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[Nonviolenza] Telegrammi. 4114
- Subject: [Nonviolenza] Telegrammi. 4114
- From: Centro di ricerca per la pace Centro di ricerca per la pace <centropacevt at gmail.com>
- Date: Sun, 23 May 2021 17:51:20 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4114 del 24 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Camillo Fiaschetti
2. Nell'anniversario della strage di Capaci
3. "Non uccidere. Salvare le vite". Due incontri di riflessione e di testimonianza a Viterbo
4. Jean-Marie Muller, La nonviolenza come esigenza politica (parte prima)
5. Ripetiamo ancora una volta...
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. LUTTI. CAMILLO FIASCHETTI
E' deceduto Camillo Fiaschetti, un vecchio amico.
Con affetto che non si estingue lo ricordiamo.
2. MEMORIA. NELL'ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI
La mafia puo' essere sconfitta.
Con la forza della verita'.
Con la legalita' che salva le vite.
Con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza che a tutte le violenze si oppone.
*
La mafia puo' essere sconfitta.
Contrastando il male facendo il bene.
Resistendo ad ogni oppressione.
Salvando tutte le vite.
*
La mafia puo' essere sconfitta.
Salvare le vite e' il primo dovere.
3. INCONTRI. "NON UCCIDERE. SALVARE LE VITE". DUE INCONTRI DI RIFLESSIONE E DI TESTIMONIANZA A VITERBO
La mattina di sabato 22 maggio 2021 a Viterbo presso il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" si e' tenuto un incontro di studio e di riflessione muovendo dall'analisi di tre rilevanti libri della filosofa Donatella Di Cesare: Israele. Terra, ritorno, anarchia (Bollati Boringhieri, Torino 2014), Tortura (Bollati Boringhieri, Torino 2016), Terrore e modernita' (Einaudi, Torino 2017). L'incontro, nel corso del quale sono stati letti e commentati alcuni brani delle opere citate (e di altri libri della medesima illustre autrice: Se Auschwitz e' nulla. Contro il negazionismo, Il melangolo, Genova 2012; Crimini contro l'ospitalita'. Vita e violenza nei centri per gli stranieri, Il melangolo, Genova 2014; Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017; Marrani. L'altro dell'altro, Einaudi, Torino 2018) e' stato introdotto e concluso dal responsabile della struttura nonviolenta viterbese.
Nel pomeriggio dello stesso sabato 22 maggio 2021 sempre a Viterbo in piazza della Repubblica si e' tenuta una iniziativa pubblica di solidarieta' con il popolo palestinese, per la pace e i diritti umani di tutti gli esseri umani, promossa dall'Arci e dal Centro culturale islamico cittadino; all'iniziativa e' intervenuto anche il responsabile della struttura nonviolenta viterbese.
Contiamo di pubblicare prossimamente una sintesi delle riflessioni svolte nelle conclusioni dell'incontro mattutino e nell'intervento in piazza pomeridiano.
4. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: LA NONVIOLENZA COME ESIGENZA POLITICA (PARTE PRIMA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo ottavo: "La nonviolenza come esigenza politica" (pp. 157-182). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
Il fondamento della citta' greca secondo Aristotele
Per definire cio' che caratterizza la comunita' politica, Aristotele formula due proposizioni: "L'uomo e' per natura un animale politico" (1), e "l'uomo, solo tra tutti gli animali, ha la parola" (2). All'inizio, la comunita' e' formata "per soddisfare i soli bisogni vitali", ma il suo vero scopo e' permettere agli uomini di "vivere bene" (3), cioe' di vivere felici conformandosi alle esigenze della virtu'.
La parola permette agli uomini di comunicare tra loro su cio' che e' utile o dannoso, e soprattutto su cio' che e' giusto o ingiusto. La comunita' politica e' costituita per l'associazione degli uomini che vogliono non soltanto soddisfare i bisogni della loro esistenza animale, ma soprattutto le esigenze della loro vita umana. "Lo stato – scrive Aristotele – e' una comunita' di persone uguali col fine di condurre una vita la migliore possibile" (4). Tutti i cittadini sono simili ed eguali e, percio', hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri politici. "Liberta' ed eguaglianza si realizzano pienamente solo se tutti i cittadini, senza eccezione, partecipano ugualmente e senza restrizioni al governo" (5).
Al fine che il governo dello Stato non degeneri in un dominio degli uni sugli altri, ma rimanga una forma di servizio reso alla comunita' in vista dell'utile comune e del bene comune, Aristotele prevede che tutti i cittadini esercitino il potere a turno. "Quando lo Stato – egli scrive – e' fondato sulla perfetta eguaglianza dei cittadini e la loro perfetta parita', essi rivendicano il diritto di governare a turno" (6). "E' giusto – egli afferma ancora – che nessuno comandi piu' di quanto obbedisce e cosi' ogni cittadino sia chiamato a turno a comandare e ad obbedire" (7). A proposito dell'elezione degli anziani Aristotele trova sconveniente che un cittadino candidi se' stesso esibendo cosi' pubblicamente la sua ambizione. "E' il cittadino piu' degno – scrive – che dovrebbe occupare quella carica, che lo voglia o non lo voglia" (8).
Cosi', secondo Aristotele, il potere che governa lo Stato deve essere ugualmente condiviso da tutti i cittadini, che sono tutti degli uomini liberi e pari. In quanto tale, il potere politico non implica alcuna violenza, ma si esercita mediante la deliberazione e il voto dei cittadini riuniti in assemblea. Ma non bisogna ingannarsi: se, nella citta' greca, il potere politico propriamente detto non si esercita con la violenza, la vita degli abitanti della citta' non e' affatto esente da violenze. Prima di tutto, molti di questi abitanti – gli schiavi per primi – sono esclusi dalla cittadinanza e, dunque, non hanno parte alcuna nel governo della citta'. Essi devono dedicare tutto il loro tempo ai compiti "domestici". Solo i cittadini liberi da questi compiti possono occuparsi di filosofia e di politica. Percio', la violenza e' necessaria per mantenere l'ordine nella citta' e difendere la comunita' dalle minacce esterne. "I membri della comunita' – afferma Aristotele - devono avere armi in loro possesso sia per proteggere il governo contro i cittadini disobbedienti sia per opporsi a chi tenta di nuocere loro dall'esterno" (9). Ma il pensiero greco conserva il merito di aver saputo distinguere l'esercizio del potere politico da quello della violenza: se il ricorso alla violenza e' necessario per permettere l'esercizio del potere, il potere si esercita senza violenza.
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La nonviolenza del potere: Hannah Arendt
Hannah Arendt si riferisce al pensiero greco per mostrare che la violenza e' in realta' l'antitesi del potere politico. "I rapporti politici normali – ella scrive – non sono viziati di violenza. Questa garanzia la troviamo per la prima volta nell'antichita' greca in quanto la polis, la citta'-stato, si definisce in maniera esplicita come il modo di vita fondato esclusivamente sulla persuasione e non sulla violenza" (10).
Secondo Hannah Arendt, il potere politico nasce quando degli uomini si riuniscono per "vivere insieme" e decidono di agire insieme per costruire il loro avvenire entro una stessa citta'. "Il potere – scrive – corrisponde alla capacita' umana non solo di agire, ma di agire in modo concertato" (11). Questo potere che nasce dall'azione comune non ha alcun bisogno, per esercitarsi, di ricorrere agli strumenti della violenza. "Il potere e la violenza si oppongono per natura; quando uno dei due predomina in modo assoluto, l'altro e' eliminato. (...) Parlare di un potere nonviolento e' una tautologia. La violenza puo' distruggere il potere, ma e' perfettamente incapace di crearlo" (12). Cosi' Hannah Arendt respinge con forza la tesi dominante formulata da Max Weber, dal suo punto di vista di sociologo osservatore dei fatti sociali, secondo la quale il potere politico sarebbe un rapporto di dominio dell'uomo sull'uomo fondato sui mezzi della violenza. L'uomo, dal momento che e' essenzialmente un essere di relazione, non puo' essere libero da solo, ma diventa libero soltanto insieme agli altri. Diventa libero quando arriva a stabilire con gli altri delle relazioni di esseri liberi, cioe' delle relazioni prive di ogni minaccia e di ogni paura, di ogni dominio e di ogni sottomissione. La' dove i rapporti di dominio-sottomissione prevalgono tra gli uomini, si stabilisce il regno della violenza e questo e' il fallimento del potere politico.
Quando agli uomini di governo manca il potere, perche' non hanno la fiducia dei loro concittadini, e' allora che essi sono obbligati a ricorrere agli strumenti della costrizione, cioe' della violenza, per costringerli all'obbedienza. Questa violenza permette ai governanti di farsi temere dagli uomini e di dominarli per qualche tempo, ma essa non da' loro alcun potere. E quando i cittadini sapranno dominare la loro paura, quando oseranno di nuovo riunirsi, parlare e agire insieme, allora riprenderanno il loro potere e costringeranno gli uomini di governo ad andarsene.
Il potere politico e' fondato su una parola e un'azione che si rinforzano a vicenda. Di nuovo, Hannah Arendt si riferisce al pensiero greco: "Essere politico, vivere in una polis, significava che ogni cosa si decideva con la parola e la persuasione e non con la forza ne' con la violenza. Agli occhi dei Greci, costringere, dominare invece di convincere, erano metodi pre-politici di trattare gli uomini" (13). Se l'azione politica e' fondata sulla parola, essa e' priva di ogni violenza per il fatto stesso che violenza e parola si escludono a vicenda, e in modo radicale. Certo, la parola puo' essere violenta, ma una parola violenta e' una violenza e non e' piu' una parola. Inoltre, "la violenza stessa – come scrive Hannah Arendt – e' incapace di parola" (14). Certo, il potere politico deve agire per realizzarsi nella storia, ma deve agire mediante un'azione che prolunghi la parola che l'ha fatto nascere: "Il potere non e' attuato se non quando la parola e l'atto non divorziano, quando le parole non sono vuote e gli atti non sono brutali, (...) quando gli atti non servono a violare e distruggere, ma a stabilire delle relazioni e a creare delle nuove realta'" (15).
Per gli uomini, vivere insieme una vita umana e' parlare e agire insieme: sono questo "parlare insieme" e questo "agire insieme", che costituiscono la vita politica. Cio' che inaugura e fonda l'azione politica e' la parola scambiata tra i cittadini, e' la libera discussione, la deliberazione pubblica, il dibattito democratico, la con-versazione. Questa conversazione (dal latino versare, che significa voltare, volgere) avviene quando gli uomini si rivolgono gli uni verso gli altri per parlare, decidere e agire insieme. Cio' che fonda la politica non e' dunque la violenza, ma il suo contrario assoluto: la parola umana. Un regime totalitario si caratterizza per la distruzione totale di ogni spazio pubblico in cui i cittadini abbiano la liberta' di parlare e di agire insieme.
Cio' che costituisce la citta' politica e' uno spazio pubblico in cui gli uomini, che si sono riconosciuti eguali e pari, scambiano liberamente le loro parole allo scopo di prendere insieme le decisioni che impegnano il loro avvenire comune. E' questo "voler vivere insieme" che conduce gli uomini a formare una societa' facendo alleanza tra loro (societas, da socius, in latino significa alleanza). Fondare una societa' e', letteralmente, creare una as-sociazione. Questa si esprime attraverso una costituzione, cioe' un contratto sociale col quale i cittadini decidono il progetto politico che intendono realizzare insieme. Con Hannah Arendt, conviene qui rifiutare "la concezione verticale" e auspicare piuttosto "la versione orizzontale del contratto sociale" mediante il quale gli individui decidono di concludere tra loro un patto fondato su un "rapporto di reciprocita'" che li unisce in un "impegno mutuo" (16).
L'essenza stessa del fatto politico e' il dialogo degli uomini tra loro. La riuscita del politico e' la riuscita di questo dialogo, cioe' l'accordo degli uomini tra loro per decidere del loro comune avvenire. Poiche' la comparsa della violenza tra gli uomini significa sempre il fallimento del loro dialogo, la violenza significa sempre il fallimento della politica. L'essenza dell'azione politica non e' agire gli uni contro gli altri, ma agire gli uni con gli altri. Certo, la vita comune degli uomini in seno al medesimo stato puo' in qualunque momento essere turbata da conflitti provocati da individui che non rispettano l'alleanza originaria. E' importante risolvere questi conflitti per ristabilire la pace sociale e rendere di nuovo possibile il dialogo tra i cittadini. La risoluzione dei conflitti e' una condizione della vita politica, ma la vita politica non e' costituita da quella risoluzione. Gli individui che ricorrono alla violenza per realizzare le loro passioni, soddisfare i loro desideri o far prevalere i loro interessi particolari hanno gia' abbandonato il luogo in cui si elabora e si realizza il progetto politico della comunita' a cui appartengono. La loro azione non si inscrive piu' nello spazio pubblico che costituisce la comunita' politica. Bisognera' certo raggiungerli per combatterli e per neutralizzare la loro capacita' di violenza. Questa lotta e' necessaria per preservare la possibilita' dell'azione politica della comunita', ma non e' affatto costitutiva dell'azione politica degli uomini ragionevoli.
Del resto, la parola offre ancora delle possibilita' per lottare contro la violenza, come dimostra la tradizione della "chiacchierata" praticata in certe societa' africane. "In queste societa' tradizionali – scrive a questo proposito Jean Duvignaud – davanti a un atto di violenza la soluzione non e' la faida familiare, ma un discussione che unisce tutto il gruppo e nella quale la violenza e' tramutata in parola" (17). E' cosi' possibile elaborare una soluzione al conflitto sopravvenuto e reintegrare il o i delinquenti nella comunita' degli uomini che si parlano.
Conviene dunque definire sempre il fatto politico in rapporto al progetto che essa comporta. Questo progetto, che e' riunire gli uomini in un'azione comune, non soltanto non lascia alcuno spazio alla violenza, ma non puo' realizzarsi che mediante la nonviolenza. Nella sua finalita' come nelle sue modalita', l'azione politica e' organicamente accordata alla nonviolenza. Solo la filosofia della nonviolenza situa di nuovo la comunita' politica nella sua vera prospettiva e le da' di nuovo le sue vere dimensioni. Se l'azione politica si caratterizza in effetti per il fatto di essere nonviolenta, allora la violenza, per sua stessa natura, e' "anti-politica", quale che possa essere talvolta la sua necessita'. Al massimo, bisognerebbe forse concedere che essa e' pre-politica nella misura in cui precede e, in certe circostanze, prepara e rende possibile l'azione politica.
Cosi' la violenza, che ha sempre di mira la morte, si trova in contraddizione fondamentale con l'esigenza essenziale della politica, che e' costruire una societa' liberata dalla morsa della violenza. Al fine di far prevalere i diritti rispettivi di tutti i cittadini e di tutti i popoli, il governo dello stato deve sforzarsi di risolvere pacificamente gli inevitabili conflitti che sorgono tra i membri di una societa' e tra le diverse societa'. Cosi', il governo deve pacificare la vita sociale per rendere possibile la vita politica, cio' che implica non soltanto la volonta' di instaurare la pace, ma la volonta' di instaurarla con mezzi pacifici, cioe' nonviolenti.
La riflessione filosofica non ci autorizza ad affermare che la nonviolenza sia la risposta che offre in tutte le circostanze i mezzi tecnici per affrontare le realta' politiche, ma ci porta ad affermare che la nonviolenza e' la domanda che, di fronte alle realta' politiche, ci permette in tutte le circostanze di cercare la migliore risposta. Se, immediatamente, volessimo considerare la nonviolenza come la risposta buona, noi non vedremmo altro che le difficolta' a metterla in atto e rischieremmo di convincerci rapidamente che esse sono insormontabili. Invece, se noi consideriamo la nonviolenza come la domanda buona, potremo allora guardarla come una sfida da raccogliere e applicarci a cercare la migliore risposta che possa esserle data. Fino ad oggi gli uomini generalmente non si sono posti la (buona) domanda della nonviolenza e hanno accettato subito la (cattiva) risposta offerta dalla violenza. Affermare che la nonviolenza e' sempre la buona domanda ci deve far evitare di credere troppo in fretta che la violenza sia la buona risposta. Infatti, se e' vero che la domanda buona non ci da' immediatamente la risposta buona, essa orienta la nostra ricerca nella direzione in cui abbiamo le maggiori probabilita' di trovarla. E questo e' gia' decisivo. Poiche' il fatto di porre la buona domanda e' una condizione necessaria, benche' non sufficiente, per trovare la buona risposta.
Dal momento che la violenza si trova legittimata in nome della ragion di Stato, essa puo' avere libero corso nella storia. E' proprio cio' che la storia ci insegna. Di fronte a tutto quello che la violenza commette di irreparabile quando diventa il mezzo specifico della politica, non e' necessario uscire in riflessioni morali per rifiutarla. E' nell'azione politica stessa che si trovano le ragioni per rifiutarla. E sono ragioni imperative.
Ogni atto di violenza, soprattutto se e' compiuto dal governo, deve essere riconosciuto come un fallimento dell'azione politica nel suo tentativo di controllare le situazioni conflittuali senza ricorrere alla violenza. Il fatto stesso di non aver saputo risolvere un conflitto altrimenti che con la violenza rivela una disfunzione della societa' e non deve essere banalizzato come se facesse parte del suo funzionamento normale. Davanti alla necessita' di ricorrere alla violenza, la cosa urgente non e' giustificarla, ma cercare i mezzi nonviolenti che permetteranno in avvenire di evitare, in tutti i modi possibili, che una tale situazione si ripeta.
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Democrazia e cittadinanza
Si riconosce in generale che la democrazia e' il progetto politico che meglio corrisponde a quello di una societa' di giustizia e di liberta'. Ma il concetto stesso di democrazia si trova affetto da un'ambiguita' fondamentale. Secondo il suo senso etimologico, democrazia significa "governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo", per riprendere l'espressione usata dalla Costituzione francese per definire il principio della Repubblica. Ma la parola democrazia significa ugualmente un governo che rispetti le liberta' e i diritti dell'uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini. Certo, questi due significati non sono in contraddizione, ma per realizzare la democrazia il popolo deve avere in se' l'esigenza etica che fonda l'ideale democratico. La democrazia e' una scommessa sulla saggezza del popolo. Sfortunatamente, la saggezza democratica del popolo non arriva sempre all'appuntamento con l'avvenimento politico. Il popolo puo' diventare una folla, e la passione s'impadronisce di una folla piu' facilmente della ragione.
In realta', la vera democrazia non e' popolare, ma cittadina. La democrazia vuole essere il governo dei cittadini, da parte dei cittadini, per i cittadini. Cio' che fonda la democrazia e' la cittadinanza di ogni donna e di ogni uomo della citta'. E' l'esercizio della cittadinanza che da' all'esistenza dell'individuo la dimensione pubblica. Certo, l'uomo ha bisogno di una vita privata, ma la vita privata degli altri non potrebbe bastargli per diventare se' stesso. Per questo, egli deve arrischiarsi ad uscire di casa e venire sulla pubblica piazza ad incontrare gli altri. L'uomo e' essenzialmente un essere di relazione, capace di unirsi agli altri mediante la parola e l’azione. Egli non accede all'esistenza se non mediante questa relazione fondata sul mutuo riconoscimento e sul rispetto reciproco. Allora diventa possibile costruire una societa' fondata sulla liberta' e l'eguaglianza. La liberta' del cittadino non deve essere definita in via negativa per il fatto che non e' sottomesso a costrizioni abusive del potere politico, ma in via positiva per il fatto che partecipa effettivamente a questo potere. L'ideale democratico implica una "uguale" ripartizione tra tutti i cittadini del potere, dell'avere e del sapere. Questo ideale e' perfetto, ma il suo maggiore inconveniente e' di essere irrealizzabile. Tuttavia, indica una direzione, permette una pedagogia, e crea una dinamica.
Per fondare la cittadinanza, e' importante riferirsi a dei princìpi universali che riconoscano e garantiscano i diritti e le liberta' inalienabili di ogni essere umano. Quando, per fondare la cittadinanza, ci si riferisce a dei criteri particolari, che siano la razza, l'etnia o la religione, la democrazia e' gia' negata. Cosi', infatti, si creano delle divisioni e delle opposizioni tra gli uomini, che rischiano fortemente di degenerare un giorno o l'altro in violenze. La cittadinanza non e' possibile che tra uomini i quali, al di la' di tutte le loro differenze, si riconoscono uguali e pari. Tuttavia, non e' con l'uniformare le culture che bisogna cercare di raggiungere l'universalita', ma con la loro convergenza. Ogni cultura tende ad affermare la propria superiorita' sulle altre, e ad arrogarsi i privilegi dell'universalita'. Il concetto di "cultura universale" e' totalitario, perche' giustifica la conquista, la guerra e il dominio. Non e' una cultura che presenta i caratteri dell'universalita', ma l'etica politica che fonda il rispetto dell'uomo, cioe' il rispetto dell'altro nella sua singolarita'.
Se riflettiamo sulla universalita' della bellezza, noi possiamo meglio comprendere l'universalita' della verita'. La verita', come la bellezza, deve rivolgersi alla liberta' dell'uomo, senza mai voler imporsi con la costrizione. La verita', come la bellezza, deve riconciliare l'uomo con se' stesso, aprendo cosi' la via alla riconciliazione di tutti gli uomini tra loro. L'universalita' dell'etica, che fonda la saggezza dell'uomo ragionevole, presenta cosi' una profonda analogia con l'universalita' dell'arte. L'arte arriva a trascendere la cultura in cui nasce, proprio mentre esprime la sua singolarita'. L'arte raggiunge l'universale, mentre nessuna opera d'arte e' simile ad un'altra. Attraverso forme differenti legate alle differenze delle culture, l'arte – che si tratti di poesia, letteratura, musica o pittura – raggiunge un significato che parla ad ogni essere umano. In ogni cultura, l'arte esprime gli stessi interrogativi sul destino dell'uomo, e, attraverso di essi, sono le stesse ricerche e istanze quelle che essa formula. Cosi' l'etica deve arrivare a esprimere l'universale umano.
In realta', il popolo non si esprime e non decide niente. Sono soltanto i cittadini che possono esprimersi ed e' una minoranza di loro che decide. Ma questa decisione non e' democratica che nella misura in cui risulta da una larga discussione pubblica a cui tutti possano partecipare. Ora, nelle democrazie rappresentative, la parola dei cittadini ha qualche importanza soltanto al momento delle elezioni e, eventualmente, dei referendum. Lo spazio pubblico in cui il cittadino esercita il suo diritto di parola tende a ridursi alle dimensioni della cabina elettorale. Se l'essenza della democrazia e' la discussione pubblica, allora niente e' meno democratico di una societa' in cui il cittadino non ha realmente altra possibilita' di esprimersi che nel chiuso di quella cabina. Evidentemente, non intendiamo disconoscere il ruolo decisivo dell'organizzazione di libere elezioni nella lunga marcia dei popoli verso la loro liberazione dalle tirannie e dai dispotismi. Quello che vogliamo sottolineare e' che, se delle elezioni libere sono necessarie alla democrazia, esse non le sono sufficienti. La partecipazione dei cittadini alle elezioni non potrebbe bastare per dire che essi partecipano alla res-publica, cioe' che prendono effettivamente parte alle decisioni che orientano il corso degli affari pubblici. Votando, il cittadino non esercita il suo potere, ma lo delega a un rappresentante sul quale non potra' esercitare alcun controllo fino alla prossima elezione. Votando, il cittadino non esprime la sua voce, ma la consegna a uno di quelli che gliela reclamano rumorosamente. Non e' affatto in questione il principio della delega – necessaria dal momento che la democrazia diretta non e' possibile – ma le sue modalita' pratiche, che la fanno somigliare a un abbandono di potere.
In definitiva, il vanto della democrazia di permettere ai cittadini di governare e' largamente illusorio e ingannevole. Non e' vero che in un regime democratico i cittadini prendono parte direttamente alle decisioni del potere politico. Secondo il filosofo di origine austriaca Karl Popper, l'idea che la democrazia sarebbe "il potere del popolo" e' pericolosa. Infatti, in realta', "ognuno dei membri del popolo sa benissimo che non comanda affatto e ha dunque l'impressione che la democrazia sia una frode" (18). Dunque Popper ritiene che la democrazia debba essere meno pretenziosa: il suo obiettivo non deve essere di dare il potere al popolo, ma di evitare che il potere diventi tirannico e privi il popolo della sua liberta'. In altre parole, "la democrazia e' un modo di preservare lo Stato di diritto" (19). Per Karl Popper, la questione centrale della democrazia non e' tanto il potere quanto la limitazione del potere: "L'essenziale – egli afferma – e' che il governo non abbia troppo potere" (20). Egli vuole uno Stato, ma ne vuole il meno possibile: vuole uno "Stato minimale" (21).
Le democrazie non permettono al popolo di esercitare il potere, ma riconoscono ai cittadini il diritto di controllare il potere. L'essenziale e' che i cittadini possano deporre il governo quando stimano che la sua politica e' contraria agli interessi della comunita', e specialmente quando non rispetta lo Stato di diritto. Per definire la democrazia, dunque, Karl Popper scarta l'idea di "potere da parte del popolo" e la sostituisce con l'idea di "giudizio da parte del popolo" (22). "Noi non possiamo tutti governare e dirigere, ma noi possiamo tutti giudicare il governo, possiamo esercitare il ruolo di giurati" (23). Tuttavia, il giudizio dei giurati che sono i cittadini e' anch'esso fallibile e non puo' costituire una garanzia assoluta contro la violazione dei diritti della persona da parte del governo. I giurati possono lasciarsi sedurre dalle "ideologie alla moda che sono quasi sempre di una stupidita' infinita e prendono immancabilmente il falso per il vero" (24). Per questo, Karl Popper pensa che il compito piu' importante e' sviluppare tra i cittadini una cultura della nonviolenza, che miri ad eliminare la violenza dagli spiriti e dalle intelligenze.
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Il numero e il diritto
La democrazia pretende di fondare la sua legittimita' sulla legge del numero. Ma questa puo' non corrispondere al rispetto del diritto. Il principio di maggioranza non garantisce il rispetto dell'esigenza etica che fonda la democrazia. La dittatura del numero puo' essere piu' implacabile della tirannia di uno solo. Le forze antidemocratiche si sono sempre appoggiate sulla regola della maggioranza per tentare di imporre il loro potere all'insieme della societa'. Che cosa deve succedere quando la volonta' del maggior numero, cioe' "la volonta' del popolo", si oppone alla giustizia? Per il cittadino democratico non puo' esserci dubbio: l'esigenza etica deve valere piu' della volonta' della maggioranza, il diritto deve prevalere contro il numero. In una vera democrazia, il rispetto del diritto e' infinitamente piu' cogente del rispetto del suffragio universale.
La cittadinanza non puo' essere fondata sulla disciplina collettiva di tutti, ma sulla responsabilita' e dunque sull'autonomia personale di ciascuno. In nome della sua coscienza, ogni cittadino puo' e deve opporsi alla legge di maggioranza quando questa produce una chiara ingiustizia. Esiste cosi' un civismo del dissenso, una dissidenza civica, che, in nome dell'ideale democratico, rifiuta di piegarsi alla legge della maggioranza.
Cio' che garantisce la democrazia non e' uno Stato forte, ma lo Stato di diritto. Questo non e' costituito dai valori della democrazia, ma dalle istituzioni della democrazia, che incarnano e storicizzano quei valori. Lo Stato di diritto e' un equilibrio istituzionale fragile che rischia sempre di venire rotto. Le minacce che pesano sull'ordine democratico sono generate anzitutto da delle ideologie fondate sulla discriminazione e l'esclusione. Che si tratti del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, dell'integrismo religioso o del liberalismo economico esclusivamente fondato sulla ricerca del profitto, sono queste ideologie che minacciano la democrazia. Dunque, promuovere e difendere la democrazia – questi due passi si rafforzano l'un l'altro e devono essere intrapresi insieme – vuol dire anzitutto lottare contro queste ideologie i cui germi proliferano tanto all'interno che all'esterno della societa'. Queste ideologie, infatti, non conoscono frontiere.
Le ideologie antidemocratiche sono tutte legate all'ideologia della violenza. Non esitano mai a proclamare che la violenza e' necessaria e legittima quando e' messa al loro servizio. Per questo, in definitiva, la minaccia contro la democrazia e' sempre quella della violenza e, di conseguenza, la difesa della democrazia e' sempre una lotta contro la violenza. Ma non e' possibile respingere efficacemente le ideologie antidemocratiche che affermano la legittimita' della violenza a servizio della loro causa, se non opponendo loro la filosofia politica della nonviolenza come fondamento della democrazia.
Le minacce che pesano sulla democrazia non si esprimono soltanto con la diffusione di idee perverse in grado di minare i principi della democrazia, ma si manifestano anche e soprattutto con l'organizzazione di azioni che mirano a destabilizzare le istituzioni democratiche. La lotta contro queste ideologie non puo' ridursi a un dibattito di idee, ma deve essere una vera lotta. Tocca dunque a tutti i cittadini che restano attaccati alla democrazia mobilitarsi, riunirsi, e organizzarsi per resistere. Ma, inoltre, e' essenziale che i mezzi della lotta per difendere la democrazia siano coerenti con i valori e i principi della democrazia stessa, cioe' siano mezzi nonviolenti.
Le grandi violenze della storia – le guerre, i massacri e i genocidi – non sono naturali ne' spontanee, ma sono state pensate e organizzate. Gli odi e le passioni che le hanno accompagnate sono stati generati da propagande ideologiche e costruzioni politiche. L'insorgere dell'irrazionale, che ha orientato il comportamento degli individui verso l'omicidio, e' stato armato da costruzioni razionali. E' dovuto al fatto che nessuna forza politica e' stata in grado di opporsi per tempo a queste costruzioni, che cio' e' diventato inevitabile ed e' arrivato a creare l'irreparabile.
Le ideologie fondate sulla discriminazione e l'esclusione prosperano sul terreno fertile delle emozioni e delle passioni che orientano i comportamenti collettivi degli uomini. Il razzismo, la xenofobia e, piu' generalmente, ogni atteggiamento di odio verso altri, non poggiano soltanto su idee false, ma altrettanto su un insieme di paure e di sofferenze. Per combattere efficacemente quelle idee bisogna nello stesso tempo comprendere quelle paure e quelle sofferenze e sforzarsi di guarirle. Sotto questo aspetto, l'azione nonviolenta si presenta come una terapia collettiva.
Ogni filosofia politica, ogni progetto di societa' e ogni strategia di lotta che non tenessero conto dei fattori irrazionali e affettivi che intervengono potentemente nelle relazioni umane sarebbero votati al fallimento. Quando la passione e' la spinta principale dei comportamenti collettivi non basta, per pacificare la vita sociale e politica, rivolgersi agli individui con degli argomenti logici e razionali. Non che sia inutile appellarsi alla ragione, ma la migliore delle filosofie non puo' dispensare dall'appoggiarsi sui contributi della psicologia sociale che possono aiutare gli individui a rendersi piu' ragionevoli. Di fronte a una patologia sociale che infetta, certo, gli individui, ma in quanto membri di un gruppo determinato, conviene cercare di mettere in opera quello che Charles Rojzman chiama una "terapia sociale" (25). Si tratta di un metodo di intervento che mira a formare gli individui allo "spirito democratico". "Questa formazione – precisa Charles Rojzman – deve essenzialmente poggiare su una diagnosi riguardante i bisogni, i desideri, le paure e gli odi degli individui, dei gruppi e delle istituzioni e su un trattamento terapeutico che, per sua natura, non puo' che indirizzarsi a degli individui. Una nuova educazione civica dovra' insegnarci a conoscere questi bisogni, queste emozioni, queste passioni e darci degli strumenti per regolarle" (26).
*
Note
1. Aristotele, La Politica, 1253, a 1; Etica Nicomachea, 1, 1169, b 18.
2. Ibidem, 1253, a 5.
3. Ibidem, 1252, b 25.
4. Ibidem, 1328, a 35.
5. Ibidem, 1291, b 35.
6. Ibidem, 1279, a 5.
7. Ibidem, 1287, a 15.
8. Ibidem, 1271, a 10.
9. Ibidem, 1328, b 5.
10. Hannah Arendt, La crise de la culture, Paris, Gallimard, 1992, Folio-Essais, p. 11.
11. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence, Paris, Calmann-Levy, 1972, p. 153. Questa affermazione corrisponde letteralmente a quella che si trova in On Violence, Harcourt Brice & Company, 1970, nella traduzione italiana di Savino D'Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 40.
12. Ibidem, p.166; tr. it. Sulla violenza cit., p. 51 e 48.
13. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, Paris, Calmann-Levy, 1992, Presses Pocket, p. 64; edizione originale The Human Condition, The University of Chicago, 1958; tr. it. di Sergio Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani 1998, p. 20.
14. Hannah Arendt, Essai sur la revolution, Paris, Gallimard, 1985, coll. Tel. P. 21-22; edizione originale On Revolution (1963); tr. it. Sulla rivoluzione, Comunita' 1983.
15. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, op. cit. p. 260; tr. it. cit.
16. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence, op. cit., p. 93.
17. Jean Duvignaud, "Violence et societe'", in Raison presente, n. 54, 1980, p.7.
18. Karl Popper, La leçon de ce siecle, Paris, Anatolia, 1993, p. 131; tr. it. La lezione di questo secolo, Venezia 1992.
19. Ibidem, p. 190.
20. Ibidem, p. 106.
21. Ibidem, p. 114.
22. Ibidem, p. 108.
23. Ibidem, p. 133.
24. Ibidem, p. 142.
25. Charles Rojzman, La peur, la haine et la democratie, Paris, Desclee de Brouwer, 1992, p. 35.
26. Ibidem, p. 43-44.
(Parte prima - segue)
5. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...
... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.
6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Luciano Dottarelli, Maneggiare assoluti. Immanuel Kant, Primo Levi e altri maestri, Il Prato, Saonara (Pd) 2012, pp. 96, euro 15.
*
Riedizioni
- Alison Morgan, Dante e l'aldila' medievale, Salerno, Roma 2012, Rcs, Milano 2021, pp. 352, euro 7,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4114 del 24 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
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Numero 4114 del 24 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. Camillo Fiaschetti
2. Nell'anniversario della strage di Capaci
3. "Non uccidere. Salvare le vite". Due incontri di riflessione e di testimonianza a Viterbo
4. Jean-Marie Muller, La nonviolenza come esigenza politica (parte prima)
5. Ripetiamo ancora una volta...
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. LUTTI. CAMILLO FIASCHETTI
E' deceduto Camillo Fiaschetti, un vecchio amico.
Con affetto che non si estingue lo ricordiamo.
2. MEMORIA. NELL'ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI
La mafia puo' essere sconfitta.
Con la forza della verita'.
Con la legalita' che salva le vite.
Con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza che a tutte le violenze si oppone.
*
La mafia puo' essere sconfitta.
Contrastando il male facendo il bene.
Resistendo ad ogni oppressione.
Salvando tutte le vite.
*
La mafia puo' essere sconfitta.
Salvare le vite e' il primo dovere.
3. INCONTRI. "NON UCCIDERE. SALVARE LE VITE". DUE INCONTRI DI RIFLESSIONE E DI TESTIMONIANZA A VITERBO
La mattina di sabato 22 maggio 2021 a Viterbo presso il "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" si e' tenuto un incontro di studio e di riflessione muovendo dall'analisi di tre rilevanti libri della filosofa Donatella Di Cesare: Israele. Terra, ritorno, anarchia (Bollati Boringhieri, Torino 2014), Tortura (Bollati Boringhieri, Torino 2016), Terrore e modernita' (Einaudi, Torino 2017). L'incontro, nel corso del quale sono stati letti e commentati alcuni brani delle opere citate (e di altri libri della medesima illustre autrice: Se Auschwitz e' nulla. Contro il negazionismo, Il melangolo, Genova 2012; Crimini contro l'ospitalita'. Vita e violenza nei centri per gli stranieri, Il melangolo, Genova 2014; Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017; Marrani. L'altro dell'altro, Einaudi, Torino 2018) e' stato introdotto e concluso dal responsabile della struttura nonviolenta viterbese.
Nel pomeriggio dello stesso sabato 22 maggio 2021 sempre a Viterbo in piazza della Repubblica si e' tenuta una iniziativa pubblica di solidarieta' con il popolo palestinese, per la pace e i diritti umani di tutti gli esseri umani, promossa dall'Arci e dal Centro culturale islamico cittadino; all'iniziativa e' intervenuto anche il responsabile della struttura nonviolenta viterbese.
Contiamo di pubblicare prossimamente una sintesi delle riflessioni svolte nelle conclusioni dell'incontro mattutino e nell'intervento in piazza pomeridiano.
4. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: LA NONVIOLENZA COME ESIGENZA POLITICA (PARTE PRIMA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo ottavo: "La nonviolenza come esigenza politica" (pp. 157-182). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]
Il fondamento della citta' greca secondo Aristotele
Per definire cio' che caratterizza la comunita' politica, Aristotele formula due proposizioni: "L'uomo e' per natura un animale politico" (1), e "l'uomo, solo tra tutti gli animali, ha la parola" (2). All'inizio, la comunita' e' formata "per soddisfare i soli bisogni vitali", ma il suo vero scopo e' permettere agli uomini di "vivere bene" (3), cioe' di vivere felici conformandosi alle esigenze della virtu'.
La parola permette agli uomini di comunicare tra loro su cio' che e' utile o dannoso, e soprattutto su cio' che e' giusto o ingiusto. La comunita' politica e' costituita per l'associazione degli uomini che vogliono non soltanto soddisfare i bisogni della loro esistenza animale, ma soprattutto le esigenze della loro vita umana. "Lo stato – scrive Aristotele – e' una comunita' di persone uguali col fine di condurre una vita la migliore possibile" (4). Tutti i cittadini sono simili ed eguali e, percio', hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri politici. "Liberta' ed eguaglianza si realizzano pienamente solo se tutti i cittadini, senza eccezione, partecipano ugualmente e senza restrizioni al governo" (5).
Al fine che il governo dello Stato non degeneri in un dominio degli uni sugli altri, ma rimanga una forma di servizio reso alla comunita' in vista dell'utile comune e del bene comune, Aristotele prevede che tutti i cittadini esercitino il potere a turno. "Quando lo Stato – egli scrive – e' fondato sulla perfetta eguaglianza dei cittadini e la loro perfetta parita', essi rivendicano il diritto di governare a turno" (6). "E' giusto – egli afferma ancora – che nessuno comandi piu' di quanto obbedisce e cosi' ogni cittadino sia chiamato a turno a comandare e ad obbedire" (7). A proposito dell'elezione degli anziani Aristotele trova sconveniente che un cittadino candidi se' stesso esibendo cosi' pubblicamente la sua ambizione. "E' il cittadino piu' degno – scrive – che dovrebbe occupare quella carica, che lo voglia o non lo voglia" (8).
Cosi', secondo Aristotele, il potere che governa lo Stato deve essere ugualmente condiviso da tutti i cittadini, che sono tutti degli uomini liberi e pari. In quanto tale, il potere politico non implica alcuna violenza, ma si esercita mediante la deliberazione e il voto dei cittadini riuniti in assemblea. Ma non bisogna ingannarsi: se, nella citta' greca, il potere politico propriamente detto non si esercita con la violenza, la vita degli abitanti della citta' non e' affatto esente da violenze. Prima di tutto, molti di questi abitanti – gli schiavi per primi – sono esclusi dalla cittadinanza e, dunque, non hanno parte alcuna nel governo della citta'. Essi devono dedicare tutto il loro tempo ai compiti "domestici". Solo i cittadini liberi da questi compiti possono occuparsi di filosofia e di politica. Percio', la violenza e' necessaria per mantenere l'ordine nella citta' e difendere la comunita' dalle minacce esterne. "I membri della comunita' – afferma Aristotele - devono avere armi in loro possesso sia per proteggere il governo contro i cittadini disobbedienti sia per opporsi a chi tenta di nuocere loro dall'esterno" (9). Ma il pensiero greco conserva il merito di aver saputo distinguere l'esercizio del potere politico da quello della violenza: se il ricorso alla violenza e' necessario per permettere l'esercizio del potere, il potere si esercita senza violenza.
*
La nonviolenza del potere: Hannah Arendt
Hannah Arendt si riferisce al pensiero greco per mostrare che la violenza e' in realta' l'antitesi del potere politico. "I rapporti politici normali – ella scrive – non sono viziati di violenza. Questa garanzia la troviamo per la prima volta nell'antichita' greca in quanto la polis, la citta'-stato, si definisce in maniera esplicita come il modo di vita fondato esclusivamente sulla persuasione e non sulla violenza" (10).
Secondo Hannah Arendt, il potere politico nasce quando degli uomini si riuniscono per "vivere insieme" e decidono di agire insieme per costruire il loro avvenire entro una stessa citta'. "Il potere – scrive – corrisponde alla capacita' umana non solo di agire, ma di agire in modo concertato" (11). Questo potere che nasce dall'azione comune non ha alcun bisogno, per esercitarsi, di ricorrere agli strumenti della violenza. "Il potere e la violenza si oppongono per natura; quando uno dei due predomina in modo assoluto, l'altro e' eliminato. (...) Parlare di un potere nonviolento e' una tautologia. La violenza puo' distruggere il potere, ma e' perfettamente incapace di crearlo" (12). Cosi' Hannah Arendt respinge con forza la tesi dominante formulata da Max Weber, dal suo punto di vista di sociologo osservatore dei fatti sociali, secondo la quale il potere politico sarebbe un rapporto di dominio dell'uomo sull'uomo fondato sui mezzi della violenza. L'uomo, dal momento che e' essenzialmente un essere di relazione, non puo' essere libero da solo, ma diventa libero soltanto insieme agli altri. Diventa libero quando arriva a stabilire con gli altri delle relazioni di esseri liberi, cioe' delle relazioni prive di ogni minaccia e di ogni paura, di ogni dominio e di ogni sottomissione. La' dove i rapporti di dominio-sottomissione prevalgono tra gli uomini, si stabilisce il regno della violenza e questo e' il fallimento del potere politico.
Quando agli uomini di governo manca il potere, perche' non hanno la fiducia dei loro concittadini, e' allora che essi sono obbligati a ricorrere agli strumenti della costrizione, cioe' della violenza, per costringerli all'obbedienza. Questa violenza permette ai governanti di farsi temere dagli uomini e di dominarli per qualche tempo, ma essa non da' loro alcun potere. E quando i cittadini sapranno dominare la loro paura, quando oseranno di nuovo riunirsi, parlare e agire insieme, allora riprenderanno il loro potere e costringeranno gli uomini di governo ad andarsene.
Il potere politico e' fondato su una parola e un'azione che si rinforzano a vicenda. Di nuovo, Hannah Arendt si riferisce al pensiero greco: "Essere politico, vivere in una polis, significava che ogni cosa si decideva con la parola e la persuasione e non con la forza ne' con la violenza. Agli occhi dei Greci, costringere, dominare invece di convincere, erano metodi pre-politici di trattare gli uomini" (13). Se l'azione politica e' fondata sulla parola, essa e' priva di ogni violenza per il fatto stesso che violenza e parola si escludono a vicenda, e in modo radicale. Certo, la parola puo' essere violenta, ma una parola violenta e' una violenza e non e' piu' una parola. Inoltre, "la violenza stessa – come scrive Hannah Arendt – e' incapace di parola" (14). Certo, il potere politico deve agire per realizzarsi nella storia, ma deve agire mediante un'azione che prolunghi la parola che l'ha fatto nascere: "Il potere non e' attuato se non quando la parola e l'atto non divorziano, quando le parole non sono vuote e gli atti non sono brutali, (...) quando gli atti non servono a violare e distruggere, ma a stabilire delle relazioni e a creare delle nuove realta'" (15).
Per gli uomini, vivere insieme una vita umana e' parlare e agire insieme: sono questo "parlare insieme" e questo "agire insieme", che costituiscono la vita politica. Cio' che inaugura e fonda l'azione politica e' la parola scambiata tra i cittadini, e' la libera discussione, la deliberazione pubblica, il dibattito democratico, la con-versazione. Questa conversazione (dal latino versare, che significa voltare, volgere) avviene quando gli uomini si rivolgono gli uni verso gli altri per parlare, decidere e agire insieme. Cio' che fonda la politica non e' dunque la violenza, ma il suo contrario assoluto: la parola umana. Un regime totalitario si caratterizza per la distruzione totale di ogni spazio pubblico in cui i cittadini abbiano la liberta' di parlare e di agire insieme.
Cio' che costituisce la citta' politica e' uno spazio pubblico in cui gli uomini, che si sono riconosciuti eguali e pari, scambiano liberamente le loro parole allo scopo di prendere insieme le decisioni che impegnano il loro avvenire comune. E' questo "voler vivere insieme" che conduce gli uomini a formare una societa' facendo alleanza tra loro (societas, da socius, in latino significa alleanza). Fondare una societa' e', letteralmente, creare una as-sociazione. Questa si esprime attraverso una costituzione, cioe' un contratto sociale col quale i cittadini decidono il progetto politico che intendono realizzare insieme. Con Hannah Arendt, conviene qui rifiutare "la concezione verticale" e auspicare piuttosto "la versione orizzontale del contratto sociale" mediante il quale gli individui decidono di concludere tra loro un patto fondato su un "rapporto di reciprocita'" che li unisce in un "impegno mutuo" (16).
L'essenza stessa del fatto politico e' il dialogo degli uomini tra loro. La riuscita del politico e' la riuscita di questo dialogo, cioe' l'accordo degli uomini tra loro per decidere del loro comune avvenire. Poiche' la comparsa della violenza tra gli uomini significa sempre il fallimento del loro dialogo, la violenza significa sempre il fallimento della politica. L'essenza dell'azione politica non e' agire gli uni contro gli altri, ma agire gli uni con gli altri. Certo, la vita comune degli uomini in seno al medesimo stato puo' in qualunque momento essere turbata da conflitti provocati da individui che non rispettano l'alleanza originaria. E' importante risolvere questi conflitti per ristabilire la pace sociale e rendere di nuovo possibile il dialogo tra i cittadini. La risoluzione dei conflitti e' una condizione della vita politica, ma la vita politica non e' costituita da quella risoluzione. Gli individui che ricorrono alla violenza per realizzare le loro passioni, soddisfare i loro desideri o far prevalere i loro interessi particolari hanno gia' abbandonato il luogo in cui si elabora e si realizza il progetto politico della comunita' a cui appartengono. La loro azione non si inscrive piu' nello spazio pubblico che costituisce la comunita' politica. Bisognera' certo raggiungerli per combatterli e per neutralizzare la loro capacita' di violenza. Questa lotta e' necessaria per preservare la possibilita' dell'azione politica della comunita', ma non e' affatto costitutiva dell'azione politica degli uomini ragionevoli.
Del resto, la parola offre ancora delle possibilita' per lottare contro la violenza, come dimostra la tradizione della "chiacchierata" praticata in certe societa' africane. "In queste societa' tradizionali – scrive a questo proposito Jean Duvignaud – davanti a un atto di violenza la soluzione non e' la faida familiare, ma un discussione che unisce tutto il gruppo e nella quale la violenza e' tramutata in parola" (17). E' cosi' possibile elaborare una soluzione al conflitto sopravvenuto e reintegrare il o i delinquenti nella comunita' degli uomini che si parlano.
Conviene dunque definire sempre il fatto politico in rapporto al progetto che essa comporta. Questo progetto, che e' riunire gli uomini in un'azione comune, non soltanto non lascia alcuno spazio alla violenza, ma non puo' realizzarsi che mediante la nonviolenza. Nella sua finalita' come nelle sue modalita', l'azione politica e' organicamente accordata alla nonviolenza. Solo la filosofia della nonviolenza situa di nuovo la comunita' politica nella sua vera prospettiva e le da' di nuovo le sue vere dimensioni. Se l'azione politica si caratterizza in effetti per il fatto di essere nonviolenta, allora la violenza, per sua stessa natura, e' "anti-politica", quale che possa essere talvolta la sua necessita'. Al massimo, bisognerebbe forse concedere che essa e' pre-politica nella misura in cui precede e, in certe circostanze, prepara e rende possibile l'azione politica.
Cosi' la violenza, che ha sempre di mira la morte, si trova in contraddizione fondamentale con l'esigenza essenziale della politica, che e' costruire una societa' liberata dalla morsa della violenza. Al fine di far prevalere i diritti rispettivi di tutti i cittadini e di tutti i popoli, il governo dello stato deve sforzarsi di risolvere pacificamente gli inevitabili conflitti che sorgono tra i membri di una societa' e tra le diverse societa'. Cosi', il governo deve pacificare la vita sociale per rendere possibile la vita politica, cio' che implica non soltanto la volonta' di instaurare la pace, ma la volonta' di instaurarla con mezzi pacifici, cioe' nonviolenti.
La riflessione filosofica non ci autorizza ad affermare che la nonviolenza sia la risposta che offre in tutte le circostanze i mezzi tecnici per affrontare le realta' politiche, ma ci porta ad affermare che la nonviolenza e' la domanda che, di fronte alle realta' politiche, ci permette in tutte le circostanze di cercare la migliore risposta. Se, immediatamente, volessimo considerare la nonviolenza come la risposta buona, noi non vedremmo altro che le difficolta' a metterla in atto e rischieremmo di convincerci rapidamente che esse sono insormontabili. Invece, se noi consideriamo la nonviolenza come la domanda buona, potremo allora guardarla come una sfida da raccogliere e applicarci a cercare la migliore risposta che possa esserle data. Fino ad oggi gli uomini generalmente non si sono posti la (buona) domanda della nonviolenza e hanno accettato subito la (cattiva) risposta offerta dalla violenza. Affermare che la nonviolenza e' sempre la buona domanda ci deve far evitare di credere troppo in fretta che la violenza sia la buona risposta. Infatti, se e' vero che la domanda buona non ci da' immediatamente la risposta buona, essa orienta la nostra ricerca nella direzione in cui abbiamo le maggiori probabilita' di trovarla. E questo e' gia' decisivo. Poiche' il fatto di porre la buona domanda e' una condizione necessaria, benche' non sufficiente, per trovare la buona risposta.
Dal momento che la violenza si trova legittimata in nome della ragion di Stato, essa puo' avere libero corso nella storia. E' proprio cio' che la storia ci insegna. Di fronte a tutto quello che la violenza commette di irreparabile quando diventa il mezzo specifico della politica, non e' necessario uscire in riflessioni morali per rifiutarla. E' nell'azione politica stessa che si trovano le ragioni per rifiutarla. E sono ragioni imperative.
Ogni atto di violenza, soprattutto se e' compiuto dal governo, deve essere riconosciuto come un fallimento dell'azione politica nel suo tentativo di controllare le situazioni conflittuali senza ricorrere alla violenza. Il fatto stesso di non aver saputo risolvere un conflitto altrimenti che con la violenza rivela una disfunzione della societa' e non deve essere banalizzato come se facesse parte del suo funzionamento normale. Davanti alla necessita' di ricorrere alla violenza, la cosa urgente non e' giustificarla, ma cercare i mezzi nonviolenti che permetteranno in avvenire di evitare, in tutti i modi possibili, che una tale situazione si ripeta.
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Democrazia e cittadinanza
Si riconosce in generale che la democrazia e' il progetto politico che meglio corrisponde a quello di una societa' di giustizia e di liberta'. Ma il concetto stesso di democrazia si trova affetto da un'ambiguita' fondamentale. Secondo il suo senso etimologico, democrazia significa "governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo", per riprendere l'espressione usata dalla Costituzione francese per definire il principio della Repubblica. Ma la parola democrazia significa ugualmente un governo che rispetti le liberta' e i diritti dell'uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini. Certo, questi due significati non sono in contraddizione, ma per realizzare la democrazia il popolo deve avere in se' l'esigenza etica che fonda l'ideale democratico. La democrazia e' una scommessa sulla saggezza del popolo. Sfortunatamente, la saggezza democratica del popolo non arriva sempre all'appuntamento con l'avvenimento politico. Il popolo puo' diventare una folla, e la passione s'impadronisce di una folla piu' facilmente della ragione.
In realta', la vera democrazia non e' popolare, ma cittadina. La democrazia vuole essere il governo dei cittadini, da parte dei cittadini, per i cittadini. Cio' che fonda la democrazia e' la cittadinanza di ogni donna e di ogni uomo della citta'. E' l'esercizio della cittadinanza che da' all'esistenza dell'individuo la dimensione pubblica. Certo, l'uomo ha bisogno di una vita privata, ma la vita privata degli altri non potrebbe bastargli per diventare se' stesso. Per questo, egli deve arrischiarsi ad uscire di casa e venire sulla pubblica piazza ad incontrare gli altri. L'uomo e' essenzialmente un essere di relazione, capace di unirsi agli altri mediante la parola e l’azione. Egli non accede all'esistenza se non mediante questa relazione fondata sul mutuo riconoscimento e sul rispetto reciproco. Allora diventa possibile costruire una societa' fondata sulla liberta' e l'eguaglianza. La liberta' del cittadino non deve essere definita in via negativa per il fatto che non e' sottomesso a costrizioni abusive del potere politico, ma in via positiva per il fatto che partecipa effettivamente a questo potere. L'ideale democratico implica una "uguale" ripartizione tra tutti i cittadini del potere, dell'avere e del sapere. Questo ideale e' perfetto, ma il suo maggiore inconveniente e' di essere irrealizzabile. Tuttavia, indica una direzione, permette una pedagogia, e crea una dinamica.
Per fondare la cittadinanza, e' importante riferirsi a dei princìpi universali che riconoscano e garantiscano i diritti e le liberta' inalienabili di ogni essere umano. Quando, per fondare la cittadinanza, ci si riferisce a dei criteri particolari, che siano la razza, l'etnia o la religione, la democrazia e' gia' negata. Cosi', infatti, si creano delle divisioni e delle opposizioni tra gli uomini, che rischiano fortemente di degenerare un giorno o l'altro in violenze. La cittadinanza non e' possibile che tra uomini i quali, al di la' di tutte le loro differenze, si riconoscono uguali e pari. Tuttavia, non e' con l'uniformare le culture che bisogna cercare di raggiungere l'universalita', ma con la loro convergenza. Ogni cultura tende ad affermare la propria superiorita' sulle altre, e ad arrogarsi i privilegi dell'universalita'. Il concetto di "cultura universale" e' totalitario, perche' giustifica la conquista, la guerra e il dominio. Non e' una cultura che presenta i caratteri dell'universalita', ma l'etica politica che fonda il rispetto dell'uomo, cioe' il rispetto dell'altro nella sua singolarita'.
Se riflettiamo sulla universalita' della bellezza, noi possiamo meglio comprendere l'universalita' della verita'. La verita', come la bellezza, deve rivolgersi alla liberta' dell'uomo, senza mai voler imporsi con la costrizione. La verita', come la bellezza, deve riconciliare l'uomo con se' stesso, aprendo cosi' la via alla riconciliazione di tutti gli uomini tra loro. L'universalita' dell'etica, che fonda la saggezza dell'uomo ragionevole, presenta cosi' una profonda analogia con l'universalita' dell'arte. L'arte arriva a trascendere la cultura in cui nasce, proprio mentre esprime la sua singolarita'. L'arte raggiunge l'universale, mentre nessuna opera d'arte e' simile ad un'altra. Attraverso forme differenti legate alle differenze delle culture, l'arte – che si tratti di poesia, letteratura, musica o pittura – raggiunge un significato che parla ad ogni essere umano. In ogni cultura, l'arte esprime gli stessi interrogativi sul destino dell'uomo, e, attraverso di essi, sono le stesse ricerche e istanze quelle che essa formula. Cosi' l'etica deve arrivare a esprimere l'universale umano.
In realta', il popolo non si esprime e non decide niente. Sono soltanto i cittadini che possono esprimersi ed e' una minoranza di loro che decide. Ma questa decisione non e' democratica che nella misura in cui risulta da una larga discussione pubblica a cui tutti possano partecipare. Ora, nelle democrazie rappresentative, la parola dei cittadini ha qualche importanza soltanto al momento delle elezioni e, eventualmente, dei referendum. Lo spazio pubblico in cui il cittadino esercita il suo diritto di parola tende a ridursi alle dimensioni della cabina elettorale. Se l'essenza della democrazia e' la discussione pubblica, allora niente e' meno democratico di una societa' in cui il cittadino non ha realmente altra possibilita' di esprimersi che nel chiuso di quella cabina. Evidentemente, non intendiamo disconoscere il ruolo decisivo dell'organizzazione di libere elezioni nella lunga marcia dei popoli verso la loro liberazione dalle tirannie e dai dispotismi. Quello che vogliamo sottolineare e' che, se delle elezioni libere sono necessarie alla democrazia, esse non le sono sufficienti. La partecipazione dei cittadini alle elezioni non potrebbe bastare per dire che essi partecipano alla res-publica, cioe' che prendono effettivamente parte alle decisioni che orientano il corso degli affari pubblici. Votando, il cittadino non esercita il suo potere, ma lo delega a un rappresentante sul quale non potra' esercitare alcun controllo fino alla prossima elezione. Votando, il cittadino non esprime la sua voce, ma la consegna a uno di quelli che gliela reclamano rumorosamente. Non e' affatto in questione il principio della delega – necessaria dal momento che la democrazia diretta non e' possibile – ma le sue modalita' pratiche, che la fanno somigliare a un abbandono di potere.
In definitiva, il vanto della democrazia di permettere ai cittadini di governare e' largamente illusorio e ingannevole. Non e' vero che in un regime democratico i cittadini prendono parte direttamente alle decisioni del potere politico. Secondo il filosofo di origine austriaca Karl Popper, l'idea che la democrazia sarebbe "il potere del popolo" e' pericolosa. Infatti, in realta', "ognuno dei membri del popolo sa benissimo che non comanda affatto e ha dunque l'impressione che la democrazia sia una frode" (18). Dunque Popper ritiene che la democrazia debba essere meno pretenziosa: il suo obiettivo non deve essere di dare il potere al popolo, ma di evitare che il potere diventi tirannico e privi il popolo della sua liberta'. In altre parole, "la democrazia e' un modo di preservare lo Stato di diritto" (19). Per Karl Popper, la questione centrale della democrazia non e' tanto il potere quanto la limitazione del potere: "L'essenziale – egli afferma – e' che il governo non abbia troppo potere" (20). Egli vuole uno Stato, ma ne vuole il meno possibile: vuole uno "Stato minimale" (21).
Le democrazie non permettono al popolo di esercitare il potere, ma riconoscono ai cittadini il diritto di controllare il potere. L'essenziale e' che i cittadini possano deporre il governo quando stimano che la sua politica e' contraria agli interessi della comunita', e specialmente quando non rispetta lo Stato di diritto. Per definire la democrazia, dunque, Karl Popper scarta l'idea di "potere da parte del popolo" e la sostituisce con l'idea di "giudizio da parte del popolo" (22). "Noi non possiamo tutti governare e dirigere, ma noi possiamo tutti giudicare il governo, possiamo esercitare il ruolo di giurati" (23). Tuttavia, il giudizio dei giurati che sono i cittadini e' anch'esso fallibile e non puo' costituire una garanzia assoluta contro la violazione dei diritti della persona da parte del governo. I giurati possono lasciarsi sedurre dalle "ideologie alla moda che sono quasi sempre di una stupidita' infinita e prendono immancabilmente il falso per il vero" (24). Per questo, Karl Popper pensa che il compito piu' importante e' sviluppare tra i cittadini una cultura della nonviolenza, che miri ad eliminare la violenza dagli spiriti e dalle intelligenze.
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Il numero e il diritto
La democrazia pretende di fondare la sua legittimita' sulla legge del numero. Ma questa puo' non corrispondere al rispetto del diritto. Il principio di maggioranza non garantisce il rispetto dell'esigenza etica che fonda la democrazia. La dittatura del numero puo' essere piu' implacabile della tirannia di uno solo. Le forze antidemocratiche si sono sempre appoggiate sulla regola della maggioranza per tentare di imporre il loro potere all'insieme della societa'. Che cosa deve succedere quando la volonta' del maggior numero, cioe' "la volonta' del popolo", si oppone alla giustizia? Per il cittadino democratico non puo' esserci dubbio: l'esigenza etica deve valere piu' della volonta' della maggioranza, il diritto deve prevalere contro il numero. In una vera democrazia, il rispetto del diritto e' infinitamente piu' cogente del rispetto del suffragio universale.
La cittadinanza non puo' essere fondata sulla disciplina collettiva di tutti, ma sulla responsabilita' e dunque sull'autonomia personale di ciascuno. In nome della sua coscienza, ogni cittadino puo' e deve opporsi alla legge di maggioranza quando questa produce una chiara ingiustizia. Esiste cosi' un civismo del dissenso, una dissidenza civica, che, in nome dell'ideale democratico, rifiuta di piegarsi alla legge della maggioranza.
Cio' che garantisce la democrazia non e' uno Stato forte, ma lo Stato di diritto. Questo non e' costituito dai valori della democrazia, ma dalle istituzioni della democrazia, che incarnano e storicizzano quei valori. Lo Stato di diritto e' un equilibrio istituzionale fragile che rischia sempre di venire rotto. Le minacce che pesano sull'ordine democratico sono generate anzitutto da delle ideologie fondate sulla discriminazione e l'esclusione. Che si tratti del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia, dell'integrismo religioso o del liberalismo economico esclusivamente fondato sulla ricerca del profitto, sono queste ideologie che minacciano la democrazia. Dunque, promuovere e difendere la democrazia – questi due passi si rafforzano l'un l'altro e devono essere intrapresi insieme – vuol dire anzitutto lottare contro queste ideologie i cui germi proliferano tanto all'interno che all'esterno della societa'. Queste ideologie, infatti, non conoscono frontiere.
Le ideologie antidemocratiche sono tutte legate all'ideologia della violenza. Non esitano mai a proclamare che la violenza e' necessaria e legittima quando e' messa al loro servizio. Per questo, in definitiva, la minaccia contro la democrazia e' sempre quella della violenza e, di conseguenza, la difesa della democrazia e' sempre una lotta contro la violenza. Ma non e' possibile respingere efficacemente le ideologie antidemocratiche che affermano la legittimita' della violenza a servizio della loro causa, se non opponendo loro la filosofia politica della nonviolenza come fondamento della democrazia.
Le minacce che pesano sulla democrazia non si esprimono soltanto con la diffusione di idee perverse in grado di minare i principi della democrazia, ma si manifestano anche e soprattutto con l'organizzazione di azioni che mirano a destabilizzare le istituzioni democratiche. La lotta contro queste ideologie non puo' ridursi a un dibattito di idee, ma deve essere una vera lotta. Tocca dunque a tutti i cittadini che restano attaccati alla democrazia mobilitarsi, riunirsi, e organizzarsi per resistere. Ma, inoltre, e' essenziale che i mezzi della lotta per difendere la democrazia siano coerenti con i valori e i principi della democrazia stessa, cioe' siano mezzi nonviolenti.
Le grandi violenze della storia – le guerre, i massacri e i genocidi – non sono naturali ne' spontanee, ma sono state pensate e organizzate. Gli odi e le passioni che le hanno accompagnate sono stati generati da propagande ideologiche e costruzioni politiche. L'insorgere dell'irrazionale, che ha orientato il comportamento degli individui verso l'omicidio, e' stato armato da costruzioni razionali. E' dovuto al fatto che nessuna forza politica e' stata in grado di opporsi per tempo a queste costruzioni, che cio' e' diventato inevitabile ed e' arrivato a creare l'irreparabile.
Le ideologie fondate sulla discriminazione e l'esclusione prosperano sul terreno fertile delle emozioni e delle passioni che orientano i comportamenti collettivi degli uomini. Il razzismo, la xenofobia e, piu' generalmente, ogni atteggiamento di odio verso altri, non poggiano soltanto su idee false, ma altrettanto su un insieme di paure e di sofferenze. Per combattere efficacemente quelle idee bisogna nello stesso tempo comprendere quelle paure e quelle sofferenze e sforzarsi di guarirle. Sotto questo aspetto, l'azione nonviolenta si presenta come una terapia collettiva.
Ogni filosofia politica, ogni progetto di societa' e ogni strategia di lotta che non tenessero conto dei fattori irrazionali e affettivi che intervengono potentemente nelle relazioni umane sarebbero votati al fallimento. Quando la passione e' la spinta principale dei comportamenti collettivi non basta, per pacificare la vita sociale e politica, rivolgersi agli individui con degli argomenti logici e razionali. Non che sia inutile appellarsi alla ragione, ma la migliore delle filosofie non puo' dispensare dall'appoggiarsi sui contributi della psicologia sociale che possono aiutare gli individui a rendersi piu' ragionevoli. Di fronte a una patologia sociale che infetta, certo, gli individui, ma in quanto membri di un gruppo determinato, conviene cercare di mettere in opera quello che Charles Rojzman chiama una "terapia sociale" (25). Si tratta di un metodo di intervento che mira a formare gli individui allo "spirito democratico". "Questa formazione – precisa Charles Rojzman – deve essenzialmente poggiare su una diagnosi riguardante i bisogni, i desideri, le paure e gli odi degli individui, dei gruppi e delle istituzioni e su un trattamento terapeutico che, per sua natura, non puo' che indirizzarsi a degli individui. Una nuova educazione civica dovra' insegnarci a conoscere questi bisogni, queste emozioni, queste passioni e darci degli strumenti per regolarle" (26).
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Note
1. Aristotele, La Politica, 1253, a 1; Etica Nicomachea, 1, 1169, b 18.
2. Ibidem, 1253, a 5.
3. Ibidem, 1252, b 25.
4. Ibidem, 1328, a 35.
5. Ibidem, 1291, b 35.
6. Ibidem, 1279, a 5.
7. Ibidem, 1287, a 15.
8. Ibidem, 1271, a 10.
9. Ibidem, 1328, b 5.
10. Hannah Arendt, La crise de la culture, Paris, Gallimard, 1992, Folio-Essais, p. 11.
11. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence, Paris, Calmann-Levy, 1972, p. 153. Questa affermazione corrisponde letteralmente a quella che si trova in On Violence, Harcourt Brice & Company, 1970, nella traduzione italiana di Savino D'Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996, p. 40.
12. Ibidem, p.166; tr. it. Sulla violenza cit., p. 51 e 48.
13. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, Paris, Calmann-Levy, 1992, Presses Pocket, p. 64; edizione originale The Human Condition, The University of Chicago, 1958; tr. it. di Sergio Finzi, Vita activa. La condizione umana, Bompiani 1998, p. 20.
14. Hannah Arendt, Essai sur la revolution, Paris, Gallimard, 1985, coll. Tel. P. 21-22; edizione originale On Revolution (1963); tr. it. Sulla rivoluzione, Comunita' 1983.
15. Hannah Arendt, Condition de l'homme moderne, op. cit. p. 260; tr. it. cit.
16. Hannah Arendt, Du mensonge a' la violence, op. cit., p. 93.
17. Jean Duvignaud, "Violence et societe'", in Raison presente, n. 54, 1980, p.7.
18. Karl Popper, La leçon de ce siecle, Paris, Anatolia, 1993, p. 131; tr. it. La lezione di questo secolo, Venezia 1992.
19. Ibidem, p. 190.
20. Ibidem, p. 106.
21. Ibidem, p. 114.
22. Ibidem, p. 108.
23. Ibidem, p. 133.
24. Ibidem, p. 142.
25. Charles Rojzman, La peur, la haine et la democratie, Paris, Desclee de Brouwer, 1992, p. 35.
26. Ibidem, p. 43-44.
(Parte prima - segue)
5. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...
... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.
6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Luciano Dottarelli, Maneggiare assoluti. Immanuel Kant, Primo Levi e altri maestri, Il Prato, Saonara (Pd) 2012, pp. 96, euro 15.
*
Riedizioni
- Alison Morgan, Dante e l'aldila' medievale, Salerno, Roma 2012, Rcs, Milano 2021, pp. 352, euro 7,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
8. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4114 del 24 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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