[Nonviolenza] Telegrammi. 3827



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3827 del 10 agosto 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Ancora una volta chiediamo
2. Gianni Sartori ricorda Paolo Finzi
3. Gianni Sartori ricorda Alexander Langer (2011)
4. Paolo Finzi ricorda Franco Pasello (2011)
5. Peppe Sini: Al fianco del popolo palestinese. E di quello israeliano (2002)
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. ANCORA UNA VOLTA CHIEDIAMO

Ancora una volta chiediamo che  si realizzino immediatamente quattro semplici indispensabili cose:
1. riconoscere a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro, ove necessario mettendo a disposizione adeguati mezzi di trasporto pubblici e gratuiti; e' l'unico modo per far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani;
2. abolire la schiavitu' e l'apartheid in Italia; riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto": un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia;
3. abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese; si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani;
4. formare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza; poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
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Il razzismo e' un crimine contro l'umanita'.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Salvare le vite e' il primo dovere.

2. MEMORIA. GIANNI SARTORI RICORDA PAOLO FINZI
[Dal sito www.ilpopoloveneto.it riprendiamo questo intervento del 24 luglio 2020 dal titolo "Adesso che tutto e' finito. Un ricordo di Paolo Finzi"]

Coincidenze? La notizia della tragica morte di Paolo Finzi mi arrivava il 21 luglio (XIX anniversario della macelleria messicana di Genova 2001) contemporaneamente a quella dell'imminente sgombero sia di Frigolandia (deposito della memoria antagonista-alternativa degli ultimi 50 anni, oltre che presidio di resistenza umana e culturale) che del Conchetta di Milano. Forse davvero un ciclo si va chiudendo definitivamente e per la mia generazione e' il momento di passare il testimone.
Avevo iniziato a collaborare con "A. Rivista anarchica" (di cui Paolo era stato tra i fondatori, quindi redattore e infine direttore per quasi 50 anni) negli anni ottanta. Con un articolo – se non ricordo male – sullo sfruttamento di balene e delfini addestrati per scopi militari. Paolo l'avevo incrociato in precedenza a qualche manifestazione. A Carrara, nel 1972 (a qualche mese dalla morte di Franco Serantini che Paolo aveva ben conosciuto) c'era anche stato un incontro con Alfonso Failla, militante storico dell'anarchismo carrarese, destinato a diventare suo suocero e su cui scrivera' una avvincente biografia. La mia collaborazione con "A" fu tutto sommato di lunga durata, nonostante qualche polemica e discussione per i miei spiccati interessi nei confronti di popoli oppressi e minorizzati. Situazioni di cui Paolo diffidava avvertendo talvolta un eccessivo "odor di nazionalismo" (mentre chi scrive ne coglieva piuttosto l'aspetto legato alle lotte di liberazione dal colonialismo, dall'imperialismo, dal capitalismo etc.). Alla fine comunque, pur se con qualche riserva, pubblico' anche miei articoli, interviste e reportage su Paesi Baschi, Paisos Catalans e Irlanda. Oltre che su Indios (Moseten, Uwa...), Sinti (vedi l'articolo su Paolo Floriani), Curdi, Armeni e Adivasi dell'India.
Usci' anche un articolo su "Mio padre partigiano" dove raccontavo oltre che della "brigata Silva" (Colli Berici) anche del nonno "obbligato" e dello zio operaio aggrediti dai fascisti con manganelli e olio di ricino. E per il numero speciale del gennaio 2011 (quarantesimo di "A") mi chiese di curare l'intervento su "Anarchismi e indipendentismi".
In seguito, anche se ci siamo visti di persona varie volte, sia a Milano (dove passavo in redazione) sia in occasione di incontri a Padova, Abano (per un concerto di Alessio Lega), Mestre (presso gli "Imperfetti") e Vicenza, il solco fra noi era destinato ad ampliarsi. Soprattutto per qualche mia collaborazione con riviste e siti giudicati troppo "identitari". Per me rappresentava un tentativo di portare nel caotico ambiente autonomista e indipendentista tematiche anti-capitaliste, anti-gerarchiche, ecologiste etc.(fermo restando che riuscirci e' sempre un altro paio di maniche).
La rottura definitiva (dopo un primo temporaneo "congelamento") risaliva a tre anni fa e sinceramente avevo sempre sperato che prima o poi ci saremmo spiegati e magari riconciliati.
Invece il 20 luglio, in una stazione di Romagna, Paolo ha scelto di andare direttamente contro la morte, guardarla in faccia e morire in piedi a fronte alta. Una scelta alla Guy Debord degna di lui. Presumo non abbia voluto assistere passivamente al proprio declino dopo una vita trascorsa sulle barricate della Storia, in direzione ostinata e contraria, a pugno chiuso. Da anarchico.
E mi torna in mente l'ultima volta che ci siamo visti, proprio in un'altra stazione. A Vicenza dove lo avevamo invitato, a Villa Lattes, per parlare del suo amico Fabrizio De Andre'. Dopo un breve rimpatriata con Matteo Soccio alla Casa per la Pace, in attesa del suo treno per Milano (e della mia corriera per il paesello) parlammo a lungo delle radici "partigiane" e antifasciste delle rispettive famiglie.
Mi racconto' soprattutto di sua madre Matilde Bassani. Partigiana combattente, era cugina dello scrittore Giorgio Bassani e di Eugenio Curiel (ucciso dai fascisti nel 1945).
Vorrei ricordarlo con questa breve intervista, realizzata quattro-cinque anni fa, dove avevamo affrontato la questione ebraica su cui talvolta erano sorte discussioni (soprattutto in rapporto a quella palestinese).
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Un incontro con Paolo Finzi della redazione di "A. Rivista Anarchica"
Con Paolo Finzi, ebreo ateo (precisa) e anarchico, abbiamo parlato di antisionismo. "Una questione che – sostiene – generalmente procede in parallelo con l'antisemitismo da cui trae alimento". Ben sapendo, ovviamente, che i termini "semitismo" e "antisemitismo" nel linguaggio corrente vengono usati in modo improprio. Giornalista, saggista, unico superstite della originaria redazione di "A. Rivista Anarchica", militante storico della sinistra libertaria (amico personale, tra gli altri, di Giuseppe Pinelli, Fabrizio De Andre' e don Gallo), Finzi si e' occupato a lungo del fenomeno delle persecuzioni, soprattutto di quelle passate e presenti contro Rom e Sinti. Nel 2006 aveva prodotto il doppio DVD con libretto "A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari". Da anni tiene conferenze (molte nelle scuole) sulla multiculturalita', le persecuzioni, la memoria. Recentemente presso la comunita' cattolica alle Piagge (Firenze), chiamato da don Alex Santoro.
Presumo che qualcuno avra' da ridire sulle opinioni espresse da Paolo Finzi in merito allo stato di Israele. In ogni caso la sua era una campana che andava ascoltata, altrimenti il "pensiero unico" che scaraventiamo fuori dalla porta poi rientra dalla finestra (o viceversa, non ricordo).
- Gianni Sartori: Quale differenza vedi tra antisemitismo e antisionismo, termini spesso usati in maniera indifferenziata?
- Paolo Finzi: Premetto che non mi considero un esperto in senso accademico e che le mie riflessioni sono in gran parte legate al mio vissuto. Sorvoliamo pure sul fatto che il termite "semita" viene utilizzato in maniera etimologicamente errata e prendiamo atto che ormai "antisemita" e' sinonimo di antiebraico. Mentre l'antisemitismo e' un problema storico di vecchia data legato all'esistenza plurimillenaria degli ebrei, l'antisionismo ovviamente e' un fenomeno piu' recente, successivo alla nascita del sionismo nel XIX secolo. Il sionismo si definisce nell'ambito dei movimenti ottocenteschi di liberazione e di costituzione nazionale. Con la differenza (rispetto per esempio al Risorgimento) che si applica ad un popolo disperso in vari paesi e non per propria scelta. Un popolo da riunificare, su principi di liberta' e convivenza civile, nella prospettiva della realizzazione di una entita' nazionale. Quindi anche l'antisionismo e' relativamente giovane, circa un secolo e mezzo. Oggi i due termini si confondono, soprattutto dal 1948 quando nacque lo Stato di Israele, in un contesto e con modalita' che i tanti antisionisti attuali ignorano o vogliono ignorare (il che e' lo stesso). Mi si consenta una battuta. Israele e' l'unico posto al mondo dove "uno sporco ebreo e' solo un ebreo che non si lava". Rende l'idea del perche', nonostante l'estrema frammentazione (politica, religiosa, di nazionalita', ecc.), tra Ebrei e Israele esista un rapporto cosi' intenso, profondo... (il che non significa approvare tutto quello che fanno i governi israeliani). D'altra parte val la pena ricordare che molti Ebrei prima della nascita dello Stato di Israele erano contrari al sionismo (vedi il Bund, grande sindacato dell'Europa centro-orientale). Dopo la nascita di Israele, essere antisionisti assume un altro significato.
- Gianni Sartori: Soprattutto a sinistra, ma anche in certa "destra radicale" (peraltro strumentalmente, ricordando da che parte stavano i neofascisti italiani in Libano) l'antisionismo si presenta come anticolonialista, una scelta di campo a fianco degli oppressi. Questo atteggiamento, a tuo avviso, e' sempre autentico o talvolta maschera un razzismo antiebraico di fondo?
- Paolo Finzi: Ritengo che molta gente parli senza ben conoscere le cose di cui si occupa. Spesso chi si definisce antisionista non conosce i termini della questione. Si vede in Israele il luogo della confluenza degli Ebrei dopo la seconda guerra mondiale e si da' per scontato il carattere anti-arabo e anti-palestinese di questa presenza. Come se gli Ebrei avessero imposto all'Europa (in preda ai sensi di colpa) la costituzione di questo stato a scapito dei Palestinesi. In base a questa lettura l'antisionismo diventa l'opposizione al colonialismo israeliano. Dopo la guerra dei sei giorni (1967) in particolare abbiamo assistito ad un mutamento politico di gran parte della sinistra italiana (all'epoca rappresentata soprattutto dal Pci) che divenne ostile nei confronti di Israele, spesso mischiando la critica alla politica dei vari governi con la negazione della legittimita' dell'insediamento "sionista". Va anche aggiunto che lo stesso sionismo, rispetto alle origini ottocentesche, si e' modificato. La questione e' molto complessa, densa di problemi. Basti pensare a quanti interessi economici sono in gioco in quell'area, non solo il petrolio. Al di la' dei singoli episodi (come recentemente in Francia) dovrebbe preoccupare la vasta presenza nella societa' di sentimenti antiebraici. Da un certo punto di vista l'ignoranza, i pregiudizi, l'opinione che gli Ebrei sono "una setta che pensa a fare soldi", ecc. e tutti gli altri stereotipi diffusi a livello popolare possono essere piu' nocivi di Le Pen o del pazzo di turno che compie una strage. Esiste un continuum sociale che in determinate circostanze parte dalla piccola intolleranza o insofferenza quotidiana e arriva fino all'odio generalizzato e alla fine fa accettare tutto, anche le camere a gas.
- Gianni Sartori: Il sionismo, la "questione ebraica", cosi' come la "questione palestinese" in alcuni paesi arabi, talvolta sono apparsi come un pretesto per distogliere l'opinione pubblica dai problemi interni. La tua opinione?
- Paolo Finzi: In Europa gli Ebrei, cosi' come Sinti, Rom e altre minoranze o soggetti "deboli" (v. gli albanesi negli anni '90, i rumeni nell'ultimo decennio...), sono stati spesso utilizzati per coprire le contraddizioni di un paese. A conferma delle teorie che il "nemico interno" al potere serve sempre. Ovviamente e' sempre meglio utilizzare quelli con un ruolo ormai consolidato di "diversi", non-assimilabili, vittime predestinate. E gli Ebrei, sia per la loro perdurante esistenza che per la loro volonta' appunto di non assimilazione, si prestano ottimamente. Non si dovrebbe dimenticare che in molti paesi tra i vari filoni dell'antigiudaismo ha giocato un ruolo rilevante anche quello di matrice cristiana. Mi piace altresi' sottolineare che negli ultimi tempi ci sono stati passi avanti da parte delle istituzioni ecclesiastiche. Cosi' come, nel corso della storia e soprattutto durante le persecuzioni ad opera dei nazifascisti ci sono sempre stati frequenti esperienze di dialogo e solidarieta' da parte di singoli credenti e religiosi. Mia madre, ebrea e socialista, partigiana combattente, a Roma, ricercata dai nazisti, riparo' in un convento cattolico e li' fu protetta.
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Nota di Gianni Sartori
Con il termine sionismo si indica un movimento sorto nel 1882 per "riportare a Sion" gli Ebrei della diaspora. La nascita coincide con una recrudescenza delle persecuzioni nella Russia zarista e con la fondazione a Varsavia del gruppo Choveve' Sion. Risale allo stesso periodo la fondazione della prima colonia ebraica in Palestina e la diffusione di "Autoemancipazione" pubblicato da Lev Pinsker a Odessa. Determinante l'impegno di Theodor Herzl per ottenere garanzie giuridiche internazionali a favore degli insediamenti ebraici. Nel 1897 Herzl convoco' il primo congresso sionista dando origine alla Zionist Organization (Organizzazione sionista) e al Jewish National Fund (Fondo nazionale ebraico). L'immigrazione divenne piu' consistente a seguito della "dichiarazione Balfour" del 2 novembre 1917 con cui il ministro britannico si impegnava a favorire la costituzione di una sede nazionale ebraica. Tra i nuovi immigrati era prevalente una componente operaia rappresentata da partiti e movimenti come Poale' Zion (Operai di Sion) e Hapoel Hatsair ("Il giovane operaio"). Nel 1919 nasceva Ahdrut Haavoda ("Unita' del Lavoro") da cui in seguito si stacco' il Partito comunista di Palestina. Su posizioni di destra, il Partito sionista revisionista fondato nel 1924 da Vladimir Jabotinsky. Nel 1931 la milizia giovanile di questo partito, Betar, divenne l'Irgum Zwai Leumi, responsabile dell'attentato al King David Hotel (luglio 1946) e del massacro di Deir Yassin (aprile 1948). Nel novembre 1947 l'Onu approvo' un piano di spartizione della Palestina. Allo scadere del mandato britannico, 15 maggio 1948, il comitato esecutivo controllato dai dirigenti sionisti si trasformo' nel governo provvisorio della neonata nazione israeliana.

3. MEMORIA. GIANNI SARTORI RICORDA ALEXANDER LANGER (2011)
[Da "A. Rivista anarchica" n. 358, dicembre 2010 - gennaio 2011, col titolo "In ricordo di Alex Langer"]

Nella primavera del 1995 avevo rivisto Alex Langer a Campogrosso, al confine tra Veneto e Trentino. Alpinista, esponente degli "Europarlamentari amici della montagna" e di Mountain Wilderness, auspicava la realizzazione di un Parco naturale delle Piccole Dolomiti. Davanti alla lapide in memoria del partigiano vicentino Toni Giuriolo (esponente di Giustizia e Liberta', ricordato da Meneghello ne "I piccoli maestri"), aveva osservato che "Vicenza e provincia, purtroppo, godranno a lungo della notorieta' internazionale (all’estero è già stata soprannominata "la Rostock d'Italia") acquistata con la manifestazione dei naziskin dell'anno scorso". Partiva da qui una serie di riflessioni su "l'attuale situazione politico-culturale impregnata di rigurgiti razzisti, di conflitti etnici piu' o meno latenti...".
L'amara constatazione di Langer era che "al momento attuale interi strati di giovani sembrano non avere alcuna competenza di tematiche quali la solidarieta', la nonviolenza, la difesa dei diritti umani". Si salvavano quelle "frange attive di volontariato che comunque sembrano rivolgersi soprattutto ai casi singoli, personali, ma che appaiono meno presenti sul piano collettivo".
"Forse pensavamo – aveva aggiunto – che i giovani hanno comunque in se' le potenzialita' per una cultura alternativa all'egoismo, al rampantismo, all'individualismo. Invece sembra che stiano diventando una brutta copia degli adulti".
Parole molto dure, in parte ancora attuali.
Non era comunque privo di speranze per il futuro: "Molti di questi giovani che si sono fatti drogare dalla televisione non si sono mai sentiti dire una piccola frase: "Vieni e vedi". Si tratta di creare ambiti in cui poter partecipare senza che questo comporti omologazione o sottoscrizione di una ideologia. Sono convinto che dalla diffusione del volontariato civile potra' derivare una rigenerazione politica".
Sudtirolese di lingua tedesca, figlio di un medico ebreo austriaco fuggito prima a Firenze e poi in Svizzera durante il nazismo, Langer aveva vissuto con estrema partecipazione i conflitti tra serbi, croati, bosniaci. Era stato uno dei fondatori del Verona Forum per la pace e la riconciliazione nell'ex Jugoslavia, una rete di collegamento tra tutte le etnie coinvolte nelle guerre balcaniche. "Gli incontri di Verona – ricordava – erano cominciati ancora prima del novembre '92 e della marcia pacifista a Sarajevo. E gia' allora abbiamo verificato come fosse difficile mettere insieme queste persone. Molti di loro non volevano riconoscersi sotto la sigla "ex Jugoslavia". Abbiamo cominciato a incontrarci con gruppi minoritari, donne, pacifisti, democratici... Sono piu' di duecento le persone che hanno partecipato ad almeno uno degli incontri, confrontandosi e arrivando a firmare documenti comuni". E naturalmente ognuno di loro "nel partecipare alla compilazione di un documento, di una dichiarazione deve anche pensare alla posizione della sua etnia".
L'ultimo periodo della vita di Alex Langer era stato convulso. Aveva investito ogni energia nella lista per la sua candidatura a sindaco di Bolzano, pensata per "sciogliere i grumi esistenti nel mondo della politica, senza ferire le persone e senza sottovalutare la loro esperienza". Per una "Bolzano citta' europea, luogo di convivenza stimolante. Citta' gentile, ospitale, solidale e sociale". Il 29 aprile arrivo' l'esclusione definitiva sia per il candidato sindaco (per aver rifiutato in due occasioni la dichiarazione di appartenenza etnica) che per la sua lista. Il 19 maggio giunse a Bolzano Selim Beslagic, sindaco della citta' bosniaca di Tuzla, tradizionalmente un luogo di pacifica convivenza. Langer lo aveva accompagnato in vari incontri in Italia e in Europa per istituire proprio a Tuzla un'"ambasciata delle democrazie locali". Ma una settimana dopo, con una granata che uccise settanta giovani davanti ad un bar, la guerra riprese il sopravvento. Con l'appello "L'Europa muore o rinasce a Sarajevo" e con la manifestazione del 26 giugno a Cannes, sconfessando in parte la sua storia personale di pacifista, Langer chiedeva, in sostanza, un intervento per "dare qualche segnale chiaro che l'aggressione non paga".
Poi la tragica conclusione. Non lontano da San Miniato, nella Toscana che amava, quella di Barbiana (sua la prima traduzione in tedesco di "Lettera ad una professoressa”) e dell'Isolotto (dove, coincidenza, lo avevo conosciuto nel 1969). Un cordino da arrampicata, l'albero di albicocco e i tre biglietti, due in italiano e uno in tedesco: "I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio piu'. Vi prego di perdonarmi tutti per questa mia dipartita (...). Non siate tristi, continuate in cio' che era giusto. Pian dei Giullari, 3 luglio 1995".
Pochi giorni dopo, l'11 luglio, le milizie serbe di Karadzic e Mladic entravano a Sebrenica.

4. MEMORIA. PAOLO FINZI RICORDA FRANCO PASELLO (2011)
[Da "A. Rivista anarchica" n. 358, dicembre 2010 - gennaio 2011, col titolo "Quell'edicola che non c'e' piu'"]

Nella terza di copertina di ogni numero di "A" c'e' l'elenco dei nostri punti-vendita. Fino allo scorso numero, a Milano, accanto a librerie, qualche edicola, centri sociali, ecc. c'era anche questa curiosa indicazione: vendita diretta davanti alla Stazione Nord (p.le Cadorna) tutti i mercoledi' dalle 17 alle 19. Se andavi li', nel luogo e nell’orario indicati, trovavi lui, Franco Pasello, in piedi, di fronte all'entrata piu' affollata della stazione, proprio nell'ora di punta del rientro. In mano "Umanita' Nova", "A", magari "Sicilia Libertaria", e appoggiati per terra o nella borsa (per evitare grane con i vigili o i poliziotti) alcuni libri – magari proprio quello ordinatogli la settimana prima da quello studente residente nel Varesotto e da quel professionista, tutto elegante, che faceva il pendolare da Como. Franco era un'edicola umana, o – se preferite – un uomo/edicola.
Con regolarita', da decenni, presidiava quel luogo in quell'ora. Cosi' come aveva fatto per piu' di vent'anni, il sabato (prima per tutta la giornata, poi – sai, e' dura andarci direttamente dal lavoro dopo la nottata del venerdi', quando si fa il pane triplo – solo al pomeriggio) alla Fiera di Sinigaglia, il mercato delle pulci milanese. Per tanti anni da solo, poi insieme con Lillino e Patrizio, poi di nuovo da solo.
Era mitico Franco, aveva un'innata capacita' di vendita, era la gioia di noi editori. In realta' il trucco c'era, quel ragazzone che con il passare degli anni diventava piu' vecchio restando sempre un ragazzone, investiva molto di se' in quell'attivita' apparentemente commerciale. Sembrava che vendesse, in realta' cercava l'occasione per parlare, per spiegare le nostre idee, per dire e ascoltare commenti sull'attualita', per "cuccare" o almeno cercare di farlo con le ragazze. Era solido come un'edicola vera, te lo ritrovavi li' con la pioggia e il gelo (che a Milano non mancano, con un inverno che puo' andare da ottobre a marzo), sempre con la sua chiacchiera, il suo sorriso, la sua comunicativa. Quando me lo ritrovavo al fianco in qualche corteo, si divertiva sempre a fare il confronto con la mia incapacita': io vendevo per venti euro, lui per settanta, piu' un abbonamento, piu' il numero di cellulare di una ragazza, piu' il volantino della cena vegana dato a due di Mortara, ecc. A volte mi sembrava anche eccessivo, al limite dell'insistenza.
Franco non era amico dei Rom, era un Rom. Non a caso solo nei campi regolari e irregolari lui si sentiva del tutto a casa propria. Piu' ancora che in redazione, dove in media e' venuto almeno una volta alla settimana per 35 anni – e, d'estate, quando non andava in ferie, ti si piazzava qui con la chiacchiera, ed era un problema (e solo qualche "Franco ne parliamo la prossima volta, se no non riusciamo a fare la rivista nuova e ti tocca continuare a vendere quella vecchia" lo faceva desistere).
I suoi amici Rom (qualcuno anche amico mio) non gli rompevano, come noi a volte facevamo, con l'invito a curarsi i denti, a lavare piu' spesso i suoi vestiti, a darsi una regolata. Nei campi era amato, faceva foto a tutti, ma soprattutto parlava, stava ad ascoltare, cercava di capire quel mondo cosi' diverso dal nostro. Dal nostro? Che dico: certo Franco, persona di grande sensibilita' umana, di attente letture, di fini ragionamenti, partecipava anche al nostro mondo anarchico, ma la componente Rom e' andata assumendo sempre maggiore peso nella sua vita. E lui, single certo non per scelta, ha sempre trovato nella grande famiglia allargata degli zingari, dei giostrai, dei Sinti la propria famiglia: quella famiglia che non ha mai avuto, da piccolo, e che non si e' creato da grande (e chi lo conosce sa quanto cio' gli pesasse).
E allora ti snocciolava le parentele, i Braidic, i matrimoni incrociati, le detenzioni (tante) e le scarcerazioni (poche), e le fuitine delle ragazze, i raid nei campi delle forze dell'ordine. E poi comprava e divorava tutto quanto c'era sui Rom, la loro storia.
Aveva una forte etica del lavoro. Non saltava mai un turno di notte, aveva un'intima coscienza del valore sociale del panificare.
Non era un "talebano". Convintissimo delle idee anarchiche, dedito come pochi altri alla loro diffusione, aveva una mentalita' aperta, frequentava anarchici di tutti i tipi, da quelli dei centri studi agli insurrezionalisti, attento a capire ma fermo nei propri convincimenti. Bazzicava i vegani e mangiava carne, era di fondo un individualista ma non si applicava etichette e non considerava quelle altrui dei filtri per l'amicizia o la collaborazione. Era critico verso le forme che gli apparivano troppo organizzate nel movimento anarchico, ma (per esempio) aveva tanti amici nella Fai (di cui non avrebbe mai fatto parte) e ne vendeva il settimanale anche se spesso non ne condivideva il taglio o alcune cose: era troppo libertario e serio per farsi condizionare, nella sua attivita' di venditore, da giudizi personali e contingenti. In questo, era piu' serio e affidabile di altri che, pur parlando di militanza e di organizzazione, introducono motivi polemici ad ogni pie' sospinto.
Era molto sensibile, anche troppo – se esiste il troppo. E per una sua vicenda personale, che aveva a che fare con amore, paternita' e altre cose di grande rilievo personale, perse quasi la testa e arrivammo a litigare di brutto. Per tanto tempo ridusse di molto la sua frequentazione della redazione e si ritrovo' "contro", fortemente critici, tanti compagni e amici. Fu un periodo orribile per lui, per altri e altre, per noi.
Capii in quei mesi, lunghi mesi, che cosa significhi "sangue del mio sangue". Scientificamente Franco non era sangue del mio sangue, ma di fatto e' come se lo fosse: non fui capace di rompere con lui – di litigare si', e tanto – per quante stronzate potesse fare (e ne fece, quante ne fece in quel periodo). Era come un mio fratello minore, o forse Aurora e io eravamo per lui figure un po' genitoriali – ed io in particolare, forse, in parte, quel padre che non ebbe mai e che ancora non tanto tempo prima di morire era andato a cercare a Lendinara, il paese del Rodigino in cui era nato 56 anni fa. Risultato: una volta saputo chi era, il padre lo caccio', intimandogli di non farsi piu' vedere, se no avrebbe chiamato i carabinieri. Quanta sofferenza nel suo racconto di questo viaggio nella terra natia!
Ne aveva vissute di cose forti, Franco. Come quella notte di una quindicina di anni fa, quando si era ritrovato, come sempre, nel cuore della notte, solo con il panettiere per cui lavorava. Per una tragica fatalita', il suo "padrone" letteralmente perse la testa, risucchiata e maciullata negli ingranaggi di un macchinario. E da solo con quel cadavere decapitato e sanguinante, Franco aveva dovuto avvisarne la moglie, che abitava nello stesso stabile, finendo – Franco – all'ospedale sotto shock. E da qui aveva chiamato Fausta, della redazione di "A". Noi, la sua famiglia.
Tante immagini si affollano nella mente: la campagna per Monica Giorgi, Senzapatria, il periodo della sua appartenenza al gruppo Anarres (l'unica sua "appartenenza" che io ricordi), le sue critiche a tante cose che abbiamo pubblicato, la sua passione per la bici (rigorosamente l'unico suo mezzo di trasporto), la sua essenzialita' nel vivere, con tirchierie e generosita'.
Tra tante immagini, spicca la nostra prima volta. Era il 1976, ero in corrispondenza con lui, giovane detenuto per rifiuto del servizio militare. Si era fatto vivo prima dal carcere militare di Gaeta, poi da quello civile (si fa per dire!) di Sondrio, per chiedere l'invio della rivista e di alcuni libri. Poi usci' e ci scrisse. Abitava non distante dalla redazione, ma non venne a trovarci. Insistetti e alla fine venne, era imbarazzatissimo, non spiccicava una parola, ma ci fece subito simpatia. Torno', lo intervistai. Poi ci fece conoscere sua madre, fummo invitati a pranzo. Il ghiaccio era rotto. Ora tutto questo appartiene al passato.
Franco e' morto, un ictus a casa sua, mentre due Rom che lui aiutava da tempo (me ne aveva parlato) erano probabilmente passati a lavarsi i vestiti e a bere un caffe'. Quei due Rom rumeni, che dormono in un'auto, non troveranno nessun altro gagio (come i Rom e i Sinti definiscono i non-appartenenti al loro popolo) che apra loro le porte della propria casa e della propria vita, come faceva con naturalezza Franco. Una cosa che nessuno di noi, pur grandi teorici della solidarieta' e bla bla bla, farebbe mai. E che lui, invece, faceva. Concretamente.
Ma anche qui il trucco c'era. Franco smettila di imbrogliarci. Ora che sei morto, lasciaci dire la verita': tu non sei mai stato un gagio. E i tuoi fratelli Rom, i soliti imbroglioni, lo sapevano o almeno lo percepivano.

5. REPETITA IUVANT. PEPPE SINI: AL FIANCO DEL POPOLO PALESTINESE. E DI QUELLO ISRAELIANO (2002)
[Questo intervento apparve col titolo "Un discorso a Terni per la liberta' e i diritti del popolo palestinese" su "La nonviolenza e' in cammino" n. 399 del 29 ottobre 2002 ma fu pubblicato anche su "A. Rivista anarchica" n. 286 del dicembre 2002 - gennaio 2003 col titolo "Al fianco del popolo palestinese. E di quello israeliano", e con questo titolo qui lo riproponiamo. Nella nota introduttiva originale era scritto "Il 25 ottobre si e' svolta a Terni in largo Villa Glori una iniziativa pubblica sul tema "Liberta' e diritti per il popolo palestinese", promossa dal Terni Social Forum. Ad essa sono intervenuti come relatori Bassam Saleh, portavoce della comunita' palestinese di Roma, e Peppe Sini, responsabile del Centro di ricerca per la pace di Viterbo; riportiamo una sintesi della relazione svolta da quest'ultimo"]

1. Tra i maestri che ho avuto due mi sono assai cari, defunti ormai da anni; si chiamavano - si chiamano, poiche' la memoria non muore - Primo Levi e Vittorio Emanuele Giuntella. Entrambi erano superstiti dei lager nazisti.
Primo Levi credo sia il piu' grande testimone della dignita' umana; e forse grazie a lui piu' che a ogni altro noi serbiamo memoria dell'orrore di Auschwitz; da lui piu' che da ogni altro abbiamo ereditato la consegna di impedire che Auschwitz ritorni. Non possiamo dimenticare.
Vittorio Emanuele Giuntella fu uno degli ufficiali italiani nei Balcani che dopo l'8 settembre 1943 dovettero scegliere tra continuare la guerra al servizio dei nazisti, o il lager. Scelse il lager, scelse quella che Alessandro Natta ha chiamato "l'altra Resistenza", la Resistenza dimenticata ma non meno eroica di migliaia e migliaia di soldati italiani che dissero di no a Hitler e Mussolini, e subirono il lager: migliaia e migliaia di uomini spesso molto giovani che posti per la prima volta in vita loro di fronte a una concreta e cogente possibilita' di scelta tra diventare complici dei carnefici ed avere garantita la vita, o essere fedeli all'umanita' e subire ogni sorta di angherie ed essere esposti alla morte, seppero fare la scelta giusta, la scelta metuenda e sublime di donare interamente se stessi alla causa dell'umanita'. Non possiamo dimenticare.
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2. Ho fatto questa premessa per due motivi:
a) il primo: la Shoah, e a monte di essa e intorno ad essa la bimillenaria bestiale persecuzione antiebraica, e' per me, per la mia esistenza, nel mio vissuto di essere umano, un nodo storico e morale ed esistenziale decisivo: non tradiro' mai i miei maestri vittime del lager.
b) Il secondo: Primo Levi e' anche l'uomo, il giusto, il saggio, che nel 1982 levo' la sua voce che risuono' in tutto il mondo come la voce stessa dell'umanita' contro i responsabili e i complici dei massacri di Sabra e Chatila, e tra essi c'era anche Ariel Sharon. Ed e' nel ricordo e nel nome di Primo Levi e delle sue parole che qui io oggi ripeto: "Sharon deve dimettersi".
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3. E un altro ricordo mi affiora alla mente: molti anni fa come molti altri adottai a distanza un bambino palestinese. Non so se e' ancora vivo, oggi sarebbe un uomo. Vorrei che almeno lui, Muatez, possa vedere quel giorno che tarda tanto a venire, in cui due popoli in due stati possano vivere da vicini in fraternita'.
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4. Ma perche' questo accada, e mentre la tragedia e' in corso, occorre, io credo, un agire consapevole per la giustizia e quindi la pace e quindi la riconciliazione; un agire che per essere consapevole, di questa tragedia, di questo conflitto, deve cercare e cogliere le radici, le piu' profonde radici, e queste radici stanno qui, in Europa.
Siamo noi europei i responsabili di cio' che accade cola' dal '48; e quindi prima di fare la predica agli altri, facciamo un esame di coscienza a noi stessi.
In due forme l'Europa e' responsabile:
a) per il colonialismo: lungo cinque secoli, e che continua tuttora; rapporto Nord/Sud e' un eufemismo che occulta e insieme dice questa rapina che da cinque secoli le elites del quinto piu' ricco dell'umanita' compiono ai danni dei quattro quinti dell'umanita' impoveriti perche' rapinati.
b) per il razzismo: che oggi raggiunge forme parossistiche e nuovamente atrocemente invade fino le legislazioni; e nell'alveo del pregiudizio e della persecuzione razzista quella sua manifestazione la piu' prolungata e feroce, la persecuzione antiebraica: persecuzione compiuta dai romani prima con l'invasione, la distruzione del tempio, la deportazione, il disconoscimento di dignita'; dalle chiese cristiane poi, con una crudelta' superiore a quella stessa dei romani; al delirante razzismo scientista delle epoche illuminista e romantica; fino al culmine dei pogrom come arma politica e tecnica amministrativa stragista, fino all'orrore assoluto della Shoah. L'antisemitismo che e' ancora cosi' diffuso, pervasivo e virulento in Europa e nel nostro paese, l'antisemitismo che contamina oscenamente anche tante persone che pure si credono sinceramente democratiche ed antifasciste.
Come possiamo, noi che sappiamo questo, non capire le forti autentiche ragioni della maggioranza della popolazione di Israele e dell'ebraismo della diaspora nella difesa di Israele come ultimo, estremo rifugio per le vittime di duemila anni di persecuzione, per i sopravvissuti dei campi di sterminio e i loro figli?
La nostra solidarieta' con il popolo palestinese, ed affinche' cessi la persecuzione, l'occupazione, l'iniquita' mostruosa che esso subisce, e' anche la nostra solidarieta' con la popolazione di Israele e con entrambe le diaspore: affinche' mai piu' alcun essere umano debba temere la persecuzione e la morte; affinche' mai piu' colonialismo e razzismo terrorizzino, opprimano, massacrino, neghino il diritto stesso ad esistere ad alcuna cultura e ad alcun essere umano.
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5. Solo recuperando la memoria di tutte le vittime si puo' operare per una strategia nonviolenta di liberazione, per un'azione di pace che costruisca riconoscimento di diritti e convivenza.
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6. Ma il conflitto israelo-palestinese va contestualizzato non solo lungo l'asse del tempo ma anche nel campo spaziale, ovvero - come si usa dire oggi - geopolitico. Rispetto al paradigma interpretativo consueto e consunto che vede solo un conflitto tra due soggetti peraltro assimmetrici, uno stato occupante e una popolazione disperata; o all'altro paradigma anch'esso consueto e consunto che vede solo un conflitto tra un popolo perseguitato per millenni e circondato da stati dittatoriali ostilissimi; credo occorra un modello ermeneutico piu' complesso rispetto agli approcci banalizzanti e disutili che in quanto si prestano alla propaganda piu' irriflessa divengono complici degli errori ed orrori ideologici e pratici che ne conseguono.
Da tempo propongo un approccio per cosi' dire "a scatole cinesi": quel conflitto - che pure ha le sue assolute peculiarita' - intendendo come spicchio (ma per molti versi olografico) del conflitto regionale, che a sua volta e' spicchio e specchio del conflitto nord/sud, luogo di precipitazione di cruciali nodi economici, strategici, politici: ovvero del sistema di dominazione di quella che oggi si usa chiamare globalizzazione neoliberista ma che in termini di modellistica economica dovremmo chiamare espansione su scala quasi planetaria del modo di produzione capitalistico nelle forme tipiche dello stadio neoimperialistico - ma mi rendo ben conto che anche questi termini perdono molto della loro capacita' euristica se intesi come etichette ideologiche invece che come indicazioni metodologiche per la riflessione, la ricerca, l'analisi (ed ovviamente per l'azione contro l'ingiustizia e in difesa ed a promozione dell'umanita', ovvero del riconoscimento di tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani).
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7. Ed anche la memoria delle vittime ha le sue dialettiche (Tzvetan Todorov ha scritto delle pagine indimenticabili ed imprescindibili su questo cruciale argomento), ed occorre quindi avere memoria delle vittime nella prospettiva della liberazione e della riconciliazione (penso all'esperienza dalla Commissione per la verita' e la riconciliazione in Sudafrica, un'esperienza non solo morale e politica, ma giuridica e giuriscostituente che porta la nonviolenza al cuore dell'organizzazione delle istituzioni, dello stato, della societa' e della cultura, proprio a partire dal recupero della memoria e dal riconoscimento della verita' e dei crimini subiti e commessi); la memoria quindi che salva e che libera e che riconcilia, che fonda convivenza; non quella dell'infinitizzazione degli odi e delle faide, del disprezzo e del rancore gentilizio e razzista, degli egoismi di massa e delle abominevoli "pulizie etniche".
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8. E allora una strategia di solidarieta' e di liberazione che tenga conto di cio' io credo debba avere due caratteristiche, o - se si preferisce - debba muovere da due persuasioni (come tali indimostrabili):
a) che l'indipendenza dei popoli oppressi o sara' socialista, democratica e libertaria o non sara'; intendendo con il decisivo aggettivo "socialista" purtroppo cosi' abusato e deturpato nel corso del Novecento l'impegno ad una organizzazione sociale che sia intesa al fine della giustizia e della solidarieta', che non permetta la riproduzione sotto mentite spoglie della dominazione oppressiva dei pochi sui piu', ma tutti chiami a cooperare per il comune benessere: la storia delle decolonizzazioni del XX secolo ci rivela come il non essere riusciti a dotare i paesi di nuova indipendenza di autentiche caratteristiche socialiste, democratiche e libertarie abbia provocato la degenerazione delle esperienze di liberazione e il permanere o il riaffermarsi di forme di dominazione ferocissime e sostanzialmente neocoloniali;
b) che la strategia e la prassi della lotta di liberazione dei popoli oppressi o sara' tendenzialmente sempre piu' e sempre piu' unicamente nonviolenta, o quella liberazione non sara'; intendendo con questo aggettivo la scelta intellettuale e morale della lotta piu' nitida ed intransigente contro l'ingiustizia e l'oppressione, la lotta che della violenza della dominazione tutto ripudia e rigetta, nei fatti e nei metodi; la scelta che caratterizzo' la grandissima parte delle esperienze storiche di Resistenza e di liberazione da quando l'umanita' e' in lotta per il diritto a vivere e la dignita'. Di contro ad una storiografia sempre "dalla parte dei vincitori" ed affascinata e fin ipnotizzata dalla violenza, occorre affermare che le lotte piu' grandi e le piu' grandi conquiste di liberta', di diritto, di solidarieta', hanno avuto precipue e decisive caratteristiche nonviolente; e che anche quel grandioso fenomeno di cui tutti noi siamo figli riconoscenti che e' la Resistenza vittoriosa dei popoli contro il nazifascismo e' stata nella sua massima parte una esperienza di lotta nonviolenta, come testimoniano le memorie e le analisi di moltissimi eroici protagonisti dell'antifascismo e della stessa lotta partigiana.
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9. Perche' questa e' la mia convinzione: che la nostra solidarieta' con il popolo palestinese oppresso deve essere concreta e nonviolenta, rigorosa ed esigente, esigente nei cofnronti di noi stessi e degli altri; e che in quanto questa solidarieta' svolgiamo, dobbiamo chiedere a chi lotta per il diritto ad esistere di voler vivere, di non darsi alla morte, e di accostarsi sempre di piu' alla nonviolenza. Come ci hanno insegnato nel loro estremo agire e nelle loro ultime parole i condannati a morte della Resistenza al nazifascismo; come ci ha insegnato Gandhi; come ci ha insegnato Nelson Mandela; come ci ha insegnato il movimento delle donne, la piu' grande esperienza storica di lotta nonviolenta, la lotta che ha promosso il piu' grande cambiamento positivo della storia, una lotta nel corso della quale le protagoniste di essa non hanno mai ucciso una sola persona.
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10. Questa scelta implica altresi' il il rifiuto della menzogna e di ogni atteggiamento totalitario. Implica il rifiuto di ogni ideologia sacrificale.
Implica la scelta di quel principio che e' alla base di tutte le grandi tradizioni di pensiero religiose e laiche: non uccidere.
Implica la solidarieta' piena con tutte le vittime (ha scritto una volta - e per sempre - Heinrich Boell che "ogni vittima ha il volto di Abele").
Implica la condanna di ogni terrorismo: di stato, di gruppo e individuale.
Implica l'affermazione del diritto del popolo e dello stato palestinese a esistere; ed implica il diritto del popolo e dello stato di Israele a esistere. Verra' forse un tempo in cui l'umanita' riuscira' a superare le divisioni di stati e di classi, ma per preparare quel tempo, per muovere in quella direzione, per uscire da questo nostro terribile tempo che quel geniale pensatore defini' "la preistoria dell'umanita'", occorre intanto, qui e adesso, riconoscere il diritto di ogni popolo ad esistere, ad avere la sua cultura, la sua terra in cui vivere liberamente, il suo stato.
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11. Ocorre che cessi l'occupazione dei territori palestinesi da parte dell'esercito dello stato di Israele.
Occorre che cessino gli insediamenti coloniali nei territori palestinesi.
Ocorre il riconoscimento immediato della nascita dello stato palestinese.
Ed occorre un piano internazionale di aiuti al popolo e allo stato palestinese per lo sviluppo, la democrazia, la sicurezza e la convivenza; ed occorre altresi' un piano di aiuti al popolo e allo stato di Israele per lo sviluppo, la democrazia, la sicurezza e la convivenza.
Ed occorre sconfiggere il terrorismo, innanzitutto cessando di mettergli a disposizione armi e pretesti, risorse economiche ed esseri umani disperati.
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12. E per contrastare il terrorismo occorre altresi' bandire la guerra dal novero delle azioni lecite; le leggi vigenti lo dicono gia': e' scritto nella Carta delle Nazioni Unite; e' scritto anche nei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana.
Poiche' di tutti gli atti di terrorismo la guerra e' il piu' grande; consistendo essa, come osservava Gandhi, della ripetuta commissione di omicidi di massa di esseri umani del tutto innocenti.
Nessun motivo puo' giustificare una guerra, che invece di sconfiggere il terrorismo ne prosegue e ingigantisce la spirale.
Ne' e' ammissibile l'idea di una guerra contro un paese perche' questo detiene armi di sterminio di massa: da questo punto di vista i sostenitori di tale teoria - in primis il presidente degli Usa - dovrebbero allora muover guerra innanzitutto contro il loro stesso paese.
Ne' e' ammissibile l'idea di una guerra contro un paese sulla base dell'accusa di aver fornito sostegno a gruppi terroristici: sotto questo punto di vista mentre non e' dimostrato che ad esempio il governo dell'Iraq abbia sostenuto i terroristi autori delle stragi dell'11 settembre 2001, e' invece dimostrato che ad esempio il governo degli Usa abbia sostenuto i terroristi autori del golpe cileno dell'11 settembre 1973.
Come si vede le pretese ragioni in pro della guerra si rovesciano contro chi le propone.
Una guerra nell'epoca aperta dall'orrore di Hiroshima e' una guerra che mette in pericolo la sopravvivenza stessa della specie umana: e - per dirlo con le parole di don Lorenzo Milani - noi dovremmo star qui a discutere se sia lecito distruggere l'umanita' intera?
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13. Siamo quindi solidali con il popolo palestinese, e siamo altresi' solidali con il popolo israeliano; siamo solidali con il popolo iracheno, e siamo altresi' solidali con il popolo statunitense.
Siamo contrari al governo dello stato di Israele come a quello dell'Iraq come a quello degli Usa, come a quei decisori in sede Onu che da dieci anni portano la responsabilita' della catastrofe umanitaria in corso in Iraq, l'immane strage determinata dell'embargo.
Siamo contro il terrorismo di stato come contro il terrorismo dei gruppi e dei singoli.
Siamo contro la guerra sempre.
Siamo donne e uomini di pace: ma perche' questa nostra posizione sia credibile dobbiamo fare la scelta della nonviolenza, dobbiamo praticare la solidarieta' concreta, dobbiamo prendere sul serio la nostra comune umanita'.
In questo incontro di oggi qui a Terni di solidarieta' con il popolo palestinese abbiamo sentito le luminose parole del nostro fratello rappresentante palestinese: parole di calda umanita', di eroica dignita', di rivendicazione del proprio diritto ad esistere come essere umano e come popolo, e ad avere un proprio stato; ed insieme parole di sincera fraternita' con il popolo israeliano, di riconoscimento dello stato di Israele, di condanna incondizionata di ogni terrorismo e di ogni forma di razzismo e di antisemitismo.
Ebbene, che anche questo incontro odierno possa essere un piccolo contributo all'affermazione di un'umanita' di liberi ed eguali: si', la Palestina vivra', e vivra' Israele. Che cessi l'occupazione, che cessino tutte le stragi, e che sia impedita la guerra.

6. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. VI + 246.
- Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003, pp. 290.
- Giovanna Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, Quaderni Satyagraha - Libreria Editrice Fiorentina, Pisa-Firenze 2006, pp. 288.
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Riedizioni
- Gianrico Carofiglio, Il silenzio dell'onda, Rcs, Milano 2011, 2020, pp. 312, euro 8,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
- Murakami Haruki, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Einaudi, Torino 2008, 2013, Rcs, Milano 2020, pp. IV + 524, euro 8,90 (in supplemento al "Corriere della sera").
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Maestre
- Rosa Luxemburg, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1967, 1976, pp. 708.
- Rosa Luxemburg, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, 1963, Einaudi, Torino 1975, 1976, pp. CVIII + 760.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3827 del 10 agosto 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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