[Nonviolenza] Telegrammi. 4107



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4107 del 17 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Tutti i giusti li ha divorati l'orco
2. Un appello: "Not In Our Names"
3. Nel settimo anniversario della scomparsa di Hedi Vaccaro
4. Jean-Marie Muller: Riflessione sulla violenza (parte prima)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. L'ORA. TUTTI I GIUSTI LI HA DIVORATI L'ORCO

Tutti i giusti li ha divorati l'orco
sopravvivono solo gli assassini
e quelli che assassini diverranno.

Dal cielo piovono pentole di olio bollente
le case basta un soffio e sono polvere.

Fino all'orizzonte tutto e' morte e deserto
carovane di superstiti escono dalle macerie
come fantasmi affamati e sbigottiti
di essere ancora vivi.

Non piove manna ma chiodi e scorpioni
non angeli parlano ma draghi di ferro
tutta l'aria ha consumato il fuoco
tutto il giorno e' diventato notte.

Io vedo tutto questo e sono trasformato
in sacco di spine
in statua di sale.

2. L'ORA. UN APPELLO: "NOT IN OUR NAMES"
[Riceviamo e diffondiamo]

Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani.
In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire Not In Our Names, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunita' ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso.
Abbiamo gia' preso posizione come gruppo quest'estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione.
Diciamo Not In Our Names:
- gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia;
- gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee;
- il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora;
- i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane;
- i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte citta' israeliane;
- il bombardamento su Gaza;
- il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas;
- la riduzione del dibattito a tifo da stadio;
- l'utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele;
- le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani;
- gli eventi di piazza organizzati dalle comunita' ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti;
- la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori;
- qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite.
La situazione attuale rappresenta l'apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l'occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l'embargo contro Gaza incarnano l'intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi.
All'interno delle nostre societa' riteniamo necessaria ogni forma di solidarieta' e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficolta'. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa piu' o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarieta' difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione.
Aliza Fiorentino
Sara De Benedictis
Daniel Damascelli
Bruno Montesano
Teodoro Cohen
Micol Meghnagi
Michael Blanga-Gubbay
Susanna Montesano
Michael Hazan
Beatrice Hirsch
Giorgia Alazraki
Bianca Ambrosio
Alessandro Fishman
Tali Dello Strologo
Giulia Frova
Sara Missio
Alessandro Dayan
Ruben Attias
Keren Strulovitz
Enrico Campelli
Jonathan Misrachi
Yael Pepe
Claudia Pepe
Daniel Disegni
Sara Buda
Dana Portaleone
Ludovico Tesoro
Viola Gabbai
Edoardo Gabbai
Benjamin Fishman
Lorenzo Foa'
Alessandro Foa'
Giulio Ambrosio
Gaia Fiorentino
Joy Arbib
Nathan De Paz Habib
Joel Hazan
Tami Fiano
Emanuel Salmoni
*
Hashtag:
notinmyname
noninmionome
endtheoccupation
stopthewar
savesheikhjarrah
ebreicontrooccupazione

3. MAESTRE. NEL SETTIMO ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA DI HEDI VACCARO

Questo 16 maggio 2021 ricorre il settimo anniversario della scomparsa di Hedi Vaccaro, uno dei volti piu' belli della nonviolenza in Italia.
In questi giorni terribili di stragi insensate che insanguinano il mondo dal Medio Oriente alla Colombia, dalla Birmania ad innumerevoli altri luoghi in cui la violenza dilaga, il ricordo e la testimonianza di Hedi Vaccaro persuadano ogni persona di volonta' buona ed ogni istituto inteso al bene comune dell'umanita' ad un impegno ancor piu' energico e profondo per la pace, per salvare le vite, per la civile convivenza dell'intera umana famiglia in giustizia e solidarieta'.
*
Una minima notizia su Hedi Vaccaro
Hedi Vaccaro (1926-2014) e' stata una delle figure piu' vive e piu' belle della nonviolenza nel nostro paese. Impegnata nel Movimento internazionale della riconciliazione (Mir-Ifor) e in molteplici esperienze di solidarieta' e di educazione e promozione della pace, chiunque si e' impegnato negli scorsi decenni per la pace e la nonviolenza l'ha conosciuta, apprezzata, ammirata, le ha voluto bene e ne serba un grato ricordo; la sua generosita' e la sua gentilezza erano proverbiali, il suo impegno nonviolento nitido e costante, responsabile e accudente verso ogni persona e verso l'intero mondo vivente.
Dalla Wikipedia riprendiamo la seguente breve notizia: "Hedi (Edvige) Frehner coniugata Vaccaro (1926-16 maggio 2014) e' stata un'attivista svizzera naturalizzata italiana. Nata e cresciuta nella famiglia di un commerciante svizzero, al termine della seconda guerra mondiale si impegna nel cristianesimo secondo la confessione evangelica valdese. Mentre studia per la laurea in matematica al Politecnico di Zurigo, comincia a collaborare sia con il Movimento cristiano studentesco sia con il Partito comunista. Tra il 1949 e il 1950 studia e lavora a Parigi, e successivamente ottiene una borsa di studio a Roma, dove conosce Michelangelo Vaccaro (1920-2001), matematico. L'anno seguente i due si sposano e da questa unione nascono i figli Bernardo (1953), Veronica (1955) e Davide (1958). Sono di quel periodo gli incontro con Danilo Dolci, Aldo Capitini, Pietro Pinna, a seguito dei quali Hedi Vaccaro Frehner matura la scelta di impegnarsi per la causa della nonviolenza. Nel 1962 entra a far parte del Movimento Internazionale della Riconciliazione, di cui sara' a lungo segretario nazionale e figura di riferimento. Nel 1992 viene insignita del Premio nazionale Cultura della Pace "per il suo impegno in favore del dialogo ecumenico, e per la ricerca continua e costante di una cultura della pace che vada a creare una societa' piu' giusta e nonviolenta dove il dialogo, anche tra confessioni religiose diverse, sia la base di una reale convivenza civile"".
Dal sito a lei dedicato, www.hedivaccaro.it riprendiamo la seguente scheda: "Hedi Vaccaro (1926 – 2014) e' stata una attivista nonviolenta, ecologista, pacifista, in lotta costante contro le ingiustizie sociali, in difesa degli oppressi, alla continua scoperta delle lotte sociali nonviolente che spontaneamente sorgono in ogni cantone del mondo. Svolse un importante lavoro pedagogico diffondendo la conoscenza della nonviolenza nelle metodologie e nei suoi protagonisti pubblicando per anni i diari scolastici oltre alle agendine per adulti. Di provenienza svizzera, si sposta permanentemente in Italia dopo avere conseguito la laurea in matematica al politecnico di Zurigo. Vive a Roma dove continua a frequentare la facolta' di matematica per studio e lavoro. Si sposa con il matematico Michele Vaccaro ed hanno tre figli. Nel 1962 durante la crisi di Cuba ha un'illuminazione sull'indispensabilita' della lotta contro la guerra che la segnera' per sempre. Lascia il lavoro matematico e seguira' la sua vocazione per un impegno sociale e pacifista a tempo pieno, che proseguira' per il resto della sua vita. Collaborera' con i massimi esponenti pacifisti e nonviolenti della sua epoca: Jean e Hildegard Goss-Mayr, Danilo Dolci, Aldo Capitini, Tich Nath Hanh... Inizia a collaborare con il Movimento Internazionale della Riconciliazione fondando e portando avanti la sezione romana. Le sedi romane del Mir furono storiche all'epoca tra cui quella in pieno centro di via Rasella e poi in via delle Alpi 20. Il suo impegno la porto' a viaggiare anche in Africa dove si affianco' al movimento nonviolento di Luthuli, negli Stati Uniti dove fu presente anche a Harlem, nell'Unione Sovietica dove pote' toccare con mano la persecuzione religiosa di allora, in Francia dove collaboro' con Lanza del Vasto, e in Inghilterra, Germania, Austria. Fu collaboratrice con Pietro Pinna e si impegno' nella realizzazione del servizio civile alternativo a quello militare, offrendo diversi posti agli obiettori di coscienza nella sede del Mir di Roma. Svolse un costante lavoro giornalistico portando avanti prima il Notiziario Mir, poi Cristiani Nonviolenti curato in indipendenza da ogni associazione. Aveva una capacita' di analisi sociale particolare che manteneva viva con la lettura di innnumerevoli giornali internazionali di impegno sociale. Ha tenuto innumerevoli dibatti, conferenze, convegni, organizzato iniziative pubbliche per il Mir romano, riuscendo a fare cantare Don Powel, Joan Baez, e altri musicisti. Dopo qualche anno dalla morte del marito torno' di nuovo in Svizzera per passare li' gli ultimi anni della sua vita. Mori' al centro per anziani di Emmaus a Maennedorf sul lago di Zurigo il 10 marzo 2014".
Tra le opere di Hedi Vaccaro: (a cura di), A che punto siamo con il servizio civile, Claudiana, Torino 1981; (con Giulio Giampietro), Giorgio scopre la nonviolenza,  Paoline, Roma 1985; Pregare e' facile per chi lavora per la pace (disponibile nel sito www.hedivaccaro.it)
*
E' stato scritto in suo ricordo: "Per molti anni animatrice del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) a Roma, punto di riferimento di innumerevoli ricerche e iniziative nonviolente, partecipe di azioni per la pace in tante parti del mondo.
Ricordarne la persona e' sentirne ancora l'appello al bene, alla pace, alla solidarieta' che ogni essere umano riconosce e raggiunge.
Con gratitudine che non si estingue la ricordiamo, nella capitiniana "compresenza dei morti e dei viventi", nell'impegno comune che attraverso l'avvicendarsi delle generazioni costituisce l'umanita' come un'unica famiglia che al bene comune dei presenti e dei venturi aspira e per esso si adopera.
Nel ricordo di Hedi Vaccaro la nonviolenza e' in cammino.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe".
*
Nel ricordo di Hedi Vaccaro ripetiamo ancora una volta che occorre un'insurrezione nonviolenta delle coscienze e delle intelligenze per contrastare gli orrori piu' atroci ed infami che abbiamo di fronte, per affermare la legalita' che salva le vite, per richiamare ogni persona ed ogni umano istituto ai doveri inerenti all'umanita'.
Occorre opporsi al maschilismo, e nulla e' piu' importante, piu' necessario, piu' urgente che opporsi al maschilismo - all'ideologia, alle prassi, al sistema di potere, alla violenza strutturale e dispiegata del maschilismo: poiche' la prima radice di ogni altra violenza e oppressione e' la dominazione maschilista e patriarcale che spezza l'umanita' in due e nega piena dignita' e uguaglianza di diritti a meta' del genere umano e cosi' disumanizza l'umanita' intera; e solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale si puo' sconfiggere la violenza che opprime, dilania, denega l'umanita'; solo abolendo la dominazione maschilista e patriarcale l'umanita' puo' essere libera e solidale.
Occorre opporsi al razzismo, alla schiavitu', all'apartheid. Occorre far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani; semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro. Occorre abolire la schiavitu' in Italia semplicemente riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto"; un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia. Occorre abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese: si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani. Occorre formare tutti i pubblici ufficiali e in modo particolare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza: poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
Occorre opporsi a tutte le uccisioni, a tutte le stragi, a tutte le guerre. Occorre cessare di produrre e vendere armi a tutti i regimi e i poteri assassini; abolire la produzione, il commercio, la disponibilita' di armi e' il primo necessario passo per salvare le vite e per costruire la pace, la giustizia, la civile convivenza, la salvezza comune dell'umanita' intera. Occorre abolire tutte le organizzazioni armate il cui fine e' uccidere. Occorre cessare immediatamente di dissipare scelleratamente ingentissime risorse pubbliche a fini di morte, ed utilizzarle invece per proteggere e promuovere la vita e il benessere dell'umanita' e dell'intero mondo vivente.
Occorre opporsi alla distruzione di quest'unico mondo vivente che e' la sola casa comune dell'umanita' intera, di cui siamo insieme parte e custodi. Non potremo salvare noi stessi se non rispetteremo e proteggeremo anche tutti gli altri esseri viventi, se non rispetteremo e proteggeremo ogni singolo ecosistema e l'intera biosfera.
Opporsi al male facendo il bene.
Opporsi alla violenza con la scelta nitida e intransigente della nonviolenza.
Oppresse e oppressi di tutti i paesi, unitevi nella lotta per la comune liberazione e la salvezza del'umanita' intera.
Salvare le vite e' il primo dovere.

4. MAESTRI. JEAN-MARIE MULLER: RIFLESSIONE SULLA VIOLENZA (PARTE PRIMA)
[Da Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus - Pisa University Press, Pisa 2004 (traduzione italiana di Enrico Peyretti dell'edizione originale Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995), riprendiamo il capitolo secondo: "Ri-flessione sulla violenza" (pp. 43-66). Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti per averci messo a disposizione la sua traduzione e la casa editrice Plus - Pisa University Press per il suo consenso.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005; Desarmer les dieux. Le christianisme et l'slam face a' la non-violence, Editions du Relie', Gordes 2009.
Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' stato membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; Elogio della gratitudine, Cittadella, Assisi 2015; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di seguito riprodotta, che e' stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

L'aggressivita', la forza e la costrizione che si esercitano con la lotta permettono il superamento del conflitto con la ricerca di un regolamento che renda giustizia ad ognuno degli avversari. Quanto alla violenza, essa appare immediatamente come un de-regolamento del conflitto che non gli permette piu' di compiere la sua funzione, cioe' di stabilire la giustizia tra i due avversari.
Ritorniamo alla tesi sviluppata da Rene' Girard sulla rivalita' mimetica. Due individui rivaleggiano per appropriarsi dello stesso oggetto. Questo e' tanto piu' desiderabile per ciascuno per il fatto che lo desidera l'altro. Molto presto, i due individui diventati avversari distoglieranno la loro attenzione dall'oggetto per rivolgerla interamente verso il loro rivale. E si batteranno, non tanto per acquistare l'oggetto, che essi tendono ora ad abbandonare o dimenticare, quanto per eliminare il loro rivale. Forse anche preferiranno distruggere l'oggetto del loro desiderio, piuttosto che lasciarlo diventare proprieta' dell'altro. La loro contesa "diventa rivalita' pura" (1). A partire da questo momento i rapporti mimetici tra i due rivali saranno dominati dalla logica della violenza. "La violenza - scrive Rene' Girard - e' un rapporto mimetico perfetto, dunque perfettamente reciproco. Ciascuno imita la violenza dell'altro e gliela rimanda 'con gli interessi'" (2).
La violenza, l'abbiamo gia' notato, sopraggiunge quando l'uomo desidera l'illimitato e quando il suo desiderio si trova contrastato dagli altri. "Io ho il diritto - nota Simone Weil - di appropriarmi di tutte le cose, e gli altri mi ostacolano. Devo prendere le armi per togliere di mezzo questo ostacolo" (3). La violenza si radica in un desiderio illimitato che urta contro il limite costituito dal desiderio degli altri.
La violenza appare in un conflitto quando uno dei protagonisti mette in atto dei mezzi che fanno pesare sull'altro una minaccia di morte. "Poiche' non bisogna ingannarsi – fa notare Paul Ricoeur - lo scopo della violenza, il termine che essa persegue implicitamente o esplicitamente, direttamente o indirettamente, e' la morte dell'altro – almeno la sua morte, o qualcosa di peggio che la sua morte" (4). Cosi', ogni violenza e' un processo omicida, di messa a morte. Il processo non andra' forse fino al suo termine, ma il desiderio di eliminare l'avversario, scartarlo, escluderlo, ridurlo al silenzio, sopprimerlo, diventera' piu' forte della volonta' di arrivare ad un accordo con lui. Dall'insulto all'umiliazione, dalla tortura all'uccisione, molte sono le forme di violenza e molte le forme di morte. Attentare alla dignita' dell'uomo e' gia' attentare alla sua vita. Fare violenza e' sempre far tacere, e privare l'uomo della sua parola e' gia' privarlo della sua vita.
Non conviene parlare della "violenza" come se esistesse da se' stessa in mezzo agli uomini, in qualche modo al di fuori di loro, e come se agisse da se'. In realta' la violenza non esiste non agisce che per opera dell'uomo; e' sempre l'uomo che e' responsabile della violenza.
Se, per definire la violenza, ci si pone dal lato di colui che la esercita, si rischia molto di ingannarsi sulla sua vera natura, entrando presto nei processi di legittimazione che giustificano i mezzi con il fine. Bisogna dunque definire la violenza situandosi anzitutto dalla parte di colui che la subisce. Qui la percezione e' immediata ed implica una concettualizzazione che considera il mezzo usato e non piu' il fine invocato. Secondo Simone Weil, la violenza "e' cio' che fa di chiunque le sia sottomesso una cosa". "Quando essa si esercita fino in fondo - precisa Simone Weil - essa fa dell'uomo una cosa nel senso piu' letterale, perche' ne fa un cadavere". Ma la violenza che uccide e' una forma sommaria e grossolana della violenza. C'e' un'altra violenza molto piu' varia nei suoi procedimenti e piu' sorprendente nei suoi effetti, e' "quella che non uccide; cioe' quella che non uccide ancora". "Essa uccidera' sicuramente, oppure forse uccidera', o anche e' soltanto sospesa sull'essere che in ogni momento essa puo' uccidere; in ogni caso essa cambia l'uomo in pietra. Dal potere di trasformare l'uomo in cosa facendolo morire procede un altro potere ben altrimenti prodigioso, quello di fare una cosa di un uomo che resta vivo" (5).
Tuttavia, cio' che distingue ancora da una cosa un uomo attaccato dalla violenza e che resta vivo, e' il fatto che egli soffra. Fare violenza e' far soffrire e la sofferenza puo' essere piu' temibile della morte. "La prova suprema della volonta' - scrive Emmanuel Levinas - non e' la morte, ma la sofferenza" (6). E' per questo, egli precisa, che "l'odio non desidera sempre la morte dell'altro o, almeno, non desidera la morte dell'altro se non infliggendogli questa morte come una suprema sofferenza. [...] Bisogna che nella sofferenza il soggetto conosca la propria reificazione, ma per questo e' necessario precisamente che il soggetto rimanga soggetto" (7).
Ci sembra possibile formulare una definizione della violenza a partire dal secondo imperativo stabilito da Kant nei Fondamenti della metafisica dei costumi: "Agisci in modo da trattare l'umanita', tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo" (8). Secondo Kant il fondamento di questo principio e' che, al contrario delle cose che non sono che dei mezzi, le persone esistono come fine in se'. "L'uomo – egli afferma - e in generale ogni essere ragionevole, esiste come fine in se', e non soltanto come mezzo di cui questa o quella volonta' possano usare a proprio arbitrio; in tutte le sue azioni, tanto in quelle che riguardano lui stesso quanto in quelle che riguardano degli altri esseri ragionevoli, egli deve sempre essere considerato nello stesso tempo come un fine" (9). Cosi', chi si serve degli altri uomini semplicemente come di un mezzo viola la loro umanita': egli fa loro violenza. Si puo' dunque definire cosi' la violenza riprendendo alla lettera il pensiero di Kant: essere violenti e' "servirsi della persona degli altri semplicemente come di un mezzo, senza considerare che gli altri, nella loro qualita' di esseri ragionevoli, devono sempre essere stimati nello stesso tempo come dei fini" (10).
La violenza, si dice, e' l'abuso della forza. Ma bisogna dire di piu': la violenza per se' stessa e' un abuso; l'uso stesso della violenza e' un abuso. Abusare di qualcuno e' violarlo. Ogni violenza che si esercita contro un uomo e' una violazione: violazione del suo corpo, della sua identita', della sua personalita', della sua umanita'. Ogni violenza e' brutalita', offesa, distruzione, crudelta'. La violenza attacca sempre il volto che essa deforma per effetto della sofferenza; ogni violenza sfigura un volto. La violenza ferisce e uccide l'umanita' di colui che la subisce.
Ma l'uomo non prova soltanto la violenza che subisce, egli esperimenta di essere lui stesso capace di esercitare violenza verso altri. L'uomo, riflettendo, cioe' tornando su se' stesso, si scopre violento. E la violenza ferisce e uccide ugualmente l'umanita' di colui che la esercita. "Colpire o essere colpiti - afferma Simone Weil - e' una sola e identica sporcizia. Il freddo dell'acciaio e' ugualmente mortale nell'impugnatura come nella punta" (11). Cosi', che si eserciti la violenza o che la si subisca "in ogni maniera il suo contatto pietrifica e trasforma un uomo in cosa" (12).
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La "violenza strutturale"
La violenza non e' soltanto la violenza diretta delle azioni violente; esiste anche la violenza indiretta delle situazioni violente. Negli anni 1960 il ricercatore norvegese Johan Galtung ha forgiato l'espressione di "violenza strutturale" per indicare la violenza generata dalle strutture politiche, economiche o sociali che creano delle situazioni di oppressione, di sfruttamento o di alienazione. Si e' dibattuta la questione per sapere se conveniva o no ricorrere allo stesso concetto, quello di "violenza", per designare insieme delle azioni violente delle situazioni di ingiustizia (13). Certo, l'intenzione distruttrice dell'azione violenta e' immediatamente percepibile, mentre e' piu' difficile scoprire questa intenzione nelle situazioni di ingiustizia. Tuttavia, non c'e' alcun dubbio che le vittime di queste situazioni subiscano una violenza che attenta alla loro dignita' e alla loro liberta', e puo' far pesare su di esse una reale minaccia di morte. Una situazione di ingiustizia corrisponde bene alla definizione che abbiamo dato della violenza: essa viola l'umanita' di quelli che hanno a soffrirne. E se ci riferiamo alla seconda massima di Kant, sulla quale ci siamo basati nel definire la violenza, in una situazione di oppressione, di sfruttamento o di alienazione, l'uomo e' precisamente trattato soltanto come un mezzo e non e' considerato come un fine in se'. Peraltro, non ci sembra che sia il criterio della intenzionalita' quello da usare qui, ma quello della responsabilita'. Ora, la responsabilita' umana si trova direttamente impegnata in queste situazioni di ingiustizia che non sono dovute a fattori imponderabili. Non soltanto "noi siamo tutti responsabili", ma non c'e' oppressione senza oppressore, non c'e' sfruttamento senza sfruttatore, non ci sono dittature senza dittatori.
Noi pensiamo dunque che non e' affatto per metafora che qualifichiamo come "violenza" le situazioni di ingiustizia che mortificano gli uomini e possono farli morire. Invece, e' soltanto per metafora che possiamo parlare di "violenza" della natura. Certo, la natura puo' uccidere ma essa non e' "violenta". Non solamente la natura non ha l'intenzione di uccidere, ma non ha alcuna responsabilita' dei morti che provoca. Cosi', nessuna responsabilita' e' impegnata nella eruzione di un vulcano, nel terremoto o nello scatenamento di un uragano. Quello che abbiamo qualificato come violenza non puo' essere che l'opera dell'uomo.
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Comprendere la violenza della rivolta
Spesso e' la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. E' importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi del giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell'oppressione, essa obbliga ad una solidarieta' attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il piu' delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non e' il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non e' il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell'ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. E' importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient'altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi e' anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo e' un obiettivo della solidarieta' verso di loro.
Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi e' piu' un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non e' tanto la ricerca di un'efficacia quanto la rivendicazione di un'identita'. E' il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza e' allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. E' l'ultimo mezzo di espressione di quelli che la societa' ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiche' essi non hanno avuto la possibilita' di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che e' loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa e' allora un "segnale d'allarme" che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della societa'. La violenza e' per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria  vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: "sono violento, dunque sono". E la violenza permette di farsi riconoscere tanto piu' per il fatto che essa e' proibita dalla societa'. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Cio' che gli attori della violenza ricercano e' precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo puo' essere vero per l'individuo come per il gruppo. Anche il gruppo puo' volere provare a se stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l'impiego della violenza. Esso cosi' obblighera' gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, la' dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una societa' ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, procura un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l'umiliazione di essere degli esclusi.
Ma comprendere la violenza non e' giustificarla. Infatti, se la violenza e' giusta quando serve una causa giusta, non diventera' allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si e' mai incontrato nel corso dei secoli, si e' mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa e' giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approvera' la violenza per la cattiva causa? Bastera' discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non bastera'. Se la violenza e' legittimata come un diritto dell'uomo, nessuno manchera' di prendere a  pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che la difesa dei suoi interessi gli impone di farlo. In realta' l'ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potra' piu' interrompere. La violenza diventa fatalita'. La nonviolenza intende spezzare questa fatalita'.
Secondo le ideologie che dominano le nostre societa', e' necessario opporsi alla prima violenza, dell'oppressione o dell'aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per finalita' di stabilire la giustizia o di difendere la liberta'. L'argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto - incessantemente avanzato per giustificare la violenza, e' che essa e' necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira – lo vedremo -  portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiche' qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l'intenzione di servire una causa giusta, cambia o no la natura della violenza? In altri termini, e' possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l'uso della violenza per una causa giusta non e' altro che l'uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale di questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perche' resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.
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L'uomo violento di fronte alla morte
L'atteggiamento dell'uomo nei riguardi della violenza e' largamente determinato dal suo atteggiamento riguardo alla morte. Nel piu' profondo di se' l'uomo conosce la paura: paura dell'altro, del futuro, dell'ignoto, che immagina carico di minacce e pericoli. Ma la paura dell'uomo si radica sempre nella sua paura di morire. Secondo Aristotele - e, con lui, tutta la tradizione filosofica occidentale - la virtu' dell'uomo forte, capace di superare la paura di fronte ai pericoli, e' il coraggio. "Evidentemente, - egli scrive nell'Etica a Nicomaco - noi temiamo i pericoli e, per parlare in generale, quel che ci fa paura sono i mali" (14). Ma l'uomo deve padroneggiare la sua paura dando prova di coraggio: "La caratteristica del coraggio - precisa Aristotele - e' proprio di sopportare con costanza quello che e' o sembra spaventoso per l'uomo, per la ragione che e' bene affrontare il pericolo e vergognoso evitarlo" (15). Ora il piu' spaventoso dei mali "e' la morte che e' il termine finale al di la' del quale non c'e' piu', sembra, ne' bene ne' male" (16). Aristotele si domanda allora in quali circostanze l'uomo da' prova di coraggio, e l'esempio che egli privilegia tra tutti e' la guerra. Cosi', l'uomo coraggioso si manifesta principalmente "nella morte che si trova in guerra, in mezzo ai pericoli piu' grandi e piu' gloriosi" (17). Aristotele non vuole altra prova che gli onori che dappertutto si decretano al coraggio militare. Egli conclude: "Cosi' si puo' legittimamente dichiarare coraggioso l'uomo che si fa vedere senza paura di fronte ad una bella morte e davanti a dei pericoli improvvisi, suscettibili di portare alla morte; questi si incontrano soprattutto nella guerra" (18). E quando afferma che "la legge ordina a ciascuno di comportarsi da uomo coraggioso" e' ancora all'esempio della guerra che lui si riferisce. Cosi' la legge fa obbligo al soldato "di non abbandonare il suo posto nel combattimento, di non fuggire, di non abbandonare le sue armi" (19). Quanto all'uomo che "sente una paura eccessiva" davanti ai pericoli, costui e' un "vile" (20).
Gia' per Platone il coraggio era una virtu' essenzialmente guerriera. Nella Repubblica, Socrate si rivolge a Adimante in questi termini: "Chi direbbe che una citta' e' vile o coraggiosa se non considerando quella sua parte che fa la guerra e porta le armi per essa?". E Adimante gli risponde: "Nessuno lo direbbe riguardo ad altra cosa" (21). Molti secoli piu' tardi con la voce di Zarathustra, Nietzsche affermera' la predominanza del coraggio guerriero su tutte le altre virtu': "La guerra e il coraggio hanno fatto piu' grandi cose che non l'amore del prossimo" (22). Hegel, lo vedremo, non dira' altra cosa da questa. Cosi', da sempre siamo abituati a pensare che l'uomo coraggioso e' colui che supera la sua paura per affrontare il rischio di morire ricorrendo alla violenza per difendere una causa giusta. Di un uomo che da' prova di coraggio di fronte ai pericoli, si dice che si agguerrisce, cioe', precisamente, che diventa capace di affrontare i rischi della guerra superando la paura.
Ma, in realta', la scommessa di colui che decide di impiegare la violenza, non e' forse di uccidere prima che di essere ucciso? L'uomo che sceglie la violenza assume il rischio di essere ucciso, ma non vuole saperlo; piu' esattamente, egli lo sa ma non vuole crederci, perche' e' interamente preso dalla volonta' di uccidere e vuole convincersi che uscirà vincitore dalla lotta a morte col suo avversario. In un dialogo immaginario con un generale il filosofo Alain dichiara all'uomo di guerra: "Poiche' il destino dei cittadini e' in fin dei conti di rischiare tutto, fino alla loro vita, non sceglieranno forse la pace, ad ogni costo? Poiche', infine, in ogni progetto di guerra c'e' rischio di morte. Quale rischio peggiore potrebbe aversi in un vero e franco progetto di pace?". Ma il generale gli risponde: "Il primo articolo della nostra dottrina e' di credere che si vincera'" (23). Cosi', per l'uomo che sceglie la violenza, il rischio di essere ucciso si trova occultato dalla certezza di vincere. Certo, questo rischio esiste realmente, poiche' si tratta di affrontare un avversario che e' altrettanto determinato ad uccidere per non morire e altrettanto certo di vincere, ma ciascuno finge di ignorarlo e preferisce non pensarci.
Poiche' sono tutti mortali, gli uomini non dovrebbero dimostrare compassione gli uni per gli altri? In realta', e' precisamente perche' sono mortali che gli uomini danno prova di crudelta' gli uni verso gli altri. L'uomo uccide, non solamente perche' non vuole essere ucciso, ma perche' non vuole morire: egli uccide per vincere la morte. Noi uccidiamo, afferma Simone Weil, "perche' cosi' ci sentiamo sottratti alla morte che infliggiamo" (24); noi uccidiamo per "vendicarci di essere mortali" (25). Cosi', in definitiva, cio' che per l'uomo giustifica la violenza e' che essa gli appare come l'unico mezzo per proteggersi contro la morte.
Nel suo grande libro Massa e potere, Elias Canetti analizza in profondita' "l'aspirazione a sopravvivere" (26) che si prova nel piu' profondo dell'essere umano. "La forma piu' bassa di sopravvivere – egli scrive - consiste nell'uccidere. [...] Si vuole uccidere l'uomo che vi sbarra il cammino, vi contraria, che si alza in piedi davanti a voi come un nemico. Si vuole abbatterlo per sentire che si esiste ancora e lui non piu'. [...]  Questo istante di confronto con l'ucciso riempie il sopravvissuto di un tipo singolare di forza, a nessun'altra comparabile. Non esiste un istante che piu' di questo voglia la ripetizione" (27). Cosi', sopravvivendo a quelli che uccide nel corso della battaglia, l'uomo prova la grande soddisfazione di sentirsi invulnerabile, in qualche modo immortale. "Questo mucchio di morti tutto attorno a lui - scrive Elias Canetti - il sopravvissuto li guarda felice, da privilegiato. [...] I morti giacciono senza appello, tra di loro sta dritto in piedi lui, ed e' come se la battaglia fosse stata scatenata perche' egli sopravvivesse. Quanto a lui, egli ha deviato la morte sugli altri" (28). Cio' che fa il prestigio del guerriero e gli da' la statura dell'eroe, cio' per cui gli altri uomini lo ammirano e lo invidiano, e' di essere sopravvissuto a tutti quelli che egli ha ucciso, cosi' come a tutti quelli che sono stati uccisi ai suoi lati, e di essere sopravvissuto tanto ai suoi nemici che ai suoi amici.
Non ci si dovrebbe forse meravigliare che gli uomini, nel corso degli anni e dei secoli, non abbiano considerato le dimensioni di tutte le sofferenze, di tutte le distruzioni, di tutte le morti che sono risultate dalle guerre, che non si siano rivoltati contro la fatalita' della violenza che essi stessi facevano pesare sulla loro storia, che non si siano alla fine risolti a spezzarla? Come avviene che essi non abbiano imparato nulla dal passato e che siano sempre stati pronti a ricominciare? Non e' precisamente per il fatto che essi non conoscono le guerre se non attraverso la memoria dei sopravvissuti che, tutto sommato, non hanno da lamentarsene? Necessariamente sono sempre i sopravvissuti che fanno i discorsi nelle cerimonie organizzate davanti ai monumenti ai morti. Per un minuto di silenzio in ricordo dei morti, quante ore di rumore in memoria dei sopravvissuti? Certo, il ricordo dei morti riempie la memoria dei sopravvissuti, ma questi hanno tutto il tempo di considerare che la sorte li ha grandemente favoriti. In realta', in maniera piu' o meno cosciente, onorando i morti, i sopravvissuti onorano se stessi; essi si onorano di essere sopravvissuti e ne provano una grande soddisfazione. Cosi', il narcisismo dei sopravvissuti dimentica le disgrazie delle vittime della guerra. E' la memoria dei sopravvissuti e non il ricordo dei morti che si perpetua di secolo in secolo e che costituisce la memoria collettiva dei popoli. Per cui questi, in definitiva, non conservano un cattivo ricordo degli orrori della guerra e non sentono il bisogno di delegittimare la violenza.
La storia non e' che la storia dei sopravvissuti. "Scritte dai vincitori, meditate sulle vittorie - nota Emmanuel Levinas - la nostra storia occidentale e la nostra filosofia della storia annunciano la realizzazione di un ideale umanista ignorando del tutto i vinti, le vittime e i perseguitati, come se non avessero alcun significato [...]. Umanesimo dei superbi! La denuncia della violenza rischia di risolversi in instaurazione di una violenza e di una superbia: di un'alienazione e di uno stalinismo. La guerra contro la guerra perpetua la guerra col toglierle la cattiva coscienza". Ma Levinas conclude stranamente dando prova di un ottimismo che noi abbiamo qualche difficolta' a condividere: "Il nostro tempo certamente non ha piu' bisogno di essere convinto del valore della nonviolenza" (29). Ci sembra piuttosto che esso ha ancora tutto da imparare dalla nonviolenza.
I violenti invocano il giudizio della storia che li giustificherebbe. Ma il giudizio della storia non esiste; sono i sopravvissuti che giudicano la storia. La storia non e' giudice, essa non puo' che essere giudicata ed e' giudicata dai vincitori. La storia sembra dare ragione ai violenti, ma e' solamente la storia dei violenti. La storia delle violenze, quanto ad essa, resta da scrivere e percio' bisognera' tenere conto del parere delle sue vittime.
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Note
1. Rene' Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, op. cit., p.35; tra.it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983.
2. Idem, ibidem, p. 324.
3. Simone Weil, Cahiers, I, op. cit., p.47; tr.it. Quaderni I, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano, III edizione 1991.
4. Paul Ricoeur, Histoire et verite', Paris, Le Seuil, 1955, p. 277; tr. it. di C. Marco e A. Rosselli, Storia e verita', Marco editore, Lungro di Cosenza 1995.
5. Simone Weil, "L'Iliade ou le poeme de la force", in La source greque, Paris, Gallimard, 1953, pp. 12-13; tr. it. di Cristina Campo, La Grecia e le intuizioni precristiane,  Rusconi, Milano 1974. Precisiamo che, in tutti i suoi scritti, Simone Weil non fa alcuna distinzione tra i concetti di forza e di violenza e che identifica pienamente l'una con l'altra.
6. Emmanuel Levinas, Totalite' et Infini, Essai sur l'exteeriorite', Paris, Le Livre de Poche, 1992, Biblio-Essais, p. 267; tr. it. Totalita' e infinito. Saggio sull'esteriorita', a cura di A. Dall'Asta, Jaka Book, Milano 1982, p. 245.
7. Idem, ibidem, p. 266-267; tr. it. cit., p. 244-245.
8. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Sansoni editore, 1986, p. 67-68, corrispondenti alla p. 429 di Kants gesammelte Schriften, h.g. von der Koeniglich Prussischen Akademie der Wissenschaften, Band IV, Berlin, 1911.
9. Idem ibidem, p. 65.
10. Idem ibidem, p. 69.
11. Simone Weil, Ecrits historiques et politiques, Paris, Gallimard, 1960, p. 80.
12. Simone Weil, Intuitions prechretiennes, Paris, Fayard, 1985, p.54; tr. it. La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967.
13. Su questo argomento, cfr gli articoli di Christian Mellon, Violence des bombes et violence des structures, et Une inflation a' maitriser: le mot violence, pubblicati nella rivista Alternatives non-violentes, n. 37 e 38.
14. Aristotele, Etica a Nicomaco, libro III, capitolo VI; tr. it. di Armando Plebe, Etica nicomachea, Laterza, Bari 1979, 1115a, 5-10.
15. Idem, ibidem, libro III, capitolo IX; tr. it. cit. 1117a, 15-20.
16. Idem, ibidem; libro III, capitolo VI;  tr. it. cit., 1115a, 25-30.
17. Idem, ibidem, libro III, capitolo VI; tr. it. cit., 1115a, 30-35.
18. Idem, ibidem.
19. Idem, ibidem, libro V, capitolo I; tr. it. cit., 1129b, 15-20.
20. Idem, ibidem, libro III, capitolo VII; tr. it. cit., 1115b, 30-35.
21. Platone, La Repubblica, libro IV, 429a.
22. Nietzsche, Cosi' parlo' Zarathustra, Adelphi, Milano 1982, p. 52.
23. Alain, Convulsions de la force, op. cit., 1939, p. 284.
24. Simone Weil, Cahiers II, Paris, Plon, 1953, p. 116; tr.it. Quaderni II, traduzione con un saggio introduttivo di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985.
25. Idem, ibidem.
26. Elias Canetti, Masse et puissance, Paris, Gallimard, 1966, p. 244; Massa e potere, Adelphi, Milano 1981.
27. Idem, ibidem, p.241-242.
28. Idem, ibidem, p. 242.
29. Emmanuel Levinas, Difficile liberte', Paris, Le Livre de Poche, 1990, Biblio-Essais, p. 239; traduzione italiana parziale Difficile liberta'. Saggi sul giudaismo, a cura di G. Penati, La Scuola, Brescia 1986.
(Parte prima - segue)

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Letture
- Alessia Gasparini (a cura di), Le voci del lavoro ai tempi della pandemia. Un'inchiesta in Germania, Francia, Italia, Left, Roma 2021, pp. 128, euro 6,50.
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Riedizioni
- Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell'Europa, Laterza, Roma-Bari 2000, Gedi, Roma 2021, pp. IV + 460, euro 9,90 (in supplemento al quotidiano "La Repubblica").

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 4107 del 17 maggio 2021
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXII)
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