[Nonviolenza] La biblioteca di Zorobabele. 25



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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 25 del 19 marzo 2021
 
In questo numero:
1. Achille Tartaro: Giacomo Leopardi (parte prima)
2. Aldo Capitini: Principi dell'addestramento alla nonviolenza
 
1. MAESTRI. ACHILLE TARTARO: GIACOMO LEOPARDI (PARTE PRIMA)
[Dal Dizionario biografico degli italiani (2005), nel sito www.treccani.it]
 
Giacomo Leopardi, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici, nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, alla periferia dello Stato pontificio. Visse gli anni della fanciullezza in un clima familiare improntato a un cattolicesimo reazionario e ancorato a radicati pregiudizi nobiliari. In questo periodo fu centrale la figura del padre che, interdetto dall'amministrazione domestica e sostituito dalla moglie, segui' personalmente l'educazione dei figli maggiori, Carlo e Paolina oltre al L., coadiuvato da precettori ecclesiastici (G. Torres, V. Diotallevi e, dal 1807, S. Sanchini). I giochi infantili, le inclinazioni testimoniate dal padre e dai fratelli, i saggi annuali alla presenza dei parenti sulle materie di studio costituiscono un patrimonio aneddotico certo insufficiente a chiarire la rapida evoluzione della sua personalita'.
Nel 1812 il padre prese atto che il L. non aveva piu' nulla da imparare dal modesto Sanchini. Gia' da tre anni egli mostrava una precoce passione per lo studio, che lo spingeva a isolarsi nella biblioteca paterna (apprese da solo greco e ebraico) e ai cui eccessi imputo' in seguito la fragilita' fisica e l'avergli reso "l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che e' la sola a cui guardino i piu'" (lettera a P. Giordani, 2 marzo 1818).
Prose e poesie del 1809-10 documentano la fase dell'istruzione scolastica del L., dedicata all'apprendimento del latino e agli studi retorico-letterari, sulla scorta del De arte rhetorica di Domenico da Colonia. I temi arcadici (nelle canzonette de La campagna), classici e biblico-religiosi evidenziano la tendenza a ripercorrere strade gia' battute, anche minori (favolistica morale in versi, versi burleschi), con l'obiettivo di mostrarsi padrone di un'intera tradizione tecnico-espressiva. Forse su suggerimento del canonico G.A. Vogel, profugo alsaziano allora residente a Recanati, cui sembra risalire anche l'idea dello Zibaldone, il L. tradusse le Odi e l'Arte poetica di Orazio nella metrica "barbara" di G. Fantoni; mentre la sua materia andava dilatandosi nella struttura del poemetto narrativo (Il Baalamo, Le notti puniche, Il diluvio universale) o nel composito disegno del Catone in Affrica, vero campionario di forme poetiche.
Di uno stadio scolastico piu' avanzato sono le Dissertazioni filosofiche (1811-12) su questioni di logica, di metafisica, di fisica e di morale (la felicita', le virtu' etiche e intellettuali). A parte la prontezza con cui il L. affronta una problematica del tutto nuova, le Dissertazioni si muovono nel solco della teologia cattolica sei-settecentesca (F. Suarez, F. Jacquier, J. Sauri, il cardinale M. de Polignac ecc.), dalla quale il giovane L. trae le ragioni di una verita' affrancata dagli esiti del materialismo sensistico e in grado di competere con l'Illuminismo e con il razionalismo.
L'esperienza letteraria degli scritti puerili si prolunga nelle tragedie in tre atti La virtu' indiana (1811, che riprendeva l'esotismo del Montezuma di Monaldo) e Pompeo in Egitto (1812). Sulla scia dei piu' recenti studi filosofici, il L. confutava intanto i negatori del libero arbitrio (Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato "Analisi delle idee ad uso della gioventu'", 1812), puntando sulla leggerezza della forma dialogica, secondo modelli antichi e moderni (Platone, Cicerone, Luciano, Fontenelle, F. Algarotti). Ma nel 1813 rivelo' i suoi principali interessi nella Storia della astronomia dalla sua origine fino all'anno 1811.
La Storia ribadiva la fede nel progresso, nell'ottica di una sapienza coincidente con gli insegnamenti della religione. Il punto di vista, illuministico-cristiano, si univa a una minuziosa esplorazione di testimonianze erudite, accompagnate a loro volta da un vivo interesse filologico. Il L. fu anche un filologo in senso tecnico, attivo soprattutto tra 1813 e 1815, poi nel 1816-17, 1822-23 e 1827, con lavori su autori e opere della tarda grecita' (Esichio Milesio, la Vita Plotini di Porfirio, i retori e gli scrittori di storia ecclesiastica dei primi secoli). Corredava i testi, originali o tradotti, con commentari per lo piu' in latino, elenchi di varianti e ingenti note bio-bibliografiche. L'impegno filologico affiorava quando il L. avanzava le proprie congetture. Su questo terreno dette il meglio di se', senza confronti. Anche A. Mai, alle cui scoperte di codici si collego' molta sua produzione filologica (dai lavori su Frontone e su Dionigi d'Alicarnasso del 1816-17 a quelli sulla Cronica di Eusebio e sul De re publica di Cicerone del 1823), fu mediocre conoscitore delle lingue classiche (specie del greco); le sue cure si esaurivano nell'illustrazione dei dati puramente esterni, storico-geografici e antiquari. Oltre che nei contributi legati a Mai - prima ammirato ma, dopo la canzone a lui dedicata, giudicato con il tempo in termini aspramente liquidatori - le qualita' della filologia leopardiana si confermarono nel periodo romano, culminando nello studio di moralisti e satirici dell'antichita' classica, nelle osservazioni testuali su Libanio e i retori greci e in quelle suggerite dall'edizione dei Papiri torinesi curata da A. Peyron (1824-27).
Gia' nel 1815 l'attivita' filologico-erudita del L. ebbe qualche risonanza fuori di Recanati. A Roma lo zio materno, Carlo Antici, aveva sottoposto i suoi scritti all'esame di F. Cancellieri. Questi ne parlo' nella Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria (Roma 1815), enfatizzando il parere equilibratamente elogiativo sul Porfirio dell'epigrafista e diplomatico svedese J.D. Akerblad (che pero' aveva anche espresso alcune sostanziali riserve su un'opera che prima di essere pubblicata richiedeva una piu' estesa consultazione del materiale manoscritto). Antici, apprese dal Cancellieri le obiezioni di Akerblad, le comunico' al cognato (che ne rese edotto il L.), non senza auspicare che il figlio lasciasse la filologia per la carriera ecclesiastica, cui sembrava portato e nella quale era prevedibile per lui un avvenire ricco di soddisfazioni.
Consapevole o meno del suggerimento, il L. continuo' a coltivare gli interessi eruditi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815): quasi in coincidenza del suo "passaggio [...] dall'erudizione al bello" (Zibaldone, 1741). Rispetto alla Storia della astronomia, da cui provengono alcuni dei temi trattati, la prosa del Saggio acquista in scioltezza e mobilita'; nel gioco fra il puntiglio dell'informazione (attinta in prevalenza ai poeti greci e latini) e la varieta' dei toni - ironici, riflessivi o coinvolti nell'intrinseca suggestione dei miti - si intravede la via alle Operette morali. L'attenzione formale e' tutt'uno con un'ideologia sensibilmente mutata. Ferma restando l'inclinazione illuministico-cristiana del discorso, l'inventario degli "errori popolari" (le superstizioni che ostano alla conoscenza del "vero" metafisico, fisico o naturale) si sottrae all'idea provvidenziale di un progresso immancabile. L'ignoranza degli antichi, per quanto confutata e corretta, si protraeva ancora nei pregiudizi di un secolo che pure si diceva "illuminato"; allo scrittore altro non restava se non farsi banditore della ragione cristiana contro la credulita' del volgo, arroccandosi nella fiducia che il "vivere nella vera Chiesa e' il solo rimedio contro la superstizione" (Tutte le opere, I, p. 867).
Il distacco del Saggio dall'ottimismo provvidenziale e apologetico della Storia della astronomia annuncia l'emancipazione del L. dall'ideologia familiare. La strada imboccata male si conciliava con la precedente professione di una milizia cattolica volta alla celebrazione del progresso umano sotto le bandiere della fede. L'ultimo suo tributo alle posizioni paterne fu l'orazione Agl'Italiani, in occasione della liberazione del Piceno (1815), per la vittoria degli Austriaci su Gioacchino Murat a Tolentino. Il L. vi condanno' la "tirannia" di Napoleone e dei suoi; con la Restaurazione l'Europa tornava alla pace dopo lo sconvolgimento della Rivoluzione. Da cio' l'immagine idilliaca di un'Italia sotto l'"amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi", garanti della pace e quindi della vera felicita' dei popoli, contro ogni illusoria promessa di liberta' e indipendenza; alla luce di un patriottismo diviso fra pragmatismo benpensante ("Italiani! rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido") e orgogliosa rivendicazione di un primato artistico resistente ai saccheggi perpetrati dalle armi francesi (Tutte le opere, I, pp. 872, 873).
Il "passaggio" al bello, "non subitaneo, ma gradato" (Zibaldone, 1741), significava intanto, nel 1816, la conversione alla poesia. Tale passaggio si rispecchia in una serie di impegnate versioni poetiche, oltre che nelle contraffazioni di un Inno a Nettuno (1816) e di due anacreontiche (le Odae adespotae) fatte passare per antiche (1816), e ha i primi significativi sbocchi nell'idillio funebre Le rimembranze e soprattutto nella cantica Appressamento della morte (fine 1816).
Rispetto alla versione delle Odi di Orazio, ferma al gusto genericamente classicheggiante di tanta Arcadia, le traduzioni del 1815-17 mostrano una sensibile correzione teorica. Tradurre e' ora, per il L., riprodurre i colori dell'eta' classica, piegando la lingua alla "naturalezza" e "semplicita'" del greco di Mosco o affrancandola da frigide interpretazioni letterali nel caso della burlesca Batracomiomachia, senza rinunciare al "sapor greco" dell'originale (Tutte le opere, I, p. 388). Tale fu il criterio della traduzione del I libro dell'Odissea, del II libro dell'Eneide, del volgarizzamento del Moretum (La torta) e della successiva versione della Titanomachia, dove un linguaggio studiatamente energico mira a riprodurre il primitivismo che sarebbe stato di Esiodo. Allo stile delle traduzioni si collegano i componimenti originali alle soglie della maggiore stagione leopardiana. Nei limiti del divertimento letterario (che sostenne anche il falso volgarizzamento del Martirio de' Santi Padri, scambiato per autenticamente trecentesco da A. Cesari e pubblicato nel 1826) il suo classicismo torna nel dettato solenne e favoloso dell'Inno a Nettuno, denso di grecismi e latinismi, e in odi in greco sul modello di Anacreonte intessute di ricordi da Omero, Saffo, Euripide, Teocrito e Virgilio. Un ricordo della versione di Mosco resta nella fattura de Le rimembranze, debitrice della raffinatezza di S. Gessner (mediata dalla traduzione di F. Soave), sul registro elegiaco poi costitutivo degli Idilli. Sta a se' l'Appressamento della morte, dove l'esperienza di traduzione si innesta nel tentativo di una poesia autobiografica che si leva a denunciare i mali dell'esistenza, dalla follia amorosa all'empieta' e violenza dei tiranni. Il poemetto (cinque canti in terzine), carico di figurazioni allegoriche e concitatamente predicatorio, deve molto a Dante, al Petrarca dei Trionfi, alle Visioni di A. Varano e alla Bassvilliana di V. Monti.
Per il L. l'Appressamento della morte fu un punto fermo della sua "carriera poetica"; ne pose l'inizio, ritoccato, tra i Frammenti che chiudono il libro maggiore, ma gia' nel 1820 ne cito' la conclusione a prova della propria capacita' di dare voce a "certi affetti" quando "le sventure [lo] stringevano e [lo] travagliavano assai" (Zibaldone, 144). La testimonianza riguardava in effetti un momento fondamentale. Pur con enfasi moralistica e artificialita' d'impianto, l'Appressamento della morte rifletteva una crisi profonda; le precarie condizioni fisiche portavano al pensiero assillante di una fine vicina (ripreso, nel 1817, nel sonetto Letta la vita dell'Alfieri scritta da esso), mentre nuove, irrinunciabili esigenze - a partire da quella di lasciare Recanati - rafforzavano la percezione di una felicita' negata.
In questo quadro ha grande importanza la corrispondenza epistolare con P. Giordani, intanto per la cordialita' con cui lo scrittore affermato, avuta in omaggio dal L. la traduzione del libro II dell'Eneide, si dispose verso il giovane. Le lettere del L., particolarmente fitte fra 1817 e 1821, rivelano una fiduciosa espansivita'. Le confidenze personali (l'insopportabile costrizione recanatese, la precarieta' fisica, il desiderio di veder riconosciute le proprie qualita', il tarlo della malinconia) si intrecciano con riflessioni e progetti letterari. Il L., eletto a guida l'interlocutore, lesse i trecentisti con l'interesse prima riservato agli autori del Cinquecento ma soprattutto colse l'occasione di aprire un varco nella propria solitudine intellettuale. A Giordani egli parve il "perfetto scrittore d'Italia", il nobile virtuoso e dotto a lungo vagheggiato, l'ottimo conoscitore delle lingue classiche persuaso che "il solo scriver bello italiano puo' conseguirsi coll'unire lingua del trecento a stile greco" (lettera del 21 settembre 1817). Il L., lusingato, non tardo' a indirizzarsi all'eloquenza civile, che nel settembre-ottobre del 1818, poco dopo una visita dell'amico a Recanati, dette forma al patriottismo di marca liberale delle canzoni politiche (All'Italia, Sopra il monumento di Dante).
Il poeta si senti' ufficialmente introdotto nella cultura letteraria neoclassica, in appoggio della quale era intervenuto con una Lettera (non pubblicata) alla Biblioteca italiana, in risposta all'articolo di madame de Stael Sulla maniera e l'utilita' delle traduzioni (1816). Gli interessi comuni lo collegavano gia' a Mai, allora bibliotecario dell'Ambrosiana, successivamente prefetto della Vaticana, ma Giordani lo mise in relazione con numerosi intellettuali del cote' classicista: lo storico e filologo greco A. Mustoxidi (dedicatario del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi), D. Strocchi, lo storico C. Rosmini, C. Arici, F. Reina (editore di Parini), G. Mezzofanti, B. Borghesi, A. Peyron, e poi ancora G.B. Niccolini, M. Angelelli, F. Schiassi, G. Marchetti, G. Roverella, G. Grassi, L. Trissino (a cui il L. dedico' la canzone Ad Angelo Mai). Alla stessa cerchia apparteneva G. Perticari, genero e collaboratore di Monti, del quale il L. cerco' l'amicizia attraverso il cugino F. Cassi; il loro legame sara' pero' superficiale e in definitiva deludente. Altra consistenza ebbe l'amicizia con G. Montani, legato al gruppo del Conciliatore, poi a quello fiorentino dell'Antologia. Questi intui' lo spessore delle canzoni civili ("mi conferma nell'opinione, che allora avremo grandi poeti quando avremo gran cittadini": lettera del 5 maggio 1819); e nel 1827, recensendo le Operette morali, colse l'originalita' di quella "musica - altamente melanconica - le cui voci tutte si rispondono e recano all'anima la piu' grave delle impressioni" (Scritti letterari, a cura di A. Ferraris, Torino 1980, p. 197). Tra gli amici di Giordani e presto del L. fu infine, a Bologna, il servizievole P. Brighenti, cultore di letteratura e musica, ex giacobino e funzionario napoleonico poi divenuto, dopo rovesci economici, confidente della polizia austriaca.
L'amicizia non cancellava la sostanziale differenza fra il classicismo di Giordani, eminentemente accademico, e quello del L., che prese le distanze dalla sua poetica astrattamente normativa difendendo la legittimita' del "brutto" in sede estetica e ne respinse il consiglio di esercitarsi nelle traduzioni in prosa prima di tentare le difficolta' del linguaggio poetico (lettera del 30 aprile 1817).
Il L. continuava a sperimentare le risorse del linguaggio in piu' direzioni: da quella tragica dell'appena abbozzata Maria Antonietta (1816) a quella comica dei Sonetti in persona di ser Pecora fiorentino beccaio (1817) contro G. Mansi, bibliotecario romano colpevole di "parole indegne" verso Giordani e Monti (Tutte le opere, I, p. 318), a quella introspettiva, vistosamente petrarcheggiante (diversa dal contemporaneo diario in prosa, teso alla schiettezza del resoconto sentimentale) dell'Elegia I, intitolata poi Il primo amore - cui segui' nel 1818 l'Elegia II - collegata all'infatuazione per Geltrude Cassi Lazzari, cugina del padre, di passaggio a Recanati (1817).
In quest'ambito le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze si offrono come altrettante incursioni nella lirica eloquente, sulla scia del Petrarca civile ma con l'occhio ai pindarici seicenteschi (G. Chiabrera, F. Testi); assunta a chiave interpretativa dell'attualita' politica, la classicita' si tradusse in vibrata esortazione civile. L'impostazione parenetica delle due canzoni (che aprirono i Canti, avviando la cronologia ideale del capolavoro) fa leva sul contrasto con la stagione del patriottismo, smarrito nei tempi perversi della Restaurazione. Nella seconda canzone il L. si identifica con Dante, nuovo Omero; ma soprattutto nella prima, rifacendo il canto di Simonide di Ceo, il poeta tenta di rivivere la dimensione dell'antichita', oggetto di una nostalgia culturale e morale le cui motivazioni riguardano concetti fondamentali del suo pensiero.
Lo Zibaldone di pensieri - l'imponente diario steso dal luglio-agosto del 1817 al 1832, documento insostituibile della sua storia intellettuale - esordisce perentoriamente: "La ragione e' nemica d'ogni grandezza: la ragione e' nemica della natura: la natura e' grande, la ragione e' piccola" (14). Quasi identicamente si esprime il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818). La fedelta' ai classici e alla tradizione nazionale, proclamata nella risposta alla Stael, e' argomentata piu' ampiamente, in polemica con le Osservazioni di L. di Breme. Ai romantici il L. risponde contrapponendo alla condizione moderna, dominata dalla ragione, l'aurora del genere umano, l'eta' felice della fantasia e delle illusioni non compromesse dall'incivilimento. La poesia, destinata a dilettare con gli inganni dell'immaginazione e percio' contraria al vero razionale, deve ispirarsi alla natura; i poeti moderni, guastati dalla civilta' e dall'intelletto, devono calarsi nel primitivismo di Omero, Esiodo, Anacreonte, Callimaco. E' questo il nodo di un classicismo innervato di passione patriottica e politica (nell'apostrofe ai giovani italiani alla conclusione del Discorso e nelle canzoni civili), volto a privilegiare il postulato antropologico della polemica letteraria, quel conflitto natura-ragione che, causa dell'infelicita' umana, e' presto al centro dell'indagine pessimistica del Leopardi.
Egli situo' nel 1819 un altro passaggio, quello dal bello al vero filosofico: una "mutazione totale", identica al trapasso dell'umanita' dalla condizione primigenia alla moderna. Un forte abbassamento della vista, impedendogli la lettura, gli fece sentire l'infelicita' in modo "assai piu' tenebroso", e lo porto' a "riflettere profondamente" e a provare "l'infelicita' certa del mondo, in luogo di conoscerla" (Zibaldone, 143-144).
La nuova conversione comporto' una sorta di paralisi della fantasia, il venire meno della capacita' di reagire anche a spettacoli naturali; escluso percio' l'accesso alla poesia vera, quella antica e dell'immaginazione, non restava che attingere alla materia sentimentale e filosofica, sola consentita a un moderno. Esemplificando l'accaduto, il L. citava la sua produzione del 1819, dove la facolta' inventiva si sarebbe limitata ad "affari di prosa", mentre nei versi le immagini sarebbero sgorgate a stento, lasciando posto esclusivamente al sentimento. L'allusione alla prosa riguardava i cosiddetti Ricordi d'infanzia e di adolescenza, una congerie di appunti autobiografici per un romanzo di argomento amoroso e politico, in parte epistolare, sul modello del Werther e dell'Ortis. Egli intendeva riprodurre i momenti salienti di una vita interiore dominata dall'attesa della morte, ma palpitante di passione antitirannica e attratta dalla bellezza femminile e dal desiderio d'amore, evocando esperienze anche minime - sensazioni visive e acustiche, raccordi spontanei, fantasie - del proprio passato intimo. Sul progetto torno' in seguito (nel 1825 penso' a una Storia di un'anima scritta da Giulio Rivalta), non andando oltre rapide annotazioni. L'accenno ai versi alludeva a due canzoni poi rifiutate, Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, nelle quali l'"infelicita' certa del mondo", verificata e non solo nota concettualmente, si era espressa come effusione sentimentale a forti tinte emotive, incline nella seconda canzone a certa crudezza patetica gia' rimproverata ai romantici. Lo sperimentalismo leopardiano, ribadito peraltro dalla Telesilla (dramma pastorale incompiuto ricavato dal poema cinquecentesco Girone il cortese di L. Alamanni, riletto in chiave tragicamente conflittuale), risultava qui scarsamente produttivo: gli spunti di una problematica esistenziale destinata a grandi sviluppi riuscivano banalizzati, come sopraffatti dalla concitazione.
Altrimenti redditizio fu il percorso avviato sempre nel 1819 da L'infinito e proseguito probabilmente nello stesso anno da Alla luna e dal Frammento XXXVII (originariamente: Lo spavento notturno). Il L. intraprendeva il ciclo che disse degli Idilli e che avrebbe pubblicato solo nel 1825, dedicato a rappresentare "situazioni, affezioni, avventure storiche del [suo] animo" (Tutte le opere, I, p. 372).
Sciolto l'ingorgo sentimentale delle canzoni rifiutate, il L. fisso' alcune intense sensazioni e suggestioni: il perdersi nella dimensione mentale, prelogica, dell'infinito spazio-temporale (L'infinito); il piacere del ricordare, pur nella coscienza di un destino doloroso, nel passato come nel presente (Alla luna); l'attrazione culturale del primitivo, recuperato nelle movenze di una svagata fantasia pastorale (Frammento XXXVII). Le avventure idilliche non eludevano le verita' generali su cui andava costruendo un "sistema" di pensiero, perche' ne accertavano l'urgenza e fondatezza razionale, verificandole sul terreno del vissuto. In questa prospettiva il confronto con il "vero" pote' trapassare dalle emozioni private a considerazioni di assoluta portata storico-morale (La sera del di' di festa, 1820); oppure insinuarsi nella trama letteraria de Il sogno (1820-21), dove il tema petrarchesco convoglia motivi e toni del Monti dei Pensieri d'amore; o infine scandire drammaticamente le ore del giorno su una traccia che tradisce l'influenza congiunta di Parini e di Pindemonte (La vita solitaria, 1821).
Intanto un ingenuo tentativo di fuga, nel luglio del 1819, era stato la spia di una situazione fattasi insostenibile. Non appena maggiorenne il L. si risolse a rompere con la famiglia e con Recanati. Un conoscente del padre, S. Broglio d'Ajano, gli ottenne il passaporto per il Lombardo-Veneto, ma Monaldo blocco' l'iniziativa. In una lettera al padre acclusa a un'altra indirizzata al fratello Carlo, il L. lo accuso' di condannarlo a "vivere e morire come i [suoi] antenati"; abbandonarsi "a occhi chiusi" - scrisse a Carlo - "nelle mani della fortuna" era l'unico modo di sottrarsi a una miserabile vita di "orribili malinconie", laddove egli preferiva "essere infelice che piccolo" (lettera a Carlo e Monaldo, fine luglio 1819). Il padre si convinse ancor piu' che il figlio fosse male influenzato da Giordani; il L. torno' a sperimentarne l'ingombrante tutela quando, nel 1820, composta la canzone Ad Angelo Mai, la invio' a Brighenti con le due dell'anno precedente in vista di una pubblicazione a Bologna. Quando Monaldo si oppose a questo e a una ristampa di All'Italia e Sopra il monumento di Dante, egli pote' solo protestare contro l'interferenza, estesa anche a Nella morte di una donna, il cui titolo avrebbe fatto immaginare al genitore "mille sozzure nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto". Il L. stampo' la sola canzone a Mai (presto vietata nel Lombardo-Veneto), il cui titolo non poteva impensierire il padre, non sospettandone questi l'"orribile fanatismo" (lettera a P. Brighenti, 28 aprile 1820).
Enunciando nello Zibaldone il passaggio dal "bello" al "vero", egli mise a fuoco l'aspetto forse piu' delicato della propria identita' di scrittore: il nesso strettissimo tra riflessione filosofico-morale e miti poetici, dato acquisito dalla critica postidealistica contro una lettura frammentaria intesa (da F. De Sanctis a B. Croce) a sorprendere nei Canti una liricita' indenne da sovrastrutture intellettualistiche, ma anche contro semplicistiche riduzioni della poesia a meccanico rispecchiamento delle idee. La poetica del vero sottendeva una funzione conoscitiva, intrinsecamente filosofica, della letteratura e diveniva base di un pensiero a cui concorrevano il momento zibaldoniano della concettualizzazione e quello che diremmo della riflessione lirica, condotta con gli strumenti della poesia (si rimanda agli studi di W. Binni, C. Luporini, S. Timpanaro; e fra i piu' recenti a quelli di C. Galimberti, L. Blasucci, A. Dolfi, M. Santagata). L'impossibilita' di rivivere la condizione degli antichi avvio' la fase di rimpianto dello stato naturale, che duro' nella storia del L. fino al 1822. La natura, madre benefica e previdente, aveva garantito un'esistenza felice all'umanita' primitiva, ignara della verita' ma animata da illusioni e passioni; il prevalere della ragione in eta' moderna aveva inaridito le facolta' vitali e introdotto, con l'egoismo, la noia, il vuoto e la nullita' del mondo. Su questa tematica e le sue articolazioni nello Zibaldone ruotano le canzoni degli anni 1820-22. In Ad Angelo Mai, quand'ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (1820), l'impegno civile illustra la frattura fra passato e presente con un motivo foscoliano, la rassegna dei grandi italiani (da Dante ad Alfieri), testimoni di una realta' decaduta nell'attuale squallore. La condanna del "secol morto", nel ritrovato impianto parenetico delle canzoni del 1821, Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, addita gli esempi da seguire nella classicita': la romana Virginia, per le donne consapevoli del ruolo di spose e di madri; la "sudata virtude", principio di una pedagogia che, valorizzando l'esercizio fisico e l'agonismo, educhi la gioventu' italiana alla virile abnegazione dei Greci a Maratona. Nel Bruto minore (pure del 1821) alla delusione dell'eroe dopo la battaglia di Filippi seguono il rinnegamento della virtu' e la denuncia della sua illusorieta', con la scelta alfieriana e ortisiana di darsi la morte per una passione libertaria che non sottosta' a proibizioni religiose. La nostalgia dell'eta' perduta si accampa nella canzone Alla Primavera, o Delle favole antiche (1822), dove con ricercata eleganza il L. collega i miti classici alla stagione della piena armonia degli esseri umani con la natura, quando quest'ultima, fantasticamente animata, non era ancora resa estranea dall'"atra face del ver". Nello stesso anno l'Ultimo canto di Saffo, denso di elementi ossianici e preromantici, presento' il suicidio in termini diversi dal Bruto minore. Lo stato d'animo che aveva portato la poetessa, priva di bellezza e non corrisposta nell'amore per Faone, a togliersi la vita era piu' teneramente dolente e ricco di sfumature. La requisitoria contro la natura, pervasa del sentimento di un'ingiusta esclusione, era ristretta a un caso personale (leggibile peraltro in chiave autobiografica) ma sul punto sempre di divenire larga considerazione dell'esistenza e del dolore umano. L'Ultimo canto fa intravedere il ribaltamento del concetto della natura materna. Ma la felicita' primitiva ridiventa, nello stesso 1822, oggetto di rimpianto nell'Inno ai patriarchi, o De' principii del genere umano: grandioso affresco biblico, dove l'idea originaria di un canto religioso (secondo un progetto di Inni cristiani risalente al 1819) diviene rimpianto dei tempi propizi all'"umana stirpe" e polemica verso i moderni, che in nome di una pretestuosa missione civilizzatrice esportano la propria infelicita' presso popoli che vivono nella beata inconsapevolezza voluta dalla "saggia natura".
Per quanto esposta a dubbi fin dal 1819, la concezione positiva della natura resiste' nel L. finche' ritenne che l'umana sofferenza nascesse alla fine dell'antichita', con l'avvento della ragione e del vero. Un primo mutamento e' implicito nella "teoria del piacere", riconoscimento su basi sensistiche (in pagine dello Zibaldone del 1820-21) del meccanismo psicologico che, stimolando i viventi a cercare una felicita' senza limiti, li condanna alla frustrazione di un desiderio fatalmente inappagato. Esso divenne radicale con la scoperta del pessimismo antico, accennata nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (1822) e confermata nel soggiorno romano dalla lettura del Voyage du jeune Anacharsis di J.-J. Barthelemy e di Plutarco. L'infelicita' era insita nella natura; non poteva non cadere ogni nostalgia verso il passato.
Dal 23 novembre 1822 al maggio 1823 il L. fu a Roma presso lo zio Antici. Le lettere ai genitori e ai fratelli testimoniano una grande delusione; la grande citta' lo sgomento' e i monumenti lo lasciarono indifferente, ma fu deluso soprattutto dalla cultura romana, che lo accolse come filologo ed erudito. Nel 1819 aveva richiesto a Broglio il passaporto per il Lombardo-Veneto o in alternativa per la capitale pontificia, dove sperava di esprimere le sue inclinazioni meglio che a Recanati, ma ora Cancellieri gli parve "un coglione, un fiume di ciarle, il piu' noioso e disperante uomo della terra" (lettera a Carlo Leopardi, 25 nov. 1822). Giudico' negativamente, con qualche ingiustizia, la moda antiquaria e archeologica; al senso di estraneita' si accompagnava in lui solo il "piacere delle lagrime", come dinanzi al sepolcro del Tasso (allo stesso, 15 febbraio 1823). Apprezzo' invece gli intellettuali stranieri conosciuti perlopiu' attraverso J.G. Reinhold, plenipotenziario dei Paesi Bassi: il grecista F.W. Thiersch, professore a Monaco, suo convinto estimatore, l'archeologo C. Bunsen, B.G. Niebuhr, ministro di Prussia, il belga A. Jacopssen. Con un nuovo interesse per la filologia prese a catalogare i codici greci della Barberiniana e accolse l'offerta di F. De Romanis, editore delle Effemeridi letterarie e del Giornale arcadico, di tradurre tutti i dialoghi di Platone. Ma il progetto non ebbe seguito, cosi' come cadde la speranza di ottenere un impiego a Roma.
Il L. aveva rinunciato all'aspirazione a lungo coltivata - per la quale chiese aiuto allo zio, a Perticari e a Mai - di una collocazione alla Biblioteca Vaticana; la morte di Pio VII e la sostituzione di E. Consalvi alla segreteria di Stato vanificarono anche le promesse fatte al Niebuhr (e, dopo la partenza di questo, a Bunsen) di sistemarlo come cancelliere del Censo, mentre seguito' a rifiutarsi di prendere i voti in vista della carriera ecclesiastica vagheggiata per lui da Antici. Il ritorno a Recanati gli riservo' un'ulteriore delusione. Nella Barberiniana aveva scoperto un'orazione di Libanio, che avrebbe voluto pubblicare, ma fu preceduto da Mai, imbattutosi nello stesso testo in altri manoscritti; a torto o a ragione il L. penso' a un "dispetto" personale (lettera a G. Melchiorri del 14 luglio 1823) e interruppe i rapporti con Mai.
Con il mito della natura materna pote' pensare che venisse meno anche la condizione della poesia, travolta da una problematica a cui piu' si addicevano la ragionevolezza e il distacco della prosa. Siamo vicini alle Operette morali e al periodo del silenzio poetico, che sarebbe terminato nel 1828. Prima dell'interruzione la canzone Alla sua donna (1823), deponendo la sostenuta eloquenza e gli ardimenti stilistici delle precedenti, proclamo' un'aspirazione assoluta di bellezza e di amore e, a fronte della negativita' del reale, rivendico' la consistenza e l'autosufficienza della pura creazione mentale, fuori da evasioni metafisiche, platoniche e spiritualeggianti, precluse dall'abbandono (fra 1821 e 1822) della fede religiosa. Solo nelle Operette morali, nel 1824, il L. corresse espressamente la sua posizione sulla natura; la correzione venne in corso d'opera con il Dialogo della Natura e di un Islandese, affidata all'immagine mostruosa e smisurata di una donna indifferente alla sorte delle sue creature e unica responsabile delle loro sofferenze.
(Parte prima - segue)
 
2. TESTI. ALDO CAPITINI: PRINCIPI DELL'ADDESTRAMENTO ALLA NONVIOLENZA
[Riproponiamo ancora una volta il testo del capitolo ottavo, "Principi dell'addestramento alla nonviolenza", del libro di Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Libreria Feltrinelli, Milano s. d. (ma 1967). Successivamente il libro e' stato ristampato nel 1989 da Linea d'ombra edizioni, Milano (con minimi tagli nella nota bibliografica). E' stato poi integralmente incluso in Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992 (alle pp. 253-347).
Aldo Capitini e' nato a Perugia nel 1899, antifascista e perseguitato, docente universitario, infaticabile promotore di iniziative per la nonviolenza e la pace. E' morto a Perugia nel 1968. E' stato il piu' grande pensatore ed operatore della nonviolenza in Italia. Tra le opere di Aldo Capitini: la miglior antologia degli scritti e' ancora quella a cura di Giovanni Cacioppo e vari collaboratori, Il messaggio di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1977 (che contiene anche una raccolta di testimonianze ed una pressoche' integrale - ovviamente allo stato delle conoscenze e delle ricerche dell'epoca - bibliografia degli scritti di Capitini); ma notevole ed oggi imprescindibile e' anche la recente antologia degli scritti a cura di Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza, Edizioni Ets, Pisa 2004, 2007; delle singole opere capitiniane sono state recentemente ripubblicate: Le tecniche della nonviolenza, Linea d'ombra, Milano 1989, Edizioni dell'asino, Roma 2009; Elementi di un'esperienza religiosa, Cappelli, Bologna 1990; Colloquio corale, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2005; L'atto di educare, Armando Editore, Roma 2010; cfr. inoltre la raccolta di scritti autobiografici Opposizione e liberazione, Linea d'ombra, Milano 1991, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2003; gli scritti sul Liberalsocialismo, Edizioni e/o, Roma 1996; La religione dell'educazione, La Meridiana, Molfetta 2008; segnaliamo anche Nonviolenza dopo la tempesta. Carteggio con Sara Melauri, Edizioni Associate, Roma 1991. Presso la redazione di "Azione nonviolenta" (e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org) sono disponibili e possono essere richiesti vari volumi ed opuscoli di Capitini non piu' reperibili in libreria (tra cui Il potere di tutti, 1969). Negli anni '90 e' iniziata la pubblicazione di una edizione di opere scelte: sono fin qui apparsi un volume di Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, e un volume di Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1994, seconda edizione ampliata, Fondazione centro studi Aldo Capitini, Perugia 1998. Piu' recente e' la pubblicazione di alcuni carteggi particolarmente rilevanti: Aldo Capitini, Walter Binni, Lettere 1931-1968, Carocci, Roma 2007; Aldo Capitini, Danilo Dolci, Lettere 1952-1968, Carocci, Roma 2008; Aldo Capitini, Guido Calogero, Lettere 1936-1968, Carocci, Roma 2009. Tra le opere su Aldo Capitini: a) per la bibliografia: Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Bibliografia di scritti su Aldo Capitini, a cura di Laura Zazzerini, Volumnia Editrice, Perugia 2007; Caterina Foppa Pedretti, Bibliografia primaria e secondaria di Aldo Capitini, Vita e Pensiero, Milano 2007; segnaliamo anche che la gia' citata bibliografia essenziale degli scritti di Aldo Capitini pubblicati dal 1926 al 1973, a cura di Aldo Stella, pubblicata in Il messaggio di Aldo Capitini, cit., abbiamo recentemente ripubblicato in "Coi piedi per terra" n. 298 del 20 luglio 2010; b) per la critica e la documentazione: oltre alle introduzioni alle singole sezioni del sopra citato Il messaggio di Aldo Capitini, tra le pubblicazioni recenti si veda almeno: Giacomo Zanga, Aldo Capitini, Bresci, Torino 1988; Clara Cutini (a cura di), Uno schedato politico: Aldo Capitini, Editoriale Umbra, Perugia 1988; Fabrizio Truini, Aldo Capitini, Edizioni cultura della pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1989; Tiziana Pironi, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini. Tra religione ed etica laica, Clueb, Bologna 1991; Fondazione "Centro studi Aldo Capitini", Elementi dell'esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1991; Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998, 2003; AA. VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, volume monografico de "Il ponte", anno LIV, n. 10, ottobre 1998; Antonio Vigilante, La realta' liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999; Mario Martini (a cura di), Aldo Capitini libero religioso rivoluzionario nonviolento. Atti del Convegno, Comune di Perugia - Fondazione Aldo Capitini, Perugia 1999; Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, Stylos, Aosta 2001; Gian Biagio Furiozzi (a cura di), Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Franco Angeli, Milano 2001; Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella, Assisi 2004; Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Rcs - La Nuova Italia, Milano-Firenze 2005; Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini, Clinamen, Firenze 2005; Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Lacaita, Manduria 2005; Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Ega, Torino 2007; Alarico Mariani Marini, Eligio Resta, Marciare per la pace. Il mondo nonviolento di Aldo Capitini, Plus, Pisa 2007; Maura Caracciolo, Aldo Capitini e Giorgio La Pira. Profeti di pace sul sentiero di Isaia, Milella, Lecce 2008; Mario Martini, Franca Bolotti (a cura di), Capitini incontra i giovani, Morlacchi, Perugia 2009; Giuseppe Moscati (a cura di), Il pensiero e le opere di Aldo Capitini nella coscienza delle giovani generazioni, Levante, Bari 2010; cfr. anche il capitolo dedicato a Capitini in Angelo d'Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001; e Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell'Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2006; c) per una bibliografia della critica cfr. per un avvio il libro di Pietro Polito citato ed i volumi bibliografici segnalati sopra]
 
Una parte del metodo nonviolento, tra la teoria e la pratica, spetta all'addestramento alla nonviolenza. Le ragioni principali per cui e' necessaria questa parte sono queste:
a) l'attuazione della nonviolenza non e' di una macchina, ma di un individuo, che e' un insieme fisico, psichico e spirituale;
b) la lotta nonviolenta e' senza armi, quindi c'e' maggior rilievo per i modi usati, per le qualita' del carattere che si mostra;
c) una campagna nonviolenta e' di solito lunga, e percio' e' utile un addestramento a reggerla, a non cedere nemmeno per un istante;
d) la lotta nonviolenta porta spesso sofferenze e sacrifici; bisogna gia sapere che cosa sono, bisogna che il subconscio non se li trovi addosso improvvisamente con tutto il loro peso;
e) le campagne nonviolente sono spesso condotte da pochi, pochissimi, talora una persona soltanto; bisogna che uno si sia addestrato a sentirsi in minoranza, e talora addirittura solo, e perfino staccato dalla famiglia.
I maestri di nonviolenza si sono trovati davanti al problema dell'addestramento, sia per riprodurre nel combattente nonviolento le qualita' fondamentali del "soldato", sia per trarre dal principio della nonviolenza cio' che essa ha di specifico. Si sa che le qualita' del guerriero sono formate e addestrate fin dai tempi della preistoria e si ritrovano perfino al livello della vita animale. Le qualita' del nonviolento hanno avuto una formazione piu' incerta, meno consistente ed energica, per la stessa ragione che la strategia della pace e' meno sviluppata della strategia della guerra. Ma, prima che Gandhi occupasse il campo della nonviolenza con il suo insegnamento, il piu' preciso e articolato che mai fosse avvenuto, indubbiamente ci sono stati addestramenti alla nonviolenza, contrapposti a quelli violenti; esempi di monaci buddisti, i primi cristiani, i francescani, che hanno lasciato indicazioni preziose in questo campo, che qui non e' possibile elencare. Ma basti pensare all'armonia della posizione di Gesu' Cristo espressa in quella raccolta di passi che e' detta "il discorso della montagna", dove e' il suscitamento di energia per resistere, per incassare i colpi, ricordando il "servo di Dio" come era stato espresso da Isaia (cap. LIII): "Maltrattato, tutto sopportava umilmente"; l'enunciazione del rapporto con le cose, del valore della prassi, ma anche l'elemento contemplativo, come un mondo migliore gia' dato in vista all'immaginazione nelle beatitudini, messe giustamente in principio perche' sono l'elemento piu' efficace nell'addestramento, anche piu' della preghiera.
Gli Esercizi spirituali di Sant'Ignazio, il fondatore della Compagnia dei Gesuiti, sono un testo famoso di addestramento spirituale, e il loro esame puo' essere utile per vedere il carattere di quell'addestramento incentrato sulla persona di Gesu' Cristo, sull'istituzione della Chiesa romana, sull'obbedienza assoluta come se si fosse cadaveri: tali caratteri vanno posti insieme con quelli dell'addestramento militare, che e' chiuso nell'immedesimazione con un Capo o Sovrano, nella difesa di un'istituzione che e' lo Stato, nell'obbedienza che e' rinuncia a scelte e ad iniziative; "chiuso", perche' il metodo nonviolento non discende da un Capo, ma e' aperto a immedesimarsi con tutte le persone, a cominciare dalle circostanti: non fa differenza tra compagni e non compagni, perche' e' aperto anche agli avversari che considera uniti nella comune realta' di tutti; ne' puo' fare dell'obbedienza un principio di assoluto rilievo, perche' l'addestramento nonviolento tende a formare abitudini di consenso e di cooperazione, riducendo l'obbedienza a periodi non lunghi per i quali essa venga concordata, per condurre un'azione particolare.
I piu' grandi valori spirituali escono da una concezione aperta, non chiusa; essi sono per tutti, non per un numero chiuso di persone. Cosi e' per es. la musica; essa parla come da un centro, ma il suo raggio e' infinito, oltre il cerchio di coloro che in quel momento sono presenti: ci sono altri che l'ascoltano per radio e altri, infinitamente, che potranno ascoltarla. Cosi' e' l'azione nonviolenta: essa e' compiuta da un centro, che puo' essere di una persona o di un gruppo di persone; ma essa e' presentata e offerta affettuosamente al servizio di tutti: essa e' un contributo e un'aggiunta alla vita di tutti. Questo animo e' fondamentale nell'addestramento alla nonviolenza: sentirsi centro rende modesti e pazienti, toglie la febbre di voler vedere subito i risultati, toglie la sfiducia che l'azione non significhi nulla. Anche se non si vede tutto, l'azione nonviolenta e' come un sasso che cade nell'acqua e causa onde che vanno lontano. Questo animo di operare da un centro genera a poco a poco il sentimento della realta' di tutti., dell'unita' che c'e' tra tutti gli esseri, un sentimento molto importante per la nonviolenza, che e' incremento continuo del rapporto con tutti.
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Elementi storici, ideologici, psicologici dell'addestramento
Entriamo ora nell'esame dei vari elementi che compongono l'addestramento. E vediamo come primi due elementi storici, uno particolare ed uno generale:
a) nella situazione storica in cui si vive bisogna accertare cio' contro cui si deve lottare nonviolentemente: un'oppressione, uno sfruttamento, un'ingiustizia, un'invasione ecc.; questo accertamento e' uno stimolo per raccogliere le energie e per indurre ad un attento esame della concreta situazione;
b) l'elemento storico generale e' la persuasione del posto che oggi ha la nonviolenza nella storia dell'umanita': se si tiene presente il quadro generale attuale si vede che ai grandi Stati-Imperi politico-militari che si stanno formando, bisogna contrapporre, come al tempo dei primi cristiani, un agire assolutamente diverso, una valutazione dell'individuo, una fede che congiunge persone diverse e lontane. Sentire che questo e' il momento per l'apparizione e il collegamento del mondo nonviolento fa capire che oggi non valgono piu' le vecchie ideologie che assolutizzavano la patria: oggi la patria suprema e' la realta' di tutti, da cui viene il rifiuto di divinizzare gli Stati e i loro Capi, di bruciare il granello d'incenso in loro onore.
Anche gli elementi ideologici sono essenziali nell'addestramento:
a) lo studio delle teorie della nonviolenza, la lettura dei grandi episodi e delle grandi campagne, l'escogitazione di casi in cui uno potrebbe trovarsi per risolverli con la nonviolenza; l'informazione su cio' che e' stato finora fatto con il metodo nonviolento e le frequenti discussioni con gruppi nonviolenti e anche con estranei alla nonviolenza, per ricevere obbiezioni, critiche, disprezzo o ridicolo;
b) il mutamento della considerazione abituale della vita come amministrazione tranquilla del benessere: il sapere bene che in questa societa' sbagliata i nonviolenti sono in un contrasto, che la loro vita sara' scomoda, che e' normale per loro ricevere colpi, essere trattati male, veder distrutti oggetti propri.
Da questi due elementi ideologici conseguono due tipi di esercizi:
1. il primo e' la meditazione (che puo' essere fatta dalla persona singola o dal gruppo nonviolento in circolo silenzioso) di qualche evento culminante delle passate affermazioni della nonviolenza. Esempi: Gesu' Cristo al momento dell'arresto, quando riaffermo' chiaramente la sua differenza dal metodo della rivolta armata; la marcia del sale effettuata da Gandhi; la visita di San Francesco al Sultano per superare le crociate sanguinose; l'angoscia dell'aviatore di Hiroshima;
2. il secondo e' la scuola di nonviolenza istituita appositamente (come hanno fatto i negri d'America) per abituarsi a ricevere odio, offese, ingiurie, colpi (esempi: parolacce, percosse, oggetti lanciati; essere arrestato, legato).
Vediamo ora alcuni elementi psicologici:
a) il nonviolento e' convinto che la cosa principale non e' vincere gli altri, ma comportarsi secondo nonviolenza; nelle dispute il nonviolento non vuota tutto il sacco delle critiche, delle accuse, degli argomenti a proprio vantaggio, e lascia sempre qualche cosa di non detto, come un silenzioso regalo all'avversario; naturalmente evita le ingiurie, quelle che si imprimono per sempre come fuoco nell'animo dell'avversario, e che pare aspettassero il momento adatto per esser dette. Il nonviolento pensa che l'avversario e' un compagno di viaggio; e puo' avere fermezza e chiarezza, senza amareggiarlo;
b) il nonviolento e' convinto che non e' la fretta a vincere, ma la tenacia, l'ostinazione lunga, come la goccia che scava la pietra, come la cultura che cresce a poco a poco, come il corallo (il paragone e' del Gregg) si forma lentamente ed e' durissimo. La pressione nonviolenta e' lenta e instancabile: e' difficile che se e' cosi, non riesca. Perde chi cede, chi si stanca, chi ha paura;
c) il persuaso della nonviolenza, formandosi, viene collocando la nonviolenza al contro delle passioni, degli altri affetti, dei sentimenti; cioe' non e' necessario che egli faccia il vuoto nel mondo dei suoi sentimenti, perche' il vuoto potrebbe inaridire la stessa nonviolenza; ma egli stabilisce, con un lungo esercizio di scelte e di freni, la prospettiva che mette al centro lo sviluppo della nonviolenza, e tutto il resto ai lati;
d) l'interno ordine psicologico puo' essere aiutato dalla persuasione che la nonviolenza conta su una forza diversa da quella dei meccanismi naturali (la scienza non dice di aver esaurito l'elenco delle forze che agiscono sulla realta'): questa forza diversa puo' essere chiamata lo Spirito, puo' essere personificata in Dio, e la preghiera e' uno dei modi per stabilire e rafforzare il proprio ordine interno;
e) un altro elemento di forza interiore e' quello conseguito con decisione come voti, rinunce, digiuni: sono eventi importanti che influiscono sulla psiche, le danno il senso di una tensione elevata, la preparano a situazioni di impegno.
Da questi elementi psicologici conseguono importanti modi di comportamento:
1. la costante gentilezza e pronta lealta' verso tutti; la gentilezza e' un'espressione della vita nonviolenta, come una volta l'eremitismo era una posizione della vita religiosa; gentilezza vuol dire anche tono generalmente calmo e chiaro della voce;
2. la cura della pulizia personale, degli abiti, delle cose circostanti; essa suscita rispetto verso se stessi e rispetto negli altri verso il nonviolento, mentre e' facile destare violenza contro chi e' sporco, puzza, non si lava ed e' trascurato nel vestito e nelle sue cose;
3. un buon umore e spesso lo humor (dice giustamente il Gregg che corrisponde alla "umilta'" raccomandata un tempo). Insomma il nonviolento lascia ridere gli altri su di se', e si associa spesso a loro;
4. l'attenzione a mantenersi in buona salute e capaci di resistere agli sforzi, mediante la sobrieta', regole igieniche, cure, e' utile al nonviolento per possedere una riserva di energia per affrontare prove straordinarie.
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Gli elementi sociali
Gli elementi sociali hanno importanza preminente nell'addestramento. Vediamone alcuni:
a) Una prova di apertura sociale e' la nonmenzogna. E' noto quanta importanza abbia la veracita' nei voti gandhiani, nei voti francescani. San Francesco una volta accetto' che fosse messo un pezzo di pelliccia all'interno della tonaca dove questa urtava sulla sua piaga, purche' un identico pezzo di pelliccia fosse messo all'esterno, nella parte corrispondente. La nonmenzogna rende gli altri potenzialmente presenti alla propria vita, stabilisce che cio' che uno pensa, e' potenzialmente di tutti.
b) Un addestramento di alta qualita' sociale e' l'unirsi con altri per costituire assemblee periodiche per la discussione dei problemi locali e generali, per esercitare il controllo dal basso su tutte le amministrazioni pubbliche. I nonviolenti sono i primi animatori di questa attivita' aperta che comprende tutti, e fa bene a tutti, e che si realizza con la regola del dialogo di "ascoltare e parlare".
c) Un'attivita' particolare esercitano i nonviolenti per diffondere tra tutti la lotta contro la guerra, la sua preparazione e la sua esecuzione.
d) I nonviolenti impiantano un'attivita' continua di aiuto sociale nel mondo circostante, sia associandosi nei Pronti Soccorsi, sia realizzando iniziative di visite ai carcerati, di aiuto agli ex-carcerati, di visitare malati, di educazione e ricreazione dei fanciulli, di educazione degli adulti, di cura dei vecchi, di aiuto alla salute pubblica, di amicizia con i miseri. I nonviolenti fanno le loro campagne nonviolente, movendo da una normale attivita' di servizio sociale precedente alla campagna e tornando ad essa, appena finita la campagna con successo o no: e' anche un modo per ritemprare le forze, per non incassare inerti una sconfitta.
e) Il Gregg ha molto insistito, anche in un saggio speciale, sull'importanza del lavoro manuale nell'addestramento alla nonviolenza perche' crea un senso di fratellanza nel fare qualche cosa con gli altri ben visibilmente, e abitua alla disciplina, a sottomettersi pazientemente ad uno scopo.
f) Un altro elemento sociale e' il cantare insieme, fare balli popolari, passeggiate ed esecuzioni e sport collettivi, mangiare insieme.
g) Qualcuno suggerisce anche di sostituire a quello che e' l'orgoglio dei soldati per le glorie del loro "reggimento", l'affermazione di cio' che il gruppo nonviolento ha fatto. Ma fondamentale e' far comprendere che le azioni nonviolente sono per tutti, e, non soltanto per il centro che le promuove.
h) Affiancata all'addestramento nella nonviolenza, e' la conoscenza di leggi, per il caso dell'urto con la polizia o lo Stato, con arresti, processi, prigionia.
L'addestramento e' necessario per dare una solida preparazione alle situazioni. I nonviolenti debbono avere una serie di abitudini consolidate e possedere una serie di previsioni di probabili conseguenze delle loro azioni nonviolente. Il Gregg cita l'utilita' dell'imparare a nuotare come segno dei passaggio al possesso di un'abitudine, della paura iniziale e dell'aiuto venuto anche da altri nell'addestramento. Chi ha provato che cosa sia la prigione per un notevole periodo, sa quanto sarebbe utile prepararsi a. sdrammatizzare l'avvenimento nel proprio animo, visitando le prigioni, aiutando gli ex-carcerati ecc. Anche la nonviolenza e' certamente danneggiata dagli improvvisatori, da coloro che pretendono di creare tutto sul momento; che sono quelli che si stancano prima. E la nonviolenza, se per un quarto e' amorevolezza, e per un altro quarto e' conoscenza, per due quarti e' coraggiosa pazienza.
E' stato detto giustamente che gli iniziatori del metodo scientifico non potevano prevedere quali risultati esso avrebbe dato; e cosi' sara' del metodo nonviolento.
 
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LA BIBLIOTECA DI ZOROBABELE
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Segnalazioni librarie e letture nonviolente
a cura del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo"
Supplemento a "La nonviolenza e' in cammino" (anno XXII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 25 del 19 marzo 2021
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