[Nonviolenza] Telegrammi. 4113



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4113 del 23 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. I morti
2. Jean-Marie Muller: Lo Stato come violenza istituzionalizzata
3. Ripetiamo ancora una volta...
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. SCORCIATOIE. I MORTI

I morti restano morti.
Tutto e' stato tolto loro con la vita, tutto.
Nessun altro bene vale una vita.

La regola aurea dell'umanita'
la legge che tutte le leggi fonda
questo dice e nient'altro:
tu non uccidere.

Tu non uccidere
tu salva le vite.

L'altro dell'altro sei tu
siamo una sola umanita'.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe
solo la nonviolenza riconosce e invera l'umanita' dell'umanita'
ogni persona  e' l'umanita' intera
ogni persona e' un valore infinito
chi salva una vita salva il mondo
sii tu l'umanita' come dovrebbe essere.

2. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: LO STATO COME VIOLENZA ISTITUZIONALIZZATA
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo settimo: "Lo Stato come violenza istituzionalizzata" (pp. 141-155). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.serenoregis.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

Lo Stato e' costituito dall'insieme dalle istituzioni politiche, amministrative, giudiziarie, di polizia e militari che organizzano i poteri e servizi pubblici. La missione specifica dello Stato e' stabilire, mantenere e, se e' il caso, ristabilire la pace civile allo scopo di garantire la sicurezza dei cittadini. L'ordine pubblico non puo' risultare che da una organizzazione costrittiva della societa' che poggia su degli obblighi e dei divieti. Lo Stato esercita un potere di costrizione. In effetti, sarebbe illusorio pretendere di gestire una societa' ricorrendo solo a mezzi di persuasione; in caso di necessita', dei mezzi di costrizione devono poter obbligare gli individui a rispettare il "contratto sociale" che fonda l'ordine e la coesione della citta'.
Esiste un diritto e un dovere di difesa della societa' contro quelli che turbano l'’ordine pubblico. Una societa' di diritto non puo' fare a meno di una giustizia e di una polizia istituzionalizzate, capaci di "mettere in condizioni di non nuocere", cioe' di neutralizzare mediante la "forza pubblica", gli individui e i gruppi che mettono in pericolo la pace civile. Non si potrebbe dunque organizzare una societa' giusta e libera senza riconoscere la legittimita' dell'obbligo della legge e della costrizione della giustizia.
Ma allora si pone una questione il cui peso politico e' decisivo: se la costrizione sociale e l'uso della "forza pubblica" sono necessarie per assicurare la pace civile, quali sono i mezzi legittimi di questa costrizione? Gli Stati rispondono a questo problema rivendicando per se' il monopolio della violenza legittima. "Lo Stato moderno - scrive Max Weber - e' un gruppo di dominio con carattere istituzionale che ha cercato [con successo] di monopolizzare, nei limiti di un territorio, la violenza fisica legittima come mezzo di dominio e che, a questo scopo, ha riunito nelle mani dei dirigenti i mezzi materiali di gestione" (1).
Certo, la costrizione legale (definita dal diritto penale), che puo' implicare la violenza fisica, non e' l'unico mezzo al quale lo Stato ricorre per organizzare la societa'. Lo Stato tuttavia compie raramente un'opera di persuasione; esso ricerca la dissuasione e questa implica una minaccia, che e' gia' una costrizione. Cosi' la costrizione e, come ultima risorsa, la violenza, sono proprio i mezzi specifici dello Stato. Esiste una relazione organica tra lo Stato e la violenza. Questo legame e' irriducibile, e' costitutivo dello Stato.
"Si chiama Stato - afferma Nietzsche - il piu' gelido di tutti i gelidi mostri. Esso e' gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: "Io, lo Stato, sono il Popolo"" (2). In effetti, e' il concetto di popolo sovrano che si trova a fondamento di quello di Stato sovrano, ma la sovranita' del popolo e' un concetto totalizzante che porta in germe quello dello Stato totalitario. Di conseguenza, per costruire la democrazia e' importante non soltanto rifiutare la sovranita' dello Stato, ma ugualmente la sovranita' del popolo. Quando Jean-Jacques Rousseau, la cui influenza fu determinante sulla dottrina dello Stato elaborata dai regimi usciti dalla rivoluzione del 1789, afferma che le clausole del "contratto sociale" "si riducono tutte a una sola, cioe' l'alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunita'" (3), egli fonda la dittatura della "comunita'" su "ogni associato". Rousseau e' proprio "il profeta dello Stato dottrinario" che Bakunin vedeva in lui (4). Jacques Maritain, la cui ispirazione filosofica non attinge alle stesse sorgenti di quella di Bakunin, da' lo stesso giudizio: "Rousseau, che non era un democratico, ha introdotto nelle nascenti democrazie moderne una nozione della Sovranita' che era distruttrice della democrazia e tendeva verso lo Stato totalitario. [...] Se vogliamo pensare in un modo consistente in materia di filosofia politica, dobbiamo respingere il concetto di Sovranita' che fa una cosa sola col concetto di Assolutismo" (5).
Cosi' la sovranita' del popolo e' piu' una minaccia che una garanzia per la liberta' del cittadino: essa implica che egli rinunci alla sua autonomia per sottomettersi ad una pretesa "volonta' generale", che puo' obbligarlo a morire sacrificandosi per "l'interesse generale". "E' un principio di tutti i governi – scrive dolorosamente Jean Guehenno - che un soldato deve essere docile e disposto facilmente ad uccidere" (6). E' in effetti nell'organizzazione del servizio militare che la presa dello Stato sul cittadino si manifesta con la piu' grande forza. E' significativo che la coscrizione obbligatoria e il suffragio universale siano state stabilite nello stesso tempo nelle societa' moderne. "Come un contagio - osserva Taine alla fine del XIX secolo - la coscrizione si e' propagata da uno Stato all'altro; oggi essa ha conquistato tutta l'Europa continentale, e vi regna col compagno naturale che sempre la precede o la segue, con il suo fratello gemello, il suffragio universale, ciascuno dei due piu' o meno incompleto o mascherato, tutt'e due conduttori o regolatori ciechi e formidabili della storia futura, uno mettendo nelle mani di ogni adulto una scheda di voto, l'altro mettendo sulla schiena di ogni adulto uno zaino da soldato" (7). Tutto e' avvenuto come se lo Stato avesse stabilito una convenzione con i cittadini scambiando con loro il diritto elettorale contro il dovere militare. Ma, come ha sottolineato Georges Bernanos, e' lo Stato che ne e' risultato il principale beneficiario: "La coscrizione obbligatoria era per lo Stato un beneficio reale, concreto. Invece, il diritto di voto, nelle mani dell'individuo destituito e diventato proprieta' della nazione allo stesso titolo di tutto il resto del materiale di guerra, non era molto piu' che una illusione" (8). Bernanos afferma che questa convenzione fu per i cittadini un mercato dei gonzi: "I Francesi volevano la liberta', la volevano con tutto il loro cuore, la volevano per tutto il mondo. Hanno creduto che, chiamati ad eleggere i loro padroni, fossero padroni dello Stato e che, da quel momento, fortificando lo Stato essi fortificassero se stessi. [...] Il suffragio universale non fa gli uomini piu' liberi di quanto la lotteria li faccia ricchi. Quello che rende liberi i popoli, e' lo spirito di liberta'" (9). Lo Stato, in effetti, si e' molto piu' preoccupato di costringere gli  individui a fare i loro doveri di soldato che di obbligare se stesso a rispettare i loro diritti di cittadino. "Tra molte imprese - ironizza Bernanos - la democrazia non e' mai riuscita a condurre a buon fine altro che l'istituzione della guerra democratica. Il governo di tutti da parte di tutti resta nelle nuvole dell'avvenire, ma la guerra di tutti fatta da tutti, questa, voi non l'avete fallita. [...] La guerra di tutti e' incompatibile col governo di tutti ed e' a questo punto che la guerra democratica resta l'affare delle dittature e particolarmente di questa forma essenziale di dittatura che e' la dittatura delle coscienze" (10).
Per evitare la trappola totalitaria conviene rifiutare con forza ogni concezione organica della societa', nella quale la funzione di ogni individuo si trova definita secondo i bisogni della collettivita'. Allora, la persona non esiste piu' da e per se' stessa ma da e per la societa'; essa dev'essere sottomessa alle leggi che regolano il buon funzionamento del corpo sociale. L'ordine, l'armonia e l'unita' del tutto giustificano la sottomissione di tutti. Colui che rifiuta di sottomettersi dev'essere eliminato per evitare ogni contagio. Una tale concezione della societa', che ha ispirato tante e tante dottrine politiche, da' alla societa' tutti i diritti e all'uomo tutti i doveri. Essa distrugge ogni autonomia della persona e non lascia sussistere che il potere dello Stato monolitico. "E' l'uomo – afferma Nicolaj Berdjaev – che e' un organismo di cui la societa' e' un organo, e non il contrario" (11).
L'ideologia dell'unita', che e' allo stesso tempo l'ideologia della totalita', genera naturalmente un'ideologia della potenza, del dominio e della violenza. L'uomo di Stato o, piu' precisamente, l'uomo dello Stato, e' ossessionato dall'unita' del tutto e arriva cosi' all'ossessione del violento. "Per il violento – scrive Roland Sublon – tutto viene dall'Uno e tutto deve tornare all'Uno" (12). Sublon riflette sul significato del mito di Narciso, del suo rapporto con il potere e la violenza. Narciso e' il giovane della leggenda greca che, disprezzando gli altri, non e' capace di innamorarsi che della propria immagine: "E' Lui o niente, e lui e' Tutto; l'altro, nel caso migliore, e' il nemico" (13). L'uomo al potere resiste poco alla tentazione di diventare simile a Narciso. Egli non ama che se stesso, non ascolta che la propria verita' e, per conseguenza, non esita a usare violenza verso chiunque non lo ama e non si sottomette alla sua verita'. "Fate che una alterita' appaia da qualche parte e la violenza nascosta divampa in piena luce. Ecco che sono messe in moto le manovre che mirano a riportare tutto ad un punto, e le strategie che dispiegano la loro opera di riduzione. Bisogna ridurre l'altro, bisogna cancellare le differenze, mettere la museruola alla parola, ricondurre quelli che sbagliano, rieducare quelli che s'ingannano, sopprimere i guastafeste. Narciso cambia, il suo sorriso seduttore si trasforma in ghigno. Tira fuori dai suoi cassetti manette e bavagli, drizza i suoi cavalletti di tortura e non si ferma prima che la venga la Verita', per un istante messa in questione. Il violento difende l'Eguaglianza e la Fraternita', corre dietro al Medesimo, ma e' la morte che l'ossessiona" (14).
Il numero Uno e' il simbolo della violenza, e il numero Tre simboleggia la nonviolenza. In altre parole, la violenza e' il trionfo dell'Uno, mentre la Nonviolenza e' l'unione dei Tre. Il numero Due, che esprime il faccia-a-faccia di due individui che rischiano di non coniugare altro che i loro individualismi, e' troppo povero per simboleggiare una vera unione.
Una societa' di liberta' e' plurale; solo una societa' totalitaria e' una. Moisei Ostrogorski afferma che il principio vitale del nuovo ordine politico instaurato dalla rivoluzione democratica e' "il principio dell'unione sostituito a quello dell'unita'" (15). "Ne' nella sfera religiosa – egli scrive - ne' nella societa', ne' nello Stato, e' piu' possibile l'unita' dopo che si e' aperta l'era della liberta', dove le idee e gli interessi cercano di affermarsi in tutta la loro varieta'. Elementi sociali diversi non possono essere mantenuti nell'unita' che per mezzo della tirannia, che sia quella armata di gladio o quella morale iniziata con la teocrazia e continuata sotto la forma delle convenzioni sociali" (16). Dunque, per evitare che la tirannia giunga a fare scomparire questa varieta' delle idee e degli interessi, bisogna permettere ai disaccordi e ai conflitti di esprimersi. Il compito del potere politico e' di gestire i conflitti e non di sopprimerli. La democrazia e' conflittuale perche' il conflitto permette il riconoscimento e il rispetto delle differenze.
Il fondamento di un governo democratico non e' la volonta' generale del popolo definita come un'entita' immutabile che esercita un potere assoluto sugli individui, bensi' l'accordo a cui pervengono i cittadini attraverso il libero confronto delle loro volonta' particolari. Questo accordo non puo' essere ottenuto su ogni cosa e una volta per sempre; per sua natura, si trova incessantemente rimesso in causa e deve rinnovarsi continuamente secondo l'evoluzione dei fatti e delle idee. Inoltre, con ogni probabilita', su ogni questione dibattuta l'accordo realizzato non sara' che quello di una maggioranza. Ancora, questo accordo parziale non deve porre un termine al dibattito; quelli che si trovano fuori da questa maggioranza devono conservare tutta la liberta' di continuare a far valere le loro idee. Non si tratta, d'altra parte, di ricercare una maggioranza di idee che avrebbe, per tutto il tempo di un mandato, ogni potere di decidere su ogni questione – cio' che sarebbe ancora volere imporre una unita' di facciata all'insieme dei cittadini – ma di ricercare delle maggioranze di idee su ogni questione da dibattere. Il contratto sociale originario deve garantire la possibilita' effettiva di produrre piu' contratti sociali differenziati, cioe' – come sottolinea Ostrogorski – esso deve stabilire che "i membri della societa', tutti uguali in linea di diritto, non useranno la forza nelle loro relazioni, ma negozieranno un'intesa ogni volta che la vita sociale avra' sollevato un problema d'interesse comune, e che l'intesa raggiunta avra' valore di legge" (17). Certo, l'unione contrattuale e' piu' difficile dell'unita' forzata, ma la democrazia poggia precisamente sul rispetto di questa difficolta' e sul rifiuto di sopprimerla con il ricorso alla violenza.
Lo Stato fonda la legittimita' della propria violenza sulla necessita' di opporsi efficacemente alla violenza degli individui e dei gruppi sociali che turbano l'ordine pubblico. Certo, esistono situazioni limite in cui si rivela difficile, o anche impossibile, ristabilire l'ordine pubblico senza ricorrere alla violenza. Ma si fa subire al pensiero politico una grave distorsione se si prende pretesto da questi casi limite in cui la violenza puo' essere necessaria, per costruire una dottrina che conferisce allo Stato il diritto di ricorrere normalmente alla violenza fisica per assicurare la pace civile. Dal momento che i cittadini hanno concesso una volta per tutte allo Stato il diritto di ricorrere alla violenza per mantenere l'ordine pubblico, sara' facile per lo Stato invocare questo diritto per difendere la sua propria "sicurezza" contro i cittadini nell'esercizio della loro funzione. Superata questa soglia – e la storia ci mostra che non e' affatto un'ipotesi scolastica – lo Stato non costituisce piu' una garanzia per la sicurezza dei cittadini, ma una minaccia per essa. Poiche' l'ordine  statale tende a normalizzare anche le opinioni, lo Stato e' continuamente tentato di criminalizzare la dissidenza e di reprimerla come un delitto. La storia ufficiale dello Stato, come quella della guerra, e' scritta dai sopravvissuti e dai vincitori. Essa fa rientrare in un calcolo di costi e benefici le vittime innocenti dello Stato che si trovano condannate all'anonimato e all'oblio.
Ogni societa', tuttavia, deve dotarsi di una polizia incaricata di "mantenere l'ordine" e "far rispettare le leggi". La parola "polizia" ha la stessa etimologia della parola "politica" e si collega al governo della "citta'/polis". Lo scopo dell'azione della polizia, come quello dell'azione politica, e' di pacificare la vita sociale, cioe' di costruire una societa' libera dal dominio della violenza. Funzione della polizia e' di concorrere a garantire le liberta' dei cittadini, a far rispettare i loro diritti e ad assicurare la loro sicurezza. Letteralmente, i poliziotti devono essere "agenti di pace", cioe' devono "fare la pace" fra gli individui e i gruppi che vivono nella stessa citta'. La polizia ha per compito essenziale di prevenire e, se del caso, risolvere i conflitti ricorrendo ai metodi nonviolenti di interposizione, di mediazione e di riconciliazione.
La polizia puo' essere condotta dagli eventi a dover usare metodi di "incarcerazione per debiti" – nel senso letterale del termine - al fine di neutralizzare dei promotori di violenza e metterli in condizione di non nuocere. Esistono situazioni particolari in cui e' difficile, o addirittura impossibile, neutralizzare, senza ricorrere alla violenza, uno o piu' individui armati che minacciano la vita altrui. Tuttavia, anche in quelle circostanze, tutto dev'essere tentato per disarmare e catturare il o i malfattori evitando di ferirli o ucciderli. Se, malgrado tutto, c'e' la morte di un uomo per opera della polizia, si tratta di uno scacco che proibisce ogni "comunicato di vittoria". Se la polizia fallisce nel ristabilire la pace sociale senza utilizzare la violenza omicida, la societa' tutta intera condivide la responsabilita' di questo scacco. Una democrazia comincia a negare se' stessa quando rifiuta di riconoscere la propria violenza come uno scacco. Converrebbe domandarsi se non sarebbe possibile istituire un rito pubblico, nel corso del quale, ogni volta che l'uso della forza pubblica abbia causato la morte di un uomo, un rappresentante della Repubblica (per esempio il prefetto) riconoscesse che l'esercizio della violenza mortale, anche se e' stata necessaria, e' sempre un dramma, una disgrazia, uno scacco e deve essere pertanto vissuta in atteggiamento di "lutto".
L'esistenza di casi limite, in cui s'impone la necessita' di ricorrere alla violenza, non puo' servire di pretesto per riabilitare la violenza come mezzo abituale per assicurare l'ordine pubblico e ristabilire la pace sociale. Perche' l'eccezione non diventi la regola, ma venga piuttosto a confermarla, bisogna essere ancora piu' rigorosi nel rispetto di quest'ultima. E la regola deve essere la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
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La violenza del sistema penale
Una delle funzioni rivendicate dallo Stato, in nome della legittima difesa dei cittadini, e' di arrestare, giudicare e condannare coloro che hanno disobbedito alla legge e attentato all'ordine pubblico. Ma, al tempo stesso, lo Stato rivendica il diritto di ricorrere esso stesso alla violenza per punire la violenza. La storia della repressione dei crimini da parte dello Stato e' forse piu' spaventosa che la storia dei crimini. Simone Weil ha denunciato la violenza con la quale lo Stato esegue il proprio compito di giustiziere. Molto spesso – ella afferma -  una condanna pronunciata dall'apparato della giustizia penale e' "un crimine contro l'umanita'" (18): cioe', non si tratta che "della piu' bassa vendetta" (19). Sotto pretesto di disprezzare il crimine, la societa' disprezza il criminale, che viene schiacciato dalla sventura. L'uomo caduto nella mani dell'apparato penale diventa "agli occhi di tutti e ai suoi stessi occhi, una cosa vile, un oggetto di rifiuto" (20).
Secondo Simone Weil, una delle piu' gravi disfunzioni della repressione punitiva e' il fatto che essa dimostra la piu' grande severita' verso quelli che la societa' ha sfavorito e la piu' grande indulgenza verso quelli che la societa' ha privilegiato. Una vera giustizia esigerebbe tutto il contrario: "Per le colpe come per i crimini, il grado di impunita' deve aumentare non quando si sale nella scala sociale, ma quando si scende" (21). Cosi', uno dei problemi politici piu' difficili da risolvere e' impedire che "si stabilisca in alto una cospirazione in vista di ottenere l'impunita'" (22). Simone Weil auspica che molti uomini abbiano l'incarico di impedire una tale cospirazione, ma bisognerebbe anche che essi fossero abbastanza integri per non essere tentati di farne essi stessi parte.
In una societa' teocratica dove la legge penale si ispira ad una legge religiosa, dove i tribunali degli uomini pretendono di emettere il giudizio stesso di un dio giustiziere, la sanzione vuol essere un castigo inflitto al colpevole in espiazione della sua colpa, e la storia delle religioni ci mostra fino a quali crudelta' possono condurre tali principi. Nella sua enciclica Evangelium vitae, Karol Wojtyla si attiene ad una tale concezione espiatoria della giustizia, quando scrive: "I poteri pubblici devono essere severi con la violazione dei diritti personali e sociali, attraverso l'imposizione al colpevole di una espiazione adeguata alla colpa, condizione richiesta per essere riammessi a godere la liberta'. In questo senso, l'autorita' raggiunge anche l'obiettivo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (23). In una societa' democratica, e quindi laica, i poteri pubblici non devono avere altro obbiettivo che "difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone". La funzione della giustizia non e' punire una colpa, ma giudicare un delitto, non e' castigare un colpevole, ma mettere in condizione di non nuocere un uomo pericoloso. La sanzione penale non deve dunque comportare alcun castigo, alcuna violenza corporale verso il delinquente. Ora, la prigione, cosi' come e' ancora nelle nostre societa', resta un castigo corporale che, da lungo tempo, avrebbe dovuto essere abolito dalla democrazia (la prigione non e' forse ancora considerata come un "penitenziario", cioe' a rigor di termine, come in un luogo che si fa penitenza?).
La sanzione penale che priva il delinquente della sua liberta' detenendolo in prigione, ha la finalita' di prevenire nuovi delitti, da una parte impedendo la recidiva del delinquente e, dall'altra parte, dissuadendo i potenziali delinquenti di passare all'atto. La societa' ha in effetti il diritto e il dovere di esercitare verso gli individui che turbano l'ordine pubblico una costrizione legale - letteralmente una "incarcerazione per debiti" - che neutralizzi la loro capacita' di nocivita' sociale. Non e' possibile organizzare una societa' di diritto senza definire dei delitti e senza stabilire delle sanzioni. Ma, nello stesso momento che la sanzione penale deve permettere alla societa' di difendersi, essa deve permettere al delinquente di reinserirsi nella societa'. Se il delinquente perde alcuni dei suoi diritti nella societa', questa non perde alcuno dei suoi doveri a suo riguardo. Non si tratta di dibattere per sapere se il delinquente merita di essere trattato con umanita'; la societa' ha il dovere verso se' stessa di trattarlo con umanita'. Alla inumanita' del delitto deve rispondere l'umanita' della sanzione. Se conviene giudicare il crimine secondo i rigori della giustizia, e' importante trattare il criminale secondo le esigenze della bonta'. Non si tratta di essere indulgenti verso il criminale, ma di essere buoni.
Lo scopo della sanzione, specialmente della detenzione quando questa si rivela necessaria, deve essere il reinserimento del delinquente nella societa', cioe' la sua ri-socializzazione. Ora, tutto concorre a fare della prigione un luogo di esclusione sociale, cioe' di de-socializzazione. Le condizioni della detenzione in prigione hanno molteplici effetti perversi sulla personalita' del prigioniero. Proibendogli ogni comunicazione con altri e privandolo di ogni responsabilita', gli si impongono dei comportamenti regressivi che tendono a disintegrare la sua persona. La prigione e' una struttura inumana che disumanizza il detenuto. Quando sara' rimesso in liberta', avra' le piu' grandi difficolta' a ritrovare il suo posto nella societa'. E' un fatto debitamente provato da tutte le inchieste e verificato da tutte le statistiche: la prigione e' una scuola di recidiva. E' dimostrato che la sanzione carceraria non ha sul delinquente l'effetto dissuasivo ricercato. Del resto, e' abbastanza naturale che la prigione impressioni soprattutto quelli che non sono per nulla tentati dalla delinquenza. Allora, se e' incontestabile che l'incarcerazione dei "piccoli delinquenti" non fa che aumentare le probabilita' di recidiva, perche' i tribunali continuano a mandarli in prigione? Certo, essi applicano le leggi, ma non sono forse liberi dalla loro giurisprudenza? Tutto avviene in realta' come se i giudici stessi fossero prigionieri dell'ideologia carceraria e temessero l'accusa di lassismo che l'opinione pubblica e' pronta a lanciare contro di loro.
Davanti allo scacco manifesto della repressione carceraria della delinquenza, la societa' e' sfidata a mettere in opera verso di essa un trattamento sociale. La detenzione non deve essere che l'ultima risorsa quando e' necessario neutralizzare i "grandi delinquenti" la cui pericolosita' sociale e' verificata. Per gli altri, che sono di gran lunga i piu' numerosi, e' certamente possibile evitare l'ingranaggio del sistema penale per mezzo di quella che gli anglosassoni chiamano la "diversione giudiziaria". Si tratta non soltanto di evitare la prigione, ma anche il tribunale mediante la sospensione dell'azione penale. Tocca allora a dei "mediatori" tentare di riconciliare gli autori del delitto con le vittime. Cosi', per le infrazioni contro la proprieta' (furti o danneggiamenti), l'obiettivo da raggiungere e' la restituzione o la riparazione e un indennizzo per i danni causati. Se la mediazione fallisce, l'azione penale diventa necessaria, ma, nel maggior numero dei casi, delle pene che non privano della liberta' - come l'obbligo di compiere dei lavori di interesse pubblico - permettono ancora di evitare l'incarcerazione.
Per quelli la cui detenzione si rivela necessaria, lo scopo ricercato deve rimanere la riabilitazione sociale. Conviene rinunciare alle grandi prigioni di molte centinaia di detenuti. Il solo criterio considerato per organizzare delle simili centrali e' l'efficacia della sorveglianza, e il solo scopo cercato e' evitare l'evasione. In queste condizioni, tutta la vita del detenuto e' sottomessa alla logica della repressione e niente ne prepara il reinserimento sociale. Sarebbe meglio orientarsi verso la realizzazione di piccole unita' che permettano di unire alle misure di sicurezza delle misure di socioterapia. Ma un tale programma implica che i cittadini non abdichino alla loro responsabilita' col domandare allo Stato di fare sparire i delinquenti dietro muri i piu' alti possibile, e che invece accettino di farsi carico del loro reinserimento.
La giustificazione della pena di morte si inscrive nella logica "espiatoria" della giustizia penale. E' notevole che, anche nelle societa' dove la pena di morte e' stata soppressa, l'opinione pubblica le rimane generalmente favorevole. Essa continua a reagire di fronte ai "criminali" secondo la logica che giustifica il castigo supremo e reclama la legge del taglione: "frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente" (24) e dunque "morte per morte". Essa brandisce il rispetto della vittima per esigere l'uccisione dell'assassino. Essa grida vendetta e s'indigna appena le sembra che il criminale benefici di un trattamento di clemenza, cioe' di umanita'. Questa reazione passionale e' animata da un vero desiderio di violenza che fa fallire le proclamazioni "umaniste" della civilta'. Giustificare la pena di morte e' decidere di negare una volta per tutte il carattere trascendente e sacro della vita umana. Se la vita del criminale non e' sacra, la vita dell'uomo non e' sacra affatto.
Non si tratta di tentare di provare che la pena di morte non e' dissuasiva; non si tratta neppure di domandarsi quale pena conviene sostituirle. La pena di morte e' impossibile perche' e' impensabile. Essa e' impensabile, perche' pensare la pena di morte e' accettare l'uccisione di un uomo diventato "in-nocente" cioe', letteralmente, che si trova nell'incapacita' di nuocere. Neppure la necessita', che s'invoca in una situazione di legittima difesa, puo' qui servire di pretesto per accettare di uccidere.
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Mantenere la violenza "fuori legge"
Istituzionalizzando la violenza come mezzo normale (cioe', che serve da norma) e regolare (che serve da regola) di gestire gli inevitabili conflitti che sorgono nel seno della societa', lo Stato da' alla violenza diritto di cittadinanza. Di conseguenza, e' l'insieme dei rapporti sociali che si trova contaminato dalla logica della violenza. In democrazia lo scopo primo della politica e' mettere la violenza fuori legge; ma in quel modo lo Stato va contro questo scopo, mettendo la violenza nella legge.
Certo lo Stato democratico e lo Stato totalitario non presentano lo stesso volto e non meritano lo stesso giudizio. Ma, se il loro rapporto con la violenza e' differente nella pratica, non lo e' veramente nella teoria. Tra la dottrina dello Stato liberale e quella dello Stato totalitario c'e' continuita'. Questa procede da quella; questa dottrina (dello Stato totalitario) prende da quella non soltanto l'essenziale della sua argomentazione, ma anche l'essenziale del suo arsenale tecnico. "Non e' naturale al Potere di essere debole - scrive Bertrand de Jouvenel -. [..] Un uomo, un gruppo, possono allora, impadronendosi del Potere, impiegare le sue leve senza timidezza. [...] La "stanza dei bottoni" era costituita, essi non fanno che servirsene. [...] Gli artigli e le unghie che allora il Potere fa sentire sono spuntate durante la stagione democratica. Esso mobilita la popolazione, ma e' in periodo democratico che e' stato posto il principio dell'obbligo militare. [...] Il Potere poliziesco stesso, che e' l'attributo piu' insopportabile della tirannia, e' cresciuto all'ombra della democrazia" (25). Lo Stato liberale e' esso stesso sotteso da un'ideologia della violenza necessaria e legittima, che porta gia' in se' l'ideologia che servira' allo Stato totalitario per affermare la propria legittimita'. "Il cancro dello Stato - scriveva Emmanuel Mounier nel suo Manifesto al servizio del personalismo, pubblicato nel 1936 - si forma nel seno stesso delle nostre democrazie. [...] Lo statalismo "democratico" scivola nello Stato totalitario come il fiume nel mare" (26). "Ogni Stato centralizzato e sovrano - scrive per parte sua Simone Weil - e' conquistatore e dittatoriale in potenza, e diventa effettivamente tale nella misura in cui crede di averne la forza" (27). La macchina burocratica fabbricata dallo Stato liberale e' sempre pronta a servire un regime totalitario. Le garanzie costituzionali e legali potranno restare; bastera' che esse restino lettera morta. La storia ci mostra spesso che la democrazia e' duramente e durevolmente maltrattata dalle violenze degli agenti dello Stato contro i cittadini, proprio quando essi pretendono di agire per mantenere la pace civile.
La ragion di Stato sceglie troppo spesso di ignorare le ragioni della democrazia. Non e' forse il ministro dell'interno di un governo francese che piu' liberale non si puo', che affermo' in televisione il 26 febbraio 1987: "La democrazia si ferma dove comincia l'interesse dello Stato"? Certo, gli uomini di Stato sono generalmente piu' discreti ma, dicendo questo, il ministro francese, Charles Pasqua, non confessava forse una regola inconfessata della pratica di tutti gli stati? Quando l'ideologia securitaria, in nome delle necessita' dell'ordine, fa lo Stato innocente dei suoi atti di violenza, allora fa nascere la tirannia. L'ideologia della violenza legittima genera e nutre le dottrine dello Stato totalitario. Per combattere queste bisogna cominciare col ricusare quella, fino dal primo momento in cui appare, ovattata e ben intenzionata, nel seno delle dottrine dello Stato democratico. La filosofia politica della nonviolenza rifiuta le dottrine dello Stato in questo, che esse generano da se' stesse un processo di legittimazione ideologica della violenza, cio' che costituisce una minaccia per la democrazia.
La nonviolenza postula una trasformazione profonda e costante dello Stato nella misura stessa in cui essa mira a risolvere i conflitti senza ricorrere alla violenza. Tuttavia, un tale processo non potrebbe condurre alla scomparsa di ogni potere politico di costrizione. Voler costruire una societa' senza governo, senza leggi, senza polizia, senza giustizia, appartiene all'utopia. Una tale societa', se fosse mai istituita, si destrutturerebbe subito sotto l'effetto della forza dissolvente degli individualismi e dei particolarismi. Cosi', il progetto di societa' che si ispira alla filosofia della nonviolenza mira a istituire un potere politico di regolazione, di coordinamento, di mediazione, di arbitrato e, se e' il caso, di costrizione, un potere che sia un "equivalente funzionale" dello Stato, ma che, per il rigore e la chiarezza dei concetti, ci sembra preferibile non chiamare piu' Stato. Un tale potere politico, in effetti, si differenzierebbe profondamente dallo Stato nel rapporto con la violenza. Piuttosto di sopprimere i conflitti con la violenza, si sforzerebbe di assumerli e di risolverli con la nonviolenza. Questo sforzo dovrebbe radicarsi in una volonta' politica tenace e incarnarsi in soluzioni tecniche suscitate da una vigorosa inventiva istituzionale. Queste soluzioni non potrebbero essere trovate in un qualunque manuale teorico, ma dovrebbero essere messe in atto progressivamente attraverso molteplici sperimentazioni sociali, che non sarebbero condotte al margine della societa' ma costituirebbero un investimento istituzionale prioritario.
La nonviolenza politica non potrebbe essere assoluta: essa e' necessariamente relativa, cioe' in relazione agli uomini, alle situazioni, agli eventi. Non si tratta, dunque, di partire dall'idea pura di una societa' perfetta per tentare poi di appiccicarla sulla realta'. Si tratta, a partire dalla realta' delle violenze, di creare una dinamica che punta a limitarle, a ridurle, e, per quanto possibile, ad eliminarle.
Esiste una reazione a catena delle violenze economiche, sociali, culturali, politiche, poliziesche e militari, che e' impossibile interrompere dato che, in uno o l'altro momento di questo processo, la violenza si trova legittimata da un'ideologia. Per rompere la logica della violenza, la sola via e' perseguire una dinamica che inverta il processo di sviluppo violento dei conflitti. E' questa dinamica che la filosofia politica della nonviolenza ci invita a mettere all'opera.
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Note
1. Max Weber, Le savant et le politique, op. cit., p. 108.
2. Friedrich Nietzsche, Ainsi parlait Zarathoustra, op. cit., p. 61; tr. it. Cosi' parlo' Zarathustra, due volumi, versione di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, vol. I, p. 54.
3. Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, Livre I, chapitre VI, "Du pacte social"; tr. it. di Maria Perticone, Il contratto sociale, Mursia, Milano 1965, p. 30.
4. Michail Bakounine, La liberte', Paris, J.-J. Pauvert, 1965, p. 56; tr. it. M. Bakunin, Liberta', uguaglianza, rivoluzione, Antistato, Milano 1976.
5. Jacques Maritain, L'homme et l'Etat, Paris, PUF, 1965, p. 41-43; tr. it. L'uomo e lo Stato, Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 53 e 56; ultima edizione Marietti 2003.
6. Jean Guehenno, La mort des autres, Paris, Grasset, 1968, p. 23.
7. Hippolyte Taine, citato da Bernard de Jouvenel, Du pouvoir, Paris, Hachette, 1977, coll. Le Livre de Poche, p. 30.
8. Georges Bernanos, Le chemin de la Croix-des-ames, Paris, Gallimard, 1948, p. 108.
9. Ibidem.
10. Georges Bernanos, Les enfants humilies, Paris, Gallimard, 1949, p. 62.
11. Nicolas Berdiaeff, De l'esclavage et de la liberte', Paris, Aubier, 1963, p. 121; tr. it. Schiavitu' e liberta' dell'uomo, 1947.
12. Roland Sublon, "Narcisse au service du pouvoir", Cahiers de la reconciliation, fevrier 1979, p. 14.
13. Ibidem, p. 15.
14. Ibidem, p. 15-16.
15. Moisei Ostrogorski, La democratie et les partis politiques, Paris, Le Seuil, 1979, coll. Points, Politique, p. 221.
16. Ibidem, p. 218.
17. Ibidem, p. 226.
18. Simone Weil, Cahiers III, op. cit., p. 319.
19. Simone Weil, Ecrits de Londres, Paris, Gallimard, 1957, p. 41.
20. Simone Weil, Attente de Dieu, op. cit., p. 142.
21. Simone Weil, L'enracinement, op. cit., p. 34.
22. Ibidem.
23. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, par. 56.
24. Levitico, 24, 20.
25. Bertrand de Jouvenel, Du pouvoir, Paris, Librairie Hachette, Le Livre de Poche, coll. "Pluriel", p. 35-36.
26. Emmanuel Mounier, Oeuvres, tome I, 1931-1939, Paris, Le Seuil. 1961, p. 614; tr. it. del Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica Editrice, Bari 1982.
27. Simone Weil, Ecrits historiques et politiques, op. cit., p. 58.

3. REPETITA IUVANT. RIPETIAMO ANCORA UNA VOLTA...

... ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Letture
- Jacopo Rubini, Viterbo 1243 - l'aquila e il leone. L'assedio federiciano nella cronaca del Cardinal Capocci, Sette citta', Viterbo 2021, pp. 212, euro 15.
*
Riedizioni
- Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2007, 2019, pp. 238, euro 18.
- Donatella Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Torino, Bollati Boringhieri, 2014, 2020, pp. 112, euro 13.
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Classici
- Richard Wright, Native Son, Vintage, London 2020, pp. X + 470.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo i siti del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org e www.azionenonviolenta.it ; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4113 del 23 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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