A  Versailles 1918 la Francia volle "indebolire" la Germania, e venne il nazismo; come Biden, presidente Usa, nel 2022 dice di voler "indebolire" la Russia!
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Dalla lettera di Gandhi a Hitler (riportata in Collected Works of Mahatma Gandhi, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, The Publications Division, 90 volumi, New Delhi, 1958-1984, volume 73, p. 253-255, con la data Warda, 24 December 1940 : "Se vincera' la guerra, questo non provera' che Lei e' nel giusto. Provera' soltanto che il suo potere di distruzione e' stato piu' grande. Solo una sentenza promulgata da un tribunale imparziale [la Terza Parte] mostrera', per quanto e' umanamente possibile, quale parte sia nel giusto".
"Non riuscirete mai a eliminare il nazismo usando i suoi stessi metodi". Gandhi cosi' scriveva nel messaggio agli inglesi mentre questi si trovavano sotto i bombardamenti tedeschi (7 luglio 1940, in Teoria e pratica della nonviolenza, a cura di Giuliano Pontara, Einaudi 1996, pp. 248-249).
Unica vittoria e' quella che sostituisce forze umane a forze disumane, cioe' quella resistenza nonviolenta che Gandhi proponeva agli inglesi, come la proponeva al proprio stesso popolo indiano, nel 1942, di fronte al timore di un'invasione giapponese (op. cit., pp. 237-241), agli ebrei nel 1938 e 1939 contro la persecuzione nazista (pp. 253-262), ai cecoslovacchi nel 1938, dopo il patto di Monaco, contro la violenza nazista (pp. 262-271). Non e' vittoria quella che respinge un male con i suoi stessi mezzi, riproducendolo. Forse, in casi estremi, siamo costretti a fermare un male con un male? Ma non chiamiamola vittoria!
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In un dialogo immaginario, il filosofo Alain (Emile Auguste Chirtier, maestro di Simone Weil) dice ad un generale, all'uomo di guerra: "Poiche' in ogni progetto di guerra c'e' rischio di morte, quale rischio peggiore potrebbe aversi in un vero e franco progetto di pace?". Ma il generale gli risponde: "Il primo articolo della nostra dottrina e' di credere che si vincera'" (Alain, Convulsions de la force, Paris, Gallimard, 1939, p. 284, citato in Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa University Press, p. 52).
Il "primo articolo della dottrina militare", in realta', e' la piu' sfacciata sostituzione della parola vuota alla pesante realta'. Serve per dire al soldato: "Tu non sarai ucciso, ma soltanto ucciderai". Serve, come l'alcol prima dell'assalto, per fargli dimenticare sia il rischio di morire, sia la colpa dell'uccidere, e coprire entrambi gli abissi con l'inno fragoroso del vantaggio di chi manda il soldato a uccidere e morire. Il soldato e' sempre sconfitto, in ogni caso. Chi lo manda e comanda in ogni caso lo inganna, in ogni caso lo sfrutta: vincente, si prende tutto il guadagno, perdente, fa pagare tutto al soldato. Il "primo articolo della dottrina militare" e' l'inganno: non puoi usare un uomo come strumento di guerra senza ingannarlo totalmente, sulla sorte intera e sull'intero significato della sua vita.
Nel grido isterico e folle, e follemente applaudito, di Mussolini, il 10 giugno 1940: "Vincere! E vinceremo!", riascoltato col senno del tempo e dei dolori, e con la liberta' dalla fascinazione del momento, c'e' tutta la vacuita' di una parola che vuole contenere e creare cio' che non puo' fare, e che anzi mette tutto nel massimo repentaglio. Ma, nella sua intera realta', la guerra ha questa piu' grande sicura certezza: che in essa perdi vite e beni e liberta', e che, se anche (e proprio perche') sopraffai il nemico in violenza, esci da essa peggiore in qualita' umana di come vi sei entrato: "La guerra fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Kant).
Tanto e' vero che chi lotta col diritto e la ragione, anche quando soccombe nel confronto armato, non e' veramente sconfitto. La sua causa gli sopravvive. Altri, fin quando c'e' storia, riconoscono e assumono la sua causa. In presenza di questo fattore, vittoria e sconfitta si calcolano su un piano molto piu' ampio, non immediato. Rispetto alla propaganda militare, al "credere che si vincera'", al "vinceremo!" mussoliniano, questa coscienza del buon diritto ha la "forza della verita'".
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Durante la guerra fredda, si scontravano due logiche, una assoluta: "meglio morti che rossi", l'altra realistica e paziente: "meglio rossi che morti". Nel primo detto si riconosceva chi era pronto alla guerra tra le due superpotenze, piuttosto che sottostare al temuto dominio comunista. Nel secondo, chi voleva anzitutto evitare l'olocausto nucleare. Il primo dei due motti rappresenta "l'assurda convinzione che sia meglio essere morti che vinti" (Alva Myrdal, scrittrice di pace,1983). Meglio vivi, invece, per continuare lotta e cammino verso la giustizia.
(Leandro Castellani, La grande paura. Storia dell'escalation nucleare, Torino, Eri Edizioni Rai 1984, p. 240).
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Ancora, durante la guerra fredda, noi abbiamo pensato anche, nell'alternativa tra la guerra nucleare e la vittoria del capitalismo: "meglio americani che morti". Cosi' e' avvenuto: i nostri paesi sono stati americanizzati. Ma restare vivi non significa rassegnarsi, anzi solo il non rassegnarsi e' restare vivi.
In ogni conflitto, anche il piu' acuto, c'e' un interesse comune alle parti (se non sono ridotte e sospinte nella disperazione piu' distruttiva): vivere. L'inviolabilita' di ogni vita e' il terreno di alleanza su cui basare accordi nei quali ciascuno rinuncia a qualcosa per guadagnare qualcosa, che e' almeno il vivere.
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E' da cercare la vittoria della vita. Dice Cassandra, la veggente troiana, ai vincitori: "Se riuscirete a smettere di vincere, questa vostra citta' continuera' a esistere". Soltanto la giovane schiava vedeva che "tra uccidere e morire c'e' una terza via: vivere". (Christa Wolf, Cassandra).
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Aldo Capitini ha un pensiero piu' ampio (in Le ragioni della nonviolenza, Pisa 2004, p. 136), che interpreto e riassumo cosi': "La vita senza morte, che ora non conosciamo, comincia col non uccidere". Questo paradosso-verita' di Capitini, mi richiama una pagina di Luigi Comencini (1) commemorando Eugenio Colorni (2) (Perche' si muore, 15 marzo 1945, ripubblicato da Il Sole 24 ore di domenica 18 giugno 2006): "Forse erano necessari tanti secoli di guerre perche' alfine divenissimo coscienti che e' impossibile continuare a uccidere, e il rimorso di un mondo risuonante di uccisioni a migliaia, a milioni, penetrasse fino all'ultimo recesso della nostra anima a toglierci ogni gioia di vivere ancora. Abbiamo ucciso troppi uomini e gli eroi che abbiamo voluto non li sappiamo piu' onorare. Le targhe con i loro nomi si burlano di noi; il sorriso dei defunti si e' fatto amaro; cinico il nostro giubilo di vivere e di vincere; triste la vittoria ch'e' costata troppi morti. Possiamo vivere in un mondo di uccisori? La vita appartiene ai morti; i vivi l'hanno perduta. Ecco perche' a ogni amico che cade si stringe il cuore di paura, al pensiero che con lui muore per noi l'uomo che l'ha ucciso. Si muore perche' si uccide, e' il pensiero che mi assilla, e soltanto quando non si uccidera' piu' il mio pensiero potra' ritrovare un filo col passato, un filo con l'avvenire, rivivranno le idee, gli uomini, le cose, di vita propria e non di ridicola parvenza di vita, velata da un continuo, interminabile lutto".
L'uccidere, la guerra esaltata nella vittoria, come se fosse vita, e' morte aggiunta, artificiale. Senza di essa, ci sarebbe ancora la morte? Si', nella casa pacifica si muore pure, nella tristezza, nell'assenza-compresenza (Capitini), ma non si fa della morte la signora vincente e dominante. Nella casa pacifica la morte e' l'ultima nemica, per san Paolo, e' sorella, per san Francesco. Ma non e' padrona, non e' la "dea della vittoria", Nike, che divora i suoi figli.
(1) Luigi Comencini, (1916-2007) regista: Pane, amore e fantasia; Marcellino pane e vino.
(2) Eugenio Colorni (1909-1944) europeista, con Altiero Spinelli e Ernesto Rossi (Manifesto di Ventotene). Ucciso dai fascisti a Roma, poco prima della liberazione.
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O vittoria o giustizia. Scrive Norberto Bobbio: "Fra due contendenti la pace puo' essere ottenuta o con la vittoria e la supremazia dell'uno sull'altro, o con la  mediazione determinante di un terzo super partes. Nel primo caso si ha la cosiddetta pace d'impero, nel secondo caso una pace di compromesso, che Raymond Aron ha chiamato la "pace di soddisfazione"" (N. Bobbio, Autobiografia, Laterza 1997, p. 234).
Ma la pace d'impero, frutto della vittoria, non e' giustizia. Quindi, la vittoria in guerra fa finire la guerra, ma non ottiene la giustizia, bensi' un dominio, che e' impero, offesa, ingiustizia, una relazione della stessa qualita' della guerra, benche' non cosi' immediatamente cruenta. Ricordiamo Erasmo: "Meglio una pace ingiusta di una guerra giusta" (Dulce bellum inexpertis; Querela pacis). O vittoria, o giustizia.
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"La vittoria non conduce mai alla pace". (Questo e'il quarto dei nove sutras sulla pace, che Raimon Panikkar propone al termine del suo libro La torre di Babele, Pace e pluralismo, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1990, pp. 170-171). In sintesi, dice Panikkar: nella storia, gli ottomila trattati di pace che conosciamo, siglati dopo una vittoria militare, non hanno mai dato luogo a una vera pace. La maggior parte delle guerre si sono giustificate come contromisure nei confronti di precedenti trattati di pace.
Alcuni altri pensieri di Raimon Panikkar, da Pace e disarmo culturale (Milano, Rizzoli 2003): "Una pace conseguita in base alle condizioni imposte da una sola delle parti si chiama "vittoria" e non "pace"" (p. 95). "La vittoria, anche se dei buoni, non conduce mai alla pace" (p. 103). "La pace non puo' essere imposta" (p. 104; 108). (Queste affermazioni sono argomentate da Panikkar alle pagine 144-145).
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Vittoria a proprio danno. "Le stesse potenze che hanno "vinto" l'ultima guerra mondiale a proprio danno (...) non sono riuscite a ricavarne altro insegnamento se non che bisogna armarsi piu' accanitamente che mai. (...) Nulla hanno imparato e nulla vogliono imparare; dopo la loro triste "vittoria" hanno fatto poco o nulla per la pace e molto invece per rendere possibili nuove guerre". Vinto Hitler distruttivista, ha vinto nel mondo il distruttivismo democratico-liberista-nucleare.
(Hermann Hesse, nel settembre 1950, in Non uccidere, Considerazioni politiche, Mondadori, Milano 1987, p. 178).
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Tra i commenti americani immediatamente successivi alle bombe di Hiroshima e Nagasaki troviamo anche questo, del settimanale cattolico Commonwealth, in un editoriale intitolato Orrore e vergogna: "Non dovremo piu' affannarci per mantenere limpida la nostra vittoria. E' disonorata. Il nome Hiroshima, il nome Nagasaki, sono i nomi della vergogna e della colpa americana".
(Dal libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy, 2a edizione 1985).
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"Il dolore inflitto a milioni di individui non e' nemmeno per il presunto vincitore configurabile come il prezzo della vittoria, quanto l'indice della sconfitta che su ogni piano lo accomuna al nemico" (Luciano Gallino, La Stampa, 12 settembre 1990).
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Chi ha vinto la seconda guerra mondiale? L'ha vinta Hitler? Questa domanda e' paradossale, ma non assurda. Diversi Autori pongono questa domanda: Nanni Salio, Vercors, Marek Edelman, Giancarlo Gaeta, Ekkehart Krippendorff, Gandhi (agli inglesi 7-7-1940), Johan Galtung, e altri. Giuliano Pontara, nel libro L'Antibarbarie (Ed. Gruppo Abele, 2019), elenca gli elementi di nazismo nel mondo attuale, e i corrispettivi antidoti offerti dalla concezione etico-politica di Gandhi. Lo sterminismo di Hitler non e' forse sopravvissuto a lui, ereditato dalle mani dei vincitori? Non piu' come uso diretto effettivo, dopo Hiroshima e Nagasaki, ma come minaccia incombente, proliferata e continuamente cresciuta nei decenni. Allora, la vittoria delle democrazie nel 1945 e' una vittoria sulla violenza hitleriana? E' una vittoria sulla concezione di violenza e dominio come rapporto naturale tra i popoli?
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La vittoria pretende imporre la pace, ma "una pace imposta, anche se migliore di altre paci, non e' la pace, poiche' si da' la pace, non la si impone".
(Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, IX edizione 2002, p. 85).
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"Quale dio impietoso decide che un cambiamento di regime giustifichi il sacrificio di mille, diecimila o centomila vite, e la sofferenza incancellabile di dieci volte tanti esseri a loro vicini? Come ci si puo' allontanare fino a tal punto dalla comunita' umana per decidere, come all'epoca di Hiroshima, che un quarto di milione di vite umane e' un prezzo ragionevole da pagare per affrettare la vittoria?".
(Tzvetan Todorov, Il nuovo disordine mondiale. Riflessioni di un cittadino europeo, Milano, Garzanti 2003, p. 34).
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"Obiettivo della strategia della pace deve essere, in antitesi con la strategia di guerra - ed e' questa la cosa sostanziale - quello di impedire la sconfitta del nemico". (Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano 1988).
La pace, dunque, non nasce mai dalla vittoria sul nemico, ma dalla vittoria sull'inimicizia e relativo pericolo. La vittoria della saggezza e' impedire la sconfitta del nemico, sempre foriera di volonta' di rivincita. La vera vittoria e' quella comune alle parti, e' l'attingere un risultato sovraordinato comune. Vincere e' pericoloso. L'unica sicurezza e' con-vincere, vincere insieme. E per questo e' necessario con-vincer-si, cioe' acquistare il potere su di se', il piu' difficile e prezioso, la vera potenza.
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Una ragazza della I E, quattordici anni, durante un'assemblea nel mio liceo contro la guerra del Golfo del 1991, disse: "Una guerra e' sempre una sconfitta". Era piu' saggia di quei pazzi potenti, era piu' capace di Andreotti, Demichelis e Cossiga, di governare l'Italia. A quattordici anni.
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Hannah Arendt, la grande filosofa tedesca della vita politica, oppone potere e violenza: dove c'e' l'uno non c'e' l'altra, e viceversa. Il potere "corrisponde alla capacita' umana non solo di agire, ma di agire di concerto". Sulla vittoria, essa scrive: "Sostituendo la violenza al potere si puo' ottenere la vittoria, ma il prezzo e' molto alto, in quanto viene pagato non solo dal vinto, ma anche dal vincitore in termini di potere proprio" (Hannah Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, orig. 1970, p. 49).
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"La pace ottenuta con le armi non potrebbe preparare che nuove violenze". Cosi', il 12 gennaio 1991, papa Giovanni Paolo II inutilmente avverti' le potenze occidentali, delegittimando solennemente la prima guerra del Golfo, all'Iraq, e la volonta' di potenza dell'Occidente. Declino, non progresso. Nuove violenze, terrorismo, guerre, altro che "nuovo ordine internazionale”! E' questa la vittoria della democrazia?
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"La cultura dominante ha talmente enfatizzato la competitivita' da ridurre la vita umana a una lotta di tutti contro tutti dove solo i piu' forti hanno il diritto di sopravvivere. Questo darwinismo sociale, che introduce la guerra nel cuore della societa', deve essere sostituito dal principio che ognuno ha il diritto di esistere, qualunque sia la sua condizione. Tale affermazione, che godeva di un'evidenza incontrastata fino a qualche decennio fa, viene oggi sistematicamente demolita dal diffondersi della cultura del vincente e dal culto del successo, secondo un'ottica che ha le sue radici nel calvinismo americano e per la quale i poveri sono vagabondi o poco intelligenti, dunque hanno completa responsabilita' della loro condizione" (Achille Rossi, direttore della cooperativa editoriale L'altrapagina, Citta' di Castello, nel suo libro Il mito del mercato, Troina, Enna, Citta' Aperta Edizioni 2002, p. 68).
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Pensieri di Lao Tzu e di Freud: l'uomo veramente "civilizzato", se si e' trovato preso nella necessita' che lo ha costretto a uccidere il suo avversario, non trova alcun gusto nel festeggiare una qualunque vittoria, non cerca di discolparsi con una qualunque giustificazione, ma vuole prendere il lutto per colui che e' morto per mano sua. Le asserzioni di Lao Tzu e di Freud sono inconfutabili: dopo l'uccisione del nemico, la "civilta'" deve portare il lutto, mentre la "barbarie" incita a festeggiare la vittoria. Infatti, per festeggiare questa vittoria, "bisogna amare uccidere".
(Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, citato , p. 57).
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Josef Schiffer (1914-2011) era un soldato dell'esercito tedesco occupante l'Italia, nel 1944-45. Era assegnato come Feuerwerker (artificiere) alla polveriera di Pallerone, presso Aulla (Massa), con una relativa autonomia. Durante tutta l'occupazione protesse in molti modi la popolazione locale. Al momento della ritirata, non esegui' l'ordine di far saltare la polveriera, per non procurare nuovi danni al paese. Distese le micce, per apparire obbediente nel caso di un controllo, ma le fece passare dentro una siepe, dove le taglio'. Pote' fermarsi a lavorare in Italia per una decina di anni, circondato dalla riconoscenza generale di quel paese e della vicina cittadina. Nel 1995, nel cinquantenario della Liberazione, fu invitato dall'amministrazione locale, e premiato con medaglia d'oro, riconosciuto e festeggiato con grande familiarita' dai vecchi del paese. Fui invitato anch'io perche' mi ero attivato per rintracciarlo in Germania. Da quel giorno, ho stretto con lui una grande amicizia. A cena, quella sera, uno dei presenti commentava: "Eravamo nemici, siamo amici, questa e' la vera vittoria". Sono andato tre volte a trovarlo a Ratingen (Duesseldorf), mi ha portato a parlare nelle scuole, sono andato con lui a S. Anna di Stazzema. Gli ho ottenuto onorificenze dal presidente italiano Scalfaro e dal presidente tedesco.
Infatti, ci sono tre tipi di pace: una pace prima della guerra, una durante, una dopo la guerra. Il peggiore dei tre tipi di pace e' quello piu' famoso ed e' l'unico chiamato vittoria. Si tratta della vittoria militare alla fine di una guerra, in seguito alla quale si firma "la pace". Ma non e' pace, quella imposta dal vincitore al vinto: e' invece l'ultimo atto della guerra, lo scopo stesso della guerra: imporre al vinto la propria volonta'. Piu' che uccidere, la guerra vuole sottomettere e dominare. E viene chiamato vittoria un risultato disumano. Dei tre tipi di pace, questa e' la piu' falsa, anche se da' sollievo ai popoli tormentati dalla violenza delle armi. Ma e' una cattiva vittoria. La pace prima della guerra, "invece" della guerra, la soluzione di un conflitto evitando violenza e morte, e' la migliore pace, e' la vera vittoria "sulla" guerra. Ma c'e' anche una pace "dentro" la guerra: un seme di pace, dentro e contro il fuoco della guerra. Questa e' la piu' difficile e rara pace, ma e' tanto preziosa e coraggiosa. I soldati che, dentro la guerra, hanno seminato semi di umanita' e di giustizia, hanno incontrato i "nemici" come esseri umani, questi hanno fatto piu' pace che guerra, hanno "disfatto" la guerra. Sono questi che veramente hanno "vinto" la guerra. Questa vittoria ci piace. Il mio amico Josef Schiffer e' uno dei pochi veri vincitori della seconda guerra mondiale.
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La vittoria rischia a volte di diventare l'obiettivo esasperato dello sport. Di per se' lo sport e' gioco allegro, una neutralizzazione della guerra, un confronto di abilita', di lotta, ma non guerra. Quando si vedono, dopo un goal o una vittoria, gesti e rituali di esaltazione, beffardi, come per schiacciare e squalificare l'avversario battuto, quello non e' piu' sport, assume un significato estremo, che poi le tifoserie organizzate a volte trasformano anche in confronto fisico aggressivo, violento.
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La vittoria italiana del 1918, glorificata e insanguinata di uomini sacrificati all'idolo antropofago della patria vincente, fu la "madre del fascismo".
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Ogni impero, dopo il trionfo, non ha altro da fare che attendere la propria caduta. Ma e' estremamente difficile che un impero sia cosi' intelligente, e cosi' poco impero, da capire questo.
Si dice "ebbrezza della vittoria". Appunto. Come l'eccesso di alcol, la vittoria si appropria della ragione, la sottrae al legittimo responsabile detentore. Chi vince, come chi si arrabbia, "non ci vede piu'". Il vincitore fa un'esperienza di pienezza, di saturazione, percio' elimina le alternative; non ascolta piu' il dubbio, che e' la chiave per riaprire gli schemi definiti; non incontra piu' la resistenza, che ci insegna il nostro limite; e' portato a credere che la sorte, dandogli la vittoria, abbia confermato la verita' delle sue ragioni; cosi', impossessandosi della verita', ne perde la infinita', perche' la circoscrive nella propria posizione affermata. La vittoria perde spesso piu' di cio' che acquista.
Il vincitore non accetta piu' di non vincere e di tornare nell'incertezza umana normale, che gli sembra ormai la sorte triste dei comuni mortali, non piu' la sua, perche' egli, baciato dalla dea, non e' piu' un comune mortale. La vittoria e' un equilibrio necessariamente instabile, perche' e' diseguaglianza. Vincere diventa un vizio, come alla roulette. Il vinto voleva essere vincitore. Aveva accettato la regola della vittoria, di uno che schiaccia l'altro. Il vinto e' dominato, piu' che dal vincitore, da cio' che domina il vincitore, cioe' dal mito del dominare.
Dominare e' fare l'altro posseduto, quindi perduto in quanto altro. E' perduto l'altro che non e' piu' di fronte a noi, ma sottoposto e tacitato. Cosi', l'altro non e' piu' visto: l'accecato e' il vincitore, che non ha piu' l'altro davanti a se' come altro, come novita', come ricchezza, meraviglia, limite, come nuova verita' che "con-testa" la propria verita', ponendone il testo in un piu' ampio e nuovo con-testo, uno spazio ricco di altri testi interagenti. Vincitore e vinto sono entrambi vinti, perdenti, posseduti, in quanto soggetti, schiavi dell'ideologia del vincere, che e' perdere l'altro, e se' con l'altro, perche' nessuno e' se' senza l'altro.
Allora, l'unica vittoria e' "uscire insieme" dalle difficolta' e problemi. Come e' noto, questa e' la definizione che Lorenzo Milani da' della politica. La vittoria giusta e' la vittoria "politica”, della polis umana, che ormai e' l'umanita', la citta' planetaria. E' il vincere insieme su cio' che e' contro tutti. La violenza del vincere e dominare gli uni gli altri e' l'antipolitica (Hannah Arendt). Dove c'e' vero potere politico non c'e' violenza, e viceversa. Il dominio e' un "potere malato" (Danilo Dolci).
Il confronto tra le diverse proposte politiche, e la scelta tra di esse secondo il metodo democratico della maggioranza, solo impropriamente puo' essere detto "vittoria" elettorale. Infatti, essenziale alla democrazia, piu' ancora del calcolo numerico dei consensi e della decisione a maggioranza, e' la "ragione pubblica" (Amartya Sen), "l'uso pubblico della ragione" (Kant). Ora, per essere tale, la ragione democratica, assegnando la decisione al parere maggioritario, deve con uguale forza garantire liberta' e possibilita' del parere minoritario. Sicche' la democrazia non e' una gara per vincere sugli altri, ma una cooperazione competitiva, o competizione cooperativa, per superare insieme cio' che nella realta' contraddice in tutti la dignita' umana, se la contraddice in alcuni.
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Quando l'idea del vincere schiacciante contamina la politica, allora la politica come arte della vita nella polis e' violentemente distrutta. La maggioranza che nel 1994 si insedio' al governo rivelo' nel suo linguaggio una concezione bellica e predatoria della politica. Sentimmo espressioni rivelatrici come "prendi tutto", o peggio "governo costituente". Un docente come Gianfranco Miglio, arrivo' a dire: "La Costituzione e' un patto che i vincitori impongono ai vinti. Mi auguro che raggiungiamo il 51%. Poi si trattera' soltanto di tenere l'ordine nelle piazze". Questo e' "assolutismo democratico". Neppure il popolo sovrano e' un sovrano assoluto; tanto meno la sola maggioranza (Valerio Onida, La Costituzione, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 20-21).
Il principio democratico e' fondato sui diritti umani di ciascun cittadino e cittadina, percio' esclude che i piu' conculchino i meno, esige che la minoranza abbia sempre la liberta' necessaria per fare udire le proprie ragioni e poter diventare legittimamente maggioranza, richiede il rispetto di quei diritti universali, anche fuori dalla comunita' nazionale, percio' la democrazia deve fare una politica di pace internazionale, ed e' sostanzialmente incompatibile con la guerra, tanto all'interno quanto all'esterno.
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Stiamo parlando dei pericoli della vittoria. Conversazione e relazione si conservano buone per vivere quando si salvano dalla tentazione del vincere, si rovinano quando s'insinua lo spirito di vittoria. Nella relazione, voler vincere e' perdere l'altro. Dunque, perdere molto di se'. La malattia e' litigare per vincere. La salute e' accertare insieme come stanno le cose, procedendo costruttivamente nel confronto e nell'analisi, con la disponibilita' ad accettare la verita' di fatto, adeguando ad essa le nostre informazioni ed opinioni. Benevolenza e' far credito all'altro, alla sua esperienza e sincerita'. Malevolenza e' negargli credito. Senza credito reciproco non c'e' incontro, ma scontro.
I migliori spiriti umani hanno adottato la regola del credito massimamente generoso: tu sei migliore di me. Si legge nelle storie dei sufi: "Il colmo dell'umilta' e' uscire di casa e non incontrare nessuno che non ti sembri migliore di te" (Vite e detti di santi musulmani, a cura di Virginia Vacca, Milano, Tea, 1988, p. 99 e varie altre pagine). Questa regola si riscontrava gia' nella Bibbia cristiana: "Con umilta' ritenete gli altri migliori di voi" (Filippesi 2,3 e in altre lettere degli apostoli: Galati 6, 3-5; Romani 12,10), e si ritrova oggi nella filosofica etica di Levinas, nel principio della "priorita' di Altri". Tale atteggiamento di vantaggio all'altro non e' stupida autodenigrazione sacrificale, ma e' un saggio credito, che permette di crescere anche a chi e' piu' indietro, e non perde il senso della realta': "Sii umile con tutte le creature di Dio, ma guàrdati dall'umilta' verso chi la pretende da te, perche' questa pretesa dimostra prepotenza e falsita' e la tua acquiescenza sarebbe un incoraggiamento a persistervi" (Vite e detti..., citato, p. 120).
Cosi', tutto cio' non significa abbandonare il senso critico: invece, e' proprio nella buona relazione dell'amicizia e almeno del rispetto che diventa possibile ammonire, rimproverare, correggere senza il paralizzante timore di offendere, senza l'arroganza del superiore, senza sentirsi offesi. Secondo alcune inchieste, le persone trovano la maggiore felicita' nell'amicizia. La prima regola dell'amicizia, e della felicita', e' rinunciare a vincere.
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Dov'e' dunque la vittoria? E' la' dove nessuno trionfa su un altro, ma tutti insieme su cio' che divide.

2. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Maestri
- Franco Basaglia, Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1981-1982 (I. 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all'esperienza di Gorizia; II. Dall'apertura del manicomio alla nuova legge sull'assistenza psichiatrica), pp. XLIV + 530 e X + 492.
- Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. XXII + 264.
- Franco Basaglia, L'utopia della realta', Einaudi, Torino 2005, pp. LVIII + 332.
- Franco Basaglia (a  cura di), Che cos'e' la psichiatria?, Amministrazione provinciale di Parma, Parma 1967, Einaudi, Torino 1973, 1977, pp. XII + 302.
- Franco Basaglia (a  cura di), L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, Torino 1968, 1980, pp. 392.
- Franco Basaglia, Franca Basaglia Ongaro (a cura di), Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all'oppressione, Einaudi, Torino 1975, pp. X + 486.
- Franco Basaglia, Paolo Tranchina (a cura di), Autobiografia di un movimento 1961-1979. Dal manicomio alla Riforma Sanitaria, Unione Province Italiane - Regione Toscana - Amministrazione Provinciale di Arezzo, Firenze 1979, pp. 448.

3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

4. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 5259 del 12 luglio 2024
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXV)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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