[Nonviolenza] Telegrammi. 3751



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3751 del 26 maggio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Proposta di una lettera da inviare al governo
2. Proposta di una lettera da inviare ai Comuni
3. Sosteniamo il Movimento Nonviolento
4. Alcuni estratti da Amin Maalouf, "Il naufragio delle civilta'" (Parte prima)
5. Segnalazioni librarie
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. PROPOSTA DI UNA LETTERA DA INVIARE AL GOVERNO

Gentilissima Ministra dell'Interno,
vorremmo sollecitare tramite lei il governo ad adottare con la massima tempestivita' le seguenti misure:
a) garantire immediati aiuti in primo luogo alle persone che piu' ne hanno urgente bisogno, e che invece vengono sovente scandalosamente dimenticate perche' emarginate ed abbandonate alla violenza, al dolore e alla morte, quando non addirittura perseguitate;
b) abrogare immediatamente le scellerate misure razziste contenute nei due cosiddetti "decreti sicurezza della razza" imposti dal precedente governo nel 2018-2019, scellerate misure razziste che violano i diritti umani e mettono in ancor piu' grave pericolo la vita di tanti esseri umani;
c) riconoscere a tutte le persone che vivono in Italia tutti i diritti che ad esse in quanto esseri umani sono inerenti, facendo cessare un effettuale regime di apartheid che confligge con il rispetto dei diritti umani, con la democrazia, con i principi fondamentali e i valori supremi della Costituzione della Repubblica italiana.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Occorre soccorrere, accogliere e assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Ringraziandola per l'attenzione ed augurandole ogni bene,
Firma, luogo e data, indirizzo del mittente
*
Gli indirizzi di posta elettronica cui inviare la lettera sono i seguenti:
segreteriatecnica.ministro at interno.it
caposegreteria.ministro at interno.it
Vi preghiamo altresi' di diffondere questo appello nei modi che riterrete opportuni.

2. REPETITA IUVANT. PROPOSTA DI UNA LETTERA DA INVIARE AI COMUNI

Egregio sindaco,
le scriviamo per sollecitare l'amministrazione comunale ad immediatamente adoperarsi affinche' a tutte le persone che vivono nel territorio del comune sia garantito l'aiuto necessario a restare in vita.
Attraverso i suoi servizi sociali il Comune si impegni affinche' tutti i generi di prima necessita' siano messi gratuitamente a disposizione di tutte le persone che non disponendo di altre risorse ne facciano richiesta.
Crediamo sia un dovere - un impegnativo ma ineludibile dovere - che il Comune puo' e deve compiere con la massima tempestivita'.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Occorre soccorrere, accogliere e assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Confidando nell'impegno suo e dell'intera amministrazione comunale, voglia gradire distinti saluti
Firma, luogo e data
Indirizzo del mittente
*
Gli indirizzi di posta elettronica di tutti i Comuni d'Italia sono reperibili nei siti internet degli stessi.
Vi preghiamo altresi' di diffondere questo appello nei modi che riterrete opportuni.

3. REPETITA IUVANT. SOSTENIAMO IL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Occorre certo sostenere finanziariamente con donazioni tutti i servizi pubblici che stanno concretamente fronteggiando l'epidemia. Dovrebbe farlo lo stato, ma e' tuttora governato da coloro che obbedienti agli ordini di Mammona (di cui "Celochiedonoimercati" e' uno degli pseudonimi) hanno smantellato anno dopo anno la sanita' e l'assistenza pubblica facendo strame del diritto alla salute.
Ed occorre aiutare anche economicamente innanzitutto le persone in condizioni di estrema poverta', estremo sfruttamento, estrema emarginazione, estrema solitudine, estrema fragilita'. Dovrebbe farlo lo stato, ma chi governa sembra piu' interessato a garantire innanzitutto i privilegi dei piu' privilegiati.
Cosi' come occorre aiutare la resistenza alla barbarie: e quindi contrastare la guerra e tutte le uccisioni, il razzismo e tutte le persecuzioni, il maschilismo e tutte le oppressioni. Ovvero aiutare l'autocoscienza e l'autorganizzazione delle oppresse e degli oppressi in lotta per i diritti umani di tutti gli esseri umani e la difesa della biosfera. Ovvero promuovere l'universale democrazia e la legalita' che salva le vite, solidarieta', la responsabilita' che ogni essere umano riconosce e raggiunge e conforta e sostiene, la condivisione del bene e dei beni.
In questa situazione occorre quindi anche e innanzitutto sostenere le pratiche nonviolente e le organizzazioni e le istituzioni che la nonviolenza promuovono ed inverano, poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe.
E tra le organizzazioni che la nonviolenza promuovono ed inverano in Italia il Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini e' per molte ragioni una esperienza fondamentale.
Chi puo', nella misura in cui puo', sostenga quindi il Movimento Nonviolento, anche con una donazione.
*
Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento, sezione italiana della W.R.I. (War Resisters International - Internazionale dei resistenti alla guerra)
Sede nazionale e redazione di "Azione nonviolenta": via Spagna 8, 37123 Verona (Italy)
Tel. e fax (+ 39) 0458009803 (r.a.)
E-mail: azionenonviolenta at sis.it
Siti: www.nonviolenti.org, www.azionenonviolenta.it
Per destinare il 5x1000 al Movimento Nonviolento: codice fiscale 93100500235
Per sostegno e donazioni al Movimento Nonviolento: Iban IT35 U 07601 11700 0000 18745455

4. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA AMIN MAALOUF, "IL NAUFRAGIO DELLE CIVILTA'" (PARTE PRIMA)
[dal sito www.tecalibri.info riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Amin Maalouf, Il naufragio delle civilta', La nave di Teseo, Milano, 2019]

Da pagina 11

"Cio' che riserva l'avvenire, solo gli dei lo conoscono,
loro solo sono possessori di tutte le luci.
Gli uomini saggi non percepiscono dell'avvenire che
cio' che e' imminente. A volte quando sono
completamente immersi nei loro studi,
i loro sensi si mettono in guardia. A loro sale
l'appello segreto degli eventi che stanno per accadere,
e lo ascoltano con raccoglimento..."
(Konstantinos Kavafis (1863-1933), Poemes)

Sono nato in buona salute tra le braccia di una civilta' morente, e per tutta la vita mi sono sentito come un sopravvissuto, senza merito o colpa, mentre tante cose intorno a me scivolavano nel caos; come quei personaggi cinematografici che passano attraverso strade dove crollano tutti i muri, eppure ne escono indenni, scuotendo la polvere dai propri vestiti, mentre dietro di loro la citta' intera e' solo un mucchio di macerie.
Questo e' stato il mio triste privilegio, fin dal mio primo respiro. Ma e' anche, senza dubbio, una caratteristica della nostra epoca, se la confrontiamo con quelle che l'hanno preceduta. Nel passato, gli uomini avevano la sensazione di essere effimeri in un mondo immutabile; le persone vivevano nelle terre in cui avevano vissuto i loro genitori, lavoravano come loro avevano lavorato, si curavano come loro si erano curati, si istruivano come loro si erano istruiti, pregavano allo stesso modo, si muovevano con gli stessi mezzi. I miei quattro nonni e tutti i loro antenati da dodici generazioni sono nati tutti sotto la stessa dinastia ottomana, come avrebbero potuto non pensare che fosse eterna?
"A memoria di rosa, non si e' mai visto morire un giardiniere," sospiravano i filosofi francesi dell'Illuminismo pensando all'ordine sociale e alla monarchia del loro paese. Oggi, quelle rose pensanti che siamo noi vivono sempre piu' a lungo, mentre i giardinieri muoiono. Nell'arco di una vita, abbiamo tempo per assistere alla scomparsa di paesi, imperi, popoli, lingue, civilta'.
L'umanita' sta cambiando sotto ai nostri occhi. Mai la sua avventura e' stata tanto promettente, ne' cosi' pericolosa. Per lo storico, lo spettacolo del mondo e' affascinante. Ma deve comunque fare i conti con la sofferenza dei suoi simili e con le sue personali preoccupazioni.
Sono nato nell'universo levantino. Ma esso e' talmente dimenticato al giorno d'oggi che la maggior parte dei miei contemporanei forse non sa piu' neanche a cosa mi riferisca. E' vero che non è mai esistita una nazione con questo nome. Quando qualche libro parla del Levante, la sua storia rimane imprecisa, e la sua geografia mobile: per lo piu' solo un arcipelago di citta' mercantili, spesso costiere, ma non sempre, da Alessandria a Beirut, Tripoli, Aleppo o Smirne, e da Baghdad a Mosul, Costantinopoli, Salonicco, Odessa o Sarajevo.
Nel mio uso, questo termine obsoleto - "levantino" - si riferisce all'insieme dei luoghi dove le antiche culture dell'Oriente mediterraneo hanno frequentato quelle piu' giovani dell'Occidente. Dalla loro intimita' stava quasi per nascere, per tutti gli uomini, un avvenire diverso.
Tornero' piu' in dettaglio su questo appuntamento mancato, ma devo dire una parola su di esso fin da ora per chiarire il mio pensiero: se i cittadini delle diverse nazioni e i seguaci delle religioni monoteistiche avessero continuato a vivere insieme in questa parte del mondo e fossero riusciti ad accordare i loro destini, l'intera umanita' avrebbe avuto davanti a se', a ispirazione e illuminazione del suo cammino, un modello eloquente di convivenza armoniosa e prosperita'. Purtroppo, e' accaduto il contrario, ha prevalso il disprezzo ed e' stata l'incapacita' di vivere insieme a diventare la regola.
Le luci del Levante si sono spente. E l'oscurita' si e' diffusa in tutto il pianeta. E, dal mio punto di vista, non e' una semplice coincidenza.
L'ideale levantino, per come i miei lo hanno vissuto, e tale quale io ho sempre voluto viverlo, richiede che ciascuno si assuma tutte le sue appartenenze, e un po' anche quelle altrui. Come ogni ideale, aspiriamo a esso senza mai raggiungerlo completamente, ma l'aspirazione stessa e' salutare, indica la strada da seguire, il sentiero della ragione, la via del futuro. Arrivero' persino a dire che e' questa aspirazione a segnare, per la societa' umana, il passaggio dalla barbarie alla civilta'.
Durante tutta la mia infanzia, ho osservato la gioia e l'orgoglio dei miei genitori quando menzionavano amici o parenti appartenenti ad altre religioni o ad altri paesi. Era solo un'intonazione nella loro voce, a malapena percepibile. Ma un messaggio passava: un'indicazione di indirizzo, direi oggi.
A quel tempo, la cosa mi sembrava normale, non ci facevo neanche caso, ero convinto che tutto cio' avvenisse sotto tutti i cieli. E' stato solo molto piu' tardi che ho capito quanto tale prossimita' tra comunita' diverse che regnava nell'universo della mia infanzia fosse rara. E quanto fosse fragile. Ben presto nella vita l'avrei vista sbiadirsi, degradarsi, poi svanire, lasciandosi alle spalle solo nostalgia e ombre.
Ho avuto ragione a dire che l'oscurita' si e' diffusa sul mondo quando le luci del Levante si sono spente? Non e' incongruo parlare di oscurita' quando, come sappiamo tutti, io e i miei contemporanei stiamo assistendo al piu' spettacolare progresso tecnologico di ogni tempo? Quando abbiamo a portata di mano, come mai prima, tutta la conoscenza umana; quando i nostri simili vivono sempre piu' a lungo, e con una salute migliore rispetto al passato; quando cosi' tanti paesi del vecchio Terzo mondo, a cominciare dalla Cina e dall'India, finalmente sono usciti dal sottosviluppo?
E' proprio qui il desolante paradosso di questo secolo: per la prima volta nella storia, abbiamo i mezzi per liberare la specie umana da tutte le piaghe che l'assalgono, per condurla serenamente verso un'era di liberta', di progresso senza macchia, di solidarieta' planetaria e opulenza condivisa; ed eccoci qui, invece, lanciati a tutta velocita' sul percorso opposto.
Non sono una di quelle persone cui piace credere sempre che "prima era meglio". Le scoperte scientifiche mi affascinano, la liberazione delle menti e dei corpi mi incanta, e considero un privilegio il fatto di vivere in un'epoca inventiva e sfrenata come la nostra. Tuttavia, negli ultimi anni sto vedendo delle derive sempre piu' preoccupanti che minacciano di distruggere tutto cio' che la nostra specie ha costruito finora, tutto cio' di cui siamo stati legittimamente orgogliosi, tutto cio' che siamo abituati a chiamare "civilta'".
Come siamo arrivati a questo punto? E' la domanda che mi faccio ogni volta che mi trovo ad affrontare le sinistre convulsioni di questo secolo. Cos'e' che e' andato storto? Quali sono le strade che non avremmo dovuto prendere? Avremmo potuto evitarle? E oggi, e' ancora possibile raddrizzare la barra?
Se ricorro a un vocabolario marinaresco e' perche' l'immagine che mi ossessiona da alcuni anni e' quella di un naufragio - un moderno e scintillante transatlantico, sicuro di se' e considerato inaffondabile come il Titanic, che trasporta una folla di passeggeri provenienti da tutti i paesi e che avanza col gran pavese verso la sua rovina.
Devo aggiungere che non e' solo da spettatore che ne osservo la traiettoria? Io ci sono a bordo, con tutti i miei contemporanei. Con le persone che amo di piu', e quelle che non mi piacciono molto. Con tutto quello che ho costruito, o credo di aver costruito. Senza dubbio mi sforzero', in questo libro, di mantenere il tono piu' pacato possibile. Pero' devo dire che e' con spavento che vedo le montagne di ghiaccio avvicinarsi a noi. Ed e' con fervore che prego il Cielo, a modo mio, affinche' riusciamo a evitarle.
Il naufragio e', ovviamente, solo una metafora. Inevitabilmente soggettiva, necessariamente approssimativa. Si potrebbero trovare molte altre immagini capaci di descrivere gli alti e i bassi di questo secolo. Ma e' questa quella che mi ossessiona. Non passa giorno, in questi ultimi tempi, senza che mi venga in mente.
Spesso, troppo spesso, purtroppo, e' il mio paese natale a farmi pensare a questa immagine. Tutti questi posti di cui mi piace pronunciare gli antichi nomi - Assiria, Ninive, Babilonia, Mesopotamia, Emissa, Palmira, Tripolitania, Cirenaica, o il regno di Saba, un tempo noto come "Arabia Felix"... Le loro popolazioni, eredi delle piu' antiche civilta', fuggono su delle zattere proprio come dopo un naufragio.
A volte e' in gioco il riscaldamento globale. I giganteschi ghiacciai che continuano a sciogliersi, l'oceano Artico che, durante i mesi estivi, diventa nuovamente navigabile, per la prima volta in migliaia di anni; gli enormi blocchi che si staccano dall'Antartide; i paesi insulari del Pacifico preoccupati dalla prospettiva di ritrovarsi presto sommersi... Ci saranno davvero nei prossimi decenni dei naufragi apocalittici?
Altre volte l'immagine e' meno concreta, meno toccante umanamente, piu' simbolica. Cosi', quando si guarda a Washington, capitale della prima potenza mondiale, quella che dovrebbe dare l'esempio di una democrazia adulta e dovrebbe esercitare sul resto del pianeta un'autorita' quasi paterna, non si pensa forse a un naufragio? Nessuna imbarcazione di fortuna fluttua sul Potomac ma, in un certo senso, e' la cabina di pilotaggio del vascello umano che e' inondata, ed e' l'umanita' intera che sta andando incontro al naufragio.
Altre volte ancora si tratta dell'Europa. Il suo sogno di unione e' stato, a mio avviso, uno dei piu' promettenti dei nostri tempi. Che fine ha fatto? Come abbiamo potuto lasciare che sprofondasse in questo modo? Quando la Gran Bretagna ha deciso di lasciare l'Unione, i leader del mondo si sono affrettati a minimizzare l'accaduto, promettendo iniziative coraggiose tra i membri rimanenti per riavviare il progetto. Spero con tutto il cuore che ci riusciranno. Nel frattempo, non posso che sussurrare di nuovo: "Che naufragio!".
Lunga e' la lista di tutto cio' che, ancora fino a ieri, riusciva a far sognare gli uomini, a elevare le loro menti, a mobilizzare le loro energie, e che ha ormai perso la sua forza di attrazione. Questa "smonetizzazione" degli ideali, che non smette di espandersi, e che riguarda tutti i sistemi, non mi sembra offensivo equipararla a un naufragio morale generalizzato. Mentre l'utopia comunista sprofonda negli abissi, il trionfo del capitalismo e' accompagnato da un'oscena esplosione di disuguaglianza. Cosa che forse ha, economicamente, la sua ragion d'essere; ma a livello umano, a livello etico, e senza dubbio anche sul piano politico, e' innegabilmente un naufragio.
Questi esempi sono eloquenti? Non abbastanza, secondo me. Spiegano certamente il titolo che ho scelto, ma non permettono ancora di comprendere l'essenziale. Ovvero che si e' messo in moto un ingranaggio che nessuno ha volutamente innescato, ma verso il quale tutti siamo condotti di forza, e che minaccia di annientare le nostre civilta'.
Evocando la turbolenza che ha guidato il mondo sulla soglia di questo disastro, dovro' spesso dire "io", "me" e "noi". Avrei preferito non dover parlare in prima persona, specialmente nelle pagine di un libro che si preoccupa dell'avventura umana. Ma come avrei potuto fare altrimenti essendo io, fin dall'inizio della mia vita, un testimone vicino agli sconvolgimenti di cui mi appresto a parlare; quando il "mio" universo levantino e' stato il primo ad affondare; quando la "mia" nazione araba e' stata quella la cui angoscia suicida ha portato l'intero pianeta in un ingranaggio distruttivo?
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Da pagina 50
A volte penso che ci dovrebbe essere, in un museo dedicato alla storia universale, uno spazio chiamato "il Pantheon di Giano". Andrebbero li', sotto la tutela emblematica della divinita' bifronte, personalita' di alta statura che hanno giocato un ruolo storico degno di ammirazione, ma anche, e a volte allo stesso tempo, un ruolo detestabile, persino distruttivo. Due dei grandi uomini che ho gia' menzionato in queste pagine meriterebbero un posto di rilievo in questo Pantheon: Nasser e Churchill.
Per quanto riguarda il rais, avro' l'opportunita' di citare, nelle prossime pagine di questo libro, alcune sue prese di posizione che me lo rendono caro e fanno si' che la sua prematura scomparsa susciti in me, come in molte persone arabe, nostalgia; ma e' stato anche innegabilmente una delle persone che hanno affossato il Levante che amavo. Senza attardarmi troppo a lungo qui sulle ragioni di questa ambivalenza, direi che l'uomo e' cresciuto, come molti altri della sua generazione, nel risentimento verso la dominazione straniera, e ha mobilitato le sue energie per porre fine a tutto questo, senza che nessuno si rendesse conto che demolendola rimuoveva anche uno stile di vita ormai assestato, che avrebbe potuto essere, con alcuni aggiustamenti, un fattore insostituibile per il progresso e la modernizzazione.
Riguardo a Churchill, ovviamente non ho bisogno di grandi discorsi per dimostrare quanto la sua lotta ostinata al nazismo sia stata preziosa. Senza la sua energia, la sua determinazione, la sua abilita', l'Inghilterra avrebbe forse rinunciato a battersi, l'America non sarebbe entrata in guerra e una lunga notte sarebbe caduta sul mondo. Per parafrasare una delle sue formule, "mai cosi' tante persone sono state cosi' in debito" verso un solo uomo.
Tuttavia, se guardiamo alla sua azione nel mondo arabo-musulmano, scopriamo un altro volto. La sua leggendaria ostinazione, ammirevole contro Hitler, non fu affatto tale contro il coraggioso Mustafa al-Nahhas - un patriota moderato, un patrizio occidentalizzato, un audace modernizzatore, che era arrivato al punto di affidare a un uomo illuminato come Taha Hussein il ministero dell'Educazione.
Va da se' che l'obiettivo di Churchill non era quello di chiudere la strada a uno sviluppo pacifico e armonioso dell'Egitto. Voleva solo preservare, a ogni costo, gli interessi della Corona britannica, senza preoccuparsi degli effetti collaterali che sarebbero derivati dalle sue azioni. Ma le conseguenze sono state devastanti. Senza la strage del 25 gennaio 1952, che Churchill aveva, se non ordinato, almeno autorizzato, sarebbe forse prevalsa un'altra forma di patriottismo e l'avvenire dell'Egitto, cosi' come dell'intero mondo arabo, avrebbe potuto seguire un percorso completamente diverso.
La responsabilita' di questo grande uomo e' ancora piu' evidente in un altro caso, quello dell'Iran. Churchill in persona ha lavorato energicamente per far cadere il governo di Mossadeq, un democratico modernizzatore la cui unica colpa era stata quella di rivendicare per il suo popolo una quota maggiore dei ricavi petroliferi. Sappiamo oggi, documenti alla mano, che e' stato il primo ministro britannico ad andare a Washington a fare lobbying, per convincere gli americani a organizzare un colpo di stato a Teheran nel 1953.
Cosi', attraverso la sua azione in Egitto, Churchill ha favorito l'emergere del nazionalismo arabo nella sua versione autoritaria e xenofoba; e con la sua azione in Iran, ha aperto la strada all'islamismo khomeinista. Senza intenzione, presumo, in entrambi i casi...
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Da pagina 65
Mi sono soffermato sul caso siriano, che e' quello che piu' colpisce; ma il fenomeno era molto piu' ampio, e piu' antico. Il Libano ha a lungo giocato il ruolo di terra d'asilo per "gli indesiderati" del Medio Oriente. Un po' come era stato l'Egitto fino agli anni quaranta. Questa analogia puo' dare all'osservatore tardivo una falsa impressione di somiglianza tra i due modelli levantini. In realta', non riposavano sulle stesse basi.
Il cosmopolitismo all'egiziana derivava dalla lunga tradizione degli "scali commerciali", spazi in cui i cittadini europei godevano della protezione dei consoli delle potenze coloniali, in virtu' di trattati iniqui imposti in passato all'"uomo malato" ottomano. Senza dubbio il contesto politico ora non era piu' lo stesso, ma alcune pratiche persistevano. Se un italiano che viveva in Egitto uccideva il suo vicino, poteva chiedere di essere processato in Italia, e le autorita' locali non avevano il diritto di opporvisi.
Non ho preso questo esempio a caso, mi e' stato ispirato da un evento che aveva fatto scalpore al tempo dei miei nonni. Nel marzo 1927, Salomon Cicurel, il principale proprietario dei negozi che portano questo stesso nome, e' stato assassinato con otto coltellate nella sua villa del Cairo. La polizia non ha avuto problemi a risalire agli assassini: il suo autista, un ex dipendente che aveva licenziato e due complici. Dei quattro criminali, due erano di nazionalita' italiana, e gli inquirenti furono obbligati a consegnarli alle autorita' del loro paese senza poterli giudicare; un terzo era greco e si dovette consegnare alla Grecia; solo il quarto, un certo Dario Jacoel, che i documenti del tempo designano come "ebreo apolide", fu processato e condannato. Sosteneva anche lui di essere italiano, e pure membro del partito fascista, ma non poteva provarlo. Fu indicato come "l'anima della cospirazione", mentre era chiaramente solo una comparsa, e fu debitamente impiccato.
La cosa fece scalpore. Alcuni noti intellettuali egiziani impugnarono la penna per denunciare una situazione aberrante che poneva i cittadini stranieri al di sopra della legge, dando a ciascuno di loro una specie di immunita' diplomatica, per non dire una garanzia di impunita'.
Questi privilegi abusivi suscitarono sia appetiti che risentimenti. Alcune categorie della popolazione cercavano di avvicinarsi agli occidentali per godere degli stessi benefici. Ma la maggior parte degli autoctoni vedeva nello status di straniero un insulto all'indipendenza del paese e alla sua dignita'. Il fuoco del Cairo non fu forse una spia dell'immensa rabbia che stava fermentando? Molte altre esplosioni si sarebbero verificate nel corso degli anni in diversi paesi della regione, per ragioni analoghe.
A volte, con conseguenze pesanti e durature. Cosi', la rottura tra l'ayatollah Khomeini e il regime dello scia' fu consumata il giorno in cui il monarca accetto', nel 1964, su richiesta di Washington, che i militari americani insediati in Iran non potessero essere giudicati dai tribunali locali. Ne derivo' una contestazione radicale, che doveva portare, quindici anni dopo, al crollo della monarchia e all'avvento della Repubblica islamica... Non ho dubbi sul fatto che questa rivoluzione - su cui avro' modo di tornare - sia da ricondurre a molte ragioni; ma la rabbia contro l'extraterritorialita' di cui beneficiavano gli occidentali fu innegabilmente un fattore determinante. Non e' un caso, del resto, che uno dei primi atti dei rivoluzionari militanti iraniani fu sfidare l'immunita' dell'ambasciata americana e prendere i diplomatici come ostaggio.
Era, ovviamente, una sfida sfacciata a tutte le convenzioni internazionali. Ma era soprattutto un atto di ribellione contro un "ordine mondiale" che prevaleva da secoli, e che aveva stabilito, a volte esplicitamente e a volte implicitamente, una gerarchia tra i popoli e tra le culture, con gli occidentali sul gradino piu' alto.
Per le popolazioni che l'avevano subita, questa organizzazione fondata sulla disuguaglianza e' sempre stata degradante; e al crepuscolo dell'era coloniale, era diventata inaccettabile. Tutto cio' che era collegato a essa veniva respinto con rabbia. Anche le poche ricadute positive che potevano legittimamente essere messe al suo attivo. Come avere favorito l'emergere, a Shanghai, Calcutta, Algeri o Alessandria, di "paradisi" culturali dove, per un po', si sarebbero schiusi fiori delicati, nati da incontri rari tra lingue diverse, credenze diverse, conoscenze diverse, tradizioni diverse.
Questa sublime fioritura non poteva che essere effimera. Fondata su basi cosi' inique, non aveva alcuna possibilita' di perpetuarsi. Quanto alle comunita' percepite come "allogene", anche quando non erano responsabili della situazione che assicurava il loro status, sembravano colpevoli solo perche' ne avevano tratto beneficio. E hanno finito col pagarne il prezzo. E' stato cosi' per l'Egitto, per i siro-libanesi o i greci, in Libia per gli italiani, in Algeria per i pied-noir.
Sarei stato felice se l'universo culturale che aveva prodotto Kavafis, Camus, Ungaretti o Asmahan avesse potuto trasformarsi e adattarsi invece di scomparire completamente; ma dobbiamo riconoscere che le sue fondamenta erano minate.
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Da pagina 84
Questa profonda diffidenza tra i fedeli delle religioni monoteiste, fermamente radicata nelle menti e costantemente alimentata dalle notizie di ogni giorno, rende difficile qualsiasi scambio fecondo tra le popolazioni e ogni possibilita' di osmosi armoniosa tra culture.
Non dubito che esistano, sotto tutti i cieli, innumerevoli persone di buona volonta' che vogliono capire sinceramente l'Altro, coesistere con lui, superando pregiudizi e paure. Cio' che non sperimentiamo quasi mai, invece, e che io ho visto solo nella città levantina dove sono nato, e' questo contatto permanente e intimo tra popolazioni cristiane o ebraiche intrise di cultura araba, e popolazioni musulmane risolutamente rivolte a Occidente, alla sua cultura, al suo modo di vivere, ai suoi valori.
Questa specie cosi' rara di convivenza tra religioni e tra culture era il frutto di una saggezza istintiva e pragmatica piuttosto che di una dottrina universalista esplicita. Ma sono sicuro che avrebbe meritato di avere grande diffusione. Mi capita anche di pensare che avrebbe potuto agire come antidoto ai veleni di questo secolo. O, almeno, fornire alcuni argomenti convincenti a coloro che vorrebbero resistere alle derive identitarie. Il fatto che le popolazioni che giocavano questo ruolo di catalizzatore siano oggi sradicate e sull'orlo dell'estinzione non e' cosa triste solo per queste stesse comunita' e per la diversita' delle culture. La disintegrazione delle societa' pluraliste del Levante ha causato un degrado morale irreparabile, che ora colpisce tutte le societa' umane, e scatena sul nostro mondo una barbarie insospettabile.
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Da pagina 102
Questa "normalita'" e' oggi dimenticata. Molte persone fanno fatica persino a credere che sia davvero esistita, tanto si sono abituate a guardare tutto cio' che concerne gli arabi e l'islam come proveniente da un'altra galassia. Non e' inutile, allora, ricordare a queste persone, ad esempio, che la frattura ideologica che l'umanita' vedeva nel XX secolo tra il marxismo e i suoi avversari attraversava il mondo arabo-musulmano come il resto del pianeta.
Paesi come il Sudan, lo Yemen, l'Iraq o la Siria ospitavano importanti formazioni politiche di obbedienza comunista. E la Striscia di Gaza, prima di diventare il bastione di Hamas, l'emanazione palestinese dei Fratelli Musulmani, e' stata fino agli anni novanta il feudo di un'organizzazione che si presentava come marxista-leninista.
Piu' eloquente ancora e' l'esempio dell'Indonesia. Al giorno d'oggi, ogni volta che se ne parla, si sottolinea che e' la piu' grande nazione musulmana del mondo. Ai tempi della mia adolescenza era nota per un'altra particolarita', quella di ospitare il piu' grande partito comunista del pianeta dopo la Cina e l'Unione Sovietica; ha contato, al suo apogeo, quasi tre milioni di membri, un po' piu' del suo "concorrente" più vicino, il partito comunista italiano.
Con questo non voglio elogiare il movimento comunista. Ha suscitato immense speranze per l'umanita' intera, poi le ha tradite. Ha sollecitato persone di valore, portatrici degli ideali piu' generosi, poi le ha condotte in un vicolo cieco. Il suo fallimento e' stato un cataclisma, enorme quanto le sue distrazioni, e ha facilitato lo scivolamento del mondo verso il decadimento globale cui stiamo assistendo oggi.
Se il tono che uso evocando questo passato prossimo denota comunque un po' di nostalgia, e' perche' la presenza, in molte nazioni a larga maggioranza musulmana, tra gli anni venti e la fine degli anni ottanta, di un'ideologia risolutamente laica come il marxismo mi sembra oggi un fenomeno significativo, rivelatore, e di cui si puo' legittimamente rimpiangere la scomparsa.
Al di la' dell'aspetto puramente politico, va ricordata l'atmosfera intellettuale e culturale che ha prevalso per buona parte del XX secolo, e che io stesso ho conosciuto a Beirut. Penso, ad esempio, ai dibattiti che gli studenti e le studentesse potevano avere all'Universita' di Khartoum, nei giardini di Mosul o nei caffe' di Aleppo; ai libri di Gramsci che questi giovani erano soliti leggere, alle opere di Bertolt Brecht che mettevano in scena o applaudivano, alle poesie di Nazim Hikmet o Paul Eluard, alle canzoni rivoluzionarie per cui i loro cuori battevano, agli eventi che li facevano reagire - la guerra del Vietnam, l'omicidio di Lumumba, l'imprigionamento di Mandela, il volo spaziale di Gagarin o la morte del Che. E piu' che a tutto questo penso, con profonda nostalgia, al sorriso che gli studenti afghani o yemeniti irradiavano ancora sulle foto degli anni sessanta. Poi li confronto con l'universo angusto, scuro, triste e rachitico dove sono rinchiusi quelli che frequentano oggi gli stessi posti, le stesse strade, le stesse aule...
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Da pagina 114
Coloro che, come me, amano navigare sul web possono trovarvi un video sorprendente girato in Egitto a meta' degli anni sessanta. E' in arabo, ma degli internauti si sono presi cura di sottotitolarlo in altre lingue, tra cui francese e inglese. Vediamo Nasser in un'aula ad anfiteatro, o in una sala congressi, che spiega a un vasto pubblico i suoi rancori contro i Fratelli Musulmani. L'interesse del documentario sta tanto nelle parole del rais quanto nelle reazioni del pubblico.
Il presidente racconta che, dopo il rovesciamento della monarchia egiziana, i Fratelli avevano cercato di assumere la giovane rivoluzione sotto la propria tutela, e che lui stesso aveva incontrato il loro capo supremo per cercare di trovare un terreno d'intesa. "Sapete cosa mi ha chiesto? Che imponessi il velo in Egitto, e che ogni donna che usciva per strada si coprisse il capo!".
Una grande risata scuote la stanza. Una voce si leva tra il pubblico a suggerire che il leader dei Fratelli Musulmani indossi lui il velo. Le risate riprendono ancora piu' forti. Nasser continua. "Gli ho detto: 'Ci vuoi riportare al tempo del califfo al-Hakim, che aveva ordinato alla gente di uscire in strada solo di notte e di chiudersi a chiave in casa durante il giorno?' Ma la guida dei Fratelli ha insistito: 'Tu sei il presidente, dovresti ordinare a tutte le donne di coprirsi'. Ho risposto: 'Hai una figlia che studia alla facolta' di Medicina, e lei non e' velata. Tu non riesci a far indossare il velo a una sola donna, tua figlia, e vorresti che io scendessi in strada per imporre il velo a dieci milioni di egiziane?".
Il rais e' cosi' divertito da quello che racconta che fa fatica a riprendere il discorso. Beve un sorso d'acqua. E quando riesce a superare la fase di riso incontrollabile, inizia a elencare le richieste fatte dal leader islamista: le donne non devono piu' lavorare, cinema e teatri devono chiudere ecc. "In poche parole, l'oscurità deve dominare ovunque!" Di nuovo, risate...
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Da pagina 121
Da anni, contemplo il mondo arabo con angoscia, cercando di capire come ha potuto deteriorarsi in questo modo. Le opinioni su questo argomento sono innumerevoli e contraddittorie. Alcuni incriminano soprattutto il radicalismo violento, il jihadismo cieco e, piu' in generale, i rapporti ambigui, nell'islam, tra religione e politica; altri invece accusano il colonialismo, l'avidita' e l'insensibilita' dell'Occidente, l'egemonia degli Stati Uniti, o l'occupazione, da parte di Israele, dei territori palestinesi. Se tutti questi fattori certamente hanno giocato un ruolo, nessuno di essi spiega da solo la deriva cui stiamo assistendo.
Ciononostante, a mio parere, c'e' un evento che si stacca da tutto il resto, e segna un punto di svolta decisivo nella storia di questa regione del mondo, e non solo; uno scontro militare che si e' svolto in un periodo incredibilmente breve, ma le cui ripercussioni si riveleranno durature: la guerra arabo-israeliana del giugno 1967.
Come posso descriverne l'impatto? Mi viene subito in mente Pearl Harbor - ma solo per l'aspetto folgorante dell'attacco aereo giapponese, e per l'effetto sorpresa, non per le conseguenze militari. Perche' se la flotta degli Stati Uniti aveva subito, la mattina del 7 dicembre 1941, gravi perdite materiali e umane, il paese aveva pero' mantenuto la maggior parte delle sue capacita' difensive e offensive. Mentre la mattina del 5 giugno 1967, le flotte aeree egiziana, siriana e giordana sono state praticamente annientate; i loro eserciti di terra hanno dovuto ritirarsi, cedendo alle forze israeliane dei territori strategici: la citta' vecchia di Gerusalemme, la Cisgiordania, le alture del Golan, la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai.
Da questo punto di vista, sarebbe piu' appropriato paragonare questa sconfitta araba a quella subita dalla Francia nel giugno 1940. Il suo esercito, per quanto ancora avesse un'aura di prestigio per aver vinto la prima guerra mondiale ventidue anni prima, era crollato molto rapidamente di fronte all'offensiva tedesca. Le strade si erano riempite di profughi, Parigi e poi l'intero paese erano stati occupati. La sensazione che in quel momento la nazione ebbe di essere stata messa al tappeto, umiliata, violentata, fu cancellata solo dalla liberazione, quattro anni dopo.
Ed e' questa la grande differenza tra il 1967 e questi due episodi della seconda guerra mondiale. A differenza degli americani e dei francesi, gli arabi sono rimasti come bloccati a questa sconfitta, e non hanno mai piu' ritrovato la fiducia in se stessi.
Mentre scrivo queste righe, e' passato piu' di mezzo secolo da allora, e le cose non sono migliorate. Piuttosto che guarire e cicatrizzarsi, le ferite sono diventate sempre piu' gravi e tutto il mondo ne soffre.

5. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Edoarda Masi, Cento trame di capolavori della letteratura cinese, Rizzoli, Milano 1991, pp. 480.
- Sebastiano Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1955, Laterza, Roma-Bari 1978, 1997, pp. XVI + 272.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3751 del 26 maggio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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