[Nonviolenza] Telegrammi. 3958
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- Date: Fri, 18 Dec 2020 18:59:29 +0100
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3958 del 19 dicembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Sommario di questo numero:
1. In piazza a Viterbo per il diritto alla casa
2. Guenther Anders: Tesi sull'eta' atomica
3. Alcune poesie di Emily Dickinson tradotte da Cristina Campo
4. Alcune poesie di Emily Dickinson tradotte da Margherita Guidacci
5. Alcune poesie di Emily Dickinson tradotte da Barbara Lanati
6. Una poesia di Emily Dickinson tradotta da Giovanni Giudici
7. Una poesia di Emily Dickinson tradotta da Mario Luzi
8. Una poesia di Emily Dickinson tradotta da Eugenio Montale
9. Una poesia di Emily Dickinson tradotta da Amelia Rosselli
10. Su Emily Dickinson (2006)
11. Segnalazioni librarie
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'
1. INIZIATIVE. IN PIAZZA A VITERBO PER IL DIRITTO ALLA CASA
Promossa dall'Associazione Inquilini e Abitanti dell'Unione Sindacale di Base (Asia-Usb) la mattina di venerdi' 18 dicembre 2020 si e' svolta in piazza del Comune a Viterbo, dinanzi alla prefettura, una iniziativa per il diritto alla casa.
L'iniziativa si e' svolta nel pieno rispetto delle norme anti-covid.
All'iniziativa ha partecipato anche il responsabile del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera".
2. TESTI. GUENTHER ANDERS: TESI SULL'ETA' ATOMICA
[Ancora una volta ripubblichiamo questo breve ma capitale testo di Guenther Anders. Riprendiamo il testo dall'appendice all'edizione italiana del libro di Guenther Anders, Der Mann auf der Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso col titolo Essere o non essere, presso Einaudi, Torino 1961, nella traduzione di Renato Solmi (questo maestro grande e generoso che cogliamo l'occasione per salutare e ringraziare ancora una volta). Come li' si specifica, queste Tesi sull'eta' atomica sono "un testo improvvisato dall'autore dopo un dibattito sui problemi morali dell'eta' atomica organizzato da un gruppo di studenti dell'Universita' di Berlino-Ovest, e uscito nell'ottobre 1960 nella rivista 'Das Argument - Berliner Hefte fuer Politik und Kultur' - nota del traduttore".
Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di non comparire col suo vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo' in filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori filosofi contemporanei; e' stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia ha pensato la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la sopravvivenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire. Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961; La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992 (col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo e' antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull'anima nell'era della seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale), Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli 1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita' e legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi) 1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar, Bari 1993; Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L'odio e' antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006; Discesa all'Ade, Bollati Boringhieri, Torino 2008. In rivista testi di Anders sono stati pubblicati negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra", "Micromega". Opere su Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri, Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli intellettuali italiani che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e Renato Solmi.
Renato Solmi e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria strumentazione intellettuale; impegnato nel Movimento Nonviolento del Piemonte e della Valle d'Aosta, e' deceduto il 25 marzo 2015. Dal risvolto di copertina del recente volume in cui sono raccolti taluni dei frutti maggiori del suo magistero riprendiamo la seguente scheda: "Renato Solmi (Aosta 1927) ha studiato a Milano, dove si e' laureato in storia greca con una tesi su Platone in Sicilia. Dopo aver trascorso un anno a Napoli presso l'Istituto italiano per gli studi storici di Benedetto Croce, ha lavorato dal 1951 al 1963 nella redazione della casa editrice Einaudi. A meta' degli anni '50 ha passato un periodo di studio a Francoforte per seguire i corsi e l'insegnamento di Theodor W. Adorno, da lui per primo introdotto e tradotto in Italia. Dopo l'allontanamento dall'Einaudi, ha insegnato per circa trent'anni storia e filosofia nei licei di Torino e di Aosta. E' impegnato da tempo, sul piano teorico, e da un decennio anche su quello della militanza attiva, nei movimenti nonviolenti e pacifisti torinesi e nazionali. Ha collaborato a numerosi periodici culturali e politici ("Il pensiero critico", "Paideia", "Lo Spettatore italiano", "Il Mulino", "Notiziario Einaudi", "Nuovi Argomenti", "Passato e presente", "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Il manifesto", "L'Indice dei libri del mese" e altri). Fra le sue traduzioni - oltre a quelle di Adorno, Benjamin, Brecht (L'abici' della guerra, Einaudi, Torino 1975) e Marcuse (Il "romanzo dell'artista" nella letteratura tedesca, ivi, 1985), che sono in realta' edizioni di riferimento - si segnalano: Gyorgy Lukacs, Il significato attuale del realismo critico (ivi, 1957) e Il giovane Hegel e i problemi della societa' capitalistica (ivi, 1960); Guenther Anders, Essere o non essere (ivi, 1961) e La coscienza al bando (ivi, 1962); Max Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo (ivi, 1966 e 1980); Seymour Melman, Capitalismo militare (ivi, 1972); Paul A. Baran, Saggi marxisti (ivi, 1976); Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918 (Boringhieri, Torino 1976)". Opere di Renato Solmi: segnaliamo particolarmente la sua recente straordinaria Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata 2007]
Hiroshima come stato del mondo. Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, e' cominciata un nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, cio' significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Indipendentemente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest'epoca e' l'ultima: poiche' la sua differenza specifica, la possibilita' dell'autodistruzione del genere umano, non puo' aver fine - che con la fine stessa.
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Eta' finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come "dilazione"; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda "Come dobbiamo vivere?" si e' sostituita quella: "Vivremo ancora?". Alla domanda del "come" c'e' - per noi che viviamo in questa proroga - una sola risposta: "Dobbiamo fare in modo che l'eta' finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo". Poiche' crediamo alla possibilita' di una "fine dei tempi", possiamo dirci apocalittici; ma poiche' lottiamo contro l"apocalissi da noi stessi creata, siamo (e' un tipo che non c'e' mai stato finora) "nemici dell'apocalissi".
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Non armi atomiche nella situazione politica, ma azioni politiche nella situazione atomica. La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche "armi atomiche", e' un inganno. Poiche' la situazione attuale e' determinata esclusivamente dall'esistenza di "armi atomiche", e' vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.
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Non arma ma nemico. Cio' contro cui lottiamo, non e' questo o quell'avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in se'. Poiche' questo nemico e' nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.
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Carattere totalitario della minaccia atomica. La tesi prediletta da Jaspers fino a Strauss suona: "La minaccia totalitaria puo' essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale". E' un argomento che non regge. 1) La bomba atomica e' stata impiegata, e in una situazione in cui non c'era affatto il pericolo, per chi la impiego', di soccombere a un potere totalitario. 2) L'argomento e' un relitto dell'epoca del monopolio atomico; oggi e' un argomento suicida. 3) Lo slogan "totalitario" e' desunto da una situazione politica, che non solo e' gia' essenzialmente mutata, ma continuera' a cambiare; mentre la guerra atomica esclude ogni possibilita' di trasformazione. 4) La minaccia della guerra atomica, della distruzione totale, e' totalitaria per sua natura: poiche' vive del ricatto e trasforma la terra in un solo Lager senza uscita. Adoperare, nel preteso interesse della liberta', l'assoluta privazione della stessa, e' il non plus ultra dell'ipocrisia.
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Cio' che puo' colpire chiunque riguarda chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Cosi', nell'eta' finale, non ci sono piu' distanze. Ognuno puo' colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri prodotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di cio' che ci riguarda, e cioe' l'orizzonte della nostra responsabilita', coincida con l'orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioe' che diventi anch'esso globale. Non ci sono piu' che "vicini".
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Internazionale delle generazioni. Cio' che si tratta di ampliare, non e' solo l'orizzonte spaziale della responsabilita' per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiche' le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse rientrano nell'ambito del nostro presente. Tutto cio' che e' "venturo" e' gia' qui, presso di noi, poiche' dipende da noi. C'e', oggi, un'"internazionale delle generazioni", a cui appartengono gia' anche i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa "internazionale": poiche' con la nostra fine perirebbero anch'essi, per la seconda volta (se cosi' si puo' dire) e definitivamente. Anche adesso sono "solo stati"; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati.
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Il nulla non concepito. Cio' che conferisce il massimo di pericolosita' al pericolo apocalittico in cui viviamo, e' il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe. Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) e' gia' di per se' abbastanza difficile; ma e' un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiche' questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di qualcosa di particolare, in un contesto universale supposto stabile e permanente, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioe' il mondo stesso, o almeno il nostro mondo umano. Questa "astrazione totale" (che corrisponderebbe, sul piano del pensiero e dell'immaginazione, alla nostra capacita' di distruzione totale) trascende le forze della nostra immaginazione naturale. "Trascendenza del negativo". Ma poiche', come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacita' limitata della nostra immaginazione (la nostra "ottusita'") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla.
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Utopisti a rovescio. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca: "Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un'immagine di cio' che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre cio' che concepiscono, noi non sappiamo immaginare cio' che abbiamo prodotto.
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Lo "scarto prometeico". Non e' questo un fatto fra gli altri; esso definisce, invece, la situazione morale dell'uomo odierno: la frattura che divide l'uomo (o l'umanita') non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacita' produttiva e la nostra capacita' immaginativa. Lo "scarto prometeico".
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Il "sopraliminare". Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilita' e produzione. Si puo' forse immaginare, sentire, o ci si puo' assumere la responsabilita', dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto piu' grande e' l'effetto possibile dell'agire, e tanto piu' e' difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto piu' grande lo "scarto", tanto piu' debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto, e' infinitamente piu' facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare gia' una reazione), corrisponde il "sopraliminare": cio' che e' troppo grande per provocare ancora una reazione (per esempio un meccanismo inibitorio).
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La sensibilita' deforma, la fantasia e' realistica. Poiche' il nostro orizzonte vitale (l'orizzonte entro cui possiamo colpire ed essere colpiti) e l'orizzonte dei nostri effetti e' ormai illimitato, siamo tenuti, anche se questo tentativo contraddice alla "naturale ottusita'" della nostra immaginazione, a immaginare questo orizzonte illimitato. Nonostante la sua naturale insufficienza, e' solo l'immaginazione che puo' fungere da organo della verita'. In ogni caso, non e' certo la percezione. Che e' una "falsa testimone": molto, ma molto piu' falsa di quanto avesse inteso ammonire la filosofia greca. Poiche' la sensibilita' e' - per principio - miope e limitata e il suo orizzonte assurdamente ristretto. La terra promessa degli "escapisti" di oggi non e' la fantasia, ma la percezione.
Di qui il nostro (legittimo) disagio e la nostra diffidenza verso i quadri normali (dipinti, cioe', secondo la prospettiva normale): benche' realistici in senso tradizionale, sono (proprio loro) irrealistici, perche' sono in contrasto con la realta' del nostro mondo dagli orizzonti infinitamente dilatati.
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Il coraggio di aver paura. La viva "rappresentazione del nulla" non si identifica con cio' che si intende in psicologia per "rappresentazione"; ma si realizza in concreto come angoscia. Ad essere troppo piccolo, e a non corrispondere alla realta' e al grado della minaccia, e' quindi il grado della nostra angoscia. - Nulla di piu' falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo gia' nell'"epoca dell'angoscia". Questa tesi ci e' inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo. Noi viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura. Postulato: "Non aver paura della paura, abbi coraggio di aver paura. E anche quello di far paura. Fa' paura al tuo vicino come a te stesso". Va da se' che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale: 1) Un'angoscia senza timore, poiche' esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi. 2) Un'angoscia vivificante, poiche' invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze. 3) Un'angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di cio' che potrebbe capitarci.
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Fallimento produttivo. L'imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finche' corrispondano a quella di cio' che possiamo produrre e provocare, si rivelera' continuamente irrealizzabile. Non e' nemmeno detto che questi tentativi ci consentano di fare qualche passo in avanti. Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso e' salutare, poiche' ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre cio' che non possiamo immaginare.
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Trasferimento della distanza. Riassumendo cio' che si e' detto sulla "fine delle distanze" e sullo "scarto" tra le varie facolta' (e solo cosi' ci si puo' fare un'idea completa della situazione), risulta che le distanze spaziali e temporali sono state bensi' "soppresse"; ma questa soppressione e' stata pagata a caro prezzo con una nuova specie di "distanza": quella, che diventa ogni giorno piu' grande, fra la produzione e la capacita' di immaginare cio' che si produce.
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Fine del comparativo. I nostri prodotti e i loro effetti non sono solo diventati maggiori di cio' che possiamo concepire (sentire, o di cui possiamo assumerci la responsabilita'), ma anche maggiori di cio' che possiamo utilizzare sensatamente. E' noto che la nostra produzione e la nostra offerta superano spesso la nostra domanda (e ci costringono a produrre appositamente nuovi bisogni e richieste); ma la nostra offerta trascende addirittura il nostro bisogno, consiste di cose di cui non possiamo avere bisogno: cose troppo grandi in senso assoluto. Cosi' ci siamo messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della natura. I nostri tentativi di produrre armi cosiddette "pulite", sono senza precedenti nel loro genere: poiche' con essi cerchiamo di migliorare certi prodotti peggiorandoli, e cioe' diminuendo i loro effetti.
L'aumento dei prodotti non ha quindi piu' senso. Se il numero e gli effetti delle armi gia' oggi esistenti bastano a raggiungere il fine assurdo della distruzione del genere umano, l'aumento e miglioramento della produzione, che continuano ancora su larghissima scala, sono ancora piu' assurdi; e dimostrano che i produttori non si rendono conto, in definitiva, di che cosa hanno prodotto. Il comparativo - principio del progresso e della concorrenza - ha perduto ogni senso. Piu' morto che morto non e' possibile diventare. Distruggere meglio di quanto gia' si possa, non sara' possibile neppure in seguito.
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Richiamarsi alla competenza e' prova d'incompetenza morale. Sarebbe una leggerezza pensare (come fa, per esempio, Jaspers) che i "signori dell'apocalissi", quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, siano piu' di noi all'altezza di queste esigenze schiaccianti, o che sappiano immaginare l'inaudito meglio di noi, semplici "morituri"; o anche solo che siano consapevoli di doverlo fare. Assai piu' legittimo e' il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". L'uso di questi termini e' addirittura la prova della loro incompetenza morale: poiche' in tal modo essi mostrano di credere che la loro posizione dia loro il monopolio e la competenza per decidere del "to be or not to be" dell'umanita'; e di considerare l'apocalissi come un "ramo specifico". E' vero che molti di loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, e' proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno, cioe', al di la' della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E non si puo' dire che cosi' facendo ci "immischiamo" di nulla, poiche' come cittadini e come uomini siamo "immischiati" da sempre, perche' anche noi siamo la "res publica". E un problema piu' "pubblico" dell'attuale decisione sulla nostra sopravvivenza non c'e' mai stato e non ci sara' mai. Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.
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Liquidazione dell'"agire". La distruzione possibile dell'umanita' appare come un'"azione"; e chi collabora ad essa come un individuo che agisce. E' giusto? Si' e no. Perche' no?
Perche' l'"agire"" in senso behavioristico non esiste pressoche' piu'. E cioe': poiche' cio' che un tempo accadeva come agire, ed era inteso come tale dall'agente, e' stato sostituito da processi di altro tipo: 1) dal lavorare; 2) dall'azionare.
1) Lavoro come surrogato dell'azione. Gia' quelli che erano impiegati negli impianti di liquidazione hitleriani non avevano "fatto nulla", credevano di non aver fatto nulla perche' si erano limitati a "lavorare". Per questo "lavorare" intendo quel tipo di prestazione (naturale e dominante, nella fase attuale della rivoluzione industriale) in cui l'eidos del lavoro rimane invisibile per chi lo esegue, anzi, non lo riguarda piu', e non puo' ne' deve piu' riguardarlo. Caratteristica del lavoro odierno e' che esso resta moralmente neutrale: "non olet", nessuno scopo (per quanto cattivo) del suo lavoro puo' macchiare chi lo esegue. A questo tipo dominante di prestazione sono oggi assimilate quasi tutte le azioni affidate agli uomini. Lavoro come mimetizzamento. Questo mimetizzamento evita all'autore di un eccidio di sentirsi colpevole, poiche' non solo non occorre rispondere del lavoro che si fa, ma esso - in teoria - non puo' rendere colpevoli. Stando cosi' le cose, dobbiamo rovesciare l'equazione attuale ("ogni agire e' lavorare") nell'altra: "ogni lavorare e' un agire".
2) Azionare come surrogato del lavoro. Cio' che vale per il lavoro, vale a maggior ragione per l'azionare, poiche' l'azionare e' il lavoro in cui e' abolito anche il carattere specifico del lavoro: lo sforzo e il senso dello sforzo. Azionare come mimetizzamento. Oggi, in realta', si puo' fare in tal modo pressoche' tutto, si puo' avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. In questo caso (dal punto di vista behavioristico) questo intervento non e' piu' un lavoro (per non parlare di un'azione). Propriamente parlando non si fa nulla (anche se l'effetto di questo non-far-nulla e' il nulla e l'annientamento). L'uomo che schiaccia il tasto (ammesso che sia ancora necessario) non si accorge piu' nemmeno di fare qualcosa; e poiche' il luogo dell'azione e quello che la subisce non coincidono piu', poiche' la causa e l'effetto sono dissociati, non puo' vedere che cosa fa. "Schizotopia", in analogia a "schizofrenia". E' chiaro che solo chi arriva a immaginare l'effetto ha la possibilita' della verita'; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento e' senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e cioe' al nemico, di scorgere il pericolo imminente (o a proteggere gli autori dal nemico), oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore e' una vittima; in questo senso Eatherly e' una delle vittime della sua azione.
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Le forme menzognere della menzogna attuale. Gli esempi di mascheramento ci istruiscono sul carattere della menzogna attuale. Poiche' oggi le menzogne non hanno piu' bisogno di figurare come asserzioni ("fine delle ideologie"). La loro astuzia consiste proprio nello scegliere forme di travestimento davanti a cui non puo' piu' sorgere il sospetto che possa trattarsi di menzogne; e cio' perche' questi travestimenti non sono piu' asserzioni. Mentre le menzogne, finora, si erano camuffate ingenuamente da verita', ora si camuffano in altre guise:
1) Al posto di false asserzioni subentrano parole singole, che danno l'impressione di non affermare ancora nulla, anche se, in realta', hanno gia' in se' il loro (bugiardo) predicato. Cosi', per esempio, l'espressione "armi atomiche" e' gia' un'asserzione menzognera, poiche' sottintende, poiche' da' per scontato, che si tratta di armi.
2) Al posto di false asserzioni sulla realta' subentrano (e siamo al punto che abbiamo appena trattato) realta' falsificate. Cosi' determinate azioni, presentandosi come "lavori", sono rese diverse e irriconoscibili; cose' irriconoscibili, e diverse da un'azione, che non rivelano piu' (neppure all'agente) quello che sono (e cioe' azioni); e gli permettono, purche' lavori "coscienziosamente', di essere un criminale con la miglior coscienza del mondo.
3) Al posto di false asserzioni subentrano cose. Finche' l'agire si traveste ancora da "lavorare", e' pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioe' che agisce. La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che e' gia' accaduto. Poiche' l'agire si e' trasferito (naturalmente in seguito all'agire degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per cosi' dire, "azioni incarnate". La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) e' un ricatto costante: e nessuno potra' negare che il ricatto e' un'azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma piu' menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c'entriamo. Assurdita' della situazione: nell'atto stesso in cui siamo capaci dell'azione piu' enorme - la distruzione del mondo - l'"agire", in apparenza, e' completamente scomparso. Poiche' la semplice esistenza dei nostri prodotti e' gia' un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrent"), e' una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.
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Non reificazione, ma pseudopersonalizzazione. Con l'espressione "reificazione" non si coglie il fatto che i prodotti sono, per cosi' dire, "agire incarnato", poiche' essa indica esclusivamente il fatto che l'uomo e' ridotto qui alla funzione di cosa; ma si tratta invece dell'altro lato (trascurato, finora, dalla filosofia) dello stesso processo: e cioe' del fatto che cio' che e' sottratto all'uomo dalla reificazione, si aggiunge ai prodotti: i quali, facendo qualcosa gia' per il semplice fatto di esistere, diventano pseudopersone.
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Le massime delle pseudopersone. Queste pseudopersone hanno i loro rigidi principii. Cosi', per esempio, il principio delle "armi atomiche" e' affatto nichilistico, poiche' per esse "tutto e' uguale". In esse il nichilismo ha toccato il suo culmine, dando luogo all'"annichilismo" piu' totale.
Poiche' il nostro agire si e' trasferito nel lavoro e nei prodotti, un esame di coscienza non puo' consistere oggi soltanto nell'ascoltare la voce nel nostro petto, ma anche nel captare i principii e le massime mute dei nostri lavori e dei nostri prodotti; e nel revocare e rendere inoperante quel trasferimento: e cioe' nel compiere solo quei lavori dei cui effetti potremmo rispondere anche se fossero effetti del nostro agire diretto; e nell'avere solo quei prodotti la cui presenza "incarna" un agire che potremmo assumerci come agire personale.
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Macabra liquidazione dell'ostilita'. Se il luogo dell'azione e quello che la subisce sono, come si e' detto, dissociati, e non si soffre piu' nel luogo dell'azione, l'agire diventa agire senza effetto visibile, e il subire subire senza causa riconoscibile. Si determina cosi' un'assenza d'ostilita', peraltro affatto fallace.
La guerra atomica possibile sara' la piu' priva d'odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odiera' il nemico, poiche' non potra' vederlo; e la vittima non odiera' chi lo colpisce, poiche' questi non sara' reperibile. Nulla di piu' macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore positivo). Cio' che piu' sorprende nei racconti delle vittime di Hiroshima, e' quanto poco (e con che poco odio) vi siano ricordati gli autori del colpo.
Certo l'odio sara' ritenuto indispensabile anche in questa guerra, e sara' quindi prodotto come articolo a se'. Per alimentarlo, si indicheranno (e, al caso, s'inventeranno) oggetti d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo; in ogni caso nemici interni: poiche' per poter odiare veramente occorre qualcosa che possa cadere in mano. Ma quest'odio non potra' entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelera' anche in cio', che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.
*
Non solo per quest'ultima tesi, ma per tutte quelle qui formulate, bisogna aggiungere che sono state scritte perche' non risultino vere. Poiche' esse potranno non avverarsi solo se terremo continuamente presente la loro alta probabilita', e se agiremo in conseguenza. Nulla di piu' terribile che aver ragione. Ma a quelli che, paralizzati dalla fosca probabilita' della catastrofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire, per amore degli uomini, la massima cinica: "Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!".
3. REPETITA IUVANT. ALCUNE POESIE DI EMILY DICKINSON TRADOTTE DA CRISTINA CAMPO
[Da Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, Milano 1991, 2001, pp. 85-90, ma l'ordine in cui le abbiamo qui disposte e' quello dedotto dalla cronologia dell'opera dickinsoniana, ed utilizzato anche in Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, in cui le "versioni d'autrice" di Cristina Campo sono alle pp. 1643-1646.
Emily Dickinson - poetessa imprescindibile - visse ad Amherst, Massachusetts, tra il 1830 e il 1886; molte le edizioni delle sue poesie disponibili in italiano con testo originale a fronte (tra cui quella integrale, a cura di Marisa Bulgheroni: Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005; ma vorremmo segnalare anche almeno la fondamentale antologia curata da Guido Errante: Emily Dickinson, Poesie, Mondadori, Milano 1956, poi Guanda, Parma 1975, e Bompiani, Milano 1978; e la vasta silloge dei versi e dell'epistolario curata da Margherita Guidacci: Emily Dickinson, Poesie e lettere, Sansoni, Firenze 1961, Bompiani, Milano 1993, 2000); per un accostamento alla sua figura e alla sua opera: Barbara Lanati, Vita di Emily Dickinson. L'alfabeto dell'estasi, Feltrinelli, Milano 1998, 2000; Marisa Bulgheroni, Nei sobborghi di un segreto. Vita di Emily Dickinson, Mondadori, Milano 2002. Ebbe a scrivere della sua opera Luciano Bonfrate: "Mi capita di usare dei suoi versi / come fosser sentenze di sibilla / della mia vita specchio, e vi scintilla / cio' che trovai, che non trovai, che persi"]
Per sempre al suo fianco camminare,
la piu' piccola dei due,
cervello del suo cervello, sangue del suo sangue,
due vite, un Essere, ora.
Per sempre del suo fato gustare,
se dolore, la piu' larga parte,
se gioia, mettere il mio pezzo in disparte
per quel diletto cuore.
Tutta la vita conoscersi l'un l'altro
senza poterci mai imparare,
e piu' tardi un mutamento chiamato "Paradiso" -
rapito vicinato d'uomini
che appena scoprono cio' che ci inquietava
senza il vocabolario!
*
Che tedio attendere
se non vicino a te,
l'ho saputo iersera
quando si volle avvincermi
forse vedendomi
affaticata o sola
o per cedere quasi
alla pena silente.
Io mi volsi, ducale -
a te solo spettava
quel gesto - un porto solo
vale a questa nave.
Nostra la ventura
per un selvaggio mare
meglio che un ancoraggio
non diviso da te.
A noi piu' tosto il carico
di un perenne viaggio
che le Odorose Isole
desolate di te.
*
Imparai finalmente che cosa la casa poteva essere,
come sarei stata ignorante
dei graziosi modi del costume,
come goffa all'inno
intorno al nostro nuovo focolare, se non per questo,
questa mappa del cammino
la cui memoria mi annega, come il battesimo
di un celestiale mare.
Quali mattine nel nostro giardino, immaginate,
quali api per noi a ronzare,
con solo uccelli a interrompere
il mormorio del nostro tema.
E un compito per ciascuno quando il gioco sia finito,
il tuo problema della mente,
il mio qualche effetto piu' frivolo,
un pizzo o una canzone.
Il pomeriggio insieme trascorso
e il crepuscolo per i sentieri
qualche soccorso a piu' povere vite
viste piu' povere attraverso i nostri doni.
E poi ritorno, e notte e casa,
una nuova e piu' divina cura,
finche' l'aurora ci richiami in scena
trasmutati, piu' vividi.
Questa sembra una casa e casa non e'
ma cio' che quel luogo potrebb'essere
mi affligge come un sole calante
dove l'aurora sa che cosa essere!
*
Che faro' io quando turba l'estate,
quando la rosa e' matura?
Quando le uova svolino in melodia
da un carcere d'acero: - che faro' io?
Che faro' io quando dai cieli in gorgheggio
cada su me una canzone?
Quando al ranuncolo dondoli tutto il meriggio
l'ape sospesa - che mai faro' io?
E quando lo scoiattolo si colmera' le tasche
e guarderanno le bacche...
Resistero' io a quelle candide facce
se tu da me sei lontano?
Al pettirosso non sarebbe gran pena:
volano tutti i miei beni.
Io non ho ali: a che servono, dimmi,
i miei tesori perenni?
*
Tocca leggero la dolce
chitarra della natura
se non conosci ancora
la canzone.
O d'ogni uccello
ti accusera' lo sguardo
che ti facesti bardo
innanzi l'ora.
*
Morte e' il pieghevole corteggiatore
che vince alla fine.
E' un vagheggiare furtivo
condotto sulle prime
per pallide insinuazioni
e oscuri avvicinamenti:
magnifico alfine di trombe
e un equipaggio a due posti
che ti rapisce in trionfo
a nozze sconosciute -
a parentele vibranti
come le porcellane.
4. REPETITA IUVANT. ALCUNE POESIE DI EMILY DICKINSON TRADOTTE DA MARGHERITA GUIDACCI
[Da Emily Dickinson, Poesie, Rizzoli, Milano 1979, Rcs Quotidiani, Milano 2004]
L'acqua e' insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglie.
L'amore, da un'impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.
*
E' poca cosa il pianto,
sono brevi i sospiri:
pure, per fatti di questa misura
uomini e donne muoiono!
*
Fra le mie dita tenevo un gioiello
quando mi addormentai.
La giornata era calda, era tedioso il vento
e dissi: "Durera'" -
Sgridai al risveglio le dita incolpevoli,
la gemma era sparita -
Ora solo un ricordo di ametista
a me rimane -
*
E' questa la mia lettera al mondo
che mai non scrisse a me -
semplici annunzi che da' la natura
con tenera maesta'.
Il suo messaggio e' consegnato a mani
per me invisibili.
Per amor suo, miei dolci compaesani,
benignamente giudicatemi!
*
Tutto imparammo dell'amore:
alfabeto, parole,
un capitolo, il libro possente,
poi la rivelazione termino'.
Ma negli occhi dell'altro
ciascuno contemplava un'ignoranza
divina, ancora piu' che nell'infanzia;
l'uno all'altro, fanciulli,
tentammo di spiegare
quanto era per entrambi incomprensibile.
Ahi, com'e' vasta la saggezza
e molteplice il vero!
*
Come se il mare separandosi
svelasse un altro mare,
questo un altro, ed i tre
solo il presagio fossero
d'un infinito di mari
non visitati da riva -
il mare stesso al mare fosse riva -
questo e' l'eternita'.
*
L'incertezza e' piu' ostile della morte.
La morte, anche se vasta,
e' soltanto la morte e non puo' crescere.
All'incertezza invece non v'e' limite,
perisce per risorgere
e morire di nuovo,
e' l'unione del nulla
con l'immortalita'.
*
Abbiamo prima sete - e' l'atto di natura -
e dopo, quando stiamo per morire,
chiediamo supplichevoli un po' d'acqua
a dita che ci passano vicine.
Ed e' figura d'un bisogno piu' alto,
la cui risposta adeguata
sono le grandi acque occidentali
chiamate eternita'.
*
Molte volte pensai giunta la pace
quando la pace era tanto lontana;
cosi' i naufraghi credono di vedere la terra
nel centro del mare,
e indeboliti lottano, soltanto per scoprire,
come me disperati,
quante rive fittizie
vengano prima del porto.
*
Io canto per riempire l'attesa:
annodarmi la cuffia,
richiudere la porta di casa
e non altro ho da fare,
finche' risuoni vicino il suo passo,
e insieme camminiamo verso il giorno,
l'uno all'altro narrando di come cantammo
per scacciare la tenebra.
*
Da un'asse all'altra avanzavo
cosi' lenta, prudente.
Sentivo le stelle sul capo,
e sotto i piedi il mare.
Questo solo sapevo: un altro passo
poteva essere l'ultimo.
Ed avevo quell'andatura incerta
che chiamano esperienza.
*
Immensita' d'argento
con funi di sabbia
a trattenerla, perche' non cancelli
una pista che chiamano la terra.
*
Come stanno silenti le campane
nelle torri, finche', gonfie di cielo,
balzano con piedi argentei
in melodia frenetica!
*
Il Paradiso dipende da noi.
Chiunque voglia
vive nell'Eden, nonostante Adamo
e la cacciata.
*
Questi giorni febbrili condurli alla foresta
dove le fresche acque strisciano intorno al muschio
e l'ombra sola devasta il silenzio:
pare talvolta che questo sia tutto.
*
Non sappiamo di andare quando andiamo.
Noi scherziamo nel chiudere la porta.
Dietro, il destino mette il catenaccio,
e non entriamo piu'.
*
Tutti coloro che perdiamo qualcosa ci togono;
resta ancora uno spicchio sottile,
che come luna, qualche torbida notte,
obbedira' al richiamo delle maree.
*
E' un errore di calcolo:
"Vien poi l'eternita'"
diciamo, come fosse una stazione.
Mentre e' tanto vicina
che mi accompagna nella passeggiata
e condivide la mia casa
ed amico non ho piu' pertinace
di questa eternita'.
*
E' l'immortalita' forse un veleno
che gli uomini ne sono cosi' oppressi?
5. REPETITA IUVANT. ALCUNE POESIE DI EMILY DICKINSON TRADOTTE DA BARBARA LANATI
[Da Emily Dickinson, Poesie, Savelli, Roma 1976]
Chi non conosce il successo
ne apprezza la dolcezza.
Solo chi ne prova acre bisogno
conosce il sapore di un nettare.
Non uno della purpurea folla che oggi
ha conquistato la bandiera
con tanta chiarezza sapra' definire
la vittoria come chi
in agonia, battuto
nello sfaldarsi del proprio sentire
registra limpidi e lacerati
i lontani stridori del trionfo.
*
L'acqua, la insegna la sete.
La terra - gli oceani trascorsi.
Lo slancio - l'angoscia -
La pace - la raccontano le battaglie -
L'amore, i cumuli della memoria -
Gli uccelli, la neve.
*
Tenevo un gioiello tra le dita -
e mi addormentai -
la giornata era tepida, i venti monotoni -
dissi: "durera'".
Al risveglio rimproverai le mie oneste dita,
la pietra era sparita.
E adesso, un ricordo d'ametista
e' tutto cio' che mi resta.
*
La "Speranza" e' quella cosa piumata -
Che artigliata all'anima -
Canta melodie senza parole -
E non smette - mai -
E la senti - dolcissima - nel vento -
E dura deve essere la tempesta -
Capace di intimidire il piccolo uccello
Che ha dato calore a tanti -
Io l'ho sentito nel paese piu' gelido -
E sui mari piu' alieni -
Eppure mai, nemmeno allo stremo,
Ha chiesto una briciola - di me.
*
Questa e' la mia lettera al mondo
che non ha mai scritto a me -
semplici cose che la natura
ha detto - con tenera maesta'.
Il suo messaggio e' affidato
a mani che non posso vedere -
Per amore di lei - amici miei dolci -
con tenerezza giudicate - me.
*
Chiedeva da bere, una Tigre, in agonia
Filtrai il deserto -
dalla roccia, una goccia
raccolsi e la portai nella mano.
Le pupille regali, nella morte offuscate
scrutai, per trovare
nella retina, un'unica visione
dell'acqua e di me.
Non per colpa mia: che ero corsa piano.
Non per colpa sua: che era morta
quando stavo per raggiungerla, ormai,
ma perche', era un fatto, essa era gia' morta.
*
Dapprima e' la sete - processo naturale -
Poi - il momento della morte -
La supplica - di un poco d'acqua -
Da dita che passano vicine -
Segno di un piu' sottile bisogno -
cui unica, armonica, compensa,
sono le grandi acque a occidente -
chiamate Immortalita'.
*
Uno piu' uno - fanno uno -
Basta con il due che -
E' appropriato alle scuole -
Ma non per le scelte interiori -
La vita, appunto, o la morte -
O l'eterno -
Due, sarebbe troppo -
Per le capacita' di un'anima -
*
Io canto per consumare l'attesa -
Allacciare la cuffia
chiudere la porta di casa,
non mi resta nent'altro da fare
quando, all'avvicinarsi del suo passo finale
viaggeremo verso il Giorno
raccontandoci di come abbiamo cantato
per tenere lontana la notte.
*
Atto primo: il ritrovamento
Atto secondo: la perdita
Atto terzo: la spedizione
alla ricerca del vello d'oro.
Atto quarto: nessuna scoperta
Atto quinto: nessun equipaggio
Infine: nessun vello d'oro
Un'unica impostura - anche Giasone.
*
Un ovunque di argento
con corde di sabbia
a impedirgli di cancellare
la Traccia chiamata Terra.
*
Come per altre cose, l'amore a un certo punto
ci sta stretto: lo riponiamo nel cassetto -
poi un giorno si rivelera' di foggia antiquata -
come i costumi indossati dai re.
*
Per alcuni
Quando e' detta,
La parola muore.
Per me
Proprio quel giorno
Comincia a vivere.
*
Di pianeti e di fiori
Facciamo conoscenza,
Ma con noi stessi,
C'e' l'etichetta
L'imbarazzo
E il terrore.
*
Per fare un prato ci vuole del trifoglio
e un'ape, un trifoglio e un'ape
e sogni ad occhi aperti.
E se le api sono scarse,
bastano i sogni.
*
Che l'amore e' tutto cio' che c'e',
E' tutto quello che sappiamo dell'amore;
E' abbastanza, il carico in teoria
proporzionale al solco.
6. REPETITA IUVANT. UNA POESIA DI EMILY DICKINSON TRADOTTA DA GIOVANNI GIUDICI
[Da Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1650 (questa, e le altre traduzioni di Giudici presenti nel volume da cui citiamo erano gia' apparse nella silloge di traduzioni poetiche di Giovanni Giudici, Addio, proibito piangere, Einaudi, Torino 1982)]
Presentimento - e' la lunga ombra - sul prato -
Annunziatrice che il sole se ne va -
Avvertimento all'erba abbrividita
Che la tenebra - presto scendera' -
7. REPETITA IUVANT. UNA POESIA DI EMILY DICKINSON TRADOTTA DA MARIO LUZI
[Da Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1658]
C'e' una solitudine di spazio,
una solitudine di mare,
una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell'estremo punto,
quella polare ritrosia
di un'anima ammessa a se medesima.
Finita infinita'.
8. REPETITA IUVANT. UNA POESIA DI EMILY DICKINSON TRADOTTA DA EUGENIO MONTALE
[Da Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Edizioni della Meridiana, 1948, Mondadori, Milano 1975, p. 49 (col titolo: Tempesta); poi anche in Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984, 2005, p. 742; ed ovviamente in Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1659]
Con un suono di corno
il vento arrivo', scosse l'erba;
un verde brivido diaccio
cosi' sinistro passo' nel caldo
che sbarrammo le porte e le finestre
quasi entrasse uno spettro di smeraldo:
e fu certo l'elettrico
segnale del Giudizio.
Una bizzarra turba di ansimanti
alberi, siepi alla deriva
e case in fuga nei fiumi
e' cio' che videro i vivi.
Tocchi del campanile desolato
mulinavano le ultime nuove.
Quanto puo' giungere,
quanto puo' andarsene,
in un mondo che non si muove!
9. REPETITA IUVANT. UNA POESIA DI EMILY DICKINSON TRADOTTA DA AMELIA ROSSELLI
[Da Emily Dickinson, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, 2005, p. 1666]
Una Parola fatta Carne e' di rado
E tremando condivisa
Ne' forse allora riportata
Ma non avro' dunque sbagliato
Ciascun di noi ha assaporato
Con estasi segreta
Proprio quel dibattuto cibo
Secondo nostra specifica forza -
Una Parola che respira chiaramente
Non ha potere di morire
Coesiva quanto lo Spirito
Puo' spirare se Egli -
"Fatto Carne e vissuto tra di noi"
Fosse condiscendenza
Come questo consenso del Linguaggio
Quest'amata Filologia
10. REPETITA IUVANT. SU EMILY DICKINSON (2006)
Emily Dickinson e' un enigma e uno specchio (come ogni voce, come ogni persona). Volto, parola che convoca, alla meraviglia, all'infinito, alla responsabilita'.
11. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riedizioni
- Anne, Charlotte, Emily Bronte, Tutti i romanzi, Newton Compton, Roma 2016, 2020, pp. 1920, euro 14,90.
12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
13. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3958 del 19 dicembre 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
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