[Nonviolenza] Telegrammi. 3742



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3742 del 17 maggio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. I brutti pensieri
2. Sosteniamo il Movimento Nonviolento
3. Proposta di una lettera da inviare al governo
4. Proposta di una lettera da inviare ai Comuni
5. Giovanni Miccoli: Giuseppe Alberigo (2014) (Parte prima)
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. CRONACHE DI NUSMUNDIA. I BRUTTI PENSIERI

Penso che chi governa il paese (il governo mezzo-razzista) e chi governa alcune regioni (le giunte regionali razziste) in questi mesi abbia dato prova di un'irresponsabilita', un'improntitudine, una stoltezza sequipedali. E cio' non e' restato senza conseguenze. Letali. Decine di migliaia di persone sono morte, la maggior parte delle quali potevano essere salvate se si fossero assunti provvedimenti tempestivi e adeguati. Questo penso.
Penso che chi governa il paese (il governo mezzo-razzista) e chi governa alcune regioni (le giunte regionali razziste) in questi mesi abbia privilegiato i propri egoistici interessi, il proprio sfrenato narcisismo, le occulte e palesi consorterie di appartenenza, a danno del bene comune, a danno dei diritti altrui. E cio' non e' restato senza conseguenze. Letali. Decine di migliaia di persone sono morte, la maggior parte delle quali potevano essere salvate se si fossero assunti provvedimenti tempestivi e adeguati. Questo penso.
Penso che chi governa il paese (il governo mezzo-razzista) e chi governa alcune regioni (le giunte regionali razziste) in questi mesi abbia privato del necessario tempestivo aiuto innumerevoli persone che di aiuto avevano il piu' urgente, il piu' estremo bisogno. E cio' non e' restato senza conseguenze. Letali. Decine di migliaia di persone sono morte, la maggior parte delle quali potevano essere salvate se si fossero assunti provvedimenti tempestivi e adeguati. Questo penso.
Penso che chi governa il paese (il governo mezzo-razzista) e chi governa alcune regioni (le giunte regionali razziste) in questi mesi abbia provocato una catastrofe nella catastrofe non contrastando l'epidemia come era possibile e necessario. E cio' non e' restato senza conseguenze. Letali. Decine di migliaia di persone sono morte, la maggior parte delle quali potevano essere salvate se si fossero assunti provvedimenti tempestivi e adeguati. Questo penso.
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Penso che salvare le vite sia il primo dovere.
Penso che il razzismo sia un crimine contro l'umanita'.
Penso che i governanti flagrantemente razzisti, inetti e tracotanti, sventati e protervi, debbano essere allontanati per sempre da tutti i pubblici uffici.
Questo penso, vagando silente e cogitabondo per le desolate lande di questo antico e nobile reame di Nusmundia.

2. REPETITA IUVANT. SOSTENIAMO IL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Occorre certo sostenere finanziariamente con donazioni tutti i servizi pubblici che stanno concretamente fronteggiando l'epidemia. Dovrebbe farlo lo stato, ma e' tuttora governato da coloro che obbedienti agli ordini di Mammona (di cui "Celochiedonoimercati" e' uno degli pseudonimi) hanno smantellato anno dopo anno la sanita' e l'assistenza pubblica facendo strame del diritto alla salute.
Ed occorre aiutare anche economicamente innanzitutto le persone in condizioni di estrema poverta', estremo sfruttamento, estrema emarginazione, estrema solitudine, estrema fragilita'. Dovrebbe farlo lo stato, ma chi governa sembra piu' interessato a garantire innanzitutto i privilegi dei piu' privilegiati.
Cosi' come occorre aiutare la resistenza alla barbarie: e quindi contrastare la guerra e tutte le uccisioni, il razzismo e tutte le persecuzioni, il maschilismo e tutte le oppressioni. Ovvero aiutare l'autocoscienza e l'autorganizzazione delle oppresse e degli oppressi in lotta per i diritti umani di tutti gli esseri umani e la difesa della biosfera. Ovvero promuovere l'universale democrazia e la legalita' che salva le vite, solidarieta', la responsabilita' che ogni essere umano riconosce e raggiunge e conforta e sostiene, la condivisione del bene e dei beni.
In questa situazione occorre quindi anche e innanzitutto sostenere le pratiche nonviolente e le organizzazioni e le istituzioni che la nonviolenza promuovono ed inverano, poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe.
E tra le organizzazioni che la nonviolenza promuovono ed inverano in Italia il Movimento Nonviolento fondato da Aldo Capitini e' per molte ragioni una esperienza fondamentale.
Chi puo', nella misura in cui puo', sostenga quindi il Movimento Nonviolento, anche con una donazione.
*
Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento, sezione italiana della W.R.I. (War Resisters International - Internazionale dei resistenti alla guerra)
Sede nazionale e redazione di "Azione nonviolenta": via Spagna 8, 37123 Verona (Italy)
Tel. e fax (+ 39) 0458009803 (r.a.)
E-mail: azionenonviolenta at sis.it
Siti: www.nonviolenti.org, www.azionenonviolenta.it
Per destinare il 5x1000 al Movimento Nonviolento: codice fiscale 93100500235
Per sostegno e donazioni al Movimento Nonviolento: Iban IT35 U 07601 11700 0000 18745455

3. REPETITA IUVANT. PROPOSTA DI UNA LETTERA DA INVIARE AL GOVERNO

Gentilissima Ministra dell'Interno,
vorremmo sollecitare tramite lei il governo ad adottare con la massima tempestivita' le seguenti misure:
a) garantire immediati aiuti in primo luogo alle persone che piu' ne hanno urgente bisogno, e che invece vengono sovente scandalosamente dimenticate perche' emarginate ed abbandonate alla violenza, al dolore e alla morte, quando non addirittura perseguitate;
b) abrogare immediatamente le scellerate misure razziste contenute nei due cosiddetti "decreti sicurezza della razza" imposti dal precedente governo nel 2018-2019, scellerate misure razziste che violano i diritti umani e mettono in ancor piu' grave pericolo la vita di tanti esseri umani;
c) riconoscere a tutte le persone che vivono in Italia tutti i diritti che ad esse in quanto esseri umani sono inerenti, facendo cessare un effettuale regime di apartheid che confligge con il rispetto dei diritti umani, con la democrazia, con i principi fondamentali e i valori supremi della Costituzione della Repubblica italiana.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Occorre soccorrere, accogliere e assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Ringraziandola per l'attenzione ed augurandole ogni bene,
Firma, luogo e data, indirizzo del mittente
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Gli indirizzi di posta elettronica cui inviare la lettera sono i seguenti:
segreteriatecnica.ministro at interno.it
caposegreteria.ministro at interno.it
Vi preghiamo altresi' di diffondere questo appello nei modi che riterrete opportuni.

4. REPETITA IUVANT. PROPOSTA DI UNA LETTERA DA INVIARE AI COMUNI

Egregio sindaco,
le scriviamo per sollecitare l'amministrazione comunale ad immediatamente adoperarsi affinche' a tutte le persone che vivono nel territorio del comune sia garantito l'aiuto necessario a restare in vita.
Attraverso i suoi servizi sociali il Comune si impegni affinche' tutti i generi di prima necessita' siano messi gratuitamente a disposizione di tutte le persone che non disponendo di altre risorse ne facciano richiesta.
Crediamo sia un dovere - un impegnativo ma ineludibile dovere - che il Comune puo' e deve compiere con la massima tempestivita'.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Occorre soccorrere, accogliere e assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Confidando nell'impegno suo e dell'intera amministrazione comunale, voglia gradire distinti saluti
Firma, luogo e data
Indirizzo del mittente
*
Gli indirizzi di posta elettronica di tutti i Comuni d'Italia sono reperibili nei siti internet degli stessi.
Vi preghiamo altresi' di diffondere questo appello nei modi che riterrete opportuni.

5. MAESTRI. GIOVANNI MICCOLI: GIUSEPPE ALBERIGO (2014) (PARTE PRIMA)
[Dal sito www.treccani.it riprendiamo la seguente voce apparsa nel Dizionario biografico degli italiani]

Giuseppe (Pino) Alberigo nacque a Cuasso al Monte (Varese) il 21 gennaio 1926. Il padre, Giovanni Alberto, di famiglia poverissima, era maestro elementare. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale, rimediandone una grave forma di tubercolosi che lo tormento' per vari anni. Dal 1931 fu impiegato al Comune di Varese. Impegnato nel sociale e di grande rigore nel lavoro, ne trasmise a Pino la dedizione e il gusto. La madre, Eugenia Banfi, milanese, proveniva da una famiglia agiata che tuttavia con la morte del padre aveva perso tutte le sue sostanze. Figlio unico, gia' in famiglia ricevette una seria formazione cattolica: vengono probabilmente da li' le prime radici di quel suo modo di essere cattolico che si autodefinira' "cristiano comune". Un posto importante nella sua giovinezza ebbero gli zii materni, Giuseppe e Alda Banfi, con i quali trascorreva abitualmente le vacanze.
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Da Cuasso a Milano e le prime esperienze di impegno collettivo
Dal 1937 Alberigo condusse gli studi medi, ginnasiali e liceali a Varese. Alla fine del 1943 si rifugio' per un breve periodo in Svizzera per evitare l'arruolamento nell'esercito di Salo'. Sostenne l'esame di maturita' nel 1944, da privatista, avendo saltato l'ultimo anno di corso. Nell'autunno si iscrisse all'Universita' cattolica, alla facolta' di giurisprudenza, e nello stesso tempo venne assunto come impiegato praticante avventizio dall'Opera pia Santa Corona, uno dei piu' antichi ospedali milanesi, dove lo zio era segretario generale.
All'Universita' stabili' un forte rapporto con Francesco Rovelli, a lungo sospettato di modernismo, e nel novembre 1948 si laureo' discutendo con lui una tesi in diritto amministrativo su Le autonomie regionali. In quegli anni fu attivo nella Fuci, divenendo presidente della sezione di Varese, e contemporaneamente partecipo' al movimento giovanile della democrazia cristiana. Nel 1946, al convegno nazionale della DC, senti' parlare per la prima volta di Giuseppe Dossetti. Definirsi dossettiani diverra' l'insegna dei giovani che guardavano con crescente diffidenza alla politica di De Gasperi e trovavano nelle Cronache sociali, per tanta parte animate da Dossetti, un sicuro punto di riferimento. Per Alberigo furono le lontane premesse di un incontro che, dagli anni Cinquanta, segno' profondamente tutto il suo successivo percorso di cristiano e di studioso.
Nella primavera del 1947, sul treno che da Varese lo portava a Milano, incontro' per la prima volta Angelina Nicora, frequentante anch'essa la facolta' di giurisprudenza della Cattolica. Fu un incontro decisivo per la sua vita: il sodalizio con Angelina rappresento' una componente essenziale del suo impegno religioso, sociale, politico e piu' tardi culturale. Inizialmente partecipo' con lei a un'intensa attivita' religiosa e sociale all'interno di iniziative e movimenti operanti su questo duplice piano (gruppi Servire, gruppi spirituali di Notre Dame). Nell'estate del 1948, in occasione della settimana di studi del movimento Pax romana tenuta in Lussemburgo, incontro' per la prima volta Beniamino Andreatta: ne nacque un'amicizia intensa, che si rivelo' piu' volte di fondamentale sostegno alle sue iniziative culturali.
Il 7 gennaio 1950 si sposo' con Angelina e si stabili' con lei a Milano. Nel frattempo era stato promosso funzionario del Santa Corona con mansioni di vicesegretario. Insieme ad altri amici, in quello stesso anno, Pino e Angelina costituirono un gruppo, non a caso denominato la Centrale in quanto intendeva porsi come polo di incontro e di confluenza di persone e di esperienze molteplici organizzate in un impegno comune. Come recitano alcuni appunti programmatici manoscritti redatti allora, la Centrale infatti voleva essere espressione di "cristiani impegnati senza riserve e senza limiti per la gloria di Dio nel senso specifico dell'amore del prossimo", e nello stesso tempo "impegnati senza limiti e senza riserve per la costituzione di una societa' migliore". Criterio fondamentale del loro modo di lavorare fu il rifiuto di ogni "individualismo". Sarebbe stato un punto fermo in tutta l'attivita' futura di Alberigo. Non a caso, ricorrente per definire il carattere del proprio lavoro sara' il motto di Alberto Magno quaerere veritatem in dulcedine societatis. Con queste premesse vennero stabiliti periodici incontri con alcuni gruppi di operai di Sesto San Giovanni, dando vita a un'esperienza che, pur se interrotta nel 1953, lascera' profonde tracce nel modo di pensare e di lavorare di Alberigo.
In quegli stessi anni si fece crescente la consapevolezza del progressivo venir meno delle speranze di rinnovamento seguite al chiudersi della guerra. Si registrava la caduta delle "illusioni" del 1945. Il clima appariva "buio e difficile". Non erano solo potenti forze conservatrici a tutelare l'intangibilita' del "sistema". Era la stessa Resistenza che agli occhi di quei giovani si impoveriva "ad atto di ribellione generosa", incapace pero' di cogliere "il significato di fondo piu' recondito e insidioso" del fascismo. Erano mancati, questa in sintesi la conclusione della loro analisi, gli strumenti concettuali e politici adeguati per avviare un effettivo rinnovamento della societa' e un mutamento nel sistema. Si era creduto in una sorta di benefica "automaticita'" della riconquistata liberta' nel dare vita a "una sistemazione adeguata dei rapporti sociali". Il proposito, percio', fu di lavorare in una prospettiva di "rottura democratica del sistema", piu' in termini di preparazione che di azione. Catastrofico inoltre veniva giudicato l'aver creduto "ad una supposta funzione guida dei cattolici", con il risultato che "la assoluta carenza di maturazione della loro vocazione civile" ha finito col reclamare una crescente "supplenza ecclesiale" facendo si' "che lo stato italiano postfascista" ha dovuto "ad un certo momento scoprirsi privo di un proprio asse e prigioniero dei sottoprodotti del mondo cattolico".
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L'incontro con Dossetti e l'ingresso nel Centro di documentazione
La delusione politica, che coinvolse pienamente la democrazia cristiana, si accompagno' dunque a un occhio fortemente critico per gli orientamenti della Chiesa in Italia. Erano idee, giudizi, constatazioni, prospettive sulla base delle quali si realizzo' e prese corpo l'incontro di quei giovani con Dossetti. In quegli stessi anni infatti Dossetti stava maturando il suo distacco dall'impegno politico diretto alla luce di un giudizio estremamente critico sia della situazione italiana e internazionale, considerata pericolosamente bloccata e rispetto alla quale solo forme di contenimento venivano ritenute ormai possibili, sia dei modi di essere e degli orientamenti della Chiesa, ritenuti del tutto inadeguati a far fronte alla criticita' del momento (l'episcopato dipende totalmente da Gedda, dira' nell'incontro di Rossena del 4-5 agosto 1951). Furono le due persuasioni che spinsero Dossetti a scegliere una prospettiva di piu' lungo periodo e di piu' larga visione, che aveva nella scelta religiosa comunitaria (con una particolare attenzione alla condizione dei poveri) e nell'attivita' di ricerca e di studio i propri assi portanti. Da qui il suo raccogliere intorno a se' giovani disponibili a tali prospettive e l'infittirsi, in quei primi anni Cinquanta, degli incontri e delle discussioni per dare loro una forma compiuta. Tra questi giovani figuravano anche Pino e Angelina.
I loro primi incontri con Dossetti risalivano probabilmente al 1950 o all'inizio del 1951. Su suo invito, il 4 e 5 agosto e il primo e 2 settembre 1951, parteciparono entrambi agli incontri di Rossena, dove Dossetti illustro' i termini generali della propria analisi, ulteriormente approfonditi e precisati in alcune riunioni a Milano e in un nuovo incontro a Rossena nel settembre 1952. Furono le premesse per la costituzione da parte sua del Centro di documentazione con sede a Bologna, dove da poco aveva iniziato il suo episcopato Giacomo Lercaro, da lui conosciuto e apprezzato in occasione di un ritiro spirituale quando era ancora arcivescovo di Ravenna. Ed e' a Lercaro che il 4 settembre 1952 egli espose la sua idea di creare un "istituto di ricerca per laici, libero da legami universitari, unito da un vincolo di fede e di preghiera" (L'officina, p. 33). Nel novembre 1952 ebbe inizio l'impianto materiale del Centro, in alcuni locali di via San Vitale presi in affitto dall'Opera pia degli asili infantili, e si avvio' la costituzione di quella che nel corso degli anni sarebbe diventata un'imponente, e unica nel suo genere, biblioteca di scienze religiose. Nel frattempo, l'8 ottobre 1951, Dossetti si era dimesso dalla direzione e dal consiglio nazionale della Democrazia cristiana (DC), cui seguirono, nel luglio 1952, le dimissioni da deputato.
Un rigoroso impegno religioso comunitario e la questione Chiesa assumevano nella prospettiva che Dossetti intese dare al Centro un posto centrale per non dire esclusivo. Come scrisse in un piano di studi redatto alla fine del 1953 lo scopo era di prestare "aliquod auxilium, pero' intenzionale, specializzato e permanente, per almeno alcuni dei settori piu' importanti della conoscenza riflessa sistematica che la Chiesa deve avere di se' e del flusso dei suoi rapporti con l'ordine civile" (Alberigo, 1998, p. 56). La piena autonomia nel proprio lavoro da ogni istituzione civile o ecclesiastica si accompagnava pero' allo stabilimento di un rapporto specifico di dipendenza spirituale dall'arcivescovo, cui sarebbe stata periodicamente presentata una relazione sulla vita e l'attivita' del Centro. L'impegno a pronunciare il giuramento antimodernista ribadi' ulteriormente la volonta' di piena ortodossia dei suoi membri.
Il 27 giugno 1953 Dossetti offri' a Pino e ad Angelina di trasferirsi a Bologna per lavorare con lui (cosi' risulta da un diario che Alberigo tenne dall'agosto di quell'anno – Ruggieri, 2008, p. 704). Non fu evidentemente una decisione facile da assumere: entrambi erano consapevoli che il cambiamento di vita che si prospettava era radicale. Seguirono dolorose settimane di incertezza e discussioni. I pareri dei sacerdoti di loro fiducia e degli amici cui si rivolsero per un consiglio erano divisi. Le famiglie erano decisamente contrarie: temevano che la perdita del lavoro per un futuro denso di incognite fosse da scoraggiare "con ogni mezzo". Ma l'attrattiva rappresentata dalla proposta di Dossetti era troppo forte: in essa, come scrisse Angelina in un'appassionata testimonianza in suo ricordo, "Pino vedeva concretamente la possibilita' di sottrarsi alla "carriera" di buon funzionario che si era trovato sulle spalle", per partecipare invece a "una comunita' di lavoro scientifico tra laici" nella quale poter realizzare nello stesso tempo il proprio impegno e la propria responsabilita' nei confronti della Chiesa (Angelina Alberigo, 2008, p. 905). Con il primo gennaio 1954 Pino e Angelina si trasferirono a Bologna. Ne segui' la rottura con le due famiglie e con gli zii Banfi, ricomposta solo dopo la nascita della prima figlia. Nell'autunno li raggiunse anche Paolo Prodi, che di Angelina avrebbe sposato la sorella.
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Al Centro di documentazione: lavoro scientifico e contrasti interni
Con l'arrivo a Bologna ebbe inizio l'attivita' di ricerca scientifica di Alberigo e quello che, pur non senza aggiustamenti nelle proprie prospettive, puo' ben definirsi l'impegno costante e assorbente della sua vita. Da questo punto di vista gli anni Cinquanta furono caratterizzati in particolare da due aspetti. Da una parte lo stretto rapporto che, su suggerimento di Dossetti, egli stabili' con Delio Cantimori e Hubert Jedin, in vista di avviare una serie di ricerche sul primo Cinquecento e il concilio di Trento in quanto tornante decisivo per il modo di porsi della Chiesa in termini tuttora operanti nei suoi rapporti con la societa'. Il loro insegnamento avrebbe lasciato una traccia profonda nel suo modo di fare ricerca storica: la consapevolezza in particolare che la sua base imprescindibile sta nella raccolta e nello studio dell’insieme delle fonti che il passato ci ha lasciato, uno studio pero' che andava condotto con ampiezza di orizzonti e in piena liberta' da condizionamenti apologetici o propagandistici.
Non e' raro il ricorso da parte sua a formulazioni che ricalcano quella celeberrima di Leopold von Ranke per definire lo scopo del suo lavoro, "di ricostruire cioe' gli eventi come si sono effettivamente svolti, senza omissioni" (Alberigo, 1991, p. 24, in n.*; Alberigo, 1999, p. 16). Da Cantimori inoltre Alberigo ricavo' l'insegnamento che la storia della Chiesa e' storia come tutte le altre, da studiare e da capire anche nei suoi nessi con la storia civile, ed e' storia percio' estranea e avulsa dal sistema della teologia. Egli rompeva cosi' decisamente con una tradizione di studi che sottoponeva lo studio della storia della Chiesa alle definizioni e ai criteri offerti dalla teologia, e dunque, in ultima istanza, ne faceva ambito riservato a quanti ne condividessero fede e dottrina.
Un soggiorno a Bonn, a meta' degli anni Cinquanta, per studiare con Jedin, venne interrotto per la gravidanza di Angelina (ad Anna, nata nel marzo 1956, seguirono Stefano, nato nell'aprile 1962, e undici anni dopo Paola, nata nel luglio 1973). Nel 1956 divento' assistente volontario di Cantimori. Con la fine del 1959 arrivo' il molto atteso posto di assistente di ruolo, con il conseguente concorso, dopo che nella primavera aveva ottenuto la libera docenza in storia della Chiesa. Cosi' nel gennaio 1960 la facolta' fiorentina gli attribui' l'incarico di storia della Chiesa, introdotta nel frattempo nel suo statuto. Era un primo riconoscimento accademico dell'importanza e del valore del blocco di ricerche condotte da Alberigo in quegli anni: tra una nutrita serie di saggi spiccano in particolare il volume I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), pubblicato dalla Sansoni nel 1959, di cui Cantimori, nella sua Prefazione, segnalo' la novita' anche dal punto di vista del metodo, e quello dedicato alla riforma protestante, edito da Garzanti in quello stesso anno. Merita sottolineare come Alberigo vi rilevasse con forza (e non era affermazione scontata in un contesto cattolico) come una comprensione adeguata della frattura religiosa del XVI secolo dovesse considerare in primo luogo la natura essenzialmente religiosa ed ecclesiale dei primi grandi riformatori e del vasto movimento di consensi che trasformo', irresistibilmente, singole esperienze spirituali in un moto storico travolgente.
L'altro aspetto che condiziono' profondamente la vita di Alberigo negli anni Cinquanta fu il progressivo deteriorarsi dei rapporti interni al Centro e in particolare il contrasto che lo oppose a Dossetti. Le loro radici stavano nel rapido profilarsi di una diversita' di vocazioni tra i membri del Centro. L'ottica con cui Dossetti guardava ai caratteri che dovevano contraddistinguerli privilegiava chiaramente una prospettiva che sarebbe sfociata nella formazione di una famiglia monastica. In alcuni appunti redatti nel dicembre 1954 sulla forma communitatis egli defini' la comunita' come "una famiglia di credenti, interiormente "consacrati", generata ed alimentata dall'adorazione e dall'abbandono nella convivenza coi minimi e nel lavoro, in ostensione ad essi di una "Chiesa santa e immacolata" gia' oggi [...]" (Dossetti, 1954, p. 110). Nella rigida costruzione dei diversi momenti che dovevano scandire la giornata, le diverse pratiche religiose, la meditazione, la lettura biblica in comune occupavano di gran lunga lo spazio maggiore. Lo studio e la ricerca ne restavano largamente subordinati. Come scrisse Angelina, "lo scontro sulla priorita' del lavoro nella vita dell'Istituto fu uno dei momenti piu' aspri negli anni di sofferta tensione" tra Alberigo e Dossetti (Angelina Alberigo, 2008, p. 905). Non infirmo' "il legame profondissimo di affetto, di condivisione che lego' Pino a Dossetti" (ibid., p. 904), ma impose distinzioni e divisioni che furono sentite come dolorose. In una lettera a Dossetti del marzo 1955, rivendicando le ragioni che avevano portato lui e altri al Centro, Alberigo fu molto esplicito: "Per noi fare del lavoro un "ritmo" subordinato e secondario della nostra vita sarebbe – a mio avviso – cambiare radicalmente essere" (Ruggieri, 2008, p. 713). La fusione tra l'aspetto scientifico e quello religioso si stava rivelando dunque irrealizzabile. Mentre un gruppo di sorelle, cui si aggiunsero lo stesso Dossetti e un altro membro del Centro, dava vita alla Piccola famiglia dell'Annunziata (nel dicembre 1955 Lercaro ne approvo' oralmente la regola), netto si paleso' il rifiuto di tale prospettiva da parte di chi era entrato ed entrava nel Centro con la prospettiva di lavorare in ambito culturale. Ne diede ulteriore conferma la "fuga" di Paolo Prodi a Parigi nella primavera del 1955 (Menozzi, 1993, p. 366).
Le tensioni si accrebbero quando nell'autunno Dossetti accetto', in "sofferta obbedienza" a un ordine di Lercaro, di presentarsi capolista della DC alle elezioni amministrative di Bologna della primavera successiva per cercare di togliere il governo del comune ai comunisti (Battelli, 2010, p. 870 ss.). Non si tratto' solo della rottura che si attuava cosi' del "patto" che stava alla base della costituzione stessa del Centro, di evitare cioè ogni forma attivistica o politicistica. La stessa idea di "obbedienza", per Dossetti doverosa obbedienza ("obbedienza terribile" come la defini' Franca Magistretti – Magistretti, 2003, p. 18), espressa dalla sua sottomissione all'ordine di Lercaro, strideva con la rivendicazione di autonomia che agli occhi di Pino e di Angelina (ma anche di altri) doveva caratterizzare l'opera dei laici cattolici nella vita culturale e politica. Non a caso, in un documento redatto da Alberigo nell'autunno 1958 sulle prospettive del Centro, pur confermando "un atteggiamento di totale continua e umile apertura e semplicita' nei confronti della gerarchia che, senza riconoscimenti o sanzioni, si esprima nella notizia data all'ordinario del luogo sull'andamento e gli oggetti della ricerca", egli ebbe cura di precisare che si trattava di "un rapporto diverso dalla dipendenza gerarchica o dalla missione apostolica, meno immediato di questi, ma non meno profondo, che tenga conto dell'ambito scelto – la ricerca scientifica – e delle esigenze intrinseche di rigore e di verita' ad esso proprie" (Alberigo, 2003, p. 147).
Le premesse per una "separazione" c'erano tutte. Dossetti ne informo' Lercaro il 13 novembre 1957: la faticosa ricerca di un compromesso tra la tendenza di una parte a costituirsi in una vera e propria famiglia religiosa e il gruppo che rivendicava nello studio il centro del proprio impegno, era fallita.
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L'Istituto per le scienze religiose e i nuovi impegni degli anni Sessanta
Per l'insieme di vicende appena ricordate la presenza di Dossetti nella vita del Centro si era fortemente allentata, pur continuando ad esercitarne formalmente la funzione direttiva. Alla fine del 1956 aveva presentato le dimissioni da professore universitario, e in quello stesso dicembre aveva chiesto a Lercaro di ricevere gli ordini. Dopo molte esitazioni il cardinale l'aveva ordinato sacerdote il 6 gennaio 1959. In quello stesso mese i membri della Piccola famiglia dell'Annunziata lasciarono il Centro, che su indicazione dello stesso Dossetti si avvio' a diventare, con l'apporto di nuovi membri e sotto l'egida della neocostituita Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia (agosto 1961), l'Istituto per le scienze religiose (nel 1964 ne divenne la denominazione ufficiale) (L'officina, p. 44, n. 24).
L'annuncio, del tutto imprevisto, da parte di Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, della prossima convocazione di un concilio ecumenico apri' la strada per una svolta profonda nella vita e negli impegni dell'Istituto, e, in prospettiva, negli stessi orientamenti di ricerca di Alberigo; ma anche, credo si debba aggiungere, in un piu' preciso definirsi sul piano pubblico del suo impegno ecclesiale, progressivamente sempre piu' intrecciato con la sua opera di ricerca. La sua partecipazione, insieme a Paolo Prodi, a partire dal settembre 1960, alla Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche, che avrebbe aperto la strada al Segretariato per l'unita' del cristiani, segna il profilarsi di un campo che sara' di costante riflessione e coinvolgimento, offrendo insieme un punto di vista e un approccio essenziali alle sue stesse ricerche.
Nello stesso tempo la volonta' di mettersi al servizio del concilio, della sua preparazione come del suo svolgimento, ristabili' la collaborazione, che divenne in quegli anni sempre piu' intensa, fra l'Istituto, Dossetti e la Piccola famiglia dell'Annunziata. Primo frutto ne fu la raccolta e l'edizione delle decisioni dei concili ecumenici: quei Conciliorum oecumenicorum decreta, comprensivi anche delle decisioni di Costanza e Basilea che la controversistica anticonciliarista aveva preteso di espungere dalla serie, offerti il primo ottobre 1962 a Giovanni XXIII come attestazione dell'impegno dell'Istituto verso il concilio che stava per aprirsi.
Nel corso delle quattro sessioni conciliari il coinvolgimento dei membri dell'antico Centro, ricompostisi sotto la guida di Dossetti, fu totale. Di primo piano, indubbiamente, il ruolo svolto da Dossetti. Ma l'intero personale dell'Istituto ne trasse spinta e beneficio.
Importanti anche per il futuro furono l'intensificarsi e l'allargarsi dei rapporti con personaggi di primo piano dell'episcopato e della ricerca teologica internazionale (di particolare intensita' quelli con i domenicani Marie-Dominique Chenu e Yves Congar – L'officina, p. 44, n. 25).
Di grande rilievo fu l'apporto di Alberigo, in considerazione soprattutto delle discussioni emerse intorno al problema della collegialita' come aspetto fondamentale del legame che unisce i vescovi alla figura del papa, "vescovo di Roma", rendendoli partecipi di una "giurisdizione universale". In vista della discussione che si sarebbe sviluppata in aula egli preparo' una prima memoria ciclostilata da distribuire ai padri nel corso del 1963 (Momenti essenziali nella formazione della dottrina sulla giurisdizione universale dei vescovi) che scava nel passato le emersioni della questione. L'anno dopo fu il volume di oltre quattrocento pagine pubblicato da Herder (Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo), che trovo' largo ascolto fra i padri e i periti e l'inaspettato apprezzamento in aula conciliare di mons. Pietro Parente, assessore del Santo Uffizio e noto per le sue posizioni conservatrici, il cui intervento favori' l'approvazione del paragrafo della Lumen gentium, alla cui dottrina esso faceva riferimento.
Il 26 gennaio 1965 Paolo VI, in un'udienza privata concessa ad Alberigo, ne sanci' i meriti (Melloni, 2012, p. 130). Un ulteriore contributo da parte sua a tali questioni sarebbe stato, qualche anno piu' tardi, il volume Cardinalato e collegialita'. Studi sull'Ecclesiologia tra l'XI e il XIV secolo (Firenze 1969).
Sono anni dunque, questi conciliari, decisivi per la piena maturazione dell'esperienza ecclesiale di Alberigo, e anche, vorrei dire, per l'acuirsi del suo occhio critico, nella persuasione della necessita' di una piena storicizzazione del percorso della Chiesa, e per renderlo "sempre piu' convinto, come scrisse, che la conoscenza del fatto cristiano [puo'] pervenire a risultati criticamente rigorosi solo ripercorrendo la sua evoluzione dentro la storia dell'umanita', senza concedere nulla ai ricorrenti integralismi essenzialisti e senza isolare la Chiesa dal contesto culturale, sociale, politico ed economico nel quale vive, dal quale riceve influssi e impulsi e di cui costituisce uno dei fattori maggiori" (Alberigo, 1988, p. 8). Sul piano personale furono anni segnati anche dalle defatiganti vicende di una serie di concorsi di storia della Chiesa, cui, nonostante l'appoggio di Cantimori, partecipo' senza successo. Era la rivalsa del mondo curiale per il ruolo svolto dall'Istituto e da Alberigo al margine del concilio. All'ennesimo ripetersi delle opposizioni e delle difficolta', in una lettera del 10 gennaio 1965 Cantimori gli scrisse: "Come amico, tutta la mia solidarieta'; come professore, il maltrattamento a te e' come se fosse fatto a me; come studioso sono avvilito e indignato" (Miccoli, 2010, p. 920). La vittoria concorsuale arrivo' finalmente nel 1967, e dal novembre Alberigo occupo' la cattedra di storia della Chiesa presso la neocostituita facolta' di Scienze politiche dell'Universita' di Bologna (Melloni, 2008, p. 680).
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Tra gli anni Sessanta e Settanta: di fronte alle difficolta' del postconcilio
Il concilio si era chiuso non senza preoccupazioni e incertezze nel gruppo che aveva affiancato Dossetti nel corso delle quattro sessioni. La persuasione di aver vissuto una "strepitosa avventura" (Melloni, 2012, p. 117) si accompagnava alla consapevolezza delle progressive restrizioni subite dai testi maggiori nelle loro formulazioni finali. L'opera di mediazione e la ricerca di una maggioranza piu' ampia possibile perseguite da Paolo VI avevano dato vita a testi con aspetti ambigui e a volte contraddittori. Angelina nel suo Diario aggiunse anche altro: "Quello che ci terrorizza e' il post-concilio": tutto nelle mani della curia "diventera' terribile pappa..." (Melloni, 2012, p. 134). Anche il giudizio sull'operato di Paolo VI divenne progressivamente sempre piu' critico, per non dire negativo. La brusca rimozione, nel febbraio 1968, del cardinale Lercaro dalla guida della diocesi bolognese in seguito a una sua omelia in cui invocava la cessazione dei bombardamenti americani sul Vietnam del Nord segno' un momento di non ritorno. Ne resto' anche interrotta l'opera di ricezione del concilio, con una prima ristrutturazione degli organi della diocesi, avviata sotto la guida di Dossetti, che Lercaro aveva nominato provicario generale.
La proposta di realizzare una "legge fondamentale" per la Chiesa (Lef) accentuo' e induri' ulteriormente i termini della critica a Paolo VI. E' l'idea stessa di "imporre alla Chiesa una costituzione" a essere considerata da Alberigo espressione di una "smisurata presunzione spirituale", estranea a tutta la tradizione (Alberigo, 1972, p. 15). Il tentativo di attuare cosi' un pieno recupero della centralita' romana acquisto' ai suoi occhi "il significato di un'inversione di tendenza, o – almeno – di un disperato tentativo di rovesciamento e di restaurazione, mediante un rigetto sostanziale e globale del Vaticano II". Il governo di Paolo VI ne risultava pienamente coinvolto: "La Lef si qualifica come l'atto emblematico del pontificato in corso, anzi di tutta una secolare deformazione del modo di concepire il primato romano" (Alberigo 1971, p. 6 s.; Alberigo, 1972, p. 39 s.).
Sono prese di posizione e giudizi che segnarono con chiarezza un punto d'arrivo nell'ottica con cui Alberigo guardava alla situazione della Chiesa cattolica e attestano nello stesso tempo la direzione che egli riteneva necessario fosse perseguita per realizzare un effettivo rinnovamento del cristianesimo e della presenza cristiana nella societa'. Un suo lungo articolo di commento al congresso teologico di Bruxelles (settembre 1970) pubblicato su Lettere '70, ne offre, in sintesi, una completa e significativa illustrazione (Alberigo, 1970, pp. 1-14).
Il congresso, nato su iniziativa e nell'ambito della rivista Concilium (Alberigo ne era assiduo collaboratore fin dalla fondazione nel 1965 e faceva parte del comitato di redazione) intendeva delineare i compiti di una nuova teologia in funzione di un avvenire della Chiesa adeguato ai bisogni della vita cristiana e della societa'. Alla ribadita stima per gli organizzatori (Edward Schillebeeckx, Yves Congar, Karl Rahner e Hans Kueng), cui era legato da tempo e che nel concilio erano stati tra i protagonisti nelle proposte di rinnovamento, si accompagno' da parte sua una critica radicale: nel loro impianto e nelle loro proposte, pur ispirate da una opposizione alla teologia cosiddetta romana, non sono riusciti a realizzare un autentico rinnovamento nel modo "di fare e di pensare teologia, che resta ancora in un ambito strettamente clericale ed accademico, separato dall'esperienza cristiana della gente comune". Era un limite decisivo. Per Alberigo infatti "non si innovera' veramente il modo di fare teologia, e quindi la teologia stessa, se, malgrado tutto, lo schema "romano" della ricerca teologica (riservata ai chierici, separata dalla fede personale, pura elaborazione intellettuale, condizionata da un preciso sistema filosofico) non verra' totalmente abbandonato". Il problema dunque per lui era di "reinventare un servizio teologico che si misuri essenzialmente sulla fede missionaria del popolo di Dio, sulla fede delle comunita' e delle chiese cristiane", a opera di teologi che non si formino nell'isolamento "ma in un rapporto vitale con la fede delle comunita'" nelle sue diverse e svariate espressioni, mai pienamente risolte e concluse. Perche' (e qui sta il punto fondamentale della sua riflessione, del resto presente al congresso di Bruxelles) e' essenziale riconoscere in via preliminare che e' Cristo "il criterio della Chiesa e della teologia". Ma dire cosi', riconoscere questo, "relativizza in modo radicale tutte le altre cose, relativizza il magistero, gli stessi concili, le grandi formulazioni dogmatiche" (Alberigo, 1970, p. 13); per Alberigo, mi pare di poter dire, diventava la chiave per guardare con occhio libero alla storia del cristianesimo e delle Chiese e insieme per operare responsabilmente nel loro presente.
Fondamentale a questo riguardo restava per lui l'insegnamento che Giovanni XXIII aveva voluto impartire alla Chiesa con il suo invito ad assumere un atteggiamento di ricerca. Era un invito infatti che non corrispondeva ad "un fatuo prurito di novita'" perche' mirava a "verificare la propria effettiva fedelta' alle esigenze misteriose ed inesauribili del messaggio evangelico". Si trattava, insomma, di "superare l'atteggiamento di certezza che era divenuto abituale nel cattolicesimo moderno e contemporaneo" (Alberigo, 1993, p. 174). Non era dire poco, perche' profilava una prospettiva che scardinava un punto fermo del magistero della Chiesa di Roma: l'idea cioe' di un possesso pieno, integrale ed esclusivo della verita' di Cristo.
Con sempre maggiore evidenza la battaglia ecclesiale per realizzare quell'aggiornamento della Chiesa che Giovanni XXIII avrebbe voluto si intreccio' con i temi e gli ambiti di ricerca che i "segni dei tempi" suggerivano: ne costitui', vorrei dire, la ragione e la prospettiva. Fu la linea maestra perseguita da Pino, che aspirava a coinvolgervi tutti i membri dell'Istituto. Da cio', da una parte, l'impegno a fondo, con un'ampia mobilitazione degli episcopati, per bloccare l'attuazione della Lel, un impegno che fu coronato da un pieno successo.
Dall'altra, "l'impostazione di un progetto di ricerca pluriennale sulle caratteristiche storiche e le problematiche dottrinali del regime di cristianita'" (L'officina, p. 50 e 197 s.), visto nelle sue linee generali e insieme nell'esperienza di figure come Carlo Borromeo, Gasparo Contarini e Caterina Vigri che, pur se in termini diversi, hanno espresso con la loro vita alcuni punti forti del modo di essere cristiani nella loro epoca (Spaccamonti - Faggioli, 2008, nr. 45, 48, 180, 239, 240, 326, 383, 433, 449).
L'Istituto intanto si arricchiva di nuovi apporti e di nuove presenze. Si riproposero pero' anche nuove, lunghe e laceranti tensioni. Nel 1970, con d.p.r. del 3 novembre, l'Associazione per lo sviluppo delle scienze religiose in Italia venne riconosciuta ente morale cui competeva di reggere l'Istituto. Dossetti, in qualita' di presidente, e Lercaro erano membri vitalizi del Consiglio, segretario fu confermato Alberigo, con la piena responsabilita' di gestione dell'Istituto e della Biblioteca. L'11 dicembre 1971 la legge Andreatta-Zaccagnini di finanziamento dell'attivita' di ricerca e di formazione alla ricerca dell'Associazione venne approvata dal Parlamento con la sola eccezione dei fascisti (Melloni, 2008, p. 683; L'officina, p. 50).
La prospettiva che Alberigo vedeva per l'Istituto era definita da tempo: farne sempre piu' un organismo che vive e opera grazie al lavoro in comune dei suoi membri, concentrati e uniti intorno allo studio di argomenti scelti collettivamente, secondo quanto i "segni dei tempi" suggerivano. La fondazione nel 1980 della rivista Cristianesimo nella storia intese dotare l'Istituto di uno strumento che rafforzasse questa prospettiva. Non era pero' una prospettiva condivisa da tutti: perche' metteva in discussione percorsi di ricerca e competenze ormai mature che intendevano battere individualmente strade proprie.
L'abbandono dell'Istituto, nel 1981, di un folto gruppo formato per lo piu' da "antichisti" segno' l'impossibilita' di trovare un compromesso. Furono rotture dolorose per tutti: "Non so rimuovere, scrisse Pino in anni recenti, la sofferenza profonda da cui le separazioni sono state sempre segnate, sia in quanti sono rimasti sia in coloro che se ne sono andati" (Riflessioni (brevi) su un cinquantennio. 1953-2003, p. 27).
Il suo impegno ecclesiale non manco' in quegli anni di altre iniziative e momenti importanti. All'indomani della morte di Paolo VI, nell'agosto 1978, predispose con la collaborazione di Enzo Bianchi, Giuseppe Ruggieri e altri un denso memoriale destinato ai partecipanti del prossimo conclave, intitolato significativamente Per un rinnovamento del servizio papale nella Chiesa alla fine del XX secolo. Dire che l'iniziativa era del tutto inconsueta e' dire poco: sia per il fatto in se' sia per la perentorieta' del discorso che vi era svolto. L'invito rivolto ai cardinali fu di discutere collettivamente e nei loro colloqui privati i problemi che il nuovo papa avrebbe dovuto affrontare e le linee programmatiche che avrebbe dovuto assumere per poter riprendere quel cammino di rinnovamento che il concilio aveva prospettato e che era restato in gran parte interrotto. Il punto centrale, che il memoriale rilevo' con molta forza, prospettava la necessita' di affermare nella Chiesa, "e quindi anche nel servizio di Pietro", la priorita' dei poveri e l'impegno per i poveri, sull'esempio del ministero di Gesu' Cristo, nel quale "la vita dei cristiani e di ogni Chiesa" deve trovare "la sua forza, il suo alimento, la sua ispirazione". Cio' implicava per la Chiesa e il vescovo di Roma, se non si voleva ridurre tale impegno "a qualche gesto retorico", "la scelta di mezzi poveri e che siano comprensibili ai poveri, ed un abbandono, certo faticoso ma costante, di tutti quegli strumenti che li rendono piu' simili ed omogenei ai potenti del mondo"; e implicava ancora, per rendere credibile la propria parola, una piena liberta' "da ogni potere e da ogni sistema politico". Il memoriale reclamo' anche, contro ogni tendenza riduzionistica del Vaticano II, "gesti inequivocabili, come la realizzazione effettiva della collegialita', una prassi differenziata nella scelta dei vescovi, il superamento della divisione tra clero e laicato, il rispetto delle scelte delle comunita' locali nel loro impatto con la storia, il riconoscimento di un effettivo pluralismo nelle scelte politiche", abbandonando, per favorire una piena ricezione del concilio, quella ""politica dell'intervento" che ha cosi' duramente contrassegnato soprattutto gli ultimi secoli della [...] storia del papato" (Per un rinnovamento del servizio papale,  p. 199 ss.).
Sempre con l'idea di rivitalizzare nella Chiesa la spinta riformatrice, partecipo' alla rivista Bozze, fondata nel 1978 da Raniero La Valle, con il quale Alberigo aveva stabilito ottimi rapporti fin dagli anni del concilio, durante il quale La Valle aveva diretto con grande apertura e autorevolezza il quotidiano Avvenire. La strenua volonta' di evitare anche la sola apparenza e il rischio di strumentalizzazione o commistione tra fede e politica lo portera' tuttavia a interrompere ben presto la sua collaborazione alla rivista. Alla stessa logica di distinguere nettamente tra opzione politica e dimensione di fede rispondevano sia la sua dura critica ai Cristiani per il socialismo, al cui convegno nazionale, tenuto a Bologna nel settembre 1973, era stato invitato, sia la sua adesione all'appello dei cattolici democratici per il no all’abrogazione delle legge sul divorzio proposta con il referendum del 12 maggio 1974.
(Parte prima - Segue)

6. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Ralf Dahrendorf, Dopo la democrazia, Laterza, Roma-Bari 2001, 2003, pp. IV + 140.
- Leopold Kohr, Il crollo delle nazioni, Comunita', Milano 1960, pp. 424.
- Sergio Lariccia, Diritti civili e fattore religioso, Il Mulino, Bologna 1978, 1983, pp. 218.
- Marco Maraffi (a cura di), La societa' neo-corporativa, Il Mulino, Bologna 1981, 1984, pp. 350.
- Karl A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, SugarCo, Milano 1980, pp. 830.
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Riedizioni
- Edoardo Scala, Storia delle fanterie italiane. Volume II. Le fanterie nel medioevo e nell'era moderna, Il giornale, Milano 2020, pp. XII + 620, euro 12.
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Maestre
- Lidia Menapace, Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968, pp. 120.
- Lidia Menapace, L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968, pp. 76.
- Lidia Menapace, La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974, pp. 220.
- Lidia Menapace, Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987, pp. VIII + 140.
- Lidia Menapace (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988, pp. 244.
- Lidia Menapace, Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000, pp. 32.
- Lidia Menapace, Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001, pp. 86.
- Lidia Menapace (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004, pp. 140.
- Lidia Menapace, Lettere dal palazzo, Marea - Erga Edizioni, Genova 2007, pp. 160.
- Lidia Menapace, ... A furor di popolo!, Marea, Genova 2012, pp. 134.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3742 del 17 maggio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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