[Nonviolenza] Telegrammi. 3606



TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3606 del 2 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/

Sommario di questo numero:
1. Daniele Lugli ricorda Eugenio Azzaroli
2. Anna Bravo: La zona grigia (parte prima)
3. Mao Valpiana: Lettera alle amiche e agli amici del Movimento Nonviolento
4. Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. AMICIZIE. DANIELE LUGLI RICORDA EUGENIO AZZAROLI
[Dal sito di "Azione nonviolenta" col titolo "Un onomastico"]

30 dicembre S. Eugenio, onomastico di Neno. Eugenio Azzaroli e' morto 15 anni fa. Il ricordo mi torna con forza. Ritrovo l'appunto scritto subito dopo essere stato con lui fino all’'ultimo respiro.
"Chi sei? Sono la morte. Sei venuto a prendermi? E' gia' da molto che ti cammino a fianco. Me n'ero accorto. Sei pronto? E' il mio corpo che ha paura non io. Be', non c'e' da vergognarsene".
E' il dialogo iniziale del Settimo sigillo.
Quante volte ne abbiamo parlato. Ci piaceva Bergman. Io preferivo Il posto delle fragole, ovvero La fine del giorno, anch'esso una meditazione sulla morte, cioe' sulla vita, e, inoltre, sul mistero della vecchiaia. Io avevo vent'anni e Neno non ancora trenta. Potevo vederlo come Antonius Block, e non solo per la sua figura che richiamava quella del Cavaliere, ma per l'interrogarsi profondo e sofferto sul senso del vivere, sul bisogno stesso del senso, sulla partecipazione a vite e sensibilita' diverse dalla sua, sulla possibilita' di vedere attraverso una realta' opaca e ambigua, sul ruolo dell'arte, sul valore che sta nella relazione. Io stavo piuttosto dalla parte dello scudiero Jons, che non gioca, non sa giocare, a scacchi con la morte, di fronte alla quale, infine, accetta di tacere: "Faro' silenzio, ma di protesta".
Da 14 anni Neno sapeva di avere la morte a fianco. La conferma aveva chiesto a me di portarla e io l'avevo fatto. Poi, come Antonius Block, si e' impegnato in una partita, durata 14 anni, che ha avuto come scacchiera il suo corpo.
Prima dello scacco matto la morte chiede al Cavaliere: "Sei rimasto contento della proroga? Si', sono contento". Ho sentito Dina, nella disperazione della perdita, ringraziare per il dono di questi anni.
La cosa che di lui non poteva non colpire era l'intelligenza acutissima, accompagnata da una tensione etica che ne impediva ogni uso di sopraffazione.
Quando t'ho conosciuto? mi ha chiesto l'ultima volta che ci siamo rivisti a casa sua, il giorno prima del ricovero. E' stato nel '60 e, fino al '72, e' stato un tempo di grande condivisione nella passione e nella pratica politica, nel lavoro, nell'impegno sociale, oso dire educativo, nella ricerca di un'etica fuori da ogni certezza confessionale.
Il cinema appassionava entrambi. Mi ha insegnato ad apprezzare Antonioni, che gia' un po' mi piaceva. Nonostante Adorno, che gli devo, poco ha potuto fare per correggere la mia sordita' alla musica. Letture parallele abbiamo condotto, lui spesso era molte pagine piu' avanti: Musil, Mann, Hegel, Kant, Marx, Horkheimer, Lukacs, e negli ultimi anni Kung, Jonas, Rawls. Ne abbiamo discusso. Le abbiamo proposte ad altri. Abbiamo vagheggiato imprese culturali: riviste, saggi, fermandoci ai titoli, un'associazione culturale, chiamata La cicuta. Qualche piccola cosa insieme l'abbiamo fatta.
Avrebbe potuto dare molto di piu' alla vita pubblica, per la quale aveva una forte passione, ma intelligenza e tensione etica, prive di riguardi, non sono il viatico migliore. Avrebbe potuto essere un ottimo insegnante, e lo e' stato in vari campi per chi l'ha frequentato. L'ho fatto conoscere a tutti i miei amici, che hanno trovato preziosa la sua amicizia.
Quando la frequentazione, per molte ragioni, si e' diradata fin quasi a cessare, non si e' mai spezzato il filo che ci ha unito. In ogni momento di difficolta', e pena, ci siamo cercati e ci siamo sempre trovati.
Aveva nei miei confronti una cura e sollecitudine immeritate. Con lui predisponevo la bozza di quello che sarebbe diventato il primo Statuto della Provincia di Ferrara, dopo la riforma del '90. Insisteva per concludere il lavoro con un'urgenza che io non comprendevo. Ci vedevamo al sabato pomeriggio, alla domenica mattina, per lavorare in tranquillita' e non mi segnavo gli straordinari. Potrebbero accusarti di interessi d'ufficio in atti privati, mi diceva. Voleva finire il lavoro prima del responso degli esami che dovevano condurlo all'operazione. Lo imparai quando mi chiese di informarmi dell'esito.
Quando, dopo una lunga assenza, dagli ultimi anni '70 ai primi '90, mi feci tentare di nuovo dalla politica istituzionale formulo' un invito a votarmi che, per affetto e apprezzamento manifestati (condiviso da amici), e' valso la fatica di quella campagna. Parlai di quella scelta come di una ricaduta nel vizio, in un gioco che non si puo' vincere e neppure abbandonare. Mi disse allora: Non si puo' neppure perdere. E aveva ragione.
Non ha lasciato molti scritti. Brevi dialoghi e aforismi ci siamo scambiati negli anni '60. Mi invitava a scrivere e poi annotava: Manca la volonta' e il tempo per scrivere. Teneva qualche appunto privato, ma L'ozio e' il padre dei diari. Ricordo i suoi inviti alla coerenza: Non e' doveroso essere socialisti, salvo che nel Partito Socialista, all'impegno culturale: I concetti non li portano le cicogne, all'autoironia: Non ditemi che sono cieco, che' me ne accorgo con i miei occhi.
Il suo ritiro e silenzio degli ultimi anni lo ritrovo preannunciato in un dialogo di quaranta e piu' anni fa: "Il vero educatore, oggi, non educa; tace. Si rifugia forse nella vita privata? No. E dunque... Se il problema avesse una soluzione non tacerebbe. Ma vive. Onde, appunto, il problema".
Anche dell'ultimo colloquio, che ho avuto con lui il giorno prima della morte, leggo come un presagio in uno scritto di allora: "Il presentimento. Hai aperto gli occhi? Per vederti. Avro' tanto tempo per tenerli chiusi".
Ricordo l'incontro dell'otto dicembre. Sono ai piedi del suo letto in ospedale. Ha aperto gli occhi e con dolcezza dice "Non ti avevo visto. Sono appena arrivato. Cosa combini? Domattina ad Argenta a parlare di democrazia partecipata a dipendenti comunali, il pomeriggio a Fiesso, a un Consiglio comunale aperto ai ragazzi, a parlare di Diritti umani". Chiude gli occhi, sembra riassopirsi, ma li riapre "Che letture usi e proponi?". Rispondo e mi pare di cogliere un cenno di approvazione.
Alla fine del film il cavaliere Antonius Block torna dalla moglie: "Adesso e' finita e sono un po' stanco. Lo vedo che sei stanco. Sono venuto con degli amici. Falli entrare”, dice la moglie.

2. MAESTRE. ANNA BRAVO: LA ZONA GRIGIA (PARTE PRIMA)
[Dal libro di Anna Bravo, Raccontare per la storia / Narratives for History, Einaudi, Torino 2014, riproponiamo il capitolo secondo "La zona grigia" nel solo testo italiano (pp. 29-85).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, ha insegnato Storia sociale. Si e' occupata di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; ha fatto parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita', e' deceduta l'8 dicembre 2019 a Torino, la citta' dove era nata nel 1938. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]

"Zona grigia" e' una delle espressioni piu' fortunate di questi decenni, e una delle piu' distorte. Non casualmente. Che il male possa contagiare chi lo subisce e' una verita' semplice, addirittura ovvia. Ma non indolore. Amiamo profondamente l'idea che gli oppressi sappiano resistere, che siano solidali fra loro. Ci rassicura pensare che la contaminazione diminuisca quanto piu' e' dura la violenza inflitta, fino a sparire in situazioni estreme. Nel Lager non ci sono colpevoli, recita il titolo del fondamentale libro di Varlam Salamov (17).
Con benefico coraggio, Levi scrive invece che "E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a se', e cio' tanto piu' quanto piu' esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale" (18). E documenta questo contagio con un'analisi al cui centro sta, insieme alla responsabilita' verso i propri simili, il rapporto con il potere: non un potere genericamente inteso che a Levi, credo, non sarebbe interessato, ma con il dominio totalitario nella forma compiuta che si realizza in Lager (19).
Fra i tratti che lo caratterizzano, ne spiccano due: l'ambiguita' "che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio" (20); l'uso di una parte dei prigionieri nella manutenzione e amministrazione dei campi. Il che consente di ridurre al minimo il personale tedesco, e di istituire una gerarchia interna ai deportati, compromettendo chi svolge quelle funzioni e ne riceve in cambio vantaggi a volte minimi, a volte impensabilmente grandi. Simile in questo alle "istituzioni totali" studiate dal grande sociologo Erving Goffman (21), l'ordine concentrazionario si regge infatti su un sistema di punizioni e privilegi che presuppone l'assenso, la tolleranza o la protezione di una guardia, o di un altro prigioniero collocato piu' in alto nella gerarchia dei deportati, in qualche caso di un comandante - il termine, yiddish e polacco, per indicare il privilegio era protekcja. Un meccanismo simile vige nel Gulag ed e' stato descritto, fra gli altri, da Varlam Salamov e Aleksandr Solzenicyn (22).
Nella definizione di Levi, la zona grigia e' una realta' ambigua, "dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi", abitata dalla "classe ibrida dei prigionieri-funzionari" (23). Eppure ambiguita', ibridismo, confini incerti, non vogliono affatto dire vaghezza.
Levi precisa e distingue. Non applica pero' le categorie della ricerca sociale e psicologica - classe, ceto, cultura, pulsioni, legame con la politica e le credenze religiose - che pure considera significative e che altri autori hanno impiegato. Le fa piuttosto interagire con la distinzione primaria fra i privilegiati e i non privilegiati, che coglie partendo dall'interno, dall'analisi minuziosa della vita e morte in Lager. Da qui prende forma il concetto di zona grigia.
Il discrimine fondamentale e' il rapporto con il sistema concentrazionario: l'importanza della funzione svolta, il potere sugli altri prigionieri che ne deriva. Una cosa sono i funzionari di basso rango - scopini, lavamarmitte, guardie notturne, controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti: "una fauna pittoresca" fatta di "poveri diavoli [...] che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in piu' si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni 'terziarie'" (24). O addirittura, come gli stiratori di cuccette, inventavano una mansione facendo leva sulla passione maniacale per l'ordine diffusa fra le guardie. Si tratta di lavori "innocui, talvolta utili", che non causano danni ai compagni.
Altra cosa sono i detentori di posizioni di comando, una sorta di elite: i Kapos alla testa "delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali", fino agli addetti a varie attivita' "talvolta delicatissime, presso gli uffici del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), gli archivi, il Servizio del Lavoro, le celle di punizione" (25). I prigionieri "funzionari", che garantiscono la continuita' amministrativa, possono manipolare disposizioni e documenti, per esempio spostando un prigioniero da un Kommando di lavoro all'altro, o ottenendo dalle guardie un trattamento meno duro per qualcuno. I Kapos delle squadre di lavoro, che assicurano la produzione per il Terzo Reich e l'ordine nel campo, hanno tutti, anche quelli di basso grado, un potere "sostanzialmente illimitato" sulla vita degli altri prigionieri; possono "commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocita', a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno": fino a tutto il 1943, l'anno in cui il bisogno di mano d'opera si sarebbe fatto piu' acuto, "non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione" (26).
Altra cosa ancora gli uomini inquadrati nei Sonderkommando, cui era affidata la gestione materiale dei crematori (e dei prigionieri destinati alle camere a gas). Sempre cosi' parco di toni estremi, Levi definisce la creazione di queste Squadre "il delitto piu' demoniaco del nazionalsocialismo" (27), e ne fa un vettore dell'analisi.
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Zona grigia e memoria
In un sistema fondato sul meccanismo punizioni/privilegi resistere non e' da tutti, solo dei martiri e dei "filosofi stoici" (28) (pochi e presto scomparsi), perche' la speranza di un piccolo, spesso effimero vantaggio non puo' non dominare i comportamenti.
Con una chiarezza fino ad allora mai raggiunta negli studi sulla Shoah, Levi introduce una doppia connessione: fra privilegio e memoria, fra privilegio e sopravvivenza. Lo fa chiamando in causa se stesso e i suoi compagni, e in un orizzonte culturale piu' complesso e variegato rispetto ai primi anni del dopoguerra.
Da un lato, il lungo disimpegno diffuso fra gli storici, specie italiani, aveva fatto ricadere sulla memoria dei testimoni un ruolo di supplenza. Dall'altro, testimoniare non significava piu' riempire un vuoto, significava fare i conti con un pieno di immagini che venivano da libri, da film, da serie tv, da vecchi e nuovi "automatismi mentali" e da nuove o similnuove teorie filosofico-storiografiche.
Mentre - sulla scia del famoso sceneggiato televisivo Holocaust (1978) - si diffondono versioni semplificatrici o melodrammatiche, continuano a circolare le tesi negazioniste, secondo cui non esisterebbe prova alcuna dell'uso omicida delle camere a gas - il che equivale a irridere i morti che non possono testimoniare la propria morte (29). Nel frattempo si avviano nuove forme di revisionismo storico, che con argomentazioni meno drastiche (e piu' insinuanti) puntano a "relativizzare" lo sterminio fino a farne una variante - di spicco, ma una fra le altre - dell'imbarbarimento europeo nella prima meta' del Novecento (30). Si aggiunge, e non e' affatto innocuo, un nuovo corso soggettivista, che fa leva sul rapporto sempre problematico fra la realta' e le sue rappresentazioni per negare ogni autonomia al documento, ridotto a materiale inerte utilizzabile indifferentemente per l'una o l'altra costruzione storica. Con il risultato che vero e falso perdono il loro senso proprio, per trasformarsi in opzioni inconfrontabili, come se la realta' non esistesse. E che, di fronte a posizioni alla Faurisson (31), si esprime si' un rifiuto morale e intellettuale, ma si esita a definirle per quel che sono: semplicemente menzogne (32). Sconsolante esempio di come, in omaggio alla liberta' di espressione altrui, la si nega a se stessi rinunciando a chiamare le cose con il loro nome.
Verrebbe spontaneo reagire con una difesa di principio della memoria. Levi la vuole invece piu' solida e piu' forte - il che rende vitale dedicarle uno sguardo solidale ma critico.
Il suo primo interrogativo in quegli anni e' se la parola dei salvati sia in grado di rappresentare l'universo della prigionia (33). Per lui come per Elie Wiesel, il testimone "vero", "integrale", e' il sommerso, il musulmano, l'unico soggetto che ha conosciuto il campo dal punto piu' basso. "La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno e' mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perche' la loro morte era cominciata prima di quella corporale" (34). La testimonianza dei sommersi e' il non poter testimoniare, il salvato lo fa per loro, "per conto terzi".
Ma la gran parte dei sopravvissuti (grazie alla buona sorte, o a un minimo privilegio imparagonabile a quelli dei deportati/funzionari) e' composta da prigionieri anonimi, che guardano il campo da un angolo visuale ristretto, parziale, frammentario - vale in particolare per gli italiani, collocati agli ultimi posti nella gerarchia concentrazionaria. Non rischia, un osservatorio cosi' limitato, di risultare poco utile come strumento conoscitivo? Si', secondo Levi. Tanto sarebbe vero, che a farsi storici sono stati finora i privilegiati prigionieri/funzionari, e fra questi i politici, i soli che avessero la possibilita' di arrivare a una rappresentazione piu' ampia e piu' attendibile.
Non e' richiesto concordare. Il fascino del pensiero di Levi sta nel suo presentarsi come una segnaletica dei problemi, non come spartiacque fra giusto e sbagliato, o come formulario di quel che si deve sapere per non apparire "retrodatati" - timore che corre sottotraccia nella nostra ansiosa cultura periferica.
Alla fiducia di Levi nella lucidita' degli internati politici si puo' rispondere con il giudizio di Bruno Bettelheim, ex deportato, grande psicoanalista, scrittore: "l'elite dei prigionieri (fatta eccezione per alcuni criminali) era raramente immune da un senso di colpa per i vantaggi di cui godeva. Ma [...] il massimo al quale di solito essi arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. Ed essi si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioe' sottolineando la propria importanza per la societa' (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realta' circostante, la propria istruzione e la propria cultura". Eugen Kogon, che aveva il ruolo di segretario personale del medico capo di Buchenwald, racconta "con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentre nella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l'aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che [...] poteva leggere perche' non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall'esaurimento" (35).
Ai dubbi di Levi sulle testimonianze dei prigionieri anonimi si potrebbe rispondere cosi': se la frammentazione propria di qualsiasi esperienza e' spinta in Lager al suo estremo, e' attraverso questo estremo che bisogna passare per avvicinarsi alla comprensione. Se si capovolge il punto di osservazione, lo spiraglio attraverso cui i deportati hanno visto il campo aiuta a immaginare lo spaesamento, l'impoverimento mentale e sensoriale.
Aiuta anche quando l'attenzione si sposta alla ricerca dei dati "oggettivi". Levi riflette sulle derive e sui rischi della memoria, sul sovrapporsi di esperienze e racconti altrui, sull'impoverirsi del linguaggio esposto all'invadenza delle formule celebrative. Sullo scorrere del tempo che di per se' appannerebbe il ricordo. Sugli irrigidimenti favoriti dalla ripetizione: le testimonianze dei deportati non sfuggono al meccanismo principe del registro narrativo, secondo cui l'atto del raccontare modifica quel che si sta raccontando (36).
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Levi e i suoi compagni
Sebbene il tempo non sia necessariamente la variabile principale, lo scarto fra la testimonianza per cosi' dire coeva e quella resa a distanza di anni, a volte di decenni, puo' essere vistoso. Chi lavora con fonti orali sa che incertezze, errori, sovrapposizioni sono indizi preziosi per capire le culture, le ideologie, i sogni di chi racconta, la vita che poteva essere, la vita che ancora si spera per se' e per gli altri. Comunicare a chi racconta questo interesse verso i "vizi di forma" della memoria e' il modo piu' diretto per sdrammatizzare lo scoglio della cosiddetta verita' oggettiva.
Ma come applicare il medesimo criterio a una memoria che si forma contro il progetto nazista di cancellare ogni traccia, che fin dagli esordi si e' data l'obiettivo di contribuire alla storia - e che teme, a ragione, l'incredulita'? Per quale via fronteggiare quello scoglio, se la volonta' di chi parla o scrive e' precisamente documentare "come sono andate le cose"?
L'invito di Levi ad astenersi dall'uso di categorie nate nella e per la normalita' qui si prolunga in un ammonimento contro l'assolutismo metodologico. Compreso il suo lessico: da tempo nella storia orale si e' sostituito il concetto di "testimone" con quello di "narratore" - per segnalare che la memoria non e' la fotocopia del passato, e' una sua interpretazione. Ma che senso avrebbe applicare il nuovo termine se chi parla lo fa proprio in quanto testimone?
Agli ex deportati Levi vuol suggerire come usare al meglio quel che ciascuno ha visto o intravisto dal suo spiraglio. Li invita a distinguere fra quel che hanno vissuto e quel che hanno sentito dire all'epoca o in seguito, insiste sulla necessita' di sottoporre il ricordo al vaglio delicato (e all'apparenza impietoso) che la certificazione della verita', sia pure circoscritta, impone al testimone. Li sollecita, in breve, a prendersi cura della memoria, come lui stesso (37) ha scrupolosamente fatto. I sommersi e i salvati e', anche, lo sforzo di costruire un'etica e una grammatica della testimonianza.
Se denunciando la stilizzazione retorica dei discorsi celebrativi Levi da' voce all'insofferenza di molti compagni, altra cosa e' chiedere loro quell'impegno faticoso - e difficile. Ad alcuni suonera' come un attentato alla propria credibilita', il preludio di una gerarchia delle memorie che escluderebbe le piu' fragili. E' comprensibile. Levi garantisce solo per se' e per i propri standard critici - cosi' farebbe chiunque.
Il punto e' che Levi non e' chiunque, ne' lo e' la sua memoria, elaborata da subito con il sostegno di una cultura aperta al dubbio e fiduciosa nella razionalita', accolta da un ambiente solidale anche se circoscritto, poi riconosciuta a larghissimo raggio (38). Il rischio e' allora che il suo percorso finisca per apparire un modello obbligato, e irraggiungibile.
Per esporsi cosi' al giudizio dei compagni ci vuole uno straordinario attaccamento alla verita' e un rifiuto radicale del paternalismo. Che suggerirebbe una lettura compiacente, se non addirittura un'astensione programmatica dalla critica. Come prescrive, a partire dal dopoguerra, il modello progressista del rapporto fra intellettuali e operai, contadini, proletari - il mondo in cui molti ex deportati rientrano di diritto.
Ma Levi e' lontanissimo sia dalle mitizzazioni ingenue del popolo, sia dalla sua elezione strumentale a guida etico-politica. Sa che a una testimonianza resa sotto dolore e sotto sforzo non si addicono sconti storiografici e palpiti sentimentali, solo il rispetto. Per questo, credo, chiede alla memoria di uscire da se stessa, di misurarsi con i criteri di precisione, consapevolezza della parzialita', discernimento che dovrebbero essere propri della costruzione storica.
Resteranno testimonianze parziali, certo, come lo e' del resto la sua. Ma agli occhi di Levi, anche del Levi piu' sfiduciato de I sommersi e i salvati, un discorso parziale e' meglio che nessun discorso.
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Note
17. E' apparso presso Theoria, Roma-Napoli 1992. In seguito sara' pubblicato da altri editori con titoli diversi.
18. Primo Levi, I sommersi e i salvati [1986], in Opere cit., vol. II, p. 1020.
19. "Finche' tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui - il che finora e' avvenuto solo nei campi di concentramento - l'ideale del dominio totale non e' raggiunto", scrive Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo [The Origins of Totalitarianism, 1951], Edizioni di Comunita', Milano 1996, p. 626.
20. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1034.
21. Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza [Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, 1961], Einaudi, Torino 1968.
22. Cfr. fra gli altri testi, di Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa [Arkipelag GULAG, 1973], 2 voll., Mondadori, Milano 1974-'75, che a questa sua prima apparizione ebbe poche recensioni e poca eco, e di Varlam Salamov, I racconti di Kolyma [Kolymskie rasskazy, 1973], edizione integrale a cura di Irina P. Sirotinskaja, Einaudi, Torino 1999. Di Salamov era gia' uscito nel 1976, accolto anch'esso con scarso interesse, Kolyma: trenta racconti dai Lager staliniani (Savelli, Roma, a cura di Piero Sinatti), e nel 1992 Nel Lager non ci sono colpevoli: gli ultimi racconti della Kolyma (Theoria, Roma-Napoli, a cura di Laura Salmon); I racconti di Kolyma (Sellerio, Palermo 1992); I racconti della Kolyma (Adelphi, Milano 1995).
23. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1022.
24. Ibid., pp. 1023-24.
25. Ibid., p. 1024.
26. Ibid., p. 1025.
27. Ibid., p. 1031.
28. Ibid., p. 1028.
29. Lyotard aveva paragonato la Shoah a un terremoto cosi' forte da distruggere, insieme a persone e cose, gli stessi strumenti per misurare la sua intensita': cfr. Jean-Francois Lyotard, Il dissidio [Le Differend, 1983], Feltrinelli, Milano 1985, pp. 81-82.
30. Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah [Les Assassins de la memoire. "Un Eichmann de papier" et autres essais sur le revisionnisme, 1987], Viella, Roma 2008.
31. Robert Faurisson, gia' docente di letteratura all'Universita' di Lione, e' considerato un capostipite del negazionismo.
32. Carlo Ginzburg, "Unus testis". Lo sterminio degli ebrei e il principio di realta', in "Quaderni storici", n.s., XXVII (agosto 1992), n. 80, pp. 529-48, ora in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 205-224. Il saggio e' dedicato a Primo Levi. Vale la pena ricordare che il linguista americano di estrema sinistra Noam Chomsky difendera' Faurisson in nome della liberta' di espressione e firmera' la prefazione alla sua Memoire en defense. Contre ceux qui m'accusent de falsifier l'histoire. La question des chambres a gaz (La Vieille Taupe, Paris 1980).
33. Non posso non ricordare qui la critica ferma (ma affettuosa) di Bruno Vasari, amico di Levi e vicepresidente dell'Associazione nazionale ex deportati, che rivendica l'autorevolezza del testimone, riprendendola in vari testi, vedi per es.: Enrico Mattioda (a cura di), La prevalenza della ragione sul sentimento nella testimonianza di Primo Levi, in Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi, Atti del convegno internazionale, Torino 15-16 dicembre 1999, Angeli, Milano 2000, pp. 195-201.
34. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1056. Il brano fa parte del capitolo "La vergogna".
35. B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit. L'opera ha ora, anche in italiano, un titolo corrispondente a quello originale: Il cuore vigile (Adelphi, Milano 1988). Le due citazioni provengono dal capitolo 5, "Comportamento in situazioni estreme: le difese", pp. 213-14. Grazie al suo ruolo, Eugen Kogon potra' testimoniare a Norimberga contro i medici nazisti; ma nel suo saggio Der SS-Staat: das System der deutschen Konzentrationslager [1946], arriva a scrivere che "Complicazioni psicologiche significative si avevano soltanto negli individui di una certa levatura o in coloro che erano appartenuti a gruppi o classi superiori"; il brano e' riportato da Bettelheim a p. 214; il volume di Kogon non e' mai stato tradotto in italiano. Secondo Kogon (e' sempre Bettelheim a riferirlo), "Le classi colte [...] non erano, dopo tutto, preparate per la vita nei campi di concentramento". Dalle sue parole, scrive Bettelheim, "sembrerebbe di poter inferire che i prigionieri comuni, invece, erano adatti a vivere in un campo di concentramento, oppure che essi non soffrivano di alcuna complicazione psicologica" (ibid.).
36. Cfr. Lawrence L. Langer, Interpreting Survivor Testimony, in Berel Lang (a cura di), Writing and the Holocaust, Holmes & Meier, New York - London 1988, p. 26.
37. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., in particolare il capitolo "La memoria dell'offesa", pp. 1006-16. Levi crea, scrive David Bidussa, una lingua capace di esprimere "qualcosa che non e' solo vicenda, ma ventaglio di strumenti"; cfr. Marco Neirotti, "Ma adesso noi storici dobbiamo uscire dall'atteggiamento etico", intervista a David Bidussa, in "La Stampa", 26 gennaio 2010, p. 35. Di Bidussa vedi l'introduzione a I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2003. Sul ruolo crescente della testimonianza nella trasmissione dell'esperienza e sull'"americanizzazione" della Shoah, vedi Annette Wieviorka, L'Ere du temoin, Plon, Paris 1998; trad. it. L'era del testimone, Cortina, Milano 1999.
38. L'ambiente e' quello di Giustizia e Liberta'. Ma parlando di posizione pubblica, va detto che Levi non e' una voce dominante nell'establishment culturale, e non fa molto per diventarlo: non e', a differenza di molti altri intellettuali, un "compagno di strada" del partito comunista, tanto meno un iscritto; non e' un sodale dei maggiori autori di Einaudi: le sue prime amicizie in campo letterario sono Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern, che non sono a loro volta figure centrali nel dibattito culturale italiano. Cfr. Robert S.C. Gordon, The Holocaust in Italian Culture, 1944-2010, Stanford University Press, Stanford (Cal.) 2012, pp. 67-68; trad. it. Scolpitelo nei cuori. L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2010), Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 99-101.
(parte prima - segue)

3. REPETITA IUVANT. MAO VALPIANA: LETTERA ALLE AMICHE E AGLI AMICI DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal Movimento Nonviolento riceviamo e diffondiamo, invitando ad aderire alla proposta]

Natale 2019 – Capodanno 2020
Cara amica e caro amico,
inviamo questa mail a tutti coloro che nel corso dell'anno sono entrati in contatto con il Movimento Nonviolento. Vogliamo innanzitutto rinnovare la nostra amicizia e nell'occasione porgere gli auguri per le prossime festivita', il Natale e l'inizio d'anno nuovo.
Il Movimento Nonviolento vive solo grazie a chi decide di assumersi la responsabilita', iscrivendosi, di renderlo strumento utile alla crescita della nonviolenza organizzata.
Per questo ti proponiamo di fare una scelta, sottoscrivendo l'adesione al Movimento, con una quota che comprende anche l'abbonamento alla rivista Azione nonviolenta.
Sappiamo bene che sono crescenti le difficolta' economiche, ma non possiamo pensare che chiunque di noi non abbia la possibilita' di destinare al Movimento 0,15 centestimi al giorno (la quota annuale di 60 euro, divisa per 365 giorni), mentre sappiamo che ognuno di noi paga, per le spese militari, piu' di 1 euro al giorno (la cifra annuale di 25 miliardi, divisa per i cittadini italiani).
60 euro per la nonviolenza, contro 400 euro per le armi. Dobbiamo invertire la proporzione.
Le attivita' ordinarie del Movimento, pur considerando l'enorme impegno su base volontaria e gratuita, hanno dei costi fissi cui dobbiamo quotidianamente fare fronte: gestione della sede nazionale (tasse, bollette, telefono, ecc.), costo del lavoro di segreteria, mantenimento straordinario delle sedi di Ghilarza e Brescia, contributi al lavoro delle reti nazionali ed internazionali (Rete Pace, Rete Disarmo, Beoc, War Resisters International, ecc.), sostegno a campagne e iniziative, spese di viaggi per riunioni e lavori di segreteria, costi per la comunicazione, siti e social, e soprattutto le uscite per la redazione della rivista cartacea (spese tipografia, spedizioni, ecc.).
Contiamo quindi su uno sforzo straordinario di ciascuno, la collaborazione e il contributo di tutti, a partire dell'abbonamento/adesione per il 2020 a partire almeno da 60 euro, tramite il conto corrente postale 18745455 intestato al Movimento Nonviolento, oppure con bonifico bancario con Iban IT 35 U 07601 11700 000018745455 intestato al Movimento Nonviolento, che puo' essere utilizzato anche per liberi contributi (fiscalmente detraibili).
Ricordiamo anche l'importanza di destinare il 5x1000 al nostro Movimento, e di consigliarlo agli amici. Basta una firma e il nostro codice fiscale 93100500235.
Se desideri ricevere regolarmente le nostre comunicazioni, mandaci la tua mail per l'indirizzario informatico. Invia a: amministrazione at nonviolenti.org, con oggetto "per lista iscritti MN".
Grazie e auguri di pace per te e i tuoi cari.
Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento
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Per informazioni e contatti: Movimento Nonviolento, sezione italiana della W.R.I. (War Resisters International - Internazionale dei resistenti alla guerra)
Sede nazionale e redazione di "Azione nonviolenta": via Spagna 8, 37123 Verona (Italy)
Tel. e fax (+ 39) 0458009803 (r.a.)
E-mail: azionenonviolenta at sis.it
Siti: www.nonviolenti.org, www.azionenonviolenta.it

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Letture
- AA. VV., America contro tutti, volume monografico di "Limes. Rivista italiana di geopolitica", n. 12, dicembre 2019, Gedi, Roma 2019, pp. 304 (+ 17 pp. di tavole), euro 15.
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Riedizioni
- Dianella Gagliani, Brigate nere, Bollati Boringhieri 1999, 2017, Rcs, Milano 2019, pp. 320, euro 8,90 (in supplemento al "Corriere della sera").

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3606 del 2 gennaio 2020
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XXI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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Nuova informativa sulla privacy
Alla luce delle nuove normative europee in materia di trattamento di elaborazione dei  dati personali e' nostro desiderio informare tutti i lettori del notiziario "La nonviolenza e' in cammino" che e' possibile consultare la nuova informativa sulla privacy: https://www.peacelink.it/peacelink/informativa-privacy-nonviolenza
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