[Nonviolenza] Telegrammi. 3616



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3616 del 12 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Contro tutte le guerre, contro tutte le uccisioni
2. Contro il razzismo, contro il fascismo
3. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte prima)
4. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte seconda)
5. Bruno Segre: Per non dimenticare la Shoah (parte terza)
6. Segnalazioni librarie
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. CONTRO TUTTE LA GUERRA, CONTRO TUTTE LE UCCISIONI

Quando l'Italia decidera' di inverare l'articolo 11 della Costituzione ove e' sancito a chiare lettere che "L'Italia ripudia la guerra"?
Ai sensi della Costituzione della repubblica italiana l'unica politica internazionale legittima del nostro paese dovrebbe essere di pace, di disarmo, di smilitarizzazione, di cooperazione con tutti i popoli, di solidarieta' con tutti gli esseri umani, di salvataggio di tutte le vite, di difesa dei diritti di ogni persona.
E' la politica della nonviolenza la sola politica coerente col dettato della Costituzione repubblicana.

2. REPETITA IUVANT. CONTRO IL RAZZISMO, CONTRO IL FASCISMO

I ministri razzisti che hanno commesso crimini contro l'umanita' devono essere processati e condannati come previsto dalle leggi vigenti.
Salvare le vite e' il primo dovere.

3. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE PRIMA)
[Riproponiamo ancora una volta il seguente testo, estratto da Bruno Segre, Shoah, Il Saggiatore, Milano 2003, la cui lettura vivamente raccomandiamo. Riportando passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo chi legge al testo integrale edito a stampa.
Bruno Segre, storico e saggista, e' nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si e' occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell'ambito del movimento Comunita' fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del "Centro di documentazione ebraica contemporanea" di Milano; per molti anni ha presieduto l'associazione italiana "Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam"; nel quadro di un'intensa attivita' pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; ha diretto la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica "Keshet". Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003; Israele: la paura e la speranza, Aliberti, Correggio 2014; Adriano Olivetti. Un umanesimo dei tempi moderni, Imprimatur, 2015; Che razza di ebreo sono io, Casagrande, Bellinzona 2016]

Il campo di Buchenwald. Un prologo
Il campo di Buchenwald occupa uno spazio seminascosto su una collina boscosa che si affaccia sopra il romantico panorama della citta' di Weimar. Dove lo sguardo di Goethe si poso' innumerevoli volte, i nazisti incarcerarono duecentocinquantamila persone, in grandissima maggioranza ebrei ma anche zingari e oppositori politici, come il leader comunista Ernst Thaelmann (1886-1944). Assieme a lui morirono di fame, di stenti, di malattia, o furono uccisi in vario modo sessantacinquemila prigionieri, compresi molti bambini, vittime di esperimenti medici compiuti senza anestesia.
A oltre mezzo secolo di distanza dalla  Shoah, i Lager non sono solo entita' statiche, museali, che vengono  conservate per tramandare il ricordo degli orrori nazisti e delle loro vittime. I Lager continuano a condurre una vita che si connette in termini dinamici alle svolte della storia, ispirando sentimenti variabili, cioe' influenzando e subendo i mutamenti ideologici, le vilta', gli sdegni, gli smemoramenti, i calcoli opportunistici,  i travagli delle societa' e delle generazioni che si succedono. L'universo dei Lager resta ad ogni modo una macchina infernale che puo' sfuggire di mano: mai come in questo caso la percezione-interpretazione del passato proietta la sua ombra sull'avvenire.
Nei decenni che precedettero la riunificazione della Germania, i campi della morte situati sul territorio tedesco vennero  presentati in modo diverso.
Nella Germania occidentale (dove c'e' per esempio Dachau, in Baviera), l'immagine dei Lager risenti' dell'agitato rapporto della Repubblica federale con la storia del nazismo. Spesso le autorita' locali resistettero alla richiesta di dare a quei luoghi di morte un adeguato significato, promovendo cosi' nella popolazione un diffuso processo di rimozione. Piu' in generale, le generazioni che alla guerra e alla Shoah avevano preso parte, o avevano assistito, conservarono per oltre vent'anni su questa pagina infame della storia tedesca un silenzio al limite dell'omerta'. Soltanto dopo il cambio di generazione, simbolizzato dal '68 e dall'avvento al potere (1969) di un antinazista come il socialdemocratico Willy Brandt (1913-1992), caddero molte reticenze ad affrontare il passato.
Nella Germania orientale, cioe' nella defunta Repubblica democratica a regime comunista, la storia venne trattata con disinvoltura persino maggiore. Lo sterminio di massa soleva essere presentato come un crimine del nazismo capitalista: cosi' la responsabilita' ereditaria della Shoah veniva scaricata sull'altra Germania, quella federale, in virtu' della sua "continuita' capitalista" con il Terzo Reich, e la Ddr traeva la sua illibatezza dalla sua identita' comunista.
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Con la caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo storico, sul piano politico e anche su quello storiografico si sono riaperti, com'era inevitabile, i conti con le principali vicende che hanno contrassegnato il secolo mortifero da poco terminato. Cosi', nel modo piu' doloroso, sono riemersi (favoriti anche dai frequentissimi "corti circuiti" tra vedute storiografiche e opinioni politiche) i dilemmi irrisolti, le ambiguita', le doppiezze del rapporto della Germania (e del resto d'Europa) con il periodo nazista.
In particolare alcune scuole di storici (in Germania ma anche in altri paesi, comprese la Francia e l'Italia), ponendo gli orrori perpetrati dai regimi nazifascisti a confronto con quelli dei regimi comunisti, si sono adoperate a sottolineare le analogie, che innegabilmente vi furono, tra le azioni delittuose ascrivibili ai due grandi totalitarismi del XX secolo. Ma per questa via hanno perseguito anche una progressiva "normalizzazione" del nazismo, relativizzando i crimini della Germania hitleriana sino al punto di rimettere in discussione la singolarita' perversa della  Shoah e giustificare, in termini neppure troppo velati, lo sterminio di sei milioni di esseri umani innocenti.
Nell'antiebraismo nazionalsocialista, sostiene per esempio lo storico Ernst Nolte (celebre per le sue tesi "revisioniste"), era presente un "nucleo razionale" che "consistette nella realta' fattuale del grande ruolo che un alto numero di singole personalita' di origine ebraica - spesso non in ultimo a causa delle tradizioni universalistiche e messianiche dell'ebraismo storico - giocavano nel movimento mondiale socialista e comunista".
Noncurante del fatto che il genocidio ebraico era inscritto in profondita' nell'ideologia e nei programmi politici di Adolf Hitler, Nolte ravvisa nello sterminio di sei milioni di ebrei niente piu' che l'imitazione e quasi la prosecuzione di altri eccidi di massa, e di classe, compiuti dopo la Rivoluzione d'ottobre dal potere bolscevico. "Se qualcuno" sentenzia lo studioso tedesco "si riproponeva veramente di contrapporre al bolscevismo un regime 'di eguale fermezza e coerenza', allora doveva esservi anche un'analogia con quell''annientamento di classe' cosi' palese a tutti e cosi' chiaramente richiesto dall'ideologia, e il cui oggetto principale poteva difficilmente essere un altro gruppo che non gli ebrei".
Come si vede, la storiografia della Shoah e' chiamata a misurarsi con un'insidiosa politica di "alterazione della memoria", attivamente presente su diversi fronti. E' una politica che, passando attraverso un surrettizio uso di criteri analogici e l'annullamento di varie contrapposizioni del passato, puo' arrivare a un inaccettabile azzeramento della storia; e' una politica i cui sostenitori piu' estremi (mi riferisco in particolare ai cosiddetti "negazionisti") non esitano a dichiarare che i crimini contro l'umanita' commessi dal regime nazista non hanno mai avuto luogo, e che a null'altro essi si riducono se non a un fantasioso parto della propaganda fatta circolare subito dopo la guerra dai vincitori del '45, con la complicita' dell'"internazionale giudaica".
Ma oggi, a oltre cinquant'anni dagli eventi che sono sfociati nella Shoah, la diffusa impazienza con la quale ci si sforza di mettere in circolazione una cultura con connotazioni, insieme, "postfasciste" e "postcomuniste" reca in se' qualcosa di piu' pericoloso delle stesse argomentazioni confezionate dagli storici "revisionisti". Il rischio maggiore e', a mio avviso, quello della banalizzazione storiografica, ossia della facilita' con cui vasti settori della coscienza europea (e cristiana), per costruirsi una sorta di "rete di protezione" dai fantasmi inquietanti di un passato che si vuole rimuovere, elaborano modelli di interpretazione storica nei quali gli esiti piu' tragici dell'antisemitismo vengono isolati dalla loro lunga preistoria, fatti oggetto di una generalizzata semplificazione e infine relegati entro i confini dell'"episodio" odioso, ma ormai concluso, del nazionalsocialismo. La Shoah, insomma, come mero incidente di percorso.
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La brutale e irreparabile scomparsa dall'Europa centro-orientale dei grandi focolari tradizionali dell'ebraismo aschenazita e la successiva fondazione in Palestina di un nuovo e vitale Stato ebraico hanno segnato nel destino degli ebrei una cesura senza precedenti. Le comunita' stanziate nel vecchio continente, che sino alla fine degli anni Trenta erano maggioritarie rispetto alla totalita' degli ebrei nel mondo, dopo la fine della seconda guerra mondiale costituiscono poco piu' che un'esigua rimanenza, con un peso e un rilievo ben scarsi a fronte dei due poli principali della vita ebraica che oggi si trovano in Israele e negli Stati Uniti.
Ma anche l'Europa, e in particolare la Germania come centro geopolitico e problema storico dell'Europa, sono uscite irrimediabilmente segnate dalle tragiche vicissitudini del XX secolo. Dopo avere scatenato due guerre mondiali la Germania, lanciata in una folle conquista del potere planetario, riusci' solo nell'impresa di distruggere l'Europa come potenza e cancellare se stessa (per quasi cinquant'anni) come Stato nazionale unitario. Cosi', mentre l'Europa cessava nel 1945, dopo molti secoli, d'essere l'ombelico del mondo, l'eredita' dello spirito europeo veniva raccolta al di la' dell'Atlantico, dove gli Stati Uniti assunsero la custodia dell'identita' occidentale.
Abraham B. Yehoshua, uno degli scrittori israeliani piu' noti, ha asserito che  "'normalita'' non e' una parola spregevole ma, al contrario, l'ingresso in un'epoca nuova e piena di possibilita', in cui il popolo ebraico potra' (...) associarsi alla formazione dell'umanita' come un membro di pari diritti nella comunita' internazionale. Si dimostrera' il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari (come lo e' ogni popolo) senza preoccuparci continuamente di perdere l'identita'".
Ansia di normalita' e bisogno di chiarire sempre meglio a se stessi la propria identita'. Su questo duplice terreno, ritengo che da parte degli ebrei (tanto nella diaspora quanto in Israele) vi sia modo oggi di incontrarsi e di avviare un dialogo proficuo con i cittadini della vecchia Europa: anch'essi alla ricerca di una nuova normalita' e alle prese con una diffusa crisi d'identita'. Comune agli uni e agli altri e' il bisogno di prendere le distanze da una storia densa di sciagure e di liberarsi delle scorie del passato: per puntare non gia' al riconoscimento o al recupero di improbabili innocenze, bensi' a forme responsabili e finalmente decenti di coesistenza, all'interno di un mondo sempre piu' simile a un multicentrico villaggio planetario. Delle scorie del passato, tuttavia, non ci si libera illudendosi di "superarle", giacche' il passato, proprio perche' e' passato, non e' purtroppo superabile. Il modo forse piu' giudizioso per fare davvero i conti con il passato e' quello di accostarsi a esso con studio e con pazienza, e tentare di capire.
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Sono convinto che la Shoah rappresenti un fenomeno troppo complesso perche' sia possibile racchiuderlo in un giudizio sintetico. Il genocidio ebraico non e' certo l'unico inferno cui il secolo scorso abbia dato luogo (anche se non mi sembra casuale il fatto che il termine "genocidio" sia stato coniato dal giurista americano Raphael Lemkin nel 1943). Pur  senza risalire nel tempo sino all'eccidio degli armeni (1894-1918), rammento che nei Lager nazisti furono sterminati anche gli zingari, i testimoni di Geova, i malati mentali, gli omosessuali. E poi ci furono gli inferni comunisti dei Gulag, ci furono i genocidi nell'Ucraina collettivizzata, ci furono le stragi perpetrate in Cambogia dai khmer rossi di Pol Pot. E poi, in tempi piu' vicini a noi, l'Europa e' stata il teatro delle ignobili "pulizie etniche" inscenate dai popoli balcanici, condannate retoricamente da tutti e ben presto dimenticate dai piu'. Ancora una volta, "pulizie etniche" quali semplici incidenti di percorso. Ancora una volta, come gia' negli anni della Shoah, eventi catastrofici lasciati accadere in un clima di diffusa apatia e insensibilita'.
Detto cio', a mio parere il genocidio ebraico, compiutosi nel cuore stesso di quella cultura europea che era stata la culla della modernita', e' e continuera' a essere la matrice fondamentale per la comprensione del nostro tempo storico. Evento rivelatore del contrasto tra il potere spaventoso degli uomini e la loro inettitudine a crescere e maturare sul terreno della civilta', si porra' per sempre quale paradigma e testimonianza della millenaria follia del mondo.
Come ha scritto Gershom G. Scholem (1897-1982), "per quanto sublime possa essere l'arte di dimenticare, noi non possiamo praticarla". Queste parole sono un monito a non lasciare che le memorie dello sterminio si inabissino nel rimosso della storia. Ne accolgo la necessita', insieme con l'auspicio e la convinzione che "solo conservando la memoria di un passato che peraltro non potra' mai essere compreso veramente fino in fondo, potremo coltivare la speranza (...) di una riconciliazione tra coloro che sono stati separati".

4. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE SECONDA)

La dialettica dei bicipiti: botte e lacrime a Vienna e a Berlino
Vienna, febbraio 1921. L'impero austro-ungarico ha cessato di esistere da meno di tre anni. In un teatro viene messo in scena Girotondo, e fulmineamente si scatena una gazzarra sessuofobica, subito strumentalizzata sul terreno politico.
Girotondo e' una piece che quel "sudicione ebreo" di Arthur Schnitzler (1862-1931) ha scritto circa venticinque anni prima, e che nel frattempo gli ha procurato una serie di processi in tribunale e noie senza fine con la censura. Gli scritti teatrali di Schnitzler   - probabilmente le espressioni drammaturgiche piu' significative nella Vienna a cavallo dei due secoli - brillano soprattutto per la penetrante capacita' di rappresentare la decadenza della borghesia viennese: donne e uomini tesi con disperata vuotaggine a soddisfare i propri desideri immediati, come nelle operette di Strauss e di Lehar; un mondo esteriormente scintillante, ma minato alla radice da un egoismo diffuso e da un'insuperabile difficolta' nel comunicare. In Girotondo Schnitzler illustra con ironia graffiante proprio tale tematica. Mette infatti in scena un intreccio fittissimo di rapporti sessuali interdipendenti fra dieci personaggi che incarnano l'intero spettro della societa' viennese della Belle Epoque (il conte, la prostituta, il soldato, la cameriera e cosi' via): personaggi che danno vita a un carosello erotico sfrenato, nel quale si rivelano capaci di un unico genere di comunicazione interpersonale, quella sessuale. Un sesso senza amore, ridotto a semplice rituale meccanico.
Questo approccio non vittoriano al tema dei costumi sessuali viene percepito come scandaloso negli ambienti clericali e nazional-conservatori austriaci, i cui organi di stampa si affrettano a incitare gli "apaches del cardinale" viennese Piffl a mettere fine a quell'oscenita'. "Il senso morale del nostro popolo cristiano, radicato nella propria terra, viene di continuo ferito nel piu' grave dei modi dalla rappresentazione di una sordida commedia uscita dalla penna di un autore ebreo", tuona monsignor Ignaz Seipel, leader dei cristiano-sociali (il maggiore partito borghese austriaco) e futuro cancelliere dell'Austria. Ancora piu' esplicitamente gli fa eco la "Reichspost", organo ufficioso del suo partito, con un bel sillogismo: Schnitzler e' ebreo, Dernau (il regista) e' ebreo, Neumann (il borgomastro socialdemocratico di Vienna) e' ebreo. "La socialdemocrazia si e' di nuovo presentata come usbergo del giudaismo. Anche il pubblico e' composto quasi esclusivamente di profittatori e pescecani ebrei. La socialdemocrazia, in ossequio alla sua missione, si e' di nuovo posta dietro quel giudaismo che vuole annientare sul piano morale ed economico il nostro popolo. Lo si dovra' tenere bene a mente!".
La sera del 10 febbraio, durante la rappresentazione scoppia il tumulto, con fischi e urla: "Porci, fuori marmaglia di profittatori, canaglie ebree!". Volano fialette puzzolenti e gusci d'uovo pieni di catrame; dalle porte spalancate per l'acre tanfo irrompono varie centinaia di energumeni inferociti che fracassano finestre e specchi, scaraventano dal loggione suppellettili e poltrone sul palcoscenico e sugli spettatori, gia' presi a bastonate, a ceffoni e insulti, trascinano le donne per i capelli, fanno assaggiare tirapugni e manganelli ai loro accompagnatori che tentano di difenderle. La polizia interviene molto tardi arrestando sette dimostranti e sospendendo le rappresentazioni "per ragioni di pubblica sicurezza". In Parlamento socialdemocratici e cristiano-sociali si affrontano con virulenza e senza costrutto. Ma la' dove fallisce la dialettica parlamentare prevale la dialettica dei bicipiti in un autentico "pogrom teatrale": una prima pallida prova generale delle imminenti (ma non ancora prevedibili) aggressioni dei nazisti.
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L'anno successivo, 1922, nelle librerie di Vienna e' in vendita un'opera narrativa, arguta e breve ma carica di premonizione. Si intitola La citta' senza ebrei. Un romanzo di dopodomani. L'autore e' Hugo Bettauer (1872-1925), uno scrittore di origine ebraica che negli ambienti intellettuali viennesi gode di larga notorieta' per le sue spregiudicate provocazioni. Redatto in uno stile disinvolto e brillante, questo piccolo capolavoro viene tradotto in piu' lingue e va incontro a un successo fulmineo: oltre 250 mila copie vendute nel giro d'un paio d'anni. La vicenda narrativa e' presto riassunta: il Parlamento austriaco approva all'unanimita' una legge che sancisce il bando degli ebrei dall'Austria. Vienna immiserisce subito; le banche, le industrie, i negozi, i leggendari teatri e i caffe' piu' celebri chiudono i battenti; le vivaci ragazze viennesi rimpiangono i loro corteggiatori ebrei, audaci e generosi; la moda propone squallidi Loden e scarponi chiodati; la letteratura, la musica e il teatro approdano allo strapaese montanaro. Insomma, l'esodo degli ebrei viene sperimentato come la rovina di Vienna. E cosi', questo scintillante divertissement letterario termina descrivendo il richiamo a furor di popolo degli espulsi, che rientrano in citta' in una cornice di gioiosa tolleranza.
La Storia, come sappiamo, sara' molto meno clemente. Ma al di la' d'ogni loro piu' o meno vago presagio, ne' Bettauer, ucciso nel 1925 da un militante nazista rimasto praticamente impunito, ne' Schnitzler, che morira' sei anni piu' tardi, sono in grado di immaginare il destino che il regime pantedesco instaurato da un loro giovane compatriota di provincia - Adolf Hitler -  riservera' agli ebrei d'Europa tra la fine degli anni Trenta e il 1945.
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E' vero che la neonata Repubblica Austriaca e' un Paese di deracines sull'orlo della carestia e dell'universale declassamento, scosso da aspre lotte sociali, in preda a un'inflazione disastrosa, mutilato nella sua geografia e nei corpi dei reduci; ed e' anche vero che in questo Paese basta la rappresentazione di un testo teatrale "pornografico", scritto un quarto di secolo prima da un autore "debosciato, asiatico, degenerato", per dare ai peggiori filistei l'occasione di indignarsi moralmente, offrendo loro pretesti per una strumentalizzazione politica e per la comoda individuazione di un capro espiatorio. Ma per il momento, l'immagine degli ebrei inginocchiati per terra a Vienna  - come saranno nel marzo 1938 - a cancellare con la spazzola gli slogan contro l'annessione al Terzo Reich, e' ancora lontanissima. Nei Paesi di lingua tedesca, l'itinerario che dalla meschinita' filistea conduce al nazismo e' per ora soltanto agli inizi.
Non sarebbe corretto giudicare la condizione degli ebrei austriaci e tedeschi, negli anni a cavallo della prima  guerra mondiale, solo sulla base dell'antisemitismo voelkisch (etnico) di cui grondano molti dei libri e opuscoli che le tipografie vanno allora sfornando; cosi' come sarebbe sbagliato affermare che la vita dell'ebreo medio sia condizionata in quei Paesi da sofferenze e discriminazioni continue. Di solito l'antisemitismo non si configura come una minaccia attiva, ma come un tormento superficiale, anche se tedioso e irritante. "Si consideri ad esempio il caso di Gustav Mahler [1860-1911]", ricorda in un'intervista Ernst H. Gombrich, "particolarmente il fatto che Mahler abbia dovuto battezzarsi per poter assumere la direzione dell'Opera di Vienna. (...) Pressioni perche' gli ebrei si convertissero erano pressoche' all'ordine del giorno in Austria. Mio padre mi racconto' un giorno che, a una persona desiderosa di ottenere una posizione piu' elevata nell'amministrazione statale, il responsabile del personale rispose -  e la risposta e' meno rozza e diretta di come potrebbe essere oggi: 'certo, lei ha ottime referenze e tutti i titoli per ambire al nuovo incarico, le manca pero' un documento'. Si riferiva al certificato di battesimo. Si poteva comunque scegliere se battezzarsi o meno: non tutti peraltro si battezzavano. Alcuni erano cosi' ricchi da potersi permettere di non battezzarsi".
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Tra austriaci (e tedeschi) da un lato, ed ebrei dall'altro, la cooperazione e la comprensione non sono l'eccezione bensi' la regola: non soltanto nel mondo degli affari, delle banche, dell'editoria e delle arti, ma anche, cosa piu' importante, nei rapporti interpersonali. Tedeschi ed ebrei si sposano tra loro e fanno figli assieme; le statistiche germaniche mostrano che, negli anni che precedono la prima guerra mondiale, un terzo dei matrimoni celebrati da ebrei sono in realta' matrimoni misti.  Tedeschi ed ebrei frequentano le stesse scuole, lavorano nelle stesse aziende, scrivono per gli stessi giornali, si arruolano volontari nello stesso esercito, subiscono mutilazioni e vengono uccisi fianco a fianco negli stessi fatti d'armi.
A Berlino - dove prima della Grande guerra gli ebrei sono in proporzione meno della meta' che a Vienna -  "lo splendore dell'impero del Kaiser, la sua ricchezza interiore ed esteriore, erano dovuti in larga misura alla parte ebraica della popolazione". Cosi' scrivera' nell'autobiografia Doppelleben ("Doppia vita", 1950) un nazista "pentito", il poeta tedesco Gottfried Benn (1886-1956). Quanto agli anni del dopoguerra, Benn rileva che "la valanga travolgente di stimoli, di improvvisazione artistica, scientifica e commerciale che tra il 1918 e il 1933 elevarono Berlino all'altezza di Parigi, provenivano in gran parte da questa minoranza, dai suoi legami internazionali, dalla sua sensibilita' irrequieta, e, soprattutto, dal suo infallibile istinto per la qualita'".
Quello che le notazioni di Benn registrano e' un rapidissimo ma problematico processo di sviluppo socio-culturale che, iniziato con l'emancipazione ottocentesca, ha condotto in pochi decenni gli ebrei tedeschi e austriaci - usciti finalmente dal lungo isolamento fisico e mentale dei ghetti - ad aprirsi un varco verso "orizzonti imprevedibili" (come scrivera' in Idee e opinioni, 1957, Albert Einstein).
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Si tratta di un processo che coincide temporalmente con l'apogeo che la cultura di lingua tedesca (soprattutto durante la Repubblica di Weimar) tocca in tutti i campi: dalla musica alla letteratura, dalle arti figurative alla ricerca scientifica e tecnologica. Si badi, pero', che entro questo contesto di primato culturale tedesco, l'apporto degli ebrei, pur essendo straordinariamente significativo, non e' di certo prevalente (basti qui ricordare due figure-guida di non ebrei: Thomas Mann e Max Planck). Cio' nondimeno, l'attiva presenza di ebrei a tutti i livelli della vita culturale e pubblica suscita le gelosie di molti "veri" tedeschi.  Se ne rende conto con lucidita', sin dal 1911, il critico Moritz Goldstein, che scrivendo sul settimanale "Kunstwart" ammonisce: "Quando i cristiani permisero ai paria della loro societa' di ritagliarsi la propria parte all'interno della cultura europea, non avevano previsto, ne' voluto, un fenomeno di questo genere. Allora cominciarono a ostacolarlo, ripresero a chiamarci stranieri e a considerare pericolosa la nostra presenza nel tempio della loro civilta'".  E stigmatizzando "quegli ebrei che sono completamente ignari, che continuano a prendere parte alle attivita' culturali come se niente fosse, che fingono e si convincono di non essere identificati", conclude: "Noi ebrei stiamo amministrando le proprieta' spirituali di una nazione che ci nega il diritto e le capacita' di farlo".
A cio' si aggiunga che nella mente del pubblico medioborghese - appartenga esso alla destra estrema o a quella moderata -, tutto quanto appare "audace", "moderno" o "scandaloso" nei campi delle arti figurative, della musica e della letteratura viene identificato con gli ebrei. Tant'e' che, quando subito dopo la morte di Frank Wedekind (1864-1918), che non era un ebreo, va in scena a Monaco (dicembre 1919) il suo Schloss Wetterstein, un dramma "sessualmente esplicito", la destra politica non esita a definirlo "spazzatura ebraica".
Anche se e' corretto ritenere che scrittori e artisti ebrei non esprimano un modernismo piu' estremo dei loro colleghi non ebrei, rimane tuttavia innegabile che il modernismo fiorisce in un contesto culturale nel quale gli ebrei esercitano una funzione di notevole rilievo. Per tutti coloro che, nella Germania degli anni Venti, vedono nel modernismo  culturale l'insolente rifiuto dei valori e delle norme di fondo della tradizione, gli ebrei sono i latori di una minaccia gravissima.
Ancor piu' minacciosa del modernismo culturale, pero', appare la cultura di sinistra in tutti i suoi aspetti. Come rileva Istvan Deak, autore di un'importante indagine circa gli intellettuali di sinistra nella Germania di Weimar, "se il contributo culturale degli ebrei fu fortemente sproporzionato rispetto alla loro forza numerica, la loro partecipazione alle attivita' intellettuali di sinistra lo fu ancora di piu'. A parte la letteratura comunista ortodossa, rappresentata in maggioranza da non ebrei, gli ebrei erano responsabili della gran parte della letteratura di sinistra prodotta in Germania. [Il periodico] "Die Weltbuehne" non era, sotto tale aspetto, un caso isolato; gli ebrei pubblicavano, controllavano e in gran parte scrivevano le altre riviste intellettuali di sinistra. Essi svolgevano inoltre un ruolo decisivo nei movimenti pacifista e femminista e nelle campagne di liberazione sessuale".
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Nell'immediato dopoguerra, tuttavia, la vera insuperabile difficolta' con cui gli ebrei tedeschi devono fare i conti e' la stessa Repubblica di Weimar.
E' vero che sotto quel regime - chiave di volta del sistema politico istituito in Europa (Versailles, giugno 1919) dai vincitori del primo conflitto mondiale - la Germania, superate le prove della tempesta inflazionistica e del crollo del marco (1922), realizza una spettacolare ripresa economica: meno di dieci anni dopo la fine della guerra, il Paese e' di nuovo la piu' forte potenza economica del continente, in testa sia all'Inghilterra che alla Francia. Ma politicamente e' un colosso con i piedi d'argilla, incapace di darsi un governo vigoroso e stabile. La sua struttura istituzionale, priva di radici storiche, manca del consenso delle masse. L'inflazione del 1922-23 aggrava la situazione sociale, portando alla rovina le classi medie. L'industria tedesca e' in grande espansione, i suoi prodotti ricompaiono sui mercati mondiali, i salari crescono, ma i ceti medi - gli agricoltori e i professionisti - non partecipano a questa prosperita' e imputano alla Repubblica il loro progressivo impoverimento. E soprattutto, nell'immaginario di molti tedeschi il regime di Weimar, nato dalla disfatta, rimane indissolubilmente vincolato alla disfatta, e in particolare agli ebrei, odiosi "autori di tale scelleratezza" (come asserisce Hitler in Mein Kampf, 1924). Weimar, dunque, come Judenrepublik.
E' innegabile che alcune grosse case editrici e influenti organi di stampa d'orientamento liberal (come il "Berliner Tageblatt", la "Vossische Zeitung" e la "Frankfurter Zeitung") sono diretti da ebrei. Cosi' come ebrei sono numerosi giornalisti, critici teatrali, musicali, artistici e letterari, nonche' i responsabili di importanti gallerie d'arte e di altri centri culturali. Ma sia chiaro: nella vita politica di Weimar, se si escludono i primissimi tempi, gli ebrei svolgono una parte piuttosto irrilevante.  I primi e ultimi politici ebrei di qualche peso della neonata Repubblica sono Walther Rathenau (1867-1922; ministro della Ricostruzione nel 1921 e degli Esteri nel 1922, anno in cui viene assassinato da estremisti di destra) e Rudolf Hilferding (1877-1941; ministro socialdemocratico delle Finanze nel 1923 e nel 1928-29, morto suicida in Francia durante la seconda guerra mondiale, allorche' la polizia del regime di Vichy lo consegnera' ai carnefici di Hitler).
E' vero che il Partito comunista tedesco viene costituito grazie al contributo decisivo di ebrei; ma con l'avvento a Mosca dello stalinismo essi sono presto rimossi dai vertici dell'organizzazione, proprio come nell'Urss. E nelle elezioni del 1932, quando il partito presenta cinquecento candidati riuscendo a farne eleggere un centinaio, neppure uno di questi e' ebreo.
Secondo un'indicazione di Klaus Voigt, durante la Repubblica di Weimar gli ebrei votano in prevalenza per i partiti liberali. Nella fase finale della  Repubblica, quando ormai la dimensioni di questi partiti sono ridotte ai minimi termini, gli ebrei vanno spostando i loro suffragi verso il partito socialdemocratico e a volte persino verso il partito cattolico di centro.
Simili orientamenti elettorali non sono legati tanto al fatto che gli ebrei si riconoscano nei programmi politici di questi due partiti, quanto al fatto che, negli auspici dell'elettorato ebraico, tali partiti dovrebbero essere in grado di difendere la Repubblica contro il nazionalsocialismo. Correnti nazionaliste e autoritarie non trovano molto seguito fra gli ebrei; le adesioni rimangono essenzialmente limitate alla Lega dei soldati ebrei combattenti al fronte (Reichsbund Juedischer Frontsoldaten) e all'Associazione degli ebrei  tedeschi nazionalisti (Verband Nationaldeutscher Juden), che sono l'espressione di orientamenti ultra-assimilatori e tentano persino, senzasuccesso, di allacciare contatti con i nazionalsocialisti.
Nel rapporto assai complesso tra il mondo germanico e i suoi ebrei, la svolta decisiva si registra alla fine degli anni Venti in occasione della grande depressione (1929-32), che colpisce la Germania piu' duramente di molti altri Paesi, forse piu' degli stessi Stati Uniti.  Protagonista di questa virata, foriera di un'atroce catastrofe, e' Adolf Hitler.

5. MEMORIA. BRUNO SEGRE: PER NON DIMENTICARE LA SHOAH (PARTE TERZA)

Berlino 1933: Hitler va al potere con un programma pantedesco e antisemita
"Provvidenziale e fortunata mi appare oggi la circostanza che il destino mi abbia assegnato come luogo di nascita [il 20 aprile 1889] precisamente Braunau sull'Inn", scrive Hitler in Mein Kampf ricordando la propria localita' natale. E prosegue: "Giace infatti questa cittadina sulla frontiera dei due Stati tedeschi la cui riunione sembra, se non altro a noi giovani, un compito fondamentale che va realizzato a tutti i costi (...). Questa minuscola citta' di frontiera mi sembra il simbolo di una grande missione".
Figlio di un piccolo funzionario delle dogane asburgiche, Hitler va a vivere giovanissimo a Vienna per tentare l'avventura sognata: diventare pittore. Cerca nel 1907 d'entrare all'Accademia di Belle arti, ma all'esame d'ammissione viene respinto per due volte. Disoccupato, trascorre le giornate nelle biblioteche pubbliche a leggere libri d'ogni genere, scelti a caso, quasi con furore, come e' tipico degli autodidatti. E' affascinato dal mondo della magia, dell'occulto, del paranormale, dell'iniziatico; e seppure confuso nelle motivazioni e proclive al fanatismo, manifesta precocemente un vivo interesse per la politica. Dotato di una memoria ferrea, ordinata, catalogatrice, divora la stampa socialdemocratica, gli opuscoli antisemiti e pubblicazioni di storia ed economia. A quest'epoca il suo ideale e' rappresentato dal pangermanesimo fumoso di Georg Ritter von Schoenerer (1842-1921), un ideologo austriaco che - ossessionato dal timore di un accerchiamento delle popolazioni tedesche da parte degli slavi, considerati culturalmente inferiori e barbari - fonda la sua dottrina sul nazionalismo, sull'antisemitismo, sull'antisocialismo, sull'Anschluss (unione dell'Austria alla Germania), sull'opposizione agli Asburgo e al Vaticano. Esposto a simili influenze e animato da sentimenti di avversione per il mondo, tipici di un individuo socialmente isolato, Hitler non tarda a precisare alcuni degli orientamenti che caratterizzeranno la sua visione politica negli anni della maturita': supremazia della razza tedesca, pangermanesimo, condanna senza appello della democrazia e, sopra ogni cosa, avversione per gli ebrei. In questi, Hitler ravvisa il principio stesso del male e della distruzione, l'"elemento spurio" che cerca di assicurarsi l'egemonia mondiale attraverso la corruzione sistematica, il delitto intenzionale contro la razza germanica e l'intossicazione metodica della vita pubblica. "Quella fu per me l'epoca di maggiore elevazione spirituale che abbia mai vissuto", annotera' alludendo agli anni della sua formazione giovanile. "Cessai di essere un incerto cosmopolita e divenni un antisemita".
Nel 1913 si trasferisce a Monaco di Baviera poiche' gli Asburgo, secondo lui, impediscono lo sviluppo dei "veri" tedeschi e favoriscono le altre nazionalita'. In Mein Kampf egli ricorda l'entusiasmo con cui accolse nell'agosto 1914 lo scoppio della Grande guerra, offrendosi volontario per combattere sotto le bandiere di re Luigi III di Baviera.
Profondissima sara' quattro anni piu' tardi, nel novembre 1918, la collera che lo animera' al momento della capitolazione.  La sconfitta gli appare come il prodotto di un tradimento delle retrovie. Si tratta di un'esperienza traumatica, che in tutto il corso della sua carriera continuera' a evocare con un'intensa carica emotiva. E' significativo che nel passo di Mein Kampf in cui riferisce la sua reazione agli eventi del novembre 1918, egli utilizzi la parola "odio". Fu allora che "crebbe in me l'odio per i responsabili dell'avvenimento!". Il passo e' seguito da questa conclusione: "Con l'ebreo non si puo' scendere a patti, ma solo decidere: o tutto o niente! Quanto a me, decisi di entrare in politica".
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Cosi', l'anno seguente aderisce alla Deutsche Arbeiterpartei (Partito dei lavoratori tedeschi), fondato nel gennaio 1919 dal giornalista sportivo Karl Harrer (1890-1926) e dal fabbro ferraio Anton Drexler (1884-1942): una delle tante formazioni partitiche che pullulano nella Baviera conservatrice, nazionalista e separatista del primo dopoguerra. Deciso a impadronirsi di questo partitello, il futuro Fuehrer non tarda a farne lo strumento per la conquista del potere: un fine che egli persegue con un accanimento non temperato da alcuno scrupolo, da alcun impegno sociale. All'inizio del 1920, le tessere distribuite dalla Deutsche Arbeiterpartei sono circa cento. Fra i nuovi iscritti figurano il generale Erich Ludendorff (1864-1937), gia' capo di Stato maggiore e "cervello" del feldmaresciallo Paul von Hindenburg (1847-1934) nella battaglia dei laghi Masuri (1914); Hermann Goering (1893-1946), l'ex asso dell'aviazione militare tedesca; i fratelli socialisti Otto e Gregor Strasser; l'architetto Alfred Rosenberg (1893-1946), un tedesco del Baltico; l'ex universitario Rudolf Hess (1894-1987); il fanatico antisemita Julius Streicher (1885-1946). Nel dicembre 1921, grazie a un prestito accordatogli dalla russa Gertrude von Seidlitz, Hitler puo' acquistare il bisettimanale Voelkischer Beobachter ("Osservatore popolare") e dargli la veste di un quotidiano antisemita. Poi cambia nome al partito e lo trasforma in "Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi" con la sigla Nsdap; raduna attorno a se' ex ufficiali, soldati disoccupati e piccoli borghesi inaspriti dagli stenti del dopoguerra per creare, con la connivenza di importanti settori della Reichswehr (l'esercito regolare), un reparto paramilitare, le SA, destinate a proteggere i suoi comizi e a sciogliere con la forza quelli dei suoi oppositori, e disegna personalmente l'emblema del partito ponendo una svastica - l'antica croce runica o ruota del Sole, un tempo usata in tutta l'Asia - in mezzo a un disco bianco su una bandiera a sfondo rosso.  Oratore prolisso e infaticabile, dalla voce dura e aspra ma capace di trascinare l'uditorio, Hitler si rivela abilissimo nel cogliere e far confluire a proprio vantaggio le piu' svariate fonti di potere e nel conseguire un risultato superiore alla somma delle parti. In tal modo gli riesce l'operazione d'unire un gruppuscolo di pseudo-socialisti a un manipolo di violenti ex militari, d'imporre al tutto una piattaforma antisemita e trasformarlo in un partito di massa, dotato di uno straordinario dinamismo politico.
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Nel quinto anniversario della proclamazione della Repubblica tedesca (novembre 1923), forte degli appoggi dei circoli conservatori preoccupati della spinta a sinistra delle masse lavoratrici, Hitler da' inizio in una birreria di Monaco a un colpo di Stato teso ad abbattere il governo di Weimar. Monaco e' la citta' che nel 1918-19 ha visto represso nel sangue un tentativo di instaurare un regime modellato su quello dei soviet in Russia, e nella quale un governo regionale socialdemocratico e' stato fatto cadere nel 1920, sostituito dalla compagine di destra capeggiata da Gustav von Kahr. In seguito a cio', la capitale bavarese diventa il polo d'attrazione di tutti coloro che, nella Germania umiliata dalla sconfitta, rifiutano la democrazia di Weimar cui attribuiscono la responsabilita' di tutti i cedimenti.
Molti di questi uomini, guardando nel 1923 alla vicina Italia - dove l'anno precedente ha trionfato il fascismo -, sognano di servirsi del governo bavarese di von Kahr per dare scacco matto al regime della giovane repubblica.
Il Putsch della birreria, l'ultimo di una serie di conati sovversivi dello stesso tipo, fallisce; ma proprio grazie al clamoroso processo e alla condanna di Hitler al carcere, che ne segue, il nome della Nsdap e quello del suo oscuro capo travalicano per la prima volta i confini della Baviera, e grazie ai fratelli Strasser e a un abile propagandista, l'ex studente di teologia Joseph Goebbels (1897-1945), conquistano un'immagine nella potente Prussia, cioe' in quello che nella Germania guglielmina aveva funzionato da Stato-guida.
L'indulgenza dei giudici consente a Hitler di scontare appena un quinto della pena comminatagli. Ottenuta la liberta' condizionata alla vigilia del Natale 1924, egli riceve nuovo danaro da coloro che, poi, lo finanzieranno sempre (i Krupp, i von Thyssen e gli altri esponenti di spicco del mondo degli affari e della grande industria tedesca).
Intimamente convinto di dover compiere "una missione", pronto a condurre tutta la Germania sulla via della dittatura, Hitler ricostituisce le strutture del partito creando speciali organizzazioni per i giovani, le donne, gli studenti, gli intellettuali. E poiche' le SA si dimostrano turbolente, attraversate da ideologie socialistoidi e fondamentalmente infide, da' vita  nel novembre 1925 a una milizia personale, le SS,  che indossano l'uniforme nera come i fascisti di Mussolini e che, comandate a partire dal 1929 dall'ex allevatore di polli Heinrich Himmler (1900-1945), costituiscono la sua guardia del corpo.
All'interno del partito, e piu' tardi del regime nazista, l'azione di Hitler si caratterizza per la sua costante volonta' di essere il Fuehrer, cioe' il capo unico, di esercitare un'autorita' piena e indivisa, di giocare sulle rivalita' fra i dirigenti, di imporsi quale arbitro di ogni situazione. La sua filosofia politica - che esalta l'individuo, il capo indicato dal destino - e' il riflesso di questa volonta' tesa all'affermazione di se'. In tale prospettiva, le idee e i programmi hanno un valore relativo: sono soltanto mezzi che si possono abbandonare secondo le circostanze. Hitler e', insieme, un dottrinario e un opportunista. La dottrina comporta alcuni elementi costanti: bisogna conquistare il potere, assicurare la vittoria della Germania, dimostrare la superiorita' della "razza ariana". Ma piu' che momenti di una teoria, questi elementi sono obiettivi politici e militari che lasciano la piu' ampia liberta' di manovra. "Ogni idea", scrive Hitler nel Mein Kampf, "anche la migliore, diventa un pericolo se diventa essa stessa un fine".
La Nsdap conta nel 1926 quarantanovemila iscritti, pero' nel 1928 le tessere distribuite sono gia' piu' del doppio (centodiecimila). Alle elezioni del maggio di quell'anno i nazisti raccolgono 810.000 suffragi e ottengono 12 seggi al Reichstag. Sono pochi, ma di li' a cinque anni Hitler sara' Cancelliere.
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Nella sua ascesa al potere, il fattore che lo aiuta in modo decisivo e' senza dubbio la crisi economica del 1929, una recessione rovinosa che nel giro di tre anni riduce a meta' la produzione industriale tedesca, costringendo alla chiusura migliaia di imprese e gettando sul lastrico milioni di lavoratori. In quel triennio - attraverso un processo che ancora oggi, a oltre settant'anni di distanza, riesce difficile spiegare - un popolo ricco di cultura e di tradizioni civili, e con una relativa esperienza di democrazia, accetta di sottomettersi a un regime totalitario e criminale. E' vero che, a partire dal "mercoledi' nero" di Wall Street, il grosso della borghesia capitalistica germanica si schiera senza remore con l'estrema destra favorendo l'ascesa di Hitler e mettendo in atto, entro una situazione che pare disperata, un rischiosissimo giuoco d'azzardo. Ma sul terreno dei numeri, e' incontestabile che Hitler e il suo partito trovino il loro sostegno piu' ampio in una sorta di "terra di nessuno" sociale, rappresentata in particolare dalla piccola borghesia impoverita, ma piu' in generale dalle masse dei malcontenti, degli affamati, dei disoccupati, nelle citta' e nelle campagne: masse cui gli altri partiti politici e le gerarchie delle Chiese cristiane non sembrano allora capaci di proporre ne' vie d'uscita percorribili ne' programmi di riscatto credibili.
A rendere piu' facile la vittoria di Hitler - dovuta comunque all'incosciente aberrazione dei responsabili delle forze armate e delle supreme istanze dello Stato, che al momento giusto gli apriranno le porte -, contribuiscono in modo notevolissimo le ambivalenze nella valutazione del movimento nazista da parte dell'episcopato cattolico e del clero luterano, ma soprattutto le gravi insufficienze degli altri partiti. Invece di unirsi per fare fronte al pericolo comune, essi coltivano con miopia le reciproche inimicizie: i tedesco-popolari contro i socialdemocratici, i socialdemocratici contro i comunisti, i comunisti contro i socialdemocratici, il Zentrum cattolico contro i marxisti in generale, che siano comunisti o socialdemocratici.
A partire dai primi mesi del 1929, quando la crisi economica investe la Germania, gli agricoltori, che costituiscono ancora quasi il 30 per cento della popolazione attiva, danno chiari segni di un profondo malcontento. Schiacciati dal peso di debiti che, in un periodo di prezzi bassi, appaiono insopportabili, essi rappresentano una base sociale gia' predisposta ad accogliere con favore la propaganda degli avversari politici della Repubblica di Weimar. Cio' spiega come mai il movimento di Hitler consegua i suoi primi importanti successi proprio nelle regioni prevalentemente rurali, attraverso la rapida sottomissione delle associazioni agrarie all'organizzazione nazionalsocialista.  Lo strumento di integrazione e' qui soprattutto l'"apparato di politica agraria" della Nsdap, sotto la direzione di Richard Walther Darre' (1895-1953), ideologo della razza e della classe contadina.  Questa deve divenire il "motore vitale" del dominio nazista e la "fonte biologica di rinnovamento del sangue del corpo sociale", e infine e' destinata a colonizzare lo "spazio orientale" da strapparsi agli slavi, come Darre' propone a Hitler gia' nel 1930.
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Alle elezioni parlamentari del 14 settembre 1930 il partito nazista realizza un risultato strabiliante, passando a 6.490.000 voti con 107 seggi al Reichstag e divenendo il secondo partito del Reich, superato soltanto dalla socialdemocrazia. Dopo questo successo Hitler, ottenuta con un giochetto formale la cittadinanza tedesca, si pone in gara (siamo nella primavera del 1932) come candidato alla presidenza della Repubblica tenuta da Hindenburg.  Alle folle che va arringando da un capo all'altro della Germania, e che lo acclamano, l'agitatore ex austriaco ripete instancabile i punti fondamentali del suo programma: un futuro potere gestito dai nazisti non paghera' le riparazioni di guerra, straccera' il trattato di Versailles, ripristinera' i vecchi confini del Secondo Reich, dara' lavoro agli operai, fissera' prezzi alti per i prodotti dei contadini ("una solida stirpe di contadini piccoli e medi ha costituito in tutti i tempi la migliore difesa contro i mali sociali di cui ora soffriamo", si legge nel Mein Kampf), creera' un esercito forte per soddisfare l'orgoglio dei militari, sconfiggera' i comunisti all'interno e si occupera' anche delle donne: "Nel nostro Reich", promette parlando al Lustgarten di Berlino, "ogni ragazza tedesca trovera' marito".
Pur non riuscendo a sconfiggere Hindenburg, Hitler vede aumentare di ben cinque milioni i consensi al proprio partito. Nelle elezioni politiche del luglio 1932 i nazisti ottengono addirittura 13.700.000 voti, pari al 37,2 per cento del suffragio espresso, e 230 dei 608 seggi del Reichstag: un risultato che fa della Nsdap il maggiore partito della Germania. Hermann Goering viene nominato presidente del Reichstag, ma il vecchio feldmaresciallo von Hindenburg rifiuta per ora fermamente di chiamare Hitler al cancellierato. La profonda confusione che pervade la scena politica tedesca esige una nuova prova elettorale. Si va a votare il 6 novembre, e la Nsdap registra un netto arretramento perdendo due milioni di elettori e attestandosi sulla percentuale del 33,1. Segue una situazione di stallo che Hindenburg risolve affidando a Hitler, il 30 gennaio 1933, la carica di Cancelliere, con il compito di formare un esecutivo di "coalizione nazionale". Nella compagine governativa Hitler e' fiancheggiato da una maggioranza di rappresentanti della destra conservatrice, che certo intendono tenergli la briglia ben stretta. Ma si illudono. Quantunque il vicecancelliere Franz von Papen - un "uomo di mondo" cattolico e nazionalista, senza esperienza politica ma ben introdotto negli ambienti industriali e bancari - rassicuri gli amici dicendo: "Abbiamo legato l'Adolf al nostro carro", comincia proprio allora la dittatura di Hitler: un potere che sa demagogicmente scaricare su comodi capri espiatori - gli stranieri e gli ebrei -  l'animosita' popolare per la recente depressione economica; un potere che, ricorrendo a qualsiasi mezzo pur di consolidarsi, non tardera' a rivelare la sua vocazione tirannica e sanguinaria, e riuscira', nell'arco di soli dodici anni, a devastare la Germania e a sconvolgere il mondo.
(segue)

6. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia, L'ancora del Mediterraneo, 2005, pp. 120.
- Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino 1954, 1963, 1975, pp. XXIV + 824.
- Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1952, 1955, pp. 408.
- Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralita' nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. XIV + 826.
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Riedizioni
- Gianni Oliva, La grande storia della Resistenza 1943-1948, Rcs, Milano 2020, pp. 480, euro 8,90 (in supplemento al "Corriere della sera").

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3616 del 12 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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