[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 64



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 64 del 27 aprile 2021

In questo numero:
1. Giuseppe Vacca: Antonio Gramsci (2002) (parte prima)
2. Franco Fortini: Marxismo (1983)

1. MAESTRI. GIUSEPPE VACCA: ANTONIO GRAMSCI (2002) (PARTE PRIMA)
[Dal sito www.treccani.it riproponiamo la seguente voce apparsa nel Dizionario biografico degli italiani]

Antonio Gramsci nacque ad Ales, allora in provincia di Cagliari, il 22 gennaio 1891, quarto di sette figli, da Francesco, impiegato nell'ufficio del Registro, e da Giuseppina Marcias, casalinga.
Durante il ginnasio comincio' a leggere la stampa socialista, in particolare l'Avanti!, che il fratello maggiore Gennaro, in servizio di leva a Torino nel 1905, gli inviava.
Nel 1911 si licenzio' al liceo Dettori di Cagliari dove, negli anni precedenti, aveva frequentato gli ambienti socialisti e fatto le prime letture di K. Marx. In ottobre di quell'anno vinse una borsa di studio del collegio Carlo Alberto e pote' iscriversi alla facolta' di lettere per filologia moderna dell'Universita' di Torino.
I suoi interessi si volsero alla glottologia e nel 1912 compi' alcune ricerche sulla lingua sarda, sotto la guida di M. Bartoli che aveva colto in lui un grande talento di studioso e avrebbe voluto avviarlo alla carriera universitaria. Gli studi di linguistica, comunque, lasciarono un'impronta determinante nel suo stile di pensiero. Nel 1912 allaccio' amicizia con P. Togliatti, anche lui vincitore di una borsa del collegio Carlo Alberto nel 1911. Poco tempo dopo svolsero insieme una ricerca sulla struttura sociale della Sardegna.
Nel 1913 segui' numerosi corsi di lettere e di giurisprudenza ma, per le cattive condizioni di salute, non riusci' a sostenere alcun esame. Nella primavera di quell'anno, in occasione dello sciopero degli operai metallurgici, entro' in contatto con gli ambienti operai. In settembre, rientrato dalla Sardegna, visse per qualche tempo con A. Tasca, di un anno piu' giovane di lui ma gia' attivo nel movimento giovanile socialista e probabilmente si iscrisse allora al Partito socialista italiano (PSI).
In Sardegna aveva seguito la battaglia elettorale per le prime elezioni politiche svoltesi con il suffragio universale maschile nell'ottobre dello stesso anno ed era rimasto impressionato dai mutamenti introdotti in quell'ambiente dalla partecipazione dei contadini alla vita politica. Leggeva assiduamente La Voce di G. Prezzolini e L'Unita' di G. Salvemini e nella primavera del 1914 - ricordera' nello scritto sulla questione meridionale - insieme con un gruppo di socialisti torinesi propose la candidatura di Salvemini per le elezioni suppletive del collegio di borgo S. Paolo di Torino, con lo scopo di "eleggere un deputato per i contadini pugliesi" ai quali "la pressione amministrativa del governo Giolitti e la violenza dei mazzieri e della polizia" avevano impedito di eleggerlo nel suo collegio di Molfetta e Bitonto (La costruzione del partito comunista, p. 141).
Gli anni del "garzonato universitario" furono anche quelli in cui il gruppo di giovani socialisti di straordinario valore, di cui il G. faceva parte, si formo' intellettualmente sotto l'influenza della cultura neoidealistica e liberista, in aperto contrasto con la tradizione positivistica del socialismo italiano. Insieme con Tasca e Togliatti, il G. progetto' allora di fondare una rivista di cultura socialista intitolata La Citta' futura. Egli era su posizioni di sinistra rivoluzionaria e durante la "settimana rossa" prese parte alla grande manifestazione operaia torinese del 9 giugno.
L'ambiente e il clima di quegli anni si possono sintetizzare con le parole di Togliatti nella conferenza "Gramsci pensatore e uomo di azione", tenuta nell'Universita' di Torino il 23 aprile 1949. Dopo aver ricordato i maestri che formarono il G., e cioe' A. Graf, R. Renier e soprattutto A. Farinelli, Togliatti racconta che incontrava il G. anche in altre lezioni, "dappertutto, si puo' dire, dove vi era un professore il quale ci illuminasse su una serie di problemi essenziali, da Einaudi a Chieroni a Ruffini". Ma, aggiunge Togliatti, "non vi erano solo in questa universita' e citta' professori e lezioni [...]. Vi era un'altra realta', che colpi' Gramsci e altri di noi, allora, profondamente. [...] Sembravano, a prima vista, diversi da noi studenti; sembrava un'altra umanita'. Ma un'altra umanita' non era. Era, anzi, l'umanita' vera, fatta di esseri che vivono del proprio lavoro e che, lottando per modificare le condizioni di questo lavoro, modificano in pari tempo se stessi e creano nuove condizioni per la loro esistenza e per tutta la societa'" (Togliatti, Gramsci, p. 69).
Allo scoppio della guerra il G. era iscritto alla sezione socialista torinese ma non aveva alcun ruolo di rilievo. Alla guerra e' dedicato il suo primo articolo politico Neutralita' attiva ed operante, pubblicato su Il Grido del popolo il 31 ottobre 1914 (Scritti giovanili, pp. 3-7).
In esso il G. criticava la linea della "neutralita' assoluta" assunta dal partito il 28 luglio proponendo che essa non significasse pura attesa e tanto meno inerzia rispetto agli sviluppi della guerra, ma fosse il punto di partenza per preparare le condizioni della rivoluzione proletaria.
Era un modo coerente di interpretare la politica della "intransigenza", cioe' quella della maggioranza massimalista raccolta intorno a G. M. Serrati, che si basava su una visione antitetica dei fini e dei compiti della borghesia e del proletariato; un anno dopo il G. si schierava sulle posizioni della sinistra uscita dalla conferenza di Zimmerwald.
Nella formazione del suo pensiero ebbe un valore determinante la rielaborazione critica della politica "intransigente" che egli sviluppo' fra il 1916 e il 1918. In quegli anni, nei quali egli interruppe gli studi e comincio' a lavorare come redattore del Grido del popolo e dell'edizione piemontese dell'Avanti!, si venne definendo la sua percezione della portata epocale della guerra e della Rivoluzione russa, insieme con la prima messa a fuoco dei temi fondamentali della storia e della politica italiana, e con la chiarificazione del suo orientamento marxista.
Il primo aspetto della guerra che attira l'attenzione del G., dopo l'intervento dell'Italia, riguarda le sue conseguenze sull'unita' del paese e soprattutto sul Mezzogiorno. Il tema si inserisce nella battaglia antiprotezionistica che dal 1913 impegnava la maggioranza "intransigente" del partito socialista. La questione meridionale assume cosi' un particolare rilievo politico e viene inquadrata nell'indirizzo liberista sostenuto dal G. tanto per la politica economica nazionale, quanto per quella internazionale (Scritti giovanili, pp. 30-32). Ma tutto lo sviluppo della guerra e' analizzato in rapporto alla straordinaria accelerazione che essa crea nella formazione della soggettivita' dei popoli. "Tre anni di guerra - scrive il G. nel novembre 1917 - hanno ben portato delle modificazioni nel mondo. [...] Sentivamo il nostro piccolo mondo [e] ci saldavamo alla collettivita' piu' vasta solo con uno sforzo di pensiero, con uno sforzo enorme di astrazione. Ora la saldatura e' diventata piu' intima. [...] Vediamo uomini, moltitudini di uomini dove ieri non vedevamo che Stati o singoli uomini rappresentativi" (ibid., p. 130).
Questo mutamento e' reso ancor piu' intenso dal principale evento originato dalla guerra: la Rivoluzione russa. Le prime riflessioni del G. si riferiscono alla Rivoluzione di febbraio che egli interpreta come una rivoluzione proletaria e percio' non "giacobina" (La Citta' futura, pp. 138-141); tale caratterizzazione e' legata, per la forma, alla parola d'ordine della Costituente, sostenuta risolutamente dai bolscevichi, e nella sostanza al fatto che la rivoluzione proletaria non puo' non essere, e in Russia e', una "rivoluzione della maggioranza". Ma ancor piu' importante, per il G., e' la forza che anche il proletariato italiano ha conquistato come "riflesso della "forza" del proletariato russo" (ibid., p. 131). Quest'ultimo a sua volta puo' contare sulla solidarieta' del proletariato internazionale e cio' induce il G. a condividere, ben prima dell'ottobre, la posizione di Lenin, che ritiene possibile una rivoluzione socialista nella Russia arretrata (ibid., pp. 138-141).
Il nesso genetico fra la guerra e la Rivoluzione russa e' analizzato in modo puntuale, il 25 luglio 1918, in polemica con F. Turati. "La guerra e' stata la condizione economica, il sistema di vita che ha determinato lo Stato nuovo, che ha sostanziato di necessita' la dittatura del proletariato: la guerra che la Russia arretrata ha dovuto combattere nelle stesse forme degli Stati capitalistici piu' progrediti" (Il nostro Marx, p. 207). Percio', quando i bolscevichi assumono il potere il G. scrive il celebre articolo La rivoluzione contro il "Capitale" (primo dicembre 1917), nel quale da' una giustificazione storica dell'evento basata su una interpretazione di Marx che annuncia i futuri sviluppi della filosofia della praxis. Osando la conquista del potere in un paese che non aveva ancora conosciuto lo sviluppo capitalistico, i bolscevichi avevano certamente ignorato le previsioni di Marx. Ma Marx, scrive il G., "ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto". Quindi i "massimalisti russi" avevano rinnegato la scolastica marxista (e le incrostazioni positivistiche presenti nel Capitale), ma non lo spirito del materialismo storico, il "pensiero immortale di Marx" continuatore, secondo la lezione di B. Spaventa, dell'idealismo italiano e tedesco, che "pone come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo" (La Citta' futura, p. 514).
Nella Russia arretrata i compiti del potere sovietico non consistono nella instaurazione del socialismo, bensi' nella creazione delle condizioni giuridiche e politiche necessarie a preparare la societa' al socialismo, chiamando "all'esercizio della sovranita' statale tutti gli uomini, e all'esercizio della sovranita' della produzione quelli che producono" (ibid., p. 537). Quindi, quando il 19 gennaio 1918 il comitato esecutivo sovietico panrusso sciolse per decreto l'Assemblea costituente e trasferi' il potere ai soviet, il G. considero' la situazione che cosi' si creava una forma necessaria ma provvisoria di dittatura, volta a "permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche necessita'", e pertanto lo valuto' come "un episodio di liberta' nonostante le forme esteriori che fatalmente [aveva] dovuto assumere" (ibid., p. 603). Naturalmente, al pari di Lenin, egli pensava che la Rivoluzione russa si sarebbe "salvata" e avrebbe potuto "svilupparsi nelle vie del comunismo integrale" solo se e quando "il mondo intero, o almeno le nazioni del mondo che ne determinano la vita intensa nella produzione e negli scambi, abbiano instaurato il regime dei Soviet" (Il nostro Marx, p. 470). Con quell'atto i bolscevichi separavano le loro sorti da quelle del socialismo europeo e il G., condividendolo, non solo portava a compimento la sua rottura con la corrente riformista, ma avviava anche il suo distacco dalla maggioranza "intransigente" del PSI.
La ricerca di un nuovo programma si salda, nel G., all'analisi del raggruppamento delle forze e dei nuovi movimenti politici originati in Italia dalla guerra. Fra questi egli dedica attenzione innanzi tutto allo "sviluppo del nazionalismo", nel quale ravvisa "il sorgere della classe borghese come organismo combattivo e cosciente".
Ma il nazionalismo manifesta gli stessi limiti "corporativi" della borghesia italiana, identifica gli interessi ristretti di alcuni gruppi industriali con gli interessi della nazione e percio' corrisponde a quello che, nel movimento operaio, rappresentano i riformisti (La Citta' futura, pp. 481-483). Per il G. la forma classica dell'egemonia borghese e' il liberalismo, espressione della consapevolezza della borghesia di essere al tempo stesso una "classe economica" e una "classe storica", nazionale e internazionale. L'orizzonte del nuovo movimento e' invece il "nazionalismo economico", travestimento appena mascherato del vecchio "protezionismo" che cerca la "collaborazione di classe" con i gruppi operai "privilegiati", ma non puo' riuscire nell'intento sia perche' il proletariato italiano e' saldamente schierato su posizioni "intransigenti" (e' anch'esso consapevole di essere una "classe economica" e una "classe storica", nazionale e internazionale), sia perche', per espandersi oltre il mercato interno, ha "necessita' di guerre e di conquiste coloniali" (ibid., pp. 598-601).
Di ben altro rilievo gli appare la nascita del Partito popolare italiano (PPI), "il fatto piu' grande della storia italiana dopo il Risorgimento". Essa acquista significati molteplici.
Sembra, infatti, poter portare a conclusione la "questione romana" segnando la sconfitta del liberalismo italiano che, per debolezza intrinseca e per la presenza del Vaticano, non era mai riuscito a inquadrare in uno Stato laico moderno le masse popolari controllate dalla Chiesa. Ma, per altro verso, la nascita del PPI e' anche un risultato del processo di secolarizzazione originato dallo sviluppo capitalistico e accelerato dalla guerra, al quale la Chiesa cattolica non puo' piu' resistere come nel passato. Essa testimonia, dunque, che anche in Italia, cosi' come era avvenuto altrove, "il mito religioso [...] si dissolve, si laicizza, rinunciando alla sua universalita', per diventare volonta' pratica di un particolare ceto borghese" (Il nostro Marx, pp. 455-460).
Dal canto suo il campo delle forze liberali non e' immobile. Alla fine del 1918 il mutamento di indirizzo della Gazzetta di Torino, da protezionistico a liberista, viene letto dal G. come il prodromo del formarsi di un nuovo blocco fra gli industriali meccanici del Nord e gli agricoltori meridionali al fine di emarginare definitivamente il blocco giolittiano. Sicche' "si profila per il dopoguerra una formidabile lotta fra i grandi ceti borghesi italiani" che evoca quella avvenuta in Inghilterra fra industriali e agrari circa un secolo prima, a parti rovesciate (ibid., pp. 68 s.).
All'evoluzione della nomenclatura dei partiti borghesi i socialisti guardano con interesse; ma, per favorirla, il loro unico compito e' quello di sviluppare l'organizzazione autonoma del proletariato e di negare, anche alla borghesia liberista, qualsiasi collaborazione. Il nesso fra "intransigenza" e "liberismo" si chiarisce, dunque, in una prospettiva rivoluzionaria: "gli intransigenti sono liberisti" perche' la liberta' economica crea le premesse della crescita e dell'organizzazione del proletariato. Con espressione solo all'apparenza paradossale egli scrive: "Il socialismo rivoluzionario e' il liberismo del proletariato" (ibid., pp. 36 s.).
L'unita' di classe vertebra l'unita' della nazione. La nazione "non e' un'astratta entita' metafisica, ma concreta lotta politica di individui associati per il raggiungimento di un fine" (La Citta' futura, p. 761).
In Italia non e' stata la borghesia liberale a creare l'unita' della nazione, ma il socialismo perche' solo con la sua nascita, agli inizi del XX secolo, "una parte del popolo si e' unificata intorno ad un'idea, ad un programma unico". Esso "ha fatto si' che un contadino di Puglia e un operaio del biellese parlassero" lo stesso linguaggio politico. Il socialismo, dunque, ha svolto anche il compito che nelle nazioni piu' progredite aveva svolto il liberalismo, e questo costituisce il titolo non ultimo della sua legittimazione a guidare il paese (ibid., pp. 350 s.).
L'8 gennaio 1918 W. Wilson aveva formulato in "14 punti" il suo piano di pace e il progetto della Societa' delle Nazioni. Dinanzi all'opinione pubblica di tutti i paesi gli Stati Uniti assurgevano al rango di nuova potenza egemonica mondiale e il G. coglie subito il valore progressivo della nuova "struttura del mondo" che essi tendono a creare.
L'ideologia wilsoniana, egli scrive, "e' il tentativo di adeguare la politica internazionale alle necessita' degli scambi internazionali", "rappresenta un conguagliamento della politica con l'economia" e la volonta' di costituire un "grande Stato borghese supernazionale" che crei l'ambiente favorevole alla unificazione e integrazione del mercato mondiale (ibid., p. 571). La base del progetto wilsoniano e' il "riconoscimento giuridico" "delle interdipendenze capitalistiche createsi fra i vari mercati nazionali"; quindi "e' utile ai fini della rivoluzione sociale" (ibid., p. 696). "Nel sommovimento ideale provocato dalla guerra" si sono dunque rivelate "due forze nuove: il presidente Wilson, i massimalisti russi. Essi rappresentano l'estremo anello logico delle ideologie borghesi e proletarie" (ibid., p. 691).
Questo gli fa prevedere che "il fenomeno nuovo che caratterizzera' la storia del secolo XX sara' con tutta probabilita' il riavvicinamento degli Stati Uniti all'Inghilterra [con] la costituzione di una federazione [...] che dominera' e sottoporra' al suo controllo i mari di tutto il mondo". Le nazioni latine ne saranno travolte, saranno costrette a "liberarsi dalla forma capitalistica" protezionistica e statolatrica che in esse predomina e diventeranno "satelliti della nuova formidabile forza storica che si sta costruendo". Il G. giudica che cio' sia "un bene". D'altro canto, la pace "forse sara' assicurata proprio da questo costituirsi di una immane potenza, contro cui ogni altra sarebbe debole e si frangerebbe nel cozzo" (Il nostro Marx, pp. 175 s.). L'unificazione del mondo sulla base di un progetto liberale guidato dagli Stati Uniti accelera dunque lo sviluppo dell'Internazionale e prepara le condizioni obiettive del suo avvento (ibid., p. 315). Il progetto della Societa' delle Nazioni e' anche una risposta alla Rivoluzione d'ottobre e ai principi di politica internazionale propagandati dai bolscevichi. In una prospettiva di lungo periodo, quindi, gli Stati Uniti "sono forse la piu' grande forza della storia moderna del mondo", ma solo "dopo la Russia", poiche' ora l'"iniziativa storica" e' nelle mani del proletariato (ibid., pp. 156 s.).
Stride con questo giudizio l'affermazione che il socialismo rivoluzionario non ha e non puo' avere una politica estera poiche' questa si basa sulla perpetuazione degli Stati (La Città futura, p. 695). In realta' nelle riflessioni del G. si riverbera una contraddizione in cui il movimento comunista s'imbatte fin dall'inizio: quella derivante dalla difficolta' di definire l'internazionalismo di fronte alla necessita' di conservare e difendere lo Stato in cui il proletariato ha conquistato il potere. Infatti, da un lato il G. afferma che "con lo stabilirsi di una repubblica socialista nel mondo, i proletariati nazionali hanno cominciato ad avere una politica estera propria"; dall'altro, pero', questa coincide con "i problemi inerenti all'esistenza e al libero sviluppo di questo primo nucleo dell'organizzazione collettivistica del mondo" (Il nostro Marx, p. 464). Nelle relazioni internazionali la contraddizione si manifesta nel fatto che, se il riconoscimento della Russia sovietica da parte degli Angloamericani inaugurera' una fase di "convivenza pacifica" fra essa e gli altri Stati del mondo, dal canto suo la Repubblica dei soviet si potra' integrare in un nuovo ordine internazionale solo "quando nel resto del mondo il proletariato avra' attuato la sua dittatura politica" (ibid., pp. 509-511).
A ogni modo, perche' questo progetto si concretizzi sono necessari tanto la creazione di nuovi organismi che, come i soviet, realizzino l'autonomia sociale del proletariato, quanto un nuovo tipo di partito che non potra' essere, come era il PSI, l'organizzazione federativa del ceto politico selezionato su basi concorrentistiche nel gruppo parlamentare, ai vertici della Confederazione generale del lavoro, e nelle federazioni provinciali.
Quando, sull'esempio della Rivoluzione russa, il G. individua nel soviet l'organo della trasformazione socialista, il punto di rottura con il massimalismo italiano e' gia' delineato. Nel settembre 1917 in polemica con C. Treves - ma il discorso investe tutta la tradizione socialista - egli defini' il partito una parte della classe operaia (La Citta' futura, p. 332); questo fu, poi, il punto di rottura anche con A. Bordiga.
Infine, il G. riteneva necessario creare anche in Italia una associazione di cultura socialista che, sul modello della Fabian Society, promuovesse una "discussione profonda e diffusa dei problemi economici e morali che la vita impone o imporra' all'attenzione del proletariato", saldando al movimento operaio "una gran parte del mondo intellettuale e universitario" (ibid., p. 499). Egli riprendeva cosi' un tema che caratterizzo' il suo modo di intendere la lotta per il socialismo fin dagli inizi: la necessita' di prepararne le condizioni innanzi tutto sul terreno culturale.
Questa problematica era stata impostata nell'articolo Socialismo e cultura, del gennaio 1916, nel quale, sulla scia della Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis, il G. attribuisce un valore emblematico al nesso fra l'Illuminismo e la Rivoluzione francese (Scritti giovanili, pp. 22-26). Rimase, quindi, un punto di riferimento costante e nei Quaderni sara' evocato come modello della "riforma intellettuale e morale".
Questo primo lavoro di "traduzione in linguaggio storico nazionale" del bolscevismo condiziono' anche il mutamento della concezione gramsciana del marxismo. Se nel gennaio 1918, ancora una volta in polemica con Treves, egli aveva affermato "che i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbono diventare ipoteca sul presente e sul futuro" (La Citta' futura, p. 556), un anno dopo, polemizzando con B. Giuliano, ne proponeva una definizione in cui e' palese l'intento di recuperare la previsione storica e di elaborare una "scienza della politica" che saldi organicamente teoria e prassi.
"La dottrina del materialismo storico - scrive il G. - e' l'organizzazione critica del sapere sulle necessita' storiche che sostanziano il processo di sviluppo della societa' umana" (Il nostro Marx, p. 521). Si avviava cosi', anche sul terreno filosofico, il passaggio dalla lezione di Antonio Labriola a quella di Lenin.
Nell'aprile 1919, insieme con Togliatti, Tasca e U. Terracini, il G. fondo' L'Ordine nuovo. Il settimanale, nato come rassegna di "cultura socialista", si pubblico' fino al Natale del 1920, per cedere il passo, dal primo gennaio 1921, a L'Ordine nuovo quotidiano, primo organo del Partito comunista d'Italia (PCd'I, che nacque a Livorno il 21 dello stesso mese). Per quasi due anni la pubblicazione del settimanale assorbi' tutte le energie del G. e, dopo pochi numeri, divenne una rivista di cultura politica di valore europeo, impegnata nella divulgazione degli scritti di Lenin e dei principali esponenti del bolscevismo, nello studio e nella discussione delle piu' significative esperienze del movimento rivoluzionario internazionale, in quel breve periodo in cui parve davvero che la Rivoluzione russa fosse il prodromo della rivoluzione mondiale.
Fin dagli anni della guerra Torino che, per il rapido sviluppo della FIAT aveva assunto la fisionomia di una delle citta' industriali piu' moderne d'Europa, era sede di una straordinaria concentrazione operaia ed era stata teatro (nel 1915 e nel 1917) di grandi scioperi insurrezionali. Il mito della Rivoluzione russa conquisto' subito gli operai e l'ambiente socialista torinesi, e scopo de L'Ordine nuovo divento' ben presto quello di studiare le condizioni concrete della rivoluzione proletaria in Italia.
La rivista divento' così l'incubatrice del movimento dei consigli di fabbrica, variante italiana di quel movimento dei consigli che, fra il 1919 e il 1920, fu il protagonista delle esperienze rivoluzionarie e influenzo' il movimento operaio in molte parti del mondo. Essa fu, quindi, anche il crogiuolo della trasformazione di un gruppo di intellettuali di grande levatura in dirigenti rivoluzionari dal profilo del tutto particolare. "Esiste in Italia, come istituzione della classe operaia, qualcosa che possa essere paragonata al Soviet, che partecipi della sua natura?". Da questa domanda esordiva la ricerca del G. e, dal settimo numero, la rivista ritenne di poter dare una risposta positiva studiando e rielaborando, fianco a fianco degli operai della FIAT, quel "germe di governo operaio" costituito dalle commissioni interne (L'Ordine nuovo, 1987, pp. 619 s.). I consigli che da esse ebbero vita furono cosa diversa sia dai soviet russi, sia dai Raete tedeschi e dalle altre esperienze consiliari del "biennio rosso". Nell'attivita' de L'Ordine nuovo si delineava una visione della "rivoluzione proletaria", il cui nucleo essenziale, il nesso fra produzione e politica (De Felice, 1971), va ben oltre le esperienze di quel biennio e imprime alla riflessione successiva del G. un carattere peculiare nella storia del comunismo, del socialismo e del marxismo.
La particolarita' dei consigli di fabbrica torinesi scaturiva dal fine che il G. assegnava loro, cioe' di realizzare "l'autonomia industriale" della classe operaia. Dal punto di vista organizzativo egli attingeva all'esperienza degli shop stewards inglesi e degli americani Industrial Workers of the World, oltre che naturalmente all'esperienza russa. La funzione dei consigli era ben distinta da quella del sindacato e del partito. A questo spettava la direzione politica del processo rivoluzionario e dello Stato, mentre al sindacato, che come compito ordinario conservava quello di tutelare gli interessi dei lavoratori salariati, dopo la conquista del potere sarebbe toccata la funzione di organizzarli per lo sviluppo dell'economia nazionale. Ma solo la rete dei consigli di fabbrica avrebbe consentito che la forza sociale egemone del processo rivoluzionario e della costruzione del nuovo Stato fosse il proletariato perche', se il sindacato e il partito erano associazioni volontarie, di carattere "privato", la rete dei consigli, unificando l'insieme dei lavoratori sulla base delle loro funzioni produttive, era l'unico organismo che ne potesse imporre la volonta' politica; era quindi un organismo "necessario" (non volontario), di natura pubblica come lo Stato, costituiva l'organo della "dittatura del proletariato" e la base dello "Stato dei Soviet".
L'urgenza di organizzare tutta "la massa" degli operai dell'industria e dell'artigianato in consigli di delegati (di reparto, di industria e di circoscrizioni territoriali), al fine di realizzare il controllo permanente dei produttori sul processo lavorativo e sul processo di produzione, scaturiva dal carattere del "periodo storico", dominato dall'attualita' della rivoluzione proletaria. Il primo aspetto di essa, come abbiamo visto, consisteva nell'eccezionale mobilitazione delle masse provocata in tutto il mondo dalla guerra e nello sviluppo della soggettivita' dei popoli che poneva fine al vecchio ordine liberale (L'Ordine nuovo, 1987, pp. 3-6). Ma non meno decisivo era che la guerra avesse "irrimediabilmente rotto l'equilibrio mondiale della produzione capitalistica" (ibid., p. 303) e che la situazione internazionale creatasi nel dopoguerra impedisse la ricomposizione del mercato mondiale; in sintesi, l'"attualita' della rivoluzione" scaturiva da un quadro della situazione mondiale estremamente drammatico e al tempo stesso dinamico, nel cui ambito al G. sembrava che solo sotto la guida del proletariato si potesse ricostruire l'unita' dell'economia mondiale, naturalmente su nuove basi che avrebbero segnato l'avvento dell'Internazionale: l'economia mondiale ordinata "in un organismo unico, sottoposto ad una amministrazione internazionale che governa la ricchezza del globo in nome dell'intera umanita'" (ibid., p. 536).
La classe operaia appariva dunque al G. come l'unica forza sociale in grado di salvare il mondo dalla catastrofe generata dalla guerra e di indicare una prospettiva, nazionalmente, alla dissoluzione dello Stato. A condizione, ovviamente, che essa venisse inquadrata in nuovi organismi che la rendessero consapevole della sua forza e della sua missione. Si poneva, cioe', il problema delle condizioni soggettive della rivoluzione proletaria; in questa prospettiva al G. sembrava che gli organismi individuati dall'Internazionale comunista, soviet e partito "di tipo nuovo", si potessero riproporre ovunque nei paesi sviluppati grazie alla scissione fra capitalismo e industrialismo originata dal "sistema di fabbrica". Essa costituiva il presupposto obiettivo tanto della generalizzazione dei consigli, quanto della costruzione dei partiti comunisti.
Inquadrato nei consigli l'operaio acquisiva consapevolezza dell'unitarieta' del processo produttivo e dalla fabbrica poteva risalire all'economia nazionale ("che e' nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione") e ai suoi collegamenti internazionali, scoprendosene protagonista (ibid., p. 299).
Il G. procedeva quindi a specificare i termini dell'"attualita' della rivoluzione" in Italia. Innanzi tutto, i consigli si rivelavano idonei a organizzare su basi rivoluzionarie non solo gli operai delle grandi fabbriche, ma anche i piccoli artigiani e i contadini poveri. Anche in Italia, come in Russia, la classe operaia poteva unire a se' le grandi masse contadine immesse dalla guerra sulla scena della storia e rivelarsi l'unica classe in grado di unificare il Nord e il Sud del paese, di mutare i termini della produzione e della distribuzione della ricchezza nazionale, di eliminare la debolezza interna e internazionale dell'organismo economico ereditato dal Risorgimento. Poteva determinarsi cosi' l'avvento di una nuova classe dirigente (ibid., pp. 376-378).
Dal canto loro, le vecchie classi dominanti non erano in grado di indicare al paese una via che gli evitasse la riduzione allo stato di "colonia", a cui il nuovo ordine internazionale del dopoguerra lo condannava. L'impresa di Fiume accelerava la decomposizione dello Stato. Le elezioni politiche del 1919, che videro la vittoria dei socialisti e dei popolari, avevano il valore di una costituente.
Con l'avvento del suffragio universale le vecchie classi dirigenti si mostravano incapaci di inquadrare le masse, divenute protagoniste della vita politica del paese, e l'affermazione dei grandi partiti popolari poneva fine al vecchio parlamentarismo. Sia per la borghesia capitalistica, il cui potere si concentrava nelle grandi banche, nelle grandi imprese e nei grandi giornali, sia per il proletariato e i ceti popolari, inquadrati nei sindacati, nei consigli e nei partiti di massa, l'organo di governo del paese non poteva essere piu' il vecchio Parlamento (ibid., pp. 439 s.). Sul piano generale, la polarizzazione delle classi contrapposte scuoteva l'interclassismo dei popolari che ora apparivano al G. destinati a svolgere il ruolo svolto in Russia da A. F. Kerenskij (ibid., pp. 272-274).
In risposta alla grande ondata di scioperi e di insubordinazione sociale, che ebbe il suo epicentro a Torino e in Piemonte con lo sciopero "delle lancette" (aprile 1920) e l'occupazione delle fabbriche (settembre 1920), procedeva velocemente una trasformazione autoritaria dello Stato e i grandi gruppi del capitalismo agrario e industriale favorivano lo sviluppo del movimento fascista, fondato da B. Mussolini il 23 marzo 1919 a Milano. Il G. ne individuava il fine principale nella disorganizzazione violenta del movimento operaio e nella instaurazione di uno Stato autoritario che ne impedisse permanentemente la riorganizzazione politica, assorbendo invece nei suoi quadri le organizzazioni sindacali (ibid., p. 766).
Nel congresso di Bologna (ottobre 1919) la maggioranza del PSI schierava il partito sulle posizioni dell'Internazionale comunista, ma esso rimaneva una formazione politica di tipo parlamentaristico e si rivelava incapace sia di procedere all'organizzazione rivoluzionaria delle masse, sia di dare uno sbocco alla crisi italiana. Di fronte alla complicita' della borghesia capitalistica con i movimenti che, dall'impresa di Fiume allo squadrismo fascista, disgregavano violentemente l'unita' dello Stato e della nazione, il G., all'epoca segretario della sezione socialista torinese, individuava, dunque, nel proletariato la sola classe nazionale, poiche' "la moltitudine di operai e contadini [...] non possono permettere il disgregamento della nazione, perche' l'unita' dello Stato e' la forma dell'organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano". Ma tale funzione nazionale del proletariato poteva essere assolta solo in una prospettiva rivoluzionaria, cioe' solo in quanto quello che "il lavoro italiano" aveva costruito costituisse "il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell'Internazionale comunista" (ibid., p. 233).
Si consumava cosi' il distacco del G. (e del gruppo ordinovista) dalla "tradizione intransigente". Per ovviare all'impotenza del socialismo italiano essi ritenevano necessario e urgente procedere alla fondazione del partito comunista. Il 21 ottobre 1920 il G. sottoscriveva Il manifesto programma della sinistra del partito dando vita, insieme con N. Bombacci, Bordiga, B. Fortichiari, F. Misiano, L. Polano e Terracini, alla costituzione della "frazione comunista". Il 18 dicembre, con l'articolo Scissione o sfacelo?, avvenne la rottura definitiva con Serrati e di li' a un mese, insieme con Bordiga, il G. promosse la scissione del PSI e la nascita del partito comunista.
Il Partito comunista d'Italia, al pari di molti altri partiti comunisti sorti in quel tempo per scissione dai partiti socialisti, era nato anche per forte sollecitazione del II congresso dell'Internazionale comunista, che a meta' del 1920 considerava la rivoluzione proletaria in ascesa in Europa.
Sei mesi dopo la sua nascita, nelle tesi per il III congresso dell'Internazionale si registrava invece una brusca inversione di rotta. Prendendo atto delle sconfitte dell'Armata rossa in Polonia, del movimento rivoluzionario del settembre 1920 in Italia e dell'insurrezione degli operai tedeschi nel marzo 1921, l'Internazionale comunista mutava radicalmente l'"analisi di fase". Cambiavano, quindi, i compiti dei partiti comunisti. Per usare le categorie gramsciane, il mutamento di fase si connotava come passaggio dalla "attualita' della rivoluzione" alla "crisi organica" (Paggi, 1970) e il compito dei partiti comunisti diventava quello di unificare nazionalmente il proletariato, sottraendolo all'influenza largamente maggioritaria dei partiti socialisti e socialdemocratici. A tal fine il III congresso varava la "tattica di fronte unico" che i partiti comunisti dovevano seguire smascherando le elites riformiste con l'iniziativa "di massa". Il PCd'I, impegnato in una lotta frontale contro tutte le altre correnti del PSI, si oppose, dunque, alla svolta del III congresso ed entro' in un conflitto con il Komintern (abbreviazione del russo Kommunisticeskij Internacional, Internazionale comunista) che si sarebbe risolto solo con la successione del G. a Bordiga.
Nei primi due anni di vita del partito il G. non si era mai dissociato del tutto da Bordiga, ne' aveva accettato la proposta venutagli dal Komintern, nell'autunno 1922, di sostituirlo. Condivideva la limitazione della "tattica di fronte unico" alla sola azione sindacale. Per le condizioni in cui il PCd'I era sorto il G. considerava Bordiga insostituibile, sebbene fosse agli antipodi della sua forma mentis.
(Parte prima - segue)

2. MAESTRI. FRANCO FORTINI: MARXISMO (1983)
[Riproponiamo ancora una volta il seguente testo, da Franco Fortini, Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991 (una bella raccolta di testi brevi e dispersi curata da Paolo Jachia, qui fine editore ma anche autore di egregi studi - vedi ad esempio le sue belle monografie laterziane su Bachtin e De Sanctis). Li' il testo che riportiamo e' alle pp. 145-149. Era primieramente apparso sul "Corriere della sera" del 29 marzo 1983]

Quelli che hanno la mia eta' Marx l'hanno letto alla luce delle nostre guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi, del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. "E tu come li chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?", mi si chiedera' ora; forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo. Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal Diciassette, quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a Shanghai, a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut... I cacciatori di "bestie marxiste" (cosi' si esprimono) devono sempre aver avuto difficolta' ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano, marxista, socialista, comunista, bolscevico e cosi' via.
Mi spieghero' meglio, per loro beneficio. C'e' una foto russa, del tempo della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli, cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall'arm i fucili dello zar. Questo e' marxismo. C'e' un'altra foto, Varsavia 1956, un giovane magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata folla operaia che il giorno dopo l'Armata rossa, come a Budapest, puo' volerli morti o deportati. Anche questo e' marxismo. Con chi queste cose dice di non capirle, di marxismo e' meglio non parlare neanche.
Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze dell'ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sul miei scaffali invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora, di venire trascinato alla tortura e alla fossa com'e' accaduto e ogni giorno accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco e' mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero, come lo stadio di Santiago del Cile, le "bestie marxiste". So chi mi avrebbe aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi conoscono perche' hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste righe per salutare Alaide Foppa, mia collega di letteratura italiana a Citta' di Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l'ha ammazzata, in Guatemala. Anche questo e' marxismo.
Cominciai nel 1940 col Manifesto, per consiglio di Giacomo Noventa e Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Trockij e Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo pratico. A Zurigo, nell'inverno 1943-44, non so quanti libri lessi, riassunsi e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico. Si faceva fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo, mi fu molto utile; l'aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo, seppi poi, di Saragat. L'apprendistato comprendeva testi anche troppo disparati: Malraux e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard...
A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche (Le lotte di classe in Francia, Il diciotto brumaio, La guerra civile in Francia), parte della Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza sintetica, della Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del Capitale, e a partire dal 1949 quei Manoscitti economico-filosofici del 1844 oggi tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacita' di guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e di dirci parole di incredibile attualita'. E altro ancora.
Dopo vent'anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo Marx; dopo Lukacs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao e gli amici torinesi di "Quaderni rossi", a quelle pagine non ho piu' sentito il bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia intitolata, appunto, "Il pensiero nelle opere dei classici":

Non si cura
che tu gia' lo conosca; gli basta
che tu l'abbia dimenticato...
senza l'insegnamento
di chi ieri ancora non sapeva
perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.

Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se fondamentale, quel pensiero non e' se non un passaggio dell'ininterrotto processo che porta da luce a oscurita' poi ad altra luce, e dal credere di sapere al sapere di credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza. O per la gioia dei piu' sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di aver detto sempre e cioe' di non aver creduto mai che il pensiero di Marx potesse fungere da chiave interpretativa del mondo piu' o meglio di quanto lo faccia, ad esempio, la poesia dell'Alighieri? Una educazione alla storia ci faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben prima e sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.
Quando, per l'Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci viene ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx e' filosofia superata, non ho difficolta' ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa significa superare la filosofia di Platone o di Kant. Quando ci viene spiegato che la teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del saggio di profitto sono manifestamente errate, non ho difficolta' ad ammetterlo; anche perche' mai l'ho impiegata per capire come vadano le cose di questo mondo. Quando mi si dimostra che l'idea, certo marxiana, di un passaggio dalla preistoria umana alla storia mediante la fine della proprieta' privata, dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace e senz'altro smentita dai "socialismi reali", apertamente lo riconosco; anche perche' ho sempre attribuita la figura d'un progresso illimitato all'errore che afferma la indefinita perfettibilita' dell'uomo, un errore illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.
Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie e' falsa, che la lotta delle classi e' una favola e che il socialismo e' una utopia senza neanche l'utilita' pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento di istruttoria. Primo, perche' il pensiero epistemologico contemporaneo, dalla critica psicanalitica del soggetto fino alla semiologia, conferma la fine d'ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realta', come fra mondo e concezioni del mondo; secondo, perche' a tutt'oggi e' difficile negare - e lo si sapeva ben prima di Marx - l'esistenza di ininterrotti conflitti di interessi fra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione e la ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi del produrre e determinanti l'assetto, o lo sconvolgimento, dell'intera societa'. Per quanto e' del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri che esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.
La volonta' di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo grazie alla mediazione dell'etica e della religione. Marx non ne ha data nessuna ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista, credo si debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre piu' sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il "sogno di una cosa" e' la realizzata capacita' dei singoli e delle collettivita' di operare sul rapporto fra necessita' e liberta', fra destino e scelta, fra tempo e attimo.
Il movimento socialista e comunista si e' fondato per cent'anni su quel che si chiamava l'insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l'idea che il passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo delle forze produttive, della industrializzazione e della crescita della classe operaia; e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi nodi di verita' e di errore si e' legato il "socialismo reale". Oggi gli esiti del passato ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici non solo per cadute politiche, economiche o culturali ne' solo per costi umani; ma perche', anche al di fuori dei paesi comunisti, il "marxismo reale" ha accettato il quadro mentale del suo antagonista: primato della tecnologia, etica della efficienza, sfruttamento dei piu' deboli. Sembrano falliti tutti i tentativi per uscire da questa logica: massimo quello cinese. Eppure, Bloch dice, non e' stata data nessuna prova che quella uscita sia impossibile. L'eredita' marxiana e' divisa: una meta' e' ancora nostra, l'altra e' dei nemici del socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera, anche rossa.
Quanto alla mente geniale morta cent'anni fa, e' anche grazie ad essa che e' stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalita' e dei loro sepolcri. Pero' ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati, a Nanchino la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati; mi fosse possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una medesima parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici. Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le societa' che preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino, quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a volere. Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta, interpretata, "salvata". E o lo sara' o non ci sara' piu' - sappiamo che e' possibile - nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti "salvi" o non sarai esistito mai.
L'amico di Federico Engels non e' stato davvero il primo a dircelo. L'ultimo si'. E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso, "il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" (Ideologia tedesca, 1845-46, I, a). Anche questo e' marxismo.

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Numero 64 del 27 aprile 2021
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