[Nonviolenza] Telegrammi. 3693



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3693 del 29 marzo 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Una lettera alle persone amiche: premere nonviolentemente sulle amministrazioni comunali affinche' approntino aiuti straordinari per le persone in condizioni di indigenza
2. Lettera aperta sulla dignita' del morire ai tempi del coronavirus
3. Norberto Bobbio: Pace. Concetti, problemi e ideali (1989) (parte seconda)
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. UNA LETTERA ALLE PERSONE AMICHE: PREMERE NONVIOLENTEMENTE SULLE AMMINISTRAZIONI COMUNALI AFFINCHE' APPRONTINO AIUTI STRAORDINARI PER LE PERSONE IN CONDIZIONI DI INDIGENZA

Sta crescendo vertiginosamente il numero delle persone che precipitano in condizioni di di poverta' estrema, di vera e propria indigenza.
Sembra che i ricchi e i potenti al governo dello Stato e delle Regioni non se ne accorgano neppure.
Il papa invece si', quasi unica tra le persone che hanno voce pubblica, e con lui ogni persona di volonta' buona, ed ogni persona appartenente alle classi sfruttate ed oppresse, rapinate ed emarginate.
L'epidemia non solo riduce gli svaghi dei ricchi e i profitti dei piu' ricchi, ma impoverisce drasticamente chi vive del proprio lavoro, e scaraventa nella miseria chi era gia' povero.
Alla paura del contagio, della malattia, della morte si aggiungono il terrore e la disperazione della fame, l'umiliazione dell'abbandono nella solitudine, e la percezione straziante e abissale della strutturale e deflagrante violenza di una societa' organizzata per promuovere la massimizzazione del profitto anziche' per garantire i diritti umani di tutti gli esseri umani.
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Occorre premere nonviolentemente sul Governo affinche' cessino immediatamente gli sperperi e gli abusi e si destinino le risorse per salvare le vite di chi e' piu' in pericolo, in pericolo per la malattia, in pericolo per la fame, in pericolo per la disperazione e l'inedia. Apra gli occhi chi governa lo Stato, si smetta di effettualmente perseguitare con azioni ed omissioni chi piu' soffre.
Ed ugualmente occorre premere nonviolentemente sulle Regioni affinche' cessino immediatamente gli sperperi e gli abusi e si destinino le risorse per salvare le vite di chi e' piu' in pericolo, in pericolo per la malattia, in pericolo per la fame, in pericolo per la disperazione e l'inedia. Apra gli occhi chi governa le Regioni, si smetta di effettualmente perseguitare con azioni ed omissioni chi piu' soffre.
Ma occorre anche premere nonviolentemente sui Comuni.
Immediatamente, affinche' immediatamente e  adeguatamente i Comuni soccorrano le persone piu' in difficolta', affinche' approntino con la massima tempestivita' aiuti straordinari per le persone in condizioni di indigenza o che nell'indigenza stanno rapidamente precipitando.
E' nell'azione tempestiva dei Comuni la chiave di volta per fronteggiare immediatamente, garantendo il cibo e gli altri generi di prima necessita', le piu' urgenti esigenze vitali della parte piu' bisognosa di sostegno sociale, oltre e piu' e prima ancora che sanitario, della popolazione.
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Proponiamo quindi a tutte le persone di volonta' buona, alle esperienze associative democratiche, ai movimenti della societa' civile, di aggiungere alle altre iniziative che stanno gia' attuando - a cominciare dalla condivisione dei beni essenziali con chi e' loro vicino ed ha piu' bisogno di aiuto - un impegno in piu', necessario ed urgente.
Scrivere ai sindaci dei Comuni affinche' le amministrazioni comunali organizzino tramite i propri servizi sociali la messa a disposizione di generi di prima necessita' a tutte le persone che vivono nel loro territorio e che ne facciano richiesta.
Il volontariato, le organizzazioni caritative, stanno facendo molto, ma occorre l'intervento pubblico. E' l'intervento pubblico che e' decisivo. E il primo intervento pubblico qui e adesso deve consistere nel fornire ad ogni famiglia in difficolta', ad ogni persona che ne abbia urgente bisogno, l'indispensabile per continuare a vivere.
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Vi proponiamo pertanto di inviare al sindaco del vostro Comune - utilizzando i canali telematici - una lettera del seguente tenore:
"Egregio sindaco,
le scriviamo per sollecitare l'amministrazione comunale ad immediatamente adoperarsi affinche' a tutte le persone che vivono nel territorio del comune sia garantito l'aiuto necessario a restare in vita.
Attraverso i suoi servizi sociali il Comune si impegni affinche' tutti i generi di prima necessita' siano messi gratuitamente a disposizione di tutte le persone che non disponendo di altre risorse ne facciano richiesta.
Crediamo sia un dovere - un impegnativo ma ineludibile dovere - che il Comune puo' e deve compiere con la massima tempestivita'.
Salvare le vite e' il primo dovere.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Occorre soccorrere, accogliere e assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Confidando nell'impegno suo e dell'intera amministrazione comunale, voglia gradire distinti saluti
Firma, luogo e data
Indirizzo del mittente"
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Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Chi salva una vita salva il mondo.

2. APPELLI. LETTERA APERTA SULLA DIGNITA' DEL MORIRE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
[Riceviamo e diffondiamo il seguente appello]

27 marzo 2020
Alle cittadine e ai cittadini, con particolare attenzione alle autorita' competenti
La morte e' entrata nelle nostre case. Ogni giorno riceviamo con sgomento le cifre dei decessi a causa del virus. E' diventato un bollettino di guerra guardare il telefono, leggere ascoltare le notizie di cronaca. Cifre sproporzionate.
Dietro l'anonimato dei numeri ci sono volti, nomi, storie, persone che hanno intersecato le nostre vite: i nostri genitori, parenti, amici, colleghi, conoscenti. Molti di loro hanno vissuto la tragedia di morire da soli, senza l'affetto dei loro cari.
Potrebbe accadere anche a noi. Il virus colpisce in modo indistinto. Potrebbe succedere anche a noi di ritrovarci in ospedale, da soli, senza la presenza di un familiare. Si pensa con spavento con spavento alla propria morte, ma ora appare ancora piu' terribile l'idea di dover affrontare nella solitudine, senza la possibilita' di congedarsi dai propri cari.
Sappiamo che, da sempre, il reparto di terapia intensiva e' luogo interdetto ai visitatori; e che nei momenti di epidemia, le cautele si fanno ancora piu' stringenti.
Tuttavia, nel dibattito democratico che non dovrebbe venir meno anche in questi momenti di emergenza, vorremmo richiamare l'attenzione sul venir meno del carattere umanizzante del morire, senza i quale si lascia la persona morente nella solitudine affettiva.
Chi muore da solo non ha la possibilita' di far udire la propria voce, le sue ultime volonta'. Al massimo le puo' consegnare al personale medico.
Un metro di misura dell'umanita' di una societa' civile e' dato dal tutelare i piu' deboli, dando voce a quanti non hanno voce.
Riteniamo che anche questo rivesta il carattere di emergenza che muove le decisioni di questi giorni.
Chiediamo, dunque, che ci si interroghi seriamente su questo aspetto e che si provi a formulare un protocollo che tenga assieme le ragioni della salute con quelle degli affetti.
E' veramente improponibile pensare che una persona cara, nell'assoluto rispetto delle norme sanitarie, possa essere presente per accompagnare un proprio congiunto nei delicato momento del passaggio dalla vita alla morte?
Si puo', con fatica, accettare la solitudine della tumulazione: una volta passata l'emergenza, ci potranno essere gesti pubblici per elaborare il lutto. Ma per chi muore, non si possono differire i tempi: c'e' un unico momento.
Nessuno merita di morire da solo, nemmeno in una situazione come l'attuale, sotto il ricatto del sacrificio per il bene dei propri cari.
Come il personale sanitario, con le dovute cautele, puo' avvicinarsi al morente, cosi', a nostro giudizio, e' necessario pensare di prevedere la presenza di un congiunto.
Ci appelliamo, dunque, all'intelligenza vigile  e creativa di quanti hanno a cuore di promuovere la dignita' del vivere e del morire di tutte e tutti.
Nell'emergenza, insieme all'eccellenza sanitaria e al governo politico della situazione, facciamo emergere anche una chiara attenzione al profilo umano di quanti sono vittime dell'epidemia.
Lidia Maggi, Paolo Squizzato, Andrea Grillo, Fabio Corazzina, Cristina Arcidiacono, Massimo Aprile, Paolo Curtaz, Carlo Molari, Gianni Marmorini, Silvia Giacomoni, Marco Campedelli, Angelo Reginato
Per favore, divulgate, discutete. Per firmare mandate una mail a lidiamaggipastora at gmail.com

3. REPETITA IUVANT. NORBERTO BOBBIO: PACE. CONCETTI, PROBLEMI E IDEALI (1989) (PARTE SECONDA)
[Dal sito www.treccani.it riproponiamo la seguente voce estratta dalla Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)]

4. L'ideale della pace perpetua
La filosofia della pace nasce quando ormai la filosofia della guerra ha esaurito tutte le sue possibilita' e insieme ha dimostrato rispetto all'aumento quantitativo e qualitativo delle guerre tutta la sua impotenza. Parafrasando uno dei detti piu' celebri di Marx, si potrebbe dire che una filosofia della pace nasce quando ci si comincia a rendere conto che non si tratta piu' di interpretare la guerra ma di cambiarla, o in altre parole non si tratta piu' di trovare sempre nuove e piu' ingegnose giustificazioni della guerra, ma di eliminarla per sempre. Anche se ha avuto dei precedenti, tra i quali il piu' importante e' certo il progetto dell'abate di Saint-Pierre (1713), il primo grande filosofo della pace nel senso qui inteso e' stato Kant, il quale pubblica nel 1795 sotto forma di trattato internazionale un progetto Per la pace perpetua.
Chi voglia far intendere il significato storico di questa operetta deve far cadere l'accento non tanto sull'idea della pace quanto sul progetto di renderla perpetua, vale a dire di rendere per la prima volta possibile un mondo in cui la guerra sia cancellata per sempre come modo per risolvere le controversie fra gli Stati.
Proprio in quanto la pace e' sempre stata considerata come la negazione della guerra, il problema della pace era sempre stato posto come il problema di una pace parziale che avrebbe dovuto porre termine a una guerra parziale o a un periodo limitato nel tempo di guerre in una parte della terra, come fine di una determinata guerra o di una serie di guerre limitate, non come fine di tutte le guerre possibili. La pax romana, l'unica pace duratura conosciuta nel mondo antico, era la pace imposta da una potenza imperiale entro i limiti in cui si era esteso il proprio dominio. Non diverso e' il concetto della pax britannica o americana o sovietica nell'eta' moderna e contemporanea. L'ideale della pace universale era contenuto nel messaggio cristiano ma era, per un verso, un ideale fuori della storia, o per meglio dire era il concetto di una storia profetica (che e' una storia soltanto sperata o immaginata, rivelata da una potenza che e' fuori della storia), per un altro verso esso pretendeva di essersi realizzato nella creazione dell'impero concepito come una monarchia, se non concretamente, tendenzialmente universale. Dissoltosi l'universalismo religioso con la Riforma e con la moltiplicazione delle confessioni e delle sette cristiane e contemporaneamente venuta meno la pretesa universalita' dell'impero con la formazione dei grandi Stati territoriali, l'ideale della pace universale fu abbandonato. La soluzione degli inevitabili conflitti fra Stati sovrani fu affidata all'equilibrio delle forze, che peraltro non escludeva, anzi in un certo senso includeva, la guerra come rimedio all'eventuale, prevedibile e sempre tenuto presente, squilibrio e come causa di un nuovo equilibrio. Durante il dominio della teoria dell'equilibrio, uno dei bersagli polemici fu costantemente proprio l'idea di una monarchia universale, considerata come una perenne minaccia all'indipendenza degli Stati. L'idea della pace universale non solo perdette vigore, ma fu condannata, non concependosi altro modo con cui potesse essere attuata che un grande Stato dispotico.
Al di fuori della dottrina dell'equilibrio delle potenze, per cui la pace e' sempre uno stato provvisorio, e la guerra non solo e' sempre possibile ma e', in caso di rottura dell'equilibrio, necessaria, il tema della pace fu oggetto di sermoni o prediche morali, produsse una vasta ma inascoltata letteratura di invettive contro i disastri e i lutti delle guerre, di esecrazione della violenza sfrenata, in nome dei principi della morale evangelica, di esaltazione dei benefici della concordia e della convivenza tranquilla. Una letteratura tanto piu' diffusa e tanto emotivamente piu' intensa quanto piu' gli orrori della guerra erano prossimi e udibili i lamenti delle vittime.
Una soluzione razionale del problema della pace universale poteva nascere soltanto dall'ipotesi hobbesiana di uno stato primordiale dell'umanita' caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti, uno stato tanto perverso che da esso l'uomo doveva assolutamente uscire: l'antitesi radicale della guerra di tutti contro tutti non avrebbe potuto essere razionalmente che la pace di tutti con tutti, appunto la pace perpetua e universale. Ma Hobbes non trasse tutte le conseguenze dalla premessa. La prima e fondamentale legge naturale, che impone all'uomo, secondo Hobbes, di uscire dallo stato di guerra e di cercare la pace, induce gli individui naturali a dar vita a quelle comunita' parziali che sono gli Stati, in cui il titolare del diritto di usare la spada, cioe' la forza coattiva, e quindi del potere d'impedire all'interno della propria sfera di comando le guerre private, e' uno solo, il sovrano. Ma i sovrani continuano a vivere nei loro reciproci rapporti nello stato di natura, e quindi in uno stato perenne di guerra, se non attuale, potenziale. Quali siano le ragioni per cui Hobbes non abbia prospettato neppure in un lontano avvenire il superamento dello stato di natura fra gli Stati mediante quello stesso patto di unione che aveva fatto uscire dallo stato di natura i singoli individui, puo' essere soltanto oggetto di congetture: l'unica affermazione che si puo' fare con certezza e' che nell'eta' in cui visse Hobbes l'ideale della pace perpetua non poteva apparire se non come una chimera.
Il tema hobbesiano e' presente alla mente di Kant. La pace perpetua puo' essere conseguita soltanto quando anche gli Stati saranno usciti dallo stato di natura nei loro rapporti reciproci cosi' come sono usciti gl'individui. Per ottenere lo scopo debbono stipulare un patto che li unisca in una confederazione permanente (foedus perpetuum). A ben guardare anche Kant si ferma a mezza strada: il patto che dovrebbe unire gli Stati non e', secondo Kant, il pactum subiectionis in base al quale i contraenti si assoggettano a un potere comune: e' un pactum societatis, che in quanto tale non da' origine a un potere comune al di sopra dei singoli contraenti. Giuridicamente e' una confederazione, che Pufendorf aveva fatto rientrare nella categoria delle respublicae irregulares, non uno Stato federale, di cui il primo esempio nella storia furono gli Stati Uniti d'America, la cui nascita, avvenuta pochi anni prima della pubblicazione del suo opuscolo, Kant non ignorava. Usando le stesse categorie kantiane, lo stato giuridico di una confederazione, proprio per la mancanza di un potere comune, avrebbe continuato a essere uno Stato di diritto provvisorio, e non si sarebbe trasformato in uno Stato di diritto perentorio. Quale sia la ragione per cui Kant si sia fermato alla societa' di Stati e non sia giunto a proporre uno Stato di Stati, risulta abbastanza chiaramente dal testo: anche Kant era dominato dalla stessa preoccupazione che aveva indotto i fautori dell'equilibrio delle potenze a paventare la formazione di una monarchia universale. Lo Stato di Stati era visto anche da Kant come una nuova e ineluttabile forma di dispotismo.
A correggere peraltro la soluzione incompleta dal punto di vista di una teoria generale dello Stato, Kant introduce come garanzia dell'efficacia del patto una condizione sino allora non prevista e che per la sua novita' costituisce ancor oggi un tema di dibattito: gli Stati che stabiliscono il patto di alleanza perpetua debbono avere la stessa forma di governo e questa deve essere repubblicana. Che cosa intendesse realmente Kant per repubblica si puo' qui omettere, se pure con l'avvertenza che non bisogna confondere il significato kantiano di repubblica con quello attuale. Essenziale era per Kant una forma di governo in cui il popolo potesse controllare le decisioni del sovrano, in modo da rendere impossibili le guerre come atto arbitrario del principe, o, per ripetere le sue stesse parole che ancor oggi non hanno perduto nulla della loro efficacia: "Se e' richiesto l'assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba venir fatta, nulla e' piu' naturale del fatto che, dovendo decidere di far ricadere su se stessi tutte le calamita' della guerra [...], essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un cosi' cattivo gioco" (Per la pace perpetua, Roma 1985, p. 11). A ogni modo, quale che fosse la forma di governo auspicata, nella condizione posta da Kant per l'instaurazione di uno stato di pace stabile viene fatta valere anche l'esigenza, tutt'altro che trascurabile, dell'omogeneita' degli Stati contraenti rispetto al loro regime interno, un'esigenza che risponde a un principio di eguaglianza dei contraenti, non solo estrinseca in quanto essi debbono essere enti sovrani, ma anche intrinseca, in quanto debbono essere enti sovrani retti da costituzioni simili. Naturalmente tale esigenza non solo spostava la realizzazione della prospettata confederazione molto lontano nel tempo, ma ne limitava la possibile estensione, come la limita anche oggi. L'unione attuale degli Stati e' quasi universale, ma proprio per il fatto di comprendere potenzialmente tutti gli Stati non e' omogenea, essendo irrilevante nel diritto internazionale la forma di governo ai fini del riconoscimento di una comunita' politica come Stato, conformemente al principio di effettivita'.
L'idea tipicamente illuministica che la principale causa di guerra fosse il dispotismo, il potere incontrollabile del principe, l'idea che aveva suggerito a Kant il primo articolo del suo trattato per una pace perpetua, era destinata a fare molta strada nel secolo successivo, dando origine a una delle principali correnti di pacifismo, al pacifismo cosiddetto democratico, secondo cui solo l'abbattimento dei troni e l'instaurazione di Stati fondati sulla sovranita' popolare avrebbe liberato l'umanita' dal flagello della guerra, o, per usare la popolarissima formula mazziniana, la pace sarebbe stata assicurata soltanto quando alla Santa Alleanza dei re si fosse sostituita la Santa Alleanza dei popoli. Questa formula e' stata male interpretata quando si e' voluto disconoscerla osservando che la storia di questo secolo ha dimostrato che anche gli Stati democratici hanno condotto guerre lunghe e sanguinosissime. Cio' che Kant aveva voluto affermare, o per lo meno cio' che si puo' ancora ricavare di utile dalla proposta di Kant, e' che gli Stati democratici, o comunque omogenei rispetto alla forma di governo, giungono nei loro rapporti reciproci piu' difficilmente allo stato di guerra che non gli Stati dispotici o non omogenei.
Questa tesi e' stata ripresa recentemente, se pure con intenti apologetici, per sostenere l'impossibilita' di una guerra fra gli Stati che appartengono al blocco delle cosiddette democrazie occidentali, ed e' stata ripresa proprio partendo dal pensiero di Kant.
La stessa tesi, del resto, dell'impossibilita' di guerre tra paesi a regime omogeneo e' stata sostenuta anche per quel che riguarda i paesi socialisti, se pure con un argomento diverso: la ragione principale delle guerre moderne non sarebbe tanto il dispotismo, ovvero il regime politico, quanto il capitalismo, specie nella fase estrema dell'imperialismo, vale a dire il regime economico e sociale. Di conseguenza l'eliminazione della guerra dipenderebbe non dal passaggio dal dispotismo alla democrazia, ma dalla vittoria del socialismo sul capitalismo. Per quanto lo storico debba astenersi da facili e quasi sempre imprudenti generalizzazioni, l'esperienza di questi ultimi quarant'anni succedutisi alla fine della seconda guerra mondiale indurrebbe a dare piu' ragione ai sostenitori del pacifismo democratico che a quelli del pacifismo socialista: alcune guerre tra paesi socialisti, come quella, se pure soltanto iniziata, tra Unione Sovietica e Cina, quella tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia e quella tra Viet Nam e Cambogia, hanno posto degli interrogativi cui gli stessi marxisti hanno piu' volte cercato di dare una risposta, talora correggendo o reinterpretando i testi canonici per farli corrispondere ai fatti, talora correggendo o reinterpretando i fatti per farli corrispondere ai testi.
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5. Pacifismo istituzionale e pacifismo etico
Tanto il pacifismo democratico quanto quello socialista possono farsi rientrare nella categoria piu' ampia del pacifismo istituzionale, vale a dire in quella teoria o complesso di teorie che considera come causa precipua delle guerre il modo con cui sono regolati e organizzati i rapporti di convivenza tra individui e tra gruppi, che sono pur sempre al limite rapporti di forza ovvero rapporti in cui la soluzione decisiva del conflitto spetta in ultima istanza alla forza.
L'istituzione per eccellenza contro la quale si rivolgono entrambe le dottrine pacifistiche, se pure in una diversa prospettiva e con diversi effetti, e', nel periodo storico attuale, lo Stato. Con questa differenza: il bersaglio dell'una e' lo Stato dispotico, una forma particolare di Stato, non lo Stato in generale; il bersaglio dell'altra e' lo Stato capitalistico, una forma particolare di Stato che peraltro rappresenterebbe nella sua massima esplicazione l'essenza stessa dello Stato come strumento di dominio di una classe sull'altra.
Da questa diversa posizione del problema derivano conseguenze molto diverse, alla fin fine opposte. Il pacifismo democratico non mira all'eliminazione dello Stato, ma alla sua trasformazione in modo che il potere dei governanti sia controllato dai governati, nella fiducia o nell'illusione che, qualora tutti gli Stati fossero governati democraticamente, il conflitto tra uno Stato e l'altro non potrebbe mai giungere alla fase finale del conflitto armato. Il pacifismo socialista - partendo dalla convinzione che ogni Stato e' per sua natura dispotico, e' sempre una 'dittatura' di una classe sull'altra, anche lo Stato di transizione, in quanto dittatura del proletariato - mira invece non tanto alla trasformazione di un determinato tipo di Stato, quanto all'eliminazione o estinzione dello Stato in quanto tale, a una societa' senza Stato.
La logica conclusione del primo e' la societa' universale degli Stati, anzi nelle teorie piu' avanzate che sono andate oltre il progetto di Kant, una federazione di Stati, in cui il rapporto fra lo Stato universale e i singoli Stati dovrebbe essere dello stesso tipo del rapporto fra Stato centrale e Stati membri in uno Stato federale democratico, come gli Stati Uniti; la logica conclusione del secondo e' invece la scomparsa di ogni forma di Stato. Il primo vede la soluzione definitiva del problema della guerra fra Stati in un processo di graduale e sempre piu' ampia statalizzazione, ovvero nella formazione di Stati sempre piu' ampi e di leghe di Stati sempre piu' salde, nello stesso tipo di processo che ha caratterizzato lo sviluppo delle societa' storiche dalla tribu' primitiva ai grandi Stati attuali, che sono spesso non a caso essi stessi agglomerati di precedenti Stati minori. Il secondo vede la soluzione del problema nel processo inverso di destatalizzazione sino all'instaurazione di una forma di convivenza non mai vista prima d'ora, tenuta insieme non piu' dalla forza, se pure regolata e limitata, ma dalla concordia naturale conseguente all'abolizione dei conflitti di classe. Al termine del primo processo, che e' concepito come un processo evolutivo, insito nella stessa natura delle cose, ci sarebbe non la fine del regno della forza, ma l'espansione del regno della forza, se pure tenuta a freno dal controllo popolare, sino a comprendere non solo i rapporti interni degli Stati ma anche i loro rapporti esterni. Al termine del secondo processo, che e' concepito come un processo rivoluzionario, un vero e proprio salto qualitativo e insieme un totale cambiamento di rotta rispetto al corso storico dell'umanita', ci sarebbe la trasformazione del regno della forza nel regno della liberta'.
Si puo' far rientrare nel pacifismo istituzionale anche il movimento per la pace che, particolarmente vivo nel secolo scorso ma non del tutto spento ancor oggi, si ispiro' all'idea caratteristica del pensiero liberale, secondo cui il ricorso alla forza per risolvere i conflitti internazionali sarebbe automaticamente cessato quando l'"esprit de commerce", o dello scambio, per riprendere le parole stesse di Benjamin Constant, avrebbe a poco a poco preso il sopravvento sull'"esprit de conquete", o del dominio, quando, con altra immagine, cara ai teorici del libero-scambismo, nei rapporti internazionali il mercante avrebbe preso il posto del guerriero. Nella filosofia della storia di Spencer, che rappresento' l'espressione piu' conseguente della dottrina liberale, secondo cui lo Stato deve governare il meno possibile, all'espansione della societa' civile lasciata libera dalle pastoie governative deve corrispondere un graduale restringimento dei poteri e delle funzioni dello Stato. L'idea del pacifismo mercantile si rivela nella tesi che l'eta' delle societa' militari, che aveva contrassegnato la storia millenaria dell'uomo, sarebbe stata sostituita gradualmente dall'eta' delle societa' industriali, la cui caratteristica saliente sarebbe stata proprio quella di non aver bisogno di ricorrere alla violenza dello scontro bellico per risolvere i problemi essenziali dello sviluppo economico e civile. Anche questa sorta di pacifismo e' di tipo istituzionale, perche' anch'esso trova il rimedio allo scatenamento delle guerre in un mutamento dell'istituzione statale, consistente nella drastica riduzione dei suoi poteri tradizionali. Anche per esso il bersaglio principale e' lo Stato, l'istituzione che nel passato deve essere considerata come la causa principale di tutte le specie di guerre, comprese le guerre civili o infrastatali, se pur avendo riguardo non alla forma di governo, come il pacifismo democratico, non al sistema di dominio in quanto tale, come il pacifismo socialista, ma al rapporto fra la societa' da lasciare espandere e lo Stato da ridurre ai minimi termini, vale a dire alla maggiore o minore estensione dei poteri dello Stato.
Riassumendo, il pacifismo istituzionale ha preso queste tre forme: non ci sara' vera pace se non quando i popoli si saranno impadroniti del potere statale; non vi sara' vera pace se non quando l'organizzazione militare avra' perduto gran parte del proprio vigore a vantaggio dell'organizzazione industriale; non vi sara' vera pace se non quando la societa' senza classi avra' reso inutile il rapporto di dominio in cui e' sempre consistita l'organizzazione politica di una determinata comunita'. Tre pacifismi che si dispongono a tre diversi livelli di profondita': al livello dell'organizzazione politica, il primo, della societa' civile il secondo, del modo di produzione il terzo. Cio' che hanno in comune e' la considerazione della pace come il risultato di un processo storico predeterminato e progressivo, in cui e' iscritto come risultato necessario il passaggio da una fase storica, in cui le diverse tappe dell'avanzamento umano sono state l'effetto di guerre, a una fase nuova, in cui, se pure per ragioni diverse, regnera' la pace perpetua, perche' si verra' sviluppando una forma di convivenza cosi' diversa da quella che ha caratterizzato la storia umana sino a oggi da rendere sempre piu' improbabile la guerra come mezzo per risolvere i conflitti (concezione democratica della pace), oppure sempre piu' diffusi i conflitti che non hanno bisogno della guerra per essere risolti (concezione mercantile della pace), oppure ancora sempre piu' rari gli stessi conflitti per cui individui e gruppi in altre epoche storiche sono ricorsi alla guerra (concezione socialista della pace). A dispetto della realta' storica, di una societa' umana sempre bellicosa e conflittuale, queste tre filosofie della pace perseguono l'ideale di una societa' rispettivamente non bellicosa, oppure conflittuale ma non bellicosa, oppure addirittura non conflittuale.
Al di qua del pacifismo istituzionale nelle sue varie forme storiche, si colloca un pacifismo meno ambizioso, se pure anche meno efficace qualora riuscisse nel suo intento, che si puo' chiamare strumentale, in quanto si propone non tanto di cambiare o distruggere le istituzioni cui si attribuisce la causa prima della guerra, quanto di togliere dalle mani dei soggetti che hanno il potere di fatto, e il diritto, di provocare e condurre conflitti anche violenti, i mezzi di cui l'uomo, a differenza di tutti gli altri animali, si vale per esercitare la violenza: le armi. Al di la' del pacifismo istituzionale si colloca invece una forma di pacifismo molto piu' ambizioso, e anche piu' efficace se avesse qualche lontana possibilita' di realizzazione (ma di tutti i pacifismi e' il piu' utopistico), che si puo' chiamare etico, perche' cerca la soluzione al problema della guerra esclusivamente nella natura stessa dell'uomo, nei suoi istinti da reprimere, nelle sue passioni da indirizzare verso la benevolenza anziche' verso l'ostilita', nelle motivazioni profonde che possono spingerlo al bene o al male secondoche' siano orientate verso l'agire egoistico o altruistico.
La politica del disarmo rispetto alla guerra ha la stessa natura del proibizionismo rispetto alla lotta contro l'ubriachezza. Volete salvare l'uomo dall'alcolismo? Risparmiatevi le prediche moralistiche che non servono a niente; non affannatevi a cercare le ragioni sociali, economiche, politiche dell'alcolismo. Impeditegli di bere. Il proibizionismo, come la politica del disarmo, costituiscono nei loro diversi ambiti la soluzione del minimo sforzo. Volete impedire le guerre? Se pretendete di trasformare l'animo degli uomini, siete degli illusi; se mirate a trasformare antiche e ben radicate istituzioni che nel bene come nel male hanno fatto la storia, non arriverete a tempo. L'unica soluzione a portata di mano e': 'giù le armi' ("Die Waffen nieder!", come suonava il titolo di una rivista pacifista tedesca della fine del secolo scorso, diretta e animata da Bertha von Suttner). Chi ha un gatto che graffia, eviti di sprofondarsi in speculazioni sulla natura del gatto e sulle sue abitudini: gli tagli le unghie. In realta' poi anche la via del disarmo, come del resto quella del proibizionismo, ha fatto ben misera prova. I mezzi di distruzione a disposizione dell'uomo non solo non sono stati eliminati, non solo non sono stati diminuiti, ma sono sempre, in una progressione via via piu' rapida, aumentati. Le numerose conferenze sul disarmo dopo la prima guerra mondiale non hanno impedito l'accumulazione di armi sempre piu' potenti, che ha reso possibile e piu' disastrosa la seconda. Le prime due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, pur avendo sollevato terrori apocalittici insieme con la speranza di un novus ordo, non hanno modificato in nulla la strategia tradizionale delle grandi potenze che e' quella della sicurezza fondata sulla minaccia della forza, tanto piu' efficace quanto piu' credibile, tanto piu' credibile quanto piu' insolente. Si puo' discutere se l'uomo sia in costante progresso verso il meglio nei costumi, nella moralita', nella saggezza. Fuori discussione e' il progresso continuo, costante, irreversibile, dall'eta' della pietra a oggi, nella potenza dei mezzi per distruggere e uccidere.
Di tutte le forme di pacifismo il piu' radicale e' quello etico: piu' radicale nel senso che ritiene che per risolvere il problema della guerra occorra andare alle radici del fenomeno, all'uomo stesso, e pertanto il compito di fare la guerra alla guerra debba spettare piu' che ai giuristi, piu' che ai diplomatici e agli uomini politici, ai curatori di anime o di corpi, siano essi sacerdoti o filosofi, pedagoghi o psicologi, missionari o antropologi, moralisti o biologi, secondoche' la ragione ultima della guerra debba essere ricercata in un difetto morale dell'uomo, sia poi questa deficienza ricondotta a un evento della storia religiosa dell'umanita' (il peccato originale) oppure spiegata attraverso le categorie dell'etica naturalistica o razionalistica (il dominio delle passioni), o sia, all'opposto, ritrovata nella sua natura istintiva, nella irrefrenabile aggressivita', in parte naturale in parte culturale, che si scatena di fronte all'ostilita' della natura o dell'altro uomo.
Questa forma di pacifismo trova oggi una delle sue espressioni piu' diffuse in tutte quelle iniziative che si raccolgono intorno al tema dell''educazione alla pace'. Il fulcro di questo movimento sta nell'idea che ci saranno guerre sino a che vi sara' un uomo che considera un altro uomo come nemico. Il nemico e' colui che deve essere annientato. E' colui che non puo' esistere se devo continuare a esistere io. La regola fondamentale del rapporto nemico-nemico e' quella dei gladiatori nel circo: mors tua vita mea. E' tal rapporto che non puo' finire se non con la vittoria dell'uno sull'altro. Per quanto varie e multiformi siano le direzioni verso cui si muove l'educazione alla pace, essa ha, con maggiore o minore consapevolezza, questa motivazione di fondo: "Fa in modo di non considerare mai nessun altro uomo, per qualsiasi ragione, il tuo nemico". Di qua l'importanza che vi assume lo studio della storia, delle guerre, delle loro cause e dei loro effetti, della violenza intraspecifica ed extraspecifica, negli animali e negli uomini, lo studio della psicologia e della sociologia del conflitto, delle istituzioni giuridiche come insieme di regole per la limitazione dell'uso della forza, lo studio delle relazioni internazionali in cui sino a ora la guerra e' stata giudicata, in certe condizioni, legittima, lo studio della storia degli strumenti bellici e del loro progressivo accrescimento, seguito da una precisa informazione circa lo stato attuale degli armamenti e della loro capacita' di superuccidere (overkill), vale a dire di uccidere piu' volte l'avversario; lo studio di tutte quelle discipline insomma attraverso cui l'educando puo' farsi un'idea sempre piu' stringente e convincente di quella che alle soglie della prima guerra mondiale fu chiamata la "grande illusione" (sempre piu' grande se pure dura a morire), anche se non meno grande e' l'illusione che la soluzione del problema della guerra, pur di fronte alla minaccia della "mutua distruzione assicurata', possa dipendere dal mutamento degli indirizzi pedagogici, in generale da un allargamento di tutte quelle conoscenze storiche, scientifiche e tecniche che riguardano il fenomeno della guerra e della pace.
In fondo l'educazione alla pace, al di la' di una maggiore insistenza sulla possibile guerra futura come situazione-limite, ovvero come situazione oltre la quale ci potrebbe essere una catastrofe senza precedenti, quella che Jonathan Schell ha chiamato la "seconda morte" (la morte non di questo o quell'uomo, ma dell'intera umanita'), non ha un contenuto specifico diverso dall'educazione morale nel più ampio senso della parola, ovvero dall'educazione di ogni uomo al rispetto dell'altro uomo, che costituisce il motivo centrale dell'inseguamento morale, ispirato a una religione profetica come il cristianesimo o a filosofie laiche universalistiche, come quella kantiana, che ha tratto dal cristianesimo il principio dell'egual dignita' di tutti gli uomini come persone morali (a differenza di tutte le cose l'uomo ha un valore, non un prezzo) e lo ha trasformato nell'imperativo categorico: "Rispetta tutti gli uomini come fini e non come mezzi".
Le radici piu' profonde del pacifismo etico debbono essere cercate nell'ideale dell''uomo nuovo', un ideale che e' entrato imperiosamente nella storia dell'Occidente col cristianesimo, ha alimentato visioni millenaristiche e utopie politiche o politico-religiose, e ha ispirato tutti i grandi moti rivoluzionari protesi verso la creazione di un novus ordo, che ha per presupposto, appunto, il novello Adamo: compito immane, secondo Rousseau, del grande legislatore che, per prendere l'iniziativa di fondare una nazione, "deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana" (Contratto sociale, II, 7).
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6. L'equilibrio del terrore
Nonostante tutte le dottrine pacifistiche e tutti i movimenti per la pace degli ultimi due secoli, la pace attualmente riposa esclusivamente sull'equilibrio del terrore e sulla cosiddetta strategia della dissuasione. Ma quale pace? Una pace provvisoria; piu' che una pace una tregua d'armi in attesa di un evento straordinario, quanto e' stato straordinario lo scoppio della prima bomba atomica che ha fatto dire agli osservatori piu' consapevoli che era cominciata una nuova era della storia umana. Un evento straordinario, di cui non si vede all'orizzonte alcun segno di una prossima venuta, quale potrebbe essere un accordo per la distruzione degli arsenali atomici, come vorrebbe il pacifismo strumentale, oppure un superamento dell'attuale ancora persistente anarchia internazionale, come vorrebbe il pacifismo istituzionale, oppure la sostituzione universalizzata dello stato di amicizia a quello di inimicizia, come vorrebbe il pacifismo etico.
Rispetto all'antico equilibrio delle potenze, che ha dominato la scena internazionale per secoli, l'unica novita' dell'attuale strategia della dissuasione sta nella fiducia che la potenza delle nuove armi sia tale da costituire per la prima volta nella storia un deterrente capace non solo di ostacolare l'aggressione e quindi la guerra condotta con armi nucleari ma di renderla, piu' che improbabile, impossibile. Intorno a questa fiducia nel potere taumaturgico delle nuove armi e' sorta una lugubre apologetica dell'equilibrio fondato su qualche cosa di molto piu' forte del metus: il terror.
L'argomento principale di questa apologetica consiste nell'affermare che una conflagrazione fra potenze atomiche finirebbe senza vincitori ne' vinti, e pertanto renderebbe la guerra, il cui scopo e' la vittoria sul nemico, perfettamente inutile. L'unica prova storica di questa fiducia sta nella constatazione che di fatto, nonostante lo scoppio di numerose guerre anche cruente condotte con armi convenzionali, la guerra tra le due maggiori potenze atomiche non e' ancora venuta, e l'unica volta in cui si e' giunti vicini alla minaccia di rappresaglia atomica, nell'affare dei missili sovietici a Cuba nel 1962, la parte minacciata ha preferito ritirarsi.
Ma questo ragionamento e' debole almeno per due ragioni: anzitutto lo spazio di tempo trascorso e' troppo breve perche' se ne possa trarre una qualsiasi conseguenza rispetto al prossimo e tanto meno al lontano futuro; in secondo luogo, non c'e' ragione di pensare che, se la terza guerra mondiale non e' scoppiata, sia dipeso unicamente dall'equilibrio del terrore. Se e' difficile stabilire le cause di quel che e' accaduto, ancora piu' difficile e' stabilire le cause per cui quel che non e' accaduto non e' accaduto.
Inoltre la dottrina dell'equilibrio del terrore ha dato origine ad alcuni paradossi, di cui i due principali sono i seguenti. Ammesso che sia vero che il possesso delle armi nucleari rende impossibile la guerra, ne segue che tali armi sono armi il cui scopo non e' di essere usate da uno dei due contendenti contro l'altro, ma di impedire che entrambi le usino. In quanto tali sono armi la cui efficacia finale dipende non dal loro uso effettivo, ma semplicemente dalla minaccia del loro uso. Sono dunque strumenti diversi da tutti gli altri strumenti, in quanto vengono costruiti non per essere usati, ma anzi con la precisa intenzione di non usarli mai. L'altro paradosso consiste nel fatto che l'equilibrio del terrore non serve a eliminare la guerra, ma soltanto la guerra nucleare. All'ombra delle armi nucleari non vi sono mai state tante guerre convenzionali come in questi quarant'anni. Le armi nucleari si paralizzano a vicenda. La minaccia della guerra nucleare impedisce soltanto la guerra nucleare, vale a dire un tipo di guerra che prima non era possibile a causa della stessa inesistenza di quelle armi.
La difficolta' maggiore cui va incontro la dottrina dell'equilibrio del terrore e' che essa si fonda sull'efficacia del timore reciproco, ma il timore reciproco presuppone a sua volta l'eguaglianza delle forze. Ma questa eguaglianza e' possibile? Sarebbe possibile soltanto a condizione che vi fossero criteri univoci per calcolare la quantita' e la qualita' delle forze in campo, il che e' messo continuamente in dubbio dagli esperti. La conseguenza di questa difficolta' si rivela nel fatto che ognuna delle due superpotenze e' incline a sostenere che l'avversario abbia forze superiori, e trae da questa valutazione il pretesto per portare i propri armamenti a un livello piu' alto. Prova ne sia che il tanto proclamato equilibrio in tutti questi anni non e' mai stato raggiunto e gli ordigni della megamorte sono continuamente aumentati da entrambe le parti in modo tale che l'equilibrio si e' squilibrato e si e' sempre riequilibrato a un livello superiore. Non vi e' nessun segno incoraggiante che questo processo di equilibrio instabile, in cui l'eguaglianza delle forze quando e' riconosciuta da una parte non e' riconosciuta dall'altra, stia per arrestarsi.
Se si ammette, come credo si debba ammettere, che l'equilibrio del terrore a lungo andare sia assolutamente inadeguato allo scopo che i suoi fautori interessati gli attribuiscono, e quindi e' inefficace, si deve fare un passo oltre: mostrare che non solo non e' efficace ma e' controproducente. L'aumento vertiginoso della potenza delle armi puo', si', allontanare il pericolo della guerra, anche se non l'esclude, ma pone nello stesso tempo le condizioni di una guerra sempre piu' rovinosa. Il terrore rinvia la guerra ma questa, via via che viene rinviata, diventa, qualora dovesse scoppiare, sempre piu' distruttiva. Nello stesso momento che il terrore allontana il pericolo dello sterminio, lo prepara con cura meticolosa: pretende di essere il vero argine contro la catastrofe, ma se questa avverra', sara' la figlia del terrore.
La svolta dell'era atomica, la nuova era che ha fatto dire a qualcuno che sarebbe stato necessario iniziare un nuovo sistema di periodizzazione della storia, imponeva agli Stati di uscire fuori dalla logica della volonta' di potenza. Con la dottrina dell'equilibrio del terrore vi rimangono totalmente dentro. Che ognuno dei due contendenti giustifichi il continuo aumento della propria potenza sostenendo che deve difendersi dalla possibile aggressione dell'altro, fa parte di un gioco tanto vecchio da non sorprendere piu' nessuno. Un gioco oltretutto ambiguo, per non dire contraddittorio, perche' nel momento stesso in cui entrambi dicono la stessa cosa, cioe' che l'aggressore e' l'altro, nessuno dei due e' un vero aggressore visto da se stesso, ma tutti e due sono aggressori dal punto di vista dell'altro. Questa ambiguita' e' l'effetto della paura reciproca, e la paura reciproca e' a sua volta l'effetto del porsi l'uno di fronte all'altro come potenziali aggressori. Inoltre in uno stato di paura reciproca l'uno non si fida dell'altro e non fidandosi la sfiducia aumenta. L'unica cosa in cui i due avversari debbono essere credibili e' nella capacita' di rendere effettiva la minaccia, di non 'bluffare'. Ognuno dei due non deve fidarsi quando l'altro dice che non vuole attaccare, e quindi deve essere sempre pronto a difendersi; deve invece fidarsi quando l'altro dice che se attaccato sara' in grado di compiere una esemplare ritorsione, e quindi essere sempre pronto a rinunciare all'aggressione. Ognuno dei due deve credere non alle buone intenzioni dell'altro di non aggredire, ma alla sua capacita' di ritorsione. Deve insomma, nei riguardi dell'altro verso di lui, credere e non credere, e nello stesso tempo, nei riguardi del proprio comportamento verso l'altro, essere credibile e non credibile.
Che la dottrina dell'equilibrio del terrore sia la continuazione della tradizionale politica di potenza puo' essere confermato dalla constatazione che lo stile diplomatico con cui vengono condotte le trattative sul disarmo da entrambe le parti, nonostante che le armi oggetto dei negoziati siano non tanto le armi tradizionali quanto le armi nucleari, che mettono in questione il "destino dell'uomo" (Karl Jaspers) o, se si vuole, il "destino della terra" (Jonathan Schell), non e' cambiato ma continua ad avere come suoi ingredienti principali la menzogna calcolata, il ricatto reciproco, enunciazioni di principio in cui nessuno crede, promesse di cui nessuno si fida, proposte di una delle due parti che vengono immediatamente respinte dall'altra parte come divagazioni da non prendersi troppo sul serio. Non sembra che le cose siano molto cambiate da quando Rousseau, commentando il progetto di pace perpetua dell'abate di Saint-Pierre, scriveva: "Di tanto in tanto, presso di noi, si formano, sotto il nome di congressi, delle specie di diete generali a cui si conviene solennemente da tutte le parti d'Europa per tornarsene indietro nello stesso modo; in cui ci si riunisce per non dire nulla; in cui tutti gli affari pubblici si trattano in privato; in cui si delibera in comune se la tavola sara' rotonda o quadrata, se la sala avra' piu' o meno porte, se un certo plenipotenziario avra' la finestra di fronte o alle spalle, se un altro, in una visita, allunghera' o abbreviera' la strada di due pollici, e su mille questioni della medesima entita', inutilmente agitate da tre secoli e per certo molto degne di tenere occupati i politici del secolo nostro" (Estratto dal progetto di pace perpetua dell'abbe' de Saint-Pierre, in Scritti politici, Bari 1971, vol. II, p. 331).
Sono innumerevoli le forme e i tipi di pace di cui possiamo trarre notizia dalla storia e non meno innumerevoli i criteri in base ai quali ne e' stata tentata da vari autori la classificazione. Aron distingue tre tipi di pace che chiama di "potenza", di "impotenza", di "soddisfazione". A uno dei due estremi sta la pace di potenza di cui distingue tre sottospecie, che chiama pace di "equilibrio", di "egemonia", di "impero", secondoche' i gruppi politici siano in rapporto o di eguaglianza o di diseguaglianza fondata sulla preponderanza di uno su tutti gli altri (come avviene nel caso degli Stati Uniti nei riguardi degli altri Stati dell'America), o su un vero e proprio dominio (come, ad esempio, la pax romana). All'altro estremo sta la pace di soddisfazione, che ha luogo quando in un gruppo di Stati nessuno ha pretese territoriali o d'altro genere verso gli altri e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (l'esempio attuale piu' evidente e' quello della pace che dopo la seconda guerra mondiale esiste fra gli Stati dell'Europa occidentale). In mezzo c'e' la pace d'impotenza, un evento nuovo, secondo Aron, essendo fondata sullo stato che dopo l'avvento della guerra atomica si chiama 'equilibrio del terrore', definito come quello che "regna fra unita' politiche di cui ciascuna ha la capacita' di infliggere all'altra colpi mortali". Questa definizione e' identica a quella che Hobbes ha dato dello stato di natura, la' dove osserva, proprio all'inizio della descrizione di questo stato, che la sua estrema pericolosita' deriva proprio dal fatto che in esso tutti gl'individui sono eguali e sono eguali proprio perche' ognuno puo' recare all'altro il massimo dei mali, la morte. Lo stato di natura hobbesiano e' lo stato dell'equilibrio del terrore permanente, fondato com'e' esclusivamente sul "timore reciproco": uno stato che, come l'attuale equilibrio del terrore fra le potenze atomiche, quando non e' una guerra aperta, e' una tregua in attesa di una guerra improbabile ma sempre possibile. Paradossalmente, la pace d'impotenza e' l'effetto congiunto dell'antagonismo di due enti eguali e contrari, in cui l'impotenza di ognuno dei due deriva dalla potenza dell'antagonista.
(segue)

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Alessandro Passerin d'Entreves (a cura di), La liberta' politica, Comunita', Milano 1974, pp. 318.
- Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna 1958, 1997, pp. XII + 246.
- Giovanni Sartori (a cura di), Antologia di scienza politica, Il Mulino, Bologna 1970, 1971, 1975, pp. 494.
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Strumenti
- Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1960, 1971, 1977, 1998, Istituto geografico De Agostini, Novara 2006, 2013, Rcs, Milano 2018, 4 voll. per pp. XIV + 546 (vol. I) + IV + 556 (vol. II) + IV + 556 (vol. III) + IV + 540 (vol. IV).
- Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 1296.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3693 del 29 marzo 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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