[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 104



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 104 del 6 giugno 2021

In questo numero:
1. Mario Sirimarco: Vezio Crisafulli
2. Vincenzo Fera: Carlo Dionisotti

1. MAESTRI. MARIO SIRIMARCO: VEZIO CRISAFULLI
[Da Il contributo italiano alla storia del pensiero: Diritto (2012) nel sito www.treccani.it]

Crisafulli, con Carlo Esposito e Costantino Mortati, e' stato tra i piu' grandi costituzionalisti, e ha offerto a tutta la cultura giuridica del nostro Paese (non solo, quindi, agli studiosi di diritto positivo) un contributo notevole, che presenta tratti di profonda attualita'. Non potendo in poco spazio esaminare i diversi aspetti del suo pensiero e delle complesse implicazioni teoriche, si dara' conto di quello che a chi scrive sembra il momento centrale e comunque il filo conduttore della sua riflessione: l'indagine su quella zona grigia che si colloca agli estremi confini tra diritto e politica o, detto in altri termini, la problematica relativa alla necessita' di dare sistemazione, grazie al diritto, a tutta una vasta area che rischierebbe altrimenti di rimanere nell'ambito della discrezionalita', o dell'arbitrio, della politica.
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La vita
Crisafulli nacque a Genova il 9 settembre 1910. Consegui' la laurea in giurisprudenza a Roma nel 1932, con una tesi in filosofia del diritto dal titolo La norma giuridica, relatore Giorgio Del Vecchio. Dal 1933 al 1939 lavoro' presso l'Ufficio legislativo del ministero di Grazia e Giustizia, iniziando nel frattempo la collaborazione universitaria presso la cattedra di diritto costituzionale di Santi Romano e di dottrina dello Stato di Sergio Panunzio. Insegno' a Urbino, Trieste, Padova e Roma.
Dopo l'esperienza come componente della segreteria particolare del ministro della Giustizia Dino Grandi, partecipo' alla Resistenza, e dopo la Liberazione fu nominato esperto del Partito comunista italiano (PCI) per i temi istituzionali. Non partecipo', per decisione del partito, all'Assemblea costituente. Insieme a un gruppo di intellettuali abbandono' il PCI nel 1956, in seguito all'invasione sovietica dell'Ungheria.
Diresse le riviste "Giurisprudenza costituzionale" e "Diritto e societa'", e la sezione Diritto costituzionale dell'Enciclopedia del diritto.
Nel 1968 fu nominato giudice della Corte costituzionale dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Mori' a Roma il 21 maggio 1986.
Molti i suoi allievi (alcuni dei quali sono stati anche allievi di Esposito): Livio Paladin, Franco Modugno, Damiano Nocilla, Lorenza Carlassare, Pierfrancesco Grossi, Sergio Bartole, Giuseppe Ugo Rescigno, Antonio Cervati, Antonio D'Atena, Alessandro Pace, Antonio Baldassarre, Augusto Cerri, Federico Sorrentino, Claudio Chiola.
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La formazione giovanile
Gia' dalla sua prima opera, Sulla teoria della norma giuridica (1935), Crisafulli, che ancora risente dell'influenza del suo primo maestro, Del Vecchio, cerca di pervenire a una nozione piu' complessa del fenomeno giuridico; anticipa, seppur in forma embrionale, tutta una serie di temi che troveranno spazio, da altra prospettiva, nella riflessione degli anni seguenti e, cogliendo i fermenti del tempo, prende posizione sulle principali questioni dell'epoca.
Sul piano filosofico generale dominava la corrente idealista in senso ampio (hegeliana, fichtiana, kantiana), intesa come reazione al positivismo ottocentesco, che nella teoriia giuridica comportava una serie di corollari, tutti presenti (da qui l'accusa di eclettismo) nel giovane Crisafulli: la considerazione del diritto come attivita' del soggetto inteso come "espressione dello spirito hegeliano o della Ragione kantiana"; la concezione formale del diritto; l'idea del diritto quale prodotto di una volonta'.
Crisafulli dimostra di avere consapevolezza che il diritto e' realta' piu' complessa di quanto il normativismo non riuscisse a cogliere. Ecco perche' la sua definizione della giuridicita' accoglie elementi di concezioni, come quelle attivistiche, che rappresentano, in quegli anni, la reazione al positivismo giuridico. La norma resta sempre la grande protagonista del mondo del diritto, ma la realta' giuridica e' considerata piu' profondamente, come "un momento logicamente e gnoseologicamente necessario ed immanente dello spirito umano [...] e' un fenomeno storicamente inseparabile dalla vita umana qualunque essa sia: coevo e coesistente con l'umanita'" (Sulla teoria, cit., p. 18).
Da qui anche l'idea della socialita' del diritto, e il confronto continuo e dialettico con le tesi di Romano.
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Tra istituzionalismo e normativismo
Nelle opere giovanili, dimostrando una posizione piu' personale e libera da tributi all'idealismo, Crisafulli elabora la sua riflessione piu' originale, che trovera' definitiva sistemazione, a partire dal 1961, nelle diverse edizioni delle Lezioni di diritto costituzionale, dove, come ha scritto Modugno, la chiarezza espositiva e l'approfondimento problematico (fino talora allo scavo minuto, ma pur sempre limpido) raggiungono molto spesso la perfezione.
Al centro dell'interesse di Crisafulli ci sono sempre piu' le norme, considerate "giudizi su contegni umani [...] cui conferiscono una specifica rilevanza, con il ricollegarvi conseguenze giuridiche determinate" (Lezioni di diritto costituzionale, II vol., t. 2, 19845, p. 21). Dell'imperativismo, criticato per la problematica individuazione dei soggetti destinatari della norma e per la irriducibilita' della norma ai comandi, egli accetta solo l'idea che le norme sono vincolanti per tutti coloro che sottostanno all'ordinamento. Si tratta di una posizione vicina a quella di Hans Kelsen, che configura la norma come giudizio ipotetico esprimente la doverosita' di un atto o di una conseguenza e che riesce, cosi', ad abbracciare tutti i significati della norma (prescrittivi, permissivi, autorizzativi) che l'imperativismo non riesce a cogliere.
Nel corso degli anni Crisafulli, nel tentativo di individuare i caratteri differenziali del diritto e della norma giuridica, arriva all'idea del carattere generale e astratto come carattere necessariamente inerente alla nozione di norma. Lo schema elementare della norma (se c'e' A, ci deve essere B) implica la generalita' dell'ordine temporale, "essendovi la conseguenza doverosa ricollegata ad una astratta ipotesi" (Lezioni di diritto costituzionale, II vol., t. 2, 1984 (5), p. 21).
Tutto cio' non basta a sostenere la sua adesione al normativismo: in coerenza con i primi lavori, e' sempre presente la constatazione delle insufficienze di normativismo e istituzionalismo e della necessita' di una loro reciproca integrazione.
Egli si avvicina alle tesi di Romano, soprattutto nel momento in cui sostiene che dal punto di vista delle scienze dogmatiche, le quali hanno a oggetto lo studio di un dato ordinamento, le norme sono certamente il prius: dal punto di vista teoretico il momento genetico di un ordinamento e' dato dal gruppo sociale. Ma la distanza resta, perche' per Crisafulli e' inaccettabile l'equazione romaniana tra diritto e istituzione nel momento in cui essa riduca il diritto al fatto, l'ordine normativo a quello esistenziale.
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La norma-ordinamento
Il lungo percorso di indagine sulla norma giuridica trovera' il suo compimento con la celebre definizione della norma-ordinamento, che rappresenta uno dei momenti piu' alti della riflessione crisafulliana, con tutte le sue notevoli implicazioni sulla teoria dell'interpretazione, sul concetto di atto normativo, di disposizione e di norma. In definitiva, le norme non sono un elemento dell'atto ma sono entita' separate, staccate dalla loro fonte "con un proprio significato, che puo' in varia misura divergere, e tanto piu' con l'andar del tempo, da quello originariamente espresso dalle rispettive disposizioni, singolarmente considerate, poiche' esso si determina in funzione dell'ordinamento complessivo, e su di esso percio' si riflettono altre norme a questo appartenenti" (Lezioni, cit., I vol., 19702, p. 41).
La norma ordinamento e' la norma vivente, in quanto espressione dell'intero ordinamento nella sua astratta oggettivita' e nell'effettualita' del suo concreto realizzarsi.
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La giuridicizzazione dei principi generali del diritto
Merito di Crisafulli e' l'aver affrontato (prima dell'avvento della nostra Costituzione, ma con una riflessione che ne risulta avvalorata) il tema dei principi generali del diritto, all'ordine del giorno per giuristi e filosofi del diritto, superando alcune concezioni restrittive che assegnavano ai principi una funzione meramente integrativa dell'ordinamento giuridico, considerandoli come latenti nel sistema e ricavabili per astrazione e generalizzazione da norme espresse.
Per Crisafulli i principi possono essere sia impliciti sia espliciti, ma soprattutto hanno natura normativa, sono norme giuridiche che presentano tutti i caratteri delle regole di condotta. Si distinguono dalle altre norme non per il carattere strutturale rappresentato da una maggiore generalita' dei principi rispetto alle altre norme, ma per un aspetto funzionale, il loro carattere di norme-base e di norme-fondamentali dell'ordinamento giuridico, e soprattutto per un criterio struttural-funzionale che permette di configurare i principi come norme, scritte e non scritte, le quali, con riferimento a un ordinamento giuridico gia' formato, rappresentano riassuntivamente il significato essenziale di altre norme particolari. Dai principi logicamente derivano le norme particolari, e da queste inversamente essi si ricavano. La conseguenza e' il carattere della relativita' dei principi, nel senso che una norma puo' essere configurata sia come semplice norma sia come principio rispetto ad altre norme.
L'aver individuato la normativita' dei principi generali consente la loro utilizzazione al di la' del semplice momento integrativo dell'ordinamento. La vera funzione diventa quella costruttiva: i principi diventano essenziali nella dinamica dell'ordinamento, determinando il suo modo di essere.
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La teoria della Costituzione
La riflessione sui principi generali trova un necessario sbocco nella teoria della Costituzione. L'avvento della Costituzione repubblicana rappresenta, per Crisafulli, la conferma delle sue tesi; tutto il discorso che portera' avanti con estrema coerenza sulle disposizioni di principio e sulle norme programmatiche, dal punto di vista teorico, trova ancoraggio negli scritti sui principi. La Costituzione e' come qualsiasi altra legge, nel senso che tutte (o quasi) le sue disposizioni devono essere intese come disposizioni normative. Nel suo celebre La Costituzione e le sue disposizioni di principio (1962) troviamo chiaramente esposta la sua tesi principale: "Una Costituzione deve essere intesa ed interpretata, in tutte le sue parti, magis ut valeat, perche' cosi' vogliono la sua natura e la sua funzione, che sono e non potrebbero non essere [...] di atto normativo, diretto a disciplinare obbligatoriamente comportamenti pubblici" (p. 11).
Si tratta di una tesi di straordinaria portata innovativa, che ebbe notevole influenza sul dibattito del tempo, nel momento in cui le incertezze generate dalla nuova Costituzione, con le sue diposizioni di principio e programmatiche a cui molti negavano natura normativa, portava paradossalmente a scartare dall'ambito della giuridicita' questo gruppo di disposizioni, con la conseguente mutilazione di una parte essenziale del testo costituzionale.
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Il problema dell'indirizzo politico
Un altro momento significativo del pensiero di Crisafulli, nella direzione accennata della ricerca dell'equilibrio tra diritto e politica, e' quello dedicato allo studio dell'indirizzo politico. Anche in questo ambito le sue posizioni, insieme a quelle di Mortati, segnano il passaggio a un nuovo modo di intendere l'attivita' di governo. L'attenzione per l'indirizzo politico serve a far emergere un'attivita' specifica ed essenziale all'interno dello Stato, a cui tradizionalmente non si riconosceva autonomia. Crisafulli e Mortati configurano invece l'indirizzo politico come una specifica attivita', che non si riduce e non si risolve nell'esercizio delle tradizionali funzioni e che in qualche modo viene ricondotta nel campo della scienza giuridica. Siamo infatti, come ammette Crisafulli, ai confini tra diritto e politica, nella nebulosa da cui nasce il diritto.
L'attivita' di governo non si manifesta solo in una funzione di impulso e di coordinamento, ma si presenta soprattutto come indirizzo, e quindi come attivita' che precede logicamente e che prevale sulle altre. La rottura con il modello ottocentesco, che tematizzava l'indirizzo nell'ambito del diritto amministrativo, e' netta; cosi' com'e' netta la rottura con il modello legalistico dello Stato di diritto: "Non si intende qui negare la supremazia della legge, che e' uno dei principi caratteristici informatori dell'ordinamento dello Stato moderno, in quanto Stato di diritto; si vuole soltanto affermare che, prima ancora della stessa legislazione, vi e' un momento dell'attivita' statale nel quale si opera la scelta delle finalita' da conseguire e, nelle linee piu' generali, dei mezzi a cio' reputati piu' idonei, momento che puo' dirsi pertanto, in questo senso e sotto questo aspetto, prelegislativo" (Per una teoria giuridica dell'indirizzo politico, 1939, p. 44).
Carattere prelegislativo non significa irrilevanza giuridica, perche' la mediazione tra diritto e politica operata dall'indirizzo politico consiste nella scelta delle finalita' politiche da raggiungere e nella loro assunzione quale fine e contenuto dell'attivita' legislativa ed esecutiva dello Stato.
Per Crisafulli, l'indirizzo politico dimostra che non tutta l'attivita' dello Stato e' intrinsecamente giuridica, ma spetta alla politica dire verso quali finalita' dev'essere indirizzata l'azione dei pubblici poteri nella prospettiva dell'unita' dello Stato.
Da qui la sua attenzione per il programma politico e successivamente, negli anni della delusione, per i partiti politici (Sirimarco 2003).
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Lo studio sulle fonti
Nella ricerca sulle fonti, sospesa tra filosofia del diritto, teoria generale e trattazione positiva, la riflessione crisafulliana raggiunge il massimo della sistemazione.
Il confronto con il normativismo kelseniano diventa estremamente dialettico. Se, per sua stessa ammissione, Crisafulli era arrivato a configurare la norma giuridica in modo molto vicino a Kelsen (anche se non accetta tutto il discorso sulla sanzione), nella teoria delle fonti la sua prospettiva e' diversa e la sua visione degli atti e dei fatti normativi e' piu' rigorosa, non lasciando "spazio alla giurisprudenza in genere (sia pure elevata a 'diritto vivente'), ne' alla stessa giustizia costituzionale" (Paladin, in Il contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, 1994, p. 5).
Tra i diversi punti di divergenza con Kelsen c'e' la concezione dell'ordinamento giuridico, la sua costruzione, il ruolo delle norme sulla produzione. Ma soprattutto Crisafulli ripensa la struttura gradualistica nel momento in cui introduce (riprendendo un'intuizione di Esposito) il criterio della competenza quale criterio per la risoluzione delle antinomie e quale criterio per l'analisi di tutte le fonti positivo-pattizie e soprattutto di quelle che si affiancano alla legge: "La comune subordinazione di tutte le fonti, a cominciare dalla stessa legge formale, alla costituzione rigida puo' implicare – ed effettivamente implica, oggi, in Italia – che al criterio gerarchico si accompagni, ora sostituendolo del tutto, ora integrandolo e limitandone la portata, un diverso criterio di ripartizione delle fonti e delle norme, che puo' dirsi [...] della competenza" (V. Crisafulli, Lezioni, cit., I vol., 1970 (2), p. 200).
La portata innovativa di questa tesi e' notevole, perche' non si tratta solo di sostituire un criterio con un altro o di mescolarli variamente, ma di mettere in discussione "la stessa idea che il sistema si configuri come un universo retto da equilibri fissi, nel quale, dalla collocazione di ogni singola fonte possa meccanicamente dedursi l'intero spettro dei rapporti dalla stessa intrattenuti con tutte, indistintamente, le altre" (D'Atena, in Il contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, 1994, p. 98).
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Dalla disposizione alla norma
Molti dei temi accennati confluiscono nella riflessione sull'interpretazione. Le norme giuridiche vivono nella loro applicazione, che presuppone, a dispetto della massima in claris non fit interpretatio, l'interpretazione concepita come un'operazione logica grazie alla quale l'interprete ricostruisce la volonta' legislativa. Questa operazione non e' compiuta solo dagli organi giurisdizionali, ma da tutti i destinatari: l'applicazione e' un atto di volonta' con cui viene individualizzata, o posta in concreto la norma. I due momenti non sono facilmente distinguibili e separabili: "Non soltanto, infatti, l'atto del conformare concretamente il rapporto alla norma (applicazione in senso stretto) implica necessariamente l'interpretazione della norma, e non di rado quasi si compenetra e si confonde con essa, ma anche nella ricerca preliminare della norma regolatrice di un dato rapporto, il momento dell'interpretazione e', di regola, imprescindibile, perche' e' soltanto attraverso l'interpretazione che si puo' accertare se una determinata norma valga a disciplinare il rapporto di che trattasi o se questo invece ne rimanga escluso, per modo che si debba inquadrarlo in una diversa norma ovvero ricorrere all'analogia od ai principi generali del diritto" (V. Crisafulli, I principi costituzionali sull'interpretazione e applicazione della legge, 1940, pp. 671-72).
E' per questo che la teoria dell'interpretazione rientra nella teoria delle fonti e quindi nel diritto costituzionale e nella scienza del diritto costituzionale, e che la sua disciplina va ricollegata ai principi costituzionali. In Crisafulli e' forte la preoccupazione di tenere distinti i momenti dell'interpretazione-applicazione e della produzione del diritto. Ecco perche', pur accogliendo la tesi estensiva circa la legittimita' di un'interpretazione sistematica, egli sostiene il carattere giuridico delle norme disciplinanti l'interpretazione, che quindi dev'essere disciplinata, oltre che dalle regole logiche ed ermeneutiche, da norme di diritto positivo per garantire la distinzione rispetto alla posizione del diritto e per assicurarne la conformita' ai "principi essenziali informatori dell'ordinamento" (p. 676).
Nella sua voce Disposizione (e norma) nell'Enciclopedia del diritto (XIII vol., 1964), con la ben nota distinzione tra disposizione-norma e norma-vivente (o norma ordinamento), Crisafulli sembra pensare a una possibile estensione dell'ambito di discrezionalita' giurisdizionale, tanto da far dire che, proprio partendo dagli studi crisafulliani, "studiosi di diritto e giurisprudenza hanno assunto in tempi piu' recenti atteggiamenti in materia di interpretazione/applicazione della legge che sembrano aprire la strada ad una sorta di formazione giudiziale del diritto" (Bartole, in Il contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, 1994, p. 16).
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Illusioni e delusioni costituzionali
Gli scritti sullo Stato e la sua crisi, dove passione politica e rigore scientifico si mescolano alla perfezione, rappresentano un altro momento importante della riflessione crisafulliana: la necessita' di prendere sul serio il principio della sovranita' popolare; la distinzione tra Stato-governo e Stato-comunita'; le considerazioni sulla forma di governo parlamentare, le sue possibili deviazioni e il ruolo che in essa giocano da una parte la Corte costituzionale, con la sua finalita' garantista, e, dall'altra il presidente della Repubblica, i cui poteri vengono interpretati estensivamente (sarebbe estremamente interessante rileggere oggi quelle pagine, che non trovarono grande seguito nella dottrina del tempo); il problema della continuita' dello Stato; il ruolo dei partiti politici.
In questi scritti emerge pero' un forte pessimismo: la visione della crisi e' lucida, ancora attuale, il grido di allarme accorato. Crisafulli vede il pericolo causato dalla confusione tra pubblico e privato, della pubblicizzazione dell'economia, per effetto dell'interventismo statale e della privatizzazione surrettizia della politica. Constata il venir meno del senso di responsabilita', per cui "la societa' attuale [...] da un lato, molto chiede e si attende dallo Stato, ma dallo Stato (oltre che garante di un minimo di sicurezza della convivenza contro la delinquenza) dispensatore di benefici, sovvenzioni, finanziamenti [...] ma, dall'altro lato, esprime sia pure confusamente il rifiuto dello Stato (dello Stato come valore etico, come potere unitario ed unificante, che sia in grado, nelle forme di volta in volta consentite dall'ordinamento giuridico, di dire la parola definitiva, facendo prevalere l'interesse generale" (V. Crisafulli, Stato popolo governo, 1985, p. 338).
Ad acuire questa crisi contribuiscono i partiti politici che perdono di vista il loro impegno essenziale, quello della mediazione politica degli interessi allo scopo di decantare "la grezza immediatezza degli interessi particolari" (p. 210), e diventano parte del processo degenerativo. Il rischio, per Crisafulli, e' che la crisi dei partiti si riverberi sugli istituti tradizionali della rappresentanza, con la conseguenza di un nefasto impoverimento politico se non addirittura di un tramonto della politica nella prospettiva di una societa' tecnocratica affidata agli specialisti.
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Opere
Sulla teoria della norma giuridica, 1935.
Per una teoria giuridica dell'indirizzo politico, "Studi urbinati", 1939, 1-2, pp. 53-171.
I principi costituzionali sull'interpretazione e applicazione della legge, in Studi in onore di Santi Romano, Padova 1940, pp. 665-703.
Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", 1941, pp. 41-63, 157-81, 230-64.
La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952.
Atto normativo, in Enciclopedia del diritto, IV vol., Atto-Bana, Milano 1959, ad vocem.
Disposizione (e norma), in Enciclopedia del diritto, XIII vol., Dis-Dopp, Milano 1964, ad vocem.
Lezioni di diritto costituzionale, I vol., Padova 19702, II vol., Padova 1976 (4).
Costituzione, in Enciclopedia del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana, I vol., Roma 1976, ad vocem.
Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano 1985.
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Bibliografia
F. Modugno, In memoria di Vezio Crisafulli, "Diritto e societa'", 1990, 1, pp. 141-56.
D. Nocilla, Forma di Stato e forma di governo nell'opera giuridica di Vezio Crisafulli, "Giurisprudenza costituzionale", 1994, 5, pp. 3251-86.
Il contributo di Vezio Crisafulli alla scienza del diritto costituzionale, Atti delle giornate di studio, Trieste 1-2 ottobre 1993, Padova 1994 (in partic. L. Paladin, Gli anni della formazione, pp. 27-46; A. D'Atena, Teoria delle fonti, teoria dell'atto e problematicismo nel pensiero di Vezio Crisafulli; F. Modugno, La teoria delle fonti del diritto nel pensiero di Vezio Crisafulli; S. Bartole, Introduzione al Convegno, pp. 15-24).
L'opera di Vezio Crisafulli fra diritto e politica, Quaderni del dipartimento di Scienze giuridiche dell'Universita' di Trieste, 2001.
M. Sirimarco, Vezio Crisafulli. Ai confini tra diritto e politica, Napoli 2003 (al quale si rinvia anche per una piu' ricca bibliografia dell'autore e sull'autore).
La sovranita' popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli e Paladin, Atti del convegno di studio per celebrare la casa editrice CEDAM nel I centenario della fondazione 1903-2003, 19-21 giugno, a cura di L. Carlassare, Padova 2004.
A. D'Atena, Vezio Crisafulli e la giurisprudenza sulla giustizia costituzionale, "Diritto e societa'", n.s., 2011, 2-3, pp. 193-208.

2. MAESTRI. VINCENZO FERA: CARLO DIONISOTTI
[Da Il contributo italiano alla storia del pensiero – Storia e Politica (2013) nel sito www.treccani.it]

Tra i maggiori maestri del Novecento letterario italiano, Carlo Dionisotti, formatosi alla scuola di Vittorio Cian nella facolta' di Lettere di Torino degli anni Venti del Novecento, dove ancora bruciavano gli ultimi fuochi della scuola storica, ha coniugato l'istanza etico-politica della storia, peculiarmente crociana, con l'attenzione rivolta ai diversi sviluppi di lingue e culture nei vari ambienti italiani. La sua sfera d'indagine e' stata prevalentemente la letteratura italiana antica e, in particolare, la temperie rinascimentale con le sue complesse trasformazioni linguistiche.
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La vita
Carlo Dionisotti nacque a Torino il 9 giugno 1908 da famiglia borghese, originaria del vercellese: il nonno (1824-1899), omonimo, fu magistrato e storico. Dopo le scuole secondarie nell'Istituto sociale di Torino con i gesuiti, si laureo' con Vittorio Cian (1862-1951) discutendo un Saggio di studi sulle Rime di Pietro Bembo (1929), ma sulla sua formazione influirono da prospettive diverse Santorre Debenedetti (1878-1948) e Ferdinando Neri (1880-1954). Tra il 1932 e il 1943 fu insegnante di latino e storia in istituti magistrali di Vercelli e Torino e dal 1939 in licei di Roma. Dopo aver conseguito la libera docenza in letteratura italiana nel 1937, fu assistente di Enrico Carrara (1871-1958) al Magistero di Torino e supplente a Lettere del poeta Francesco Pastonchi (1874-1953). Nel 1941-43, mentre insegnava al liceo Virgilio di Roma, inizio' a collaborare con l'Istituto della Enciclopedia Italiana per il Dizionario biografico degli Italiani. Comandato nel 1943 presso l'Istituto di studi germanici, fu negli anni 1944-46 assistente all'Universita' di Roma di Natalino Sapegno, al posto di Mario Alicata (1918-1966) chiamato a piu' urgenti e gravosi impegni politici. Fu nello stesso tempo attivo sui giornali della Resistenza, collaboro' con Giustizia e liberta' e con il Partito d'azione.
Tutto questo periodo, a parte la piccola edizione in due volumi delle opere di Pietro Bembo degli anni 1932-1933, fu caratterizzato, come l'esaustiva bibliografia di Mirella Ferrari documenta (in Un maestro della letteratura, 2008, pp. 32-39), da una ricca serie di recensioni e annunci bibliografici che comparvero soprattutto sul "Giornale storico della letteratura italiana", con pochi interventi di letteratura umanistica; l'opera che assorbi' le sue maggiori energie fu quella degli Indici del "Giornale storico" affidatigli da Cian. Sotterraneamente procedeva la ricerca su Bembo e, in particolare, il lavoro sull'epistolario. Nel 1947 concorse a un posto di lecturer di italiano presso l'Universita' di Oxford, con una reference letter di Benedetto Croce, e a Oxford rimase fino al 1949, quando divento' professor di italiano al Bedford College di London, dove insegno' sino al pensionamento nel 1970.
La prolusione, Geografia e storia della letteratura italiana, pronunciata il 22 novembre 1949 ("Italian studies", 1951), segnera' profondamente l'italianistica. L'episodio certamente piu' significativo in quegli anni fu la fondazione e la direzione con altri, tra cui Giuseppe Billanovich (1913-2000) e Augusto Campana (1906-1995), a partire dal 1958, di un periodico di grandissimo impatto, "Italia medioevale e umanistica". Il trasferimento in Inghilterra significo' per Dionisotti l'esplorazione sistematica dei fondi italiani della Bodleian Library di Oxford e, soprattutto, della British Library. Dalla specola inglese lo studioso percorreva i sentieri della letteratura italiana allargando le conoscenze e rinnovandone i metodi. Nel 1974 gli fu dedicata una miscellanea dagli allievi della Svizzera italiana, uno dei principali luoghi in cui si e' esercitato il magistero dello studioso. Numerosi i riconoscimenti. Dal 1964 fu accademico dei Lincei e dal 1972 fellow della British Academy. Si spense a Londra il 22 febbraio del 1998. Volle essere sepolto a Romagnano Sesia (Novara).
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Dal "Giornale storico" a "Italia medioevale e umanistica"
Dionisotti fu segretario di redazione del "Giornale storico" dal 1937 al 1941, ma era venuto a contatto con la metodologia del "Giornale" gia' negli anni universitari per i suoi rapporti con Cian, dal 1918 direttore della rivista. Quando il giovane arrivo' all'Universita' aveva al suo attivo letture decisive, quali La letteratura della nuova Italia e il Breviario di estetica di Croce. La Prefazione alla tesi (Universita' di Torino, novembre 1929) chiarisce l'ordito del lavoro: "uno studio sulle rime del Bembo non mi fu consigliato da preoccupazioni psicologiche o estetiche ne' tanto meno biografiche, ma da un solo problema che io ritengo tuttora insoluto e tale da non poter essere risolto se non attraverso l'opera del Bembo: il problema del petrarchismo lirico cinquecentesco e piu' propriamente del primo Cinquecento. [...] Non mancano studi sulla lirica del sec. XVI e il recente volume del Rizzi tutti li riassume. Due sono i fondamentali difetti di questa critica: metodologico il primo, di non avere cioe' distinto; e conoscere senza distinguere non si puo', ne' giudicare quel che e' confuso e disordinato. Cosi' vediamo in quelle rassegne di poesia cinquecentesca il Bembo e il Tansillo, il Molza e il Groto, l'Ariosto e il Tasso, il Della Casa e il Buonarroti, in un sol branco ove non mancano Giordano Bruno e il Campanella".
Notevole in questa apertura programmatica la dichiarazione di avere scelto come campo di lavoro la dinamica critico-filologica delle Rime per la definizione di un fenomeno letterario come il petrarchismo. La statura di Bembo era tale che da sola bastava a giustificare la scelta, ma la motivazione e' conseguente alla nuova temperie crociana nella quale il giovane e' immerso: un cauto atteggiamento verso la pratica filologica, funzionalizzata nell'ambito di un movimento dalle idee verso i testi. Sara' un habitus proprio anche del Dionisotti maturo, ma sorprende che gia' allora egli applicasse con piena consapevolezza il principio del distingue frequenter, che sarebbe diventato un indicatore metodologico onnipresente nella sua futura ricerca. Nella tesi di laurea c'e' gia' il suo lessico critico, diverso da quello di Cian, sul quale comunque si modella. E' un'erudizione che non e' piu' quella della scuola storica, ma e' proiettata a trovare la sua piena giustificazione lungo i rivoli dell'estetica crociana.
Dal 1930 era iniziata la sua collaborazione con il "Giornale storico". Molto presto dovette assumere il compito di 'architetto' dell'indice analitico della rivista. La perlustrazione accurata della struttura della maggiore rivista di letteratura italiana ha certamente lasciato un'impronta nei suoi studi. La storia di Dionisotti critico e filologo si dipana proprio lungo l'arco evolutivo della linea erudita, che a poco a poco acquisisce tratti inconfondibili. Il cortocircuito nella ricerca dello studioso si verifica sul piano dell'intersezione tra letteratura e lingua nei periodi e nelle zone dei grandi cambiamenti. Proprio l'indagine su Bembo raffino' il suo approccio a quella zona grigia del tardo Umanesimo fitta di testi anche effimeri e spesso dallo statuto ambiguo. E' un percorso che si puo' seguire negli anni Cinquanta e Sessanta, che muove dalla prolusione del 1949, passa attraverso interventi che incidono a vario livello nella costruzione di una metodologia – emblematica la prefazione al volume bembesco di Prose e rime del 1960 -, per giungere al culmine nel 1968 con Gli umanisti e il volgare. Qui sono messi a fuoco i processi che hanno determinato la codificazione della lingua letteraria italiana da parte di Bembo, con lo sguardo teso soprattutto ai documenti di 'confine' linguistico, quali l'Hypnerotomachia Poliphili o le parodie del linguaggio latino obsoleto e ricercato, nei quali maggiormente si rispecchia la crisi della lingua di Roma.
Prima di Dionisotti questo variegato apparato di testi era additato come un campionario di curiosita' letterarie, corollario goliardico tipico dei sodalizi accademici; ora l'acuta introspezione dei testi e l'analisi dei contesti fanno affiorare dai documenti i segni di dirompenti crisi linguistiche. Gia' negli anni Cinquanta non siamo piu' nella sfera dell'occasionale trouvaille, bensi' in un dinamico mondo di erudizione che mira a trovare un orientamento esplorando le zone nevralgiche della letteratura italiana. I maggiori risultati riguardano Bembo e la letteratura a cavallo dei due secoli, in particolare il mondo fino allora quasi inesplorato delle prime stampe: dalla poesia cortigiana alle Regole di Giovan Francesco Fortunio, da Marcantonio Sabellico ad Aldo Manuzio, da Iacopo Sannazaro a tutto l'entourage letterario di Leone X. Siamo all'interno di un sistema e piu' che gli eventi Dionisotti e' interessato a interpretare i punti di trasformazione, l'eziologia dei fenomeni, i retroscena culturali.
La sua vocazione erudita si era incanalata lungo queste coordinate nella Roma dei primi anni Quaranta, dove tra l'Enciclopedia Italiana e la Biblioteca Vaticana era venuto a contatto con personaggi destinati a interagire con lui per il resto della vita. Erano ricercatori che perseguivano il regime dell'erudizione da prospettive diverse. Don Giuseppe De Luca (1898-1962), il 'timoniere' di "Storia e letteratura", si poneva sulla scia di Andre' Wilmart, di Louis Duchesne e di Giovanni Mercati, e mirava a ricostruire la lunga catena della tradizione ecclesiastica dalla specola della storia della pieta', tentando con grande impegno di far convivere nella sua progettualita' editoriale la cultura religiosa e quella laica. Don Giuseppe era riuscito a coinvolgere nei suoi programmi, oltre a Dionisotti, Campana e Billanovich. Il primo si riagganciava alla grande tradizione settecentesca dei bibliotecari di Romagna e aveva trovato la sua naturale collocazione in Vaticana accanto a Mercati: tutti i testimonia antiquitatis destavano il suo interesse, ma privilegiava nell'indagine cio' che riconduceva piu' o meno direttamente a luoghi, uomini e istituzioni della sua Romagna. Tutto proteso a gettare luce sui contesti umanistici, con attenzione suprema per le figure di minori e minimi, Billanovich lavorava sui frastagliati percorsi dei classici latini in eta' tardoantica e medievale, mettendo a fuoco le tradizioni di Francesco Petrarca e degli altri grandi del Trecento.
Dionisotti, Billanovich e Campana maturarono lentamente la decisione di dar vita a una rivista nuova. Dopo una lunghissima preparazione (l'inizio e' da porre gia' alla fine degli anni Quaranta), nel 1958 apparve il primo numero di "Italia medioevale e umanistica". Ai tre si era unito lo storico medievale Paolo Sambin (1913-2003). La rivista voleva essere erudita, diversa dal "Giornale storico" al quale tuttavia ammiccava, ma la peculiare caratura dell'erudizione di ognuno dei direttori conferi' un significato speciale all'insieme. Fu Billanovich l'animatore primo del periodico, ma la nuova proposta poggiava sui presupposti teorici fissati da Dionisotti. La rivista nasceva dopo il distacco, a diversi livelli traumatico, dei tre studiosi da De Luca e da "Storia e letteratura", e mirava a trovare un'altra forma di aggregazione. Il problema sembra riconducibile a una crisi di identita' culturale. E' quello che nelle molte lettere dei protagonisti, in gran parte ancora inedite, non e' mai detto esplicitamente, ma si coglie tra le righe. Il programma di don Giuseppe era assoluto, non lasciava liberta' nella visione della storia, esigeva interpreti piu' che artefici, esecutori entusiasti piu' che ideatori di ricerche che non fossero in armonia con le linee direttrici. Per chi partecipava al progetto era necessaria insomma una piena condivisione. La tradizione culturale cui i tre studiosi si richiamavano era quella (Dionisotti lo dice a chiare lettere) del "Giornale storico" e di Croce. Lo sviluppo degli avvenimenti rivela che il mentore ideologico del gruppo fu proprio Dionisotti, che dopo la prolusione londinese aveva acquisito auctoritas indiscussa. Il titolo "Italia medioevale e umanistica" non e' onnicomprensivo, ma sostanzialmente ritaglia i territori della letteratura italiana antica. Ed e' un titolo che puo' trovare adeguata spiegazione solo in quella particolare stagione socioculturale in cui la rivista nasceva. Aveva scritto Dionisotti nella sua prolusione: "Certo e' che mai come all'indomani di una disfatta militare e nel decorso di una crisi politica che hanno insidiato l'unita' e l'esistenza stessa, come nazione e come stato, dell'Italia, si e' sentito forte il bisogno di vedere con chiarezza in che modo e fino a che punto l'Italia sia stata a tutt'oggi fatta".
Se si puo' allargare il senso di questa affermazione, il titolo del nuovo periodico e' l'indicazione di un perimetro critico, il disegno di una scienza imperfetta su cui si vuole intervenire, un invito alla verifica della tenuta ideologica e culturale di quella che fu la piu' alta carta d'identita' della cultura italiana in Europa, il Rinascimento. Essenziale era poi l'introduzione nel titolo di quell'aggettivo, medioevale, chiaramente un'indicazione programmatica sulla necessita' di abbandonare l'idolatria del Rinascimento come sacro recinto per ragionare in termini di culture stratificate e integrate. Sulle macerie della guerra, tra fratture e incrinature di ogni sorta, si avvertiva ora la necessita' di mettere ordine in un passato certo glorioso, ma ancora oscuro. Un ripartire quindi da lontano con le coscienze profondamente radicate nell'eta' contemporanea.
Il programma della nuova rivista era stato in certo qual modo tracciato da Dionisotti nel 1956 con il Discorso sull'Umanesimo italiano (Geografia e storia della letteratura italiana, 1967, rist. 1971, pp. 179-99). Un quadro d'insieme piegato forse anche a costituire un momento di verifica della prolusione Geografia e storia, che faceva vedere, sia pure un po' ellitticamente, i pieni e i vuoti della ricerca sull'Umanesimo: doveva indicare una rotta, disegnare la mappa dei grandi autori che attendevano un'edizione moderna, da Biondo Flavio a Giovanni Tortelli ad Angelo Poliziano a Ermolao Barbaro, chiarire i pericoli di una periodizzazione dell'Umanesimo troppo rigida o troppo estensiva, che non tenesse conto della varieta' di stili di vita e di ricerca che in quell'eta' si riscontrano, perche' "la linea dell'umanesimo letterario non puo' essere che una tra le molte che la realta' politica e religiosa, le arti, le scienze, il diritto e il costume propongono alla comparazione e interpretazione storica" (Geografia e storia, cit., 1971, p. 199).
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Geografia e storia
E' nel binomio critico Geografia e storia che universalmente si riconosce il poziore segno distintivo della metodologia di Dionisotti: non si tratta di una regola euristica, di una tecnica applicativa, e' in realta' la focalizzazione di un rapporto, riconosciuto costante e quasi normativo, nei contesti letterari della penisola. Un'analisi che ha messo in crisi il carattere di sviluppo coerente e unitario con cui l'estetica idealistica aveva ricostruito la storia letteraria italiana.
La prolusione del 1949 non aveva avuto molta diffusione: la tesi entro' in circolo solo a partire dal 1967, da quando cioe' fu pubblicata da Einaudi una silloge di Dionisotti che recava appunto il titolo Geografia e storia della letteratura italiana. La Premessa e dedica al volume, permeata da forte coscienza autobiografica, chiarisce come il saggio sia stato elaborato in un momento di grave crisi civile ed esistenziale: "compito nostro era di mettere, per quanto potessimo, un qualche riparo alla rovina di ogni cosa intorno a noi e in noi. Sempre avevamo creduto all'unita', e pero' a una storia d'Italia e a una storia della letteratura italiana. Ma sempre anche avevamo dubitato della struttura unitaria, che nell'eta' nostra era giunta a fare cosi' trista prova di se', e pero' anche di quella corrispondente storia d'Italia e della letteratura italiana, che era stata prodotta nell'eta' risorgimentale" (Geografia e storia, cit., 1971, p. 9).
Sul piano critico la prolusione si configurava come un corollario al problema storiografico posto da Croce nel 1936, nei "Proceedings of the British Academy", se e fino a qual segno la storia d'Italia potesse dirsi unitaria. La conclusione di Croce "che di una storia d'Italia anteriore al processo del Risorgimento non fosse il caso di parlare, risolvendosi essa nella varia storia delle singole unita' politiche, regionali o municipali o altramente costituite, in cui l'Italia per secoli era stata divisa" (Geografia e storia, cit., 1971, p. 25) e' certamente all'origine della ricerca di Dionisotti. Analoga la conclusione che di letteratura italiana vera e propria prima dell'Umanesimo non si potesse parlare, fino a quando cioe' con le Prose della volgar lingua non si innesco' un processo di lunga e complessa gestazione.
Va subito detto, comunque, che le linee storiche e geografiche lungo cui Dionisotti coordina gli eventi non sono riconducibili tout court al bagaglio teoretico crociano; ma e' innegabile che proprio quello schema di lavoro abbia sollecitato un'acuta riflessione sullo status della storia letteraria verificata nei punti nodali del suo sviluppo. In re e da tempo si era raccontata la letteratura italiana secondo la prospettiva mista del sistema storico-geografico e di quello storico-letterario. E' il telaio che distribuisce, per es., la materia trattata da Vittorio Rossi nel suo Quattrocento (1933): alcuni capitoli si richiamano a partizioni geografiche (Roma e Firenze ai tempi di Lorenzo il Magnifico, Napoli al tempo di Ferdinando I d'Aragona ecc.), altri recano titoli tematici (il pensiero critico, la prosa oratoria ecc.). Ed e' lo schema operativo in parte anche del vecchio e glorioso Die Wiederbelebung des classischen Alterthums (2 voll., 1880-1881) di Georg Voigt, disponibile in traduzione italiana fin dal 1888, dove tuttavia spiccava, in armonia con l'ideologia eroica dei tempi della sua elaborazione, una vibrata scansione degli elementi individuali.
Del tutto nuova era invece nelle pagine di Dionisotti la riflessione d'insieme sulla genesi e gli sviluppi della letteratura italiana dal Duecento all'eta' contemporanea. Il problema non e' costituito dalla storia letteraria in se', bensi' dal modo o dai modi di ricostruirla e raccontarla; se e come sia possibile e legittimo concatenare tutti gli eventi dalla scuola poetica siciliana al Romanticismo; in che misura tra Due e Trecento si possa parlare di storia letteraria italiana; e poi, a partire dall'Umanesimo, fino a qual punto le linee di progressione della storia letteraria abbiano subito condizionamenti dai vari ambienti geografici o abbiano avuto sviluppi univoci e omogenei; quale sia l'incidenza della specificita' nei vari territori. Per la soluzione del problema il ritorno al Settecento e' decisivo, "fra il Gravina e il Tiraboschi", come precisava nella Premessa del volume del 1967; e nei fatti l'erudizione della scuola storica si saldava a quella settecentesca, tuttavia con un lievito culturale innovativo: l'attenzione marcata verso le dinamiche dei processi linguistici e verso i cambiamenti di rotta. Dionisotti muoveva dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, una grande epopea nella quale le varieta' erano viste come una drammatica trasformazione degli avvenimenti, "un inquadramento, cioe', entro uno schema storico-geografico unitario dei rari e indipendenti 'mondi' poetici che la critica romantica era venuta scoprendo e colonizzando" (Geografia e storia, cit., 1971, pp. 30-31). Ma e' chiaro che qui la discussione va molto al di la'. Probabilmente anche in questo Dionisotti sviluppava la linea di Croce: quella degli Aneddoti di varia letteratura e, soprattutto, dello straordinario affresco dei Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento apparso pochi anni prima, nel 1945; in una recensione rimasta incompiuta (da me edita nel volume Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, 2001, pp. 29-30), Dionisotti sottolineava la radicale portata dell'operazione di Croce, il quale "aveva fin qui preferibilmente e sistematicamente ritrovato autori e pagine del Seicento e della Nuova Italia. Erano le due zone aperte in quella storia alla bonifica: terre di nessuno, coltivabili senza mettere in discussione preesistenti confini. Ma ora la zona prescelta e' il Rinascimento: qui e' la roccaforte della tradizione e nulla si tocca senza un immediato riflesso sulla compagine tutta di quella storia. Trecento e Cinquecento sono i corpi dell'edificio; cosi' com'e', come cioe' fu costruito in Arcadia ed e' rimasto".
E si noti l'inciso finale, "cosi' com'e', come cioe' fu costruito in Arcadia", che naturalmente esprime una consapevolezza che va al di la' dell'occasione concreta della recensione. La storia della letteratura italiana, cosi' come era stata consegnata dalla vecchia tradizione, era una storia compatta e senza chiaroscuri, considerata organica nella diversita', di una organicita' nella quale tutto si giustificava. Con le sue pagine Croce veniva ad arricchire il quadro; per lui il coordinamento di singoli fatti slegati in un grande organico affresco letterario non esplicitava obiettivi unitari; per questo egli scriveva su poeti e ricostruiva aneddoti. Con le sue minute ricostruzioni Croce forniva nuovi segmenti di storia e, implicitamente, anche di geografia. Il discorso finiva nella prolusione con lo slittare dalla specola italiana verso una dimensione piu' generale, e l'osservazione sul tessuto di una penisola linguisticamente e culturalmente varia veniva a trasformarsi in un principio quasi di carattere universale, l'indiscutibile peso che la geografia possa e debba avere in qualsiasi ricostruzione storico-letteraria (Geografia e storia, cit., 1971, p. 54). Non sorprende percio' come questo ideale di ricerca sia stato poi applicato anche ad altre letterature, dalla Grecia e dalle antiche province romane alla realta' del Medioevo latino europeo. Occorre infine dire che nella speculazione di Dionisotti il concetto si e' ulteriormente arricchito con la riflessione sulla "cultura regionale", discussa in un convegno a Bari del 1970. Assente dalla prolusione londinese, la riflessione caratterizza assai bene la situazione dell'Italia nel momento in cui si comincia a imporre una linea dominante di letteratura.
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Opere
G. Guidiccioni, Orazione ai nobili di Lucca, a cura di C. Dionisotti, Roma 1945, rist. Milano 1994.
Indici del "Giornale storico della letteratura italiana". Volumi 1-100 (1883-1932), a cura di C. Dionisotti, Torino 1948.
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M. Savorgnan, P. Bembo, Carteggio d'amore (1500-1501), a cura di C. Dionisotti, Firenze 1950.
Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, rist. 1971.
Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, nuova ed. a cura di V. Fera, Milano 2003.
Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Bologna 1988.
Ricordo di Arnaldo Momigliano, Bologna 1989.
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Chierici e laici, con una lettera di D. Cantimori, a cura di R. Cicala, Novara 1995.
Ricordi della scuola italiana, Roma 1998.
Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, a cura di G. Panizza, Torino 2008.
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Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, a cura di E. Fumagalli, Roma 2001.
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Un maestro della letteratura: Carlo Dionisotti tra storia e filologia (1908-1998), a cura di R. Cicala, M. Ferrari, Novara 2008.

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Numero 104 del 6 giugno 2021
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