[Nonviolenza] Archivi. 347



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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Numero 347 del 4 novembre 2019

In questo numero:
1. Alcuni testi del mese di settembre 2019 (parte seconda)
2. Omero Dellistorti: La notte prima del giuramento
3. Omero Dellistorti: Dentista
4. Omero Dellistorti: Prima riunione del consiglio dei ministri
5. Omero Dellistorti: Perche' non scrivo operette morali come Leopardi
6. Programma minimo di qualsivoglia governo fedele all'umanita'
7. Omero Dellistorti: Il giorno del funerale di Cemmerevo'
8. Per la salvezza comune
9. Soccorrere i naufraghi, aprire i porti, tornare alla civilta'
10. Omero Dellistorti: Il giovane hegeliano

1. MATERIALI. ALCUNI TESTI DEL MESE DI SETTEMBRE 2019 (PARTE SECONDA)

Riproponiamo qui alcuni testi apparsi sul nostro foglio nel mese di settembre 2019.

2. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: LA NOTTE PRIMA DEL GIURAMENTO

Dicono bene loro, che ci hanno i soldi che ci fanno il bagno e le sciarpe di seta, coi parenti che hanno le terre e le carrozze, i cugini ministri e cardinali.
E gli amici all'estero, dappertutto, che basta che schiocchino le dita e la Sorbona e Oxford e Salamanca. Bella forza a fare gli eroi quando non si rischia niente e si viaggia in vagone letto.
Io, invece, tutto quello che ho ho dovuto conquistarmelo con le unghie e coi denti. E adesso ci dovrei rinunciare? E per finire dove? A dare lezioni private di pianoforte? O a fare il correttore di bozze fino a sguerciarmi in qualche sottoscala? O peggio, finire in gattabuia? Ma neanche per sogno, io non ci rinuncio al poco che ho, e poi sono giovane, ho un avvenire davanti. E dovrei buttare tutto nel cesso per fare un dispetto a quel babbeo con la feluca, a quella scimmia vestita da becchino? Ma manco morto.
E poi quanto durera' questa pagliacciata? Altri dieci, altri vent'anni? Io ci saro' ancora quando tutto sara' finito e allora non contera' piu' niente un si' o un no. Ma intanto lo stipendio, la cattedra, le pubblicazioni. Perche' io sono uno studioso, un intellettuale. Non mi va di finire a fare il pezzente, il muratore, il cameriere. Ci andasse qualcun altro, io lo so gia' che e' la miseria, ci sono nato. E ne sono uscito grazie al mio ingegno e a null'altro, e se adesso devo mettere una firma fosse pure per giurare che il duce ha tre teste, che me ne frega a me?

3. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: DENTISTA

Non lo faccio solo per i soldi, no. Anche se lo dicono tutti, lo so anch'io che dice la gente. E che tutti poi protestano che non fo le fatture, ma quando gli dico che gli faccio lo sconticino allora tutti grazie dottore, grazie dottore. Poi vanno a casa e fanno a chi bestemmia piu' forte, che ci vorrebbe la pena di morte per gli avvocati, i dottori, i notari, i professori, i calciatori e i commercianti, i giornalisti e i giornalai, e tutto quello che gli viene in mente. Imbecilli. Imbecilli e vigliacchi.
No che non lo faccio solo per i soldi, che non e' che mi dispiacciono. Io non sono un ipocrita, ho studiato e ho fatto i soldi, anche mettendolo in saccoccia allo stato ladrone, si', e allora? non  lo farebbero pure loro se potessero e non fossero i codardi che sono? Io posso permettermi di non essere un ipocrita, so parlare papale papale.
E no lo fo neppure per vedere negli occhi dei clienti la paura. D'accordo, certo che mi piace: che io sto sopra con il ferro in mano e loro sotto che aspettano che li trapano e negli occhi ci hanno il terrore. E' una piccola soddisfazione, non dico di no. Ma non e' neppure per questo che faccio il lavoro che faccio, no.
E' che mi piace infliggere il dolore.
A voi no? Andiamo.

4. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: PRIMA RIUNIONE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

"Allora, capiamoci subito, la priorita' e' fermare l'invasione: e' tutto chiaro?".
Silenzio.
"Ci sono obiezioni?".
Silenzio.
"Bene, andremo d'accordo".
Silenzio.
"Se non c'e' altro per oggi basta, al lavoro".
Il ministro plenipotenziario sciolse la riunione e distribui' le armi.

5. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: PERCHE' NON SCRIVO OPERETTE MORALI COME LEOPARDI

Primo: perche' le ha gia' scritte lui, e a scuola mi hanno insegnato che non si deve copiare. E poi il pubblico vuole cose nuove, cose forti, come nei film americani di sesso e violenza.
Secondo: e poi anche le frasi di quei tempi sono troppo lunghe e complicate e noi giovani ci piace un linguaggio piu' scattante, piu' moderno, svelto e tagliente. Forte la parola "tagliente", eh? Questo e' stile.
Terzo: perche' per saperlo come sono scritte bisogna averle lette, e io invece quando a scuola si faceva Leopardi ero sempre perso di acidi, ero un giovane alla moda. E lo sono tuttora, non faccio per vantarmi.
Quarto: dicono che era pure ateo e comunista, il mascalzone.
Quinto: adesso poi non ci avrei neppure il tempo, faccio l'assessore in un Comune dell'hinterland della capitale morale, e tutto il tempo lo dedico alla difesa della razza, e se le cose vanno come devono andare alle prossime elezioni io dico che divento almeno almeno sottosegretario, anche se non so ancora se candidarmi col partito di Senzacravatta o con quello di Collacravatta. Ma in parlamento ci finisco di sicuro, e per la campagna elettorale un libro bisogna pure che lo scrivo, magari una cosa tipo Manzoni, o un libro-intervista che cosi' lo faccio scrivere a mio cugino che dice che fa il giornalista e la zia dice che invece campa solo vendendo quelle bustine che ne ha la stanza piena e s'infuria se la zia prova a passare il piumino per spolverare, che finisce che gli prende l'asma. Si', mi pare meglio cosi', un bel libro-intervista, ho gia' il titolo: "La mia lotta per la difesa della razza e dei confini", e devo farmi fare una bella fotografia per la copertina, che telefono col tricolore sullo sfondo.

6. PROGRAMMA MINIMO DI QUALSIVOGLIA GOVERNO FEDELE ALL'UMANITA'

Salvare le vite e' il primo dovere.
Eguali diritti per tutti gli esseri umani.
Solidarieta' che ogni essere umano riconosca e raggiunga e sostenga e difenda.
*
Ne consegue:
- abolire le guerre e le armi;
- condivisione del bene e dei beni;
- rispetto e salvaguardia dell'intero mondo vivente.

7. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: IL GIORNO DEL FUNERALE DI CEMMEREVO'

"Je me revolte, donc nous sommes"
(Albert Camus)

Fu il giorno del funerale che sapemmo che di secondo e terzo nome faceva Adolfo Benito, noi lo conoscevamo solo come Eulalio Centofochi che pero' nessuno ce lo chiamava perche' Eulalio faceva proprio ridere e non si riusciva mai a dirlo tutto, e cosi' lo chamavamo Cemmerevo', che era quello che lui diceva sempre, come un pappagallo, e che pensavamo che significasse qualche cosa come va' a quel paese, o morammazzato.
Era uno bravo e bono, nei limiti in cui si poteva essere bravi e boni al paese, che con la disoccupazione e tutto pure i santi rubavano le galline, le cerase, l'olio, i motorini, quello che si trovava e che si poteva portare a Pitello che comprava tutto per due soldi e cinque minuti dopo gia' l'aveva rivenduto a cento volte tanto. "Sono le leggi del commercio", diceva, "e la ricchezza delle nazioni. L'avete letto voi Adamoeeva Smitte? Io si'. Fatevi una cultura, regazzi, che con i furtarelli non si va lontano". Sempre cosi' diceva. Pitello. Mori' ammazzato, e questo se lo aspettavano tutti. Ma quello che nessuno si aspettava (tranne quello che l'ha fatto, e' chiaro) e' che chi lo fece fuori poi lo fece a pezzi con l'accetta e lo diede da mangiare ai cani, che anche se erano i suoi di cani, ed erano due bei cani lupo, cosi' fatto a pezzi non lo riconobbero e se lo papparono tutto e cosi' spari' il corpo del reato. Cosi' racconta la gente, e io ci credo. Io ci credo sempre quando una storia e' truce. Sono sempre vere. Piu' sono truci e piu' sono vere. Il sangue condisce tutto.
Ma era di Cemmerevo' che volevo dire.
Dopo il funerale, con Cricco e Crocco, che sono fratelli e sembrano uguali ma uno e' piu' vecchio di un anno, piu' Patassone e Bervede', che invece sono solo cugini ma sono uniti da un patto di sangue che nessuno ha mai capito in che consiste ma loro lo dicono sempre, andammo al bar del moschettiere a commemorare il defunto, visto che eravamo i suoi soli amici, e che il prete prima aveva detto solo un sacco di frescacce, che invece Cemmerevo' era comunista e a fargli i funerali in chiesa era stata proprio un'azionaccia, un affronto che se fosse stato vivo vedevi. Doveva averlo deciso il cognato, che era uno venuto da fuori e lo chiamavano tutti il Sorco e il nome vero nessuno lo sapeva, di farlo portare gia' stecchito nella cassa proprio in chiesa che non ci aveva mai messo piede; il cognataccio che prima aveva fatto morire di crepacuore la moglie, la Mariannonaccia, che era la sorella piu' piccola di Cemmerevo', e poi pure Cemmerevo', che l'aveva detto a tutti che a quell'infame ammazzamogli e ammazzasorelle in una botta sola prima o poi lo faceva secco e gli mangiava il cuore in mezzo alla piazza, che era capace di farlo. Cosi' tutti pensavamo che il cognato lo avesse anticipato e che adesso bisognava pareggiare i conti.
Al bar lo pensavano tutti che ci stavamo mettendo d'accordo per questo.
Invece noi ci chiedevamo solo perche' diceva sempre cemmerevo', e che cavolo significava, se significava qualche cosa, che magari era solo un verso come quello degli animali che uno lo fa solo per mettere in imbarazzo la gente, o per metterle paura, come quando strabuzzi gli occhi e digrigni i denti o strilli come fanno i lupi mannari. Chi lo sa, la gente e' strana.
Pero' visto che oramai eravamo li' al bar e che tutti si aspettavano che ci stavamo mettendo d'accordo per fare la festa al Sorco, non e' che si potevano deludere le aspettative.
"Stanotte?". "Stanotte".
*
Era verso mezzanotte, eravamo ancora al bar belli brilli un bicchierino dopo l'altro che ormai intralaccavamo tutti e se uno inciampicava si finiva tutti per terra come nelle comiche o al circo. Pero' quello che dovevamo fare lo sapevamo e lo sapevamo fare. Cosi' uscimmo dal bar e andammo verso casa del Sorco. Da dietro le finestre tutto il paese ci guardava che il paese e' piccolo, c'e' una strada sola con due sfilze di casacce di qua e di la', e e' lungo si' e no mezzo chilometro e poi non c'e' piu' niente. E tra il bar che e' proprio a fianco della chiesa e la casa del Sorco che e' a mezza strada, due minuti e ci arrivavi, anche camminando a zigo zago.
Noi pensavamo che s'era fatto furbo e se l'era squagliata il Sorco, ci aveva avuto tutto il pomeriggio e tutta la sera per pensarci, e nel paese le voci corrono. Invece stava seduto sullo scalino di casa. Neppure la doppietta aveva preso. Stava li' che aspettava, chissa' da quanto aspettava.
L'aria era fredda e lui ci aveva ancora il vestito buono del funerale che pero' al funerale non c'era venuto. Si era tirato su il colletto della giacca. Restava li' seduto sullo scalino e ci guardava che ci avvicinavamo con quei passi strascicati e quell'ondeggiare come se ballassimo.
Sarebbe stato giusto che qualcuno dicesse qualche cosa, che ne so, che uno di noi dicesse e' per Cemmerevo', che lui dicesse guardate che non sono stato io, che un altro di noi dicesse non fa niente e' per la Mariannacciona e che lui dicesse qualche altra cosa, invece nessuno disse niente, quando eravamo a distanza di coltello lui si alzo' in piedi, mise le mani in saccoccia e abbasso' la testa e fu tutto. Il sangue schizzava da tutte le ferite perche' era una cosa che non la doveva fare uno solo, la dovevamo fare tutti, e il Sorco se le prese tutte le coltellate perche' il primo colpo lo spinse addosso al portone che era chiuso cosi' invece di finire lungo per terra restava dritto in piedi e allora daje ch'e' rosso.
Poi siamo tornati al bar, adesso eravamo tutti svegli, e le persiane del paese s'aprivano, sembravano occhi nel buio della notte, e al bar il sor Lionello ch'e' il padrone disse 'sto giro l'offre la casa e furono cinque di giri invece di uno, e pure chi giocava a carte smise di giocare per brindare alla salute nostra.
Neppure andammo a casa a darci una pulita, restammo li' al bar che tanto e' sempre aperto, e dopo qualche ora qualcuno doveva aver telefonato ai carabinieri perche' i carabinieri arrivarono con due camionette e un cellulare e ci caricarono sopra e cosi' fini', prima dell'alba del giorno dopo, il giorno del funerale di Cemmerevo'.
Che cavolo mai avra' voluto dire quella parola.

8. PER LA SALVEZZA COMUNE

La crisi ambientale globale disvela a tutte le persone ragionevoli che ormai l'umanita' e' unificata dalla consapevolezza della necessita' di un'azione comune per la salvezza comune.
Il tempo e' poco e nessuno si salvera' da solo, ne' la popolazione di un municipio, ne' quella di uno stato, ne' quella di un continente. L'umanita' ormai sa di essere una. Lo sapevano gia' gli umanisti del Rinascimento, e lo sapevano gia' i fondatori delle religioni universalistiche, e lo sapevano gia' i primi filosofi, che gia' pensavano dal punto di vista dell'umanita'.
Ora occorre passare dal pensare dal punto di vista dell'umanita' all'agire dal punto di vista dell'umanita'. Ed agire dal punto di vista dell'umanita' significa agire per la salvezza dell'umanita' tutta e dell'intero mondo vivente che dell'umanita' e' l'unica casa comune.
Si chiama nonviolenza la politica necessaria, la politica dell'umanita' giunta alla presente distretta.
Questa politica si fonda su alcuni principi semplici e chiari.
Cessare di uccidere, salvare tutte le vite.
Soccorrere, accogliere, assistere ogni persona bisognosa di aiuto.
Prendere solo quelle decisioni che sono giovevoli a tutti gli esseri umani viventi e venturi.
Fermare i processi distruttivi in corso e riparare i guasti compiuti.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

9. SOCCORRERE I NAUFRAGHI, APRIRE I PORTI, TORNARE ALLA CIVILTA'

Soccorrere i naufraghi, aprire i porti, tornare alla civilta'.
Liberare e portare in salvo in Italia tutte le persone imprigionate nei lager libici.
Far cessare il traffico schiavista riconoscendo a tutti gli esseri umani il diritto di giungere in Italia e in Europa con mezzi di trasporto legali e sicuri.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Salvare le vite e' il primo dovere.

10. RACCONTI CRUDELI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLISTORTI: IL GIOVANE HEGELIANO

Manca in epigrafe una citazione
di un qualche giallista che spiega
che il trucco del racconto giallo
e' non mentire mai al lettore
e ingannarlo cosi'

E manca anche la prima quartina
dell'Autopsicografia
di Fernando Pessoa

I. La ricerca
Era studente, scriveva poesie, giocava (male) a biliardo e diceva di bere assenzio che tanto nessuno sapeva che roba fosse e dove lo vendessero.
E aveva i capelli lunghi e fumava la pipa, piu' precisamente la masticava, il tabacco costa, ed essere un giovane hegeliano disoccupato costringe a fare qualche risparmio.
Viveva nella grande citta' dove in teoria frequentava l'universita' in pratica frequentandone soprattutto androni e corridoi e servizi igienici, e dormendo alle lezioni in aula magna nella parte piu' alta dell'emiciclo che i professori sono tutti miopi.
La sera e di notte faceva il giro dei bar, entrando dove trovava qualche amico, e se non trovava nessuno prendeva un caffe' e se ne stava seduto li' al calduccio un paio d'ore fingendo d'interessarsi alle partite a carte o a scacchi. Fuori faceva troppo freddo, per non dire che quasi sempre pioveva.
Si finanziava scassinando i telefoni pubblici nelle cabine fuori mano (che in citta' sono pochissime), all'uopo avvalendsi di oggetti contundenti trovati nelle vicinanze: una pietra, una stanga di ferro; e si rammaricava di danneggiare il pubblico bene ma ad impossibilia nemo tenetur, e la fame e' fame.
Detestava la proprieta' privata sia sul piano teorico che su quello empirico (altri non ve ne sono; perche', come si usa dire, tertium non datur), unico bene cui tenesse uno sdrucito quadernetto di sua personale proprieta' in cui scriveva - anzi: vergava - le sue liriche. Cosi' quando si accorse che lo aveva perso o glielo avevano rubato (o ambedue gli eventi simultaneamente o in successione) ne provo' un vivo dispiacere e medito' se non fosse il caso di togliersi la vita. Ma poi ritenne che per un gesto cosi' estremo fosse ragione insufficiente, e decise di considerare l'infortunio come se avesse voluto - nel suo fermentante inconscio, certo - distruggere il primo suo libro, come talvolta si dice che i poeti amino dire di aver fatto: era un poeta anche lui. E un giovane filosofo, per giunta: hegeliano, come tutti i giovani.
Adesso vi racconto come lo conobbi.
*
Trovai il suo quadernetto su una bancarella di libri usati: siccome aveva la copertina rigida, come libro mi fu venduto, a due euro che pagai con quattro pezzi da cinquanta centesimi, che in quel momento mi venne in mente che un po' assomigliavano alle venti lire di una volta, che uscite dalla zecca erano belle dorate e poi subito si brunivano di mano in mano passando e sporcandosi come accade a tutto cio' che va per il mondo. Certe volte mi vengono cosi' all'improvviso di questi pensieri, chissa' che significa oltre al fatto che invecchio e mi rimbambisco.
In bella grafia sul primo foglio c'erano nell'ordine il suo nome (prima riga), cognome (seconda riga), qualifica di studente presso la tale facolta' dell'alma mater cittadina (righe successive, con scrittura piu' minuta), e sotto, a meta' pagina all'incirca, il titolo "Liriche" (di fianco, cancellato: "Nuove").
Poi lessi la prima, e restai come folgorato. La riconoscevo: l'avevo scritta io forse cinquant'anni prima. Ed ovviamente non l'avevo mai pubblicata, non ho mai pubblicato un beneamato niente. E l'avevo pure persa come tutte le cose che ho scritto in vita mia. Ma me la ricordavo ancora.
Cosa era accaduto? Dovevo trovare quel tizio, dannazione.
*
La ricerca non fu facile.
Su internet, niente.
Andai all'universita' e l'impiegato allo sportello mi disse che c'era la privacy.
Cercai di corrompere un bidello, che prese i soldi ma non promise niente. E infatti non mi disse niente, se non - qualche giorno dopo e ormai alle minacce - che gli dispiaceva e che i soldi che gli avevo dato lui li aveva dati a uno della segreteria che poi era morto folgorato da un infarto proprio quella notte, e quando gli chiesi il nome che volevo andare a scannargli moglie e figli (ma non dicevo per davvero) disse che non poteva dirmelo perche' c'era la privacy. E comunque i giorni dopo sui giornali nessun necrologio faceva riferimento a un profilo professionale compatibile. Si sa come vanno 'ste cose.
Cosi' fu giocoforza chiedere agli studenti, ma di quali corsi?
Procedetti come si fa in questi casi, a casaccio.
Alla fine in quella facolta' le cattedre erano un numero definito, mi appostavo fuori delle aule e al termine delle lezioni abbordavo (lo so che non e' le mot juste, lo so, non vivo nella giungla) qualche studente, anzi preferenzialmente qualche studentessa, e chiedevo se avessero visto a lezione il mio caro nipote Tal dei Tali che ero apena tornato dai mari del Sud e ardevo dal desiderio di riabbracciarlo, ultimo superstite della numerosa progenie ormai estinta. Nessuno ne sapeva niente e non poche donzelle parvero tentate di mollarmi uno scapaccione, come se non avessi di meglio da fare che molestare le studiose signorine. E' cosi' che va il mondo, non e' piu' il tempo delle agnizioni.
Il fatto che il suo nome non dicesse nulla a nessuno non era imprevedibile, anch'io ai miei tempi non credo di aver mai detto una parola a nessuno in quelle onuste stanze, neppure agli esami, ahime'.
E cosi' sembrava che non ci fosse niente da fare.
Ma un'idea mi venne: chiedere alla colta gioventu' se si ricordassero di un poeta solitario in quei paraggi flaneur, ed agitargli il quadernetto sotto il naso. Grande idea, al terzo giorno di tentativi un ragazzotto dagli occhi allucinati mi disse: ah, si', il puzzone. Il puzzone? Il puzzone, il puzzone, non si lavava mai, si sistemava sulla gradinata piu' alta e remota dell'emiciclo dell'aula magna e ronfava per tutte le lezioni, che tanto i professori erano tutti miopi, sordi e palloni gonfiati incapaci di percepire il mondo circostante. Poi la sera girava per i bar a scroccare un aperitivo o quel che era, e scassinava le cabine telefoniche, come no. E dove posso trovarlo? E che ne so io? Forse in aula magna? E' un bel po' che non si vede piu'. Al bar? Puo' darsi. Quale. Li girava un po' tutti qua intorno. E saprebbe descrivermi il suo aspetto? Puzzava. Intendevo i tratti somatici, l'abbigliamento, caratteristiche visivamente rilevabili. Eh? Insomma, che faccia aveva? Normale, coi capelli lunghi. Vestiti? Normali. Normali come? Come sarebbe a dire normali come, ho detto normali, normali. E fine dell'intervista. Provai a prolungarla allungandogli dieci euro, li prese in un lampo e in un lampo si allontano', e mi parve che mi fece pure un gestaccio di quelli che fanno i giovani d'oggi.
Ora ne sapevo di piu', decisamente di piu'. Ma non ancora abbastanza. Le mie investigazioni dovevano passare a uno stadio ulteriore.
*
Mentre proseguivo le mie indagini avevo ormai letto e riletto tutto il quadernetto. Erano tutte poesie mie di quarant'anni prima, tutte, tutte le ricordavo.
E quindi delle due l'una: o il tizio aveva trovato chissa' come i miei manoscritti di quel tempo lontano e li aveva trascritti per sua erudizione o umana formazione (ah, la Bildung!), oppure aveva ricreato di bel nuovo quelle mie giovanili, rozze effusioni.
In questa seconda ipotesi due scenari si aprivano.
Nel primo scenario tutto cio' che e' stato scritto verra' scritto di nuovo, che sia eterno ritorno o principio di indeterminazione, o semplicemente il fatto che essendo le lettere di un alfabeto di numero finito necessariamente prima o poi le stesse sequenze dovranno ripetersi e ripetersi in un tempo lungo ma non infinito, e cosi' via.
Nel secondo scenario, meno scientifico ma piu' affascinante, condizioni esistenziali analoghe e/o processi mentali simili, combinati con un pari possesso ovvero una pari scarsita' di risorse liguistiche ed esperienze morali, aveva dato luogo a quella riproduzione, o - se si vuole - a quella genealogia.
Naturalmente c'era anche un terzo scenario, ma non mi pare il caso di farne cenno, ognuno ha i suoi tormenti, e un certo corrosivo dubbio temo mi accompagnera' per tutta la vita. Homo sum, et nihil eccetera.
*
Il passo successivo fu aggirarmi sul far del crepuscolo negli immediati dintorni dei bar del quartiere universitario discretamente brandendo il quadernetto, fingendo di leggerlo con aria ispirata ovverosia concentrata ma in verita' dietro gli occhiali scuri scrutando i passanti, che a loro volta scrutavano me con aria non meno ispirata ovvero concentrata. Finche' un viglie non mi fermo', allertato da un bottegaio filisteo. Dovetti allora, nei giorni succesivi, passare a una variante piu' tenue dell'esibizione del feticcio che avrebbe dovuto fungere da richiamo e che invece richiamava solo l'attenzione della selvaggina sbagliata, illetterata e plebea. Invece di sventolarlo in alto al di sopra della testa, lo tenni vicino al cuore, ma ben visibile, e poiche' aveva una copertina nera indossai un soprabito chiaro sul quale maggiormente risaltasse.
Ma quale non fu la mia delusione quando nei pressi di altro bar un altrettanto filisteo guardone e spia denunciommi ad altro vigile, anzi carabiniere, che pretese addirittura i miei documenti e mi diffido' dal proseguire in quel mio marciare in quella postura spaventando, a suo dire, infanti e matrone. Ma quale spaventare, che oggi le matrone dimentiche di ogni virtu' son dedite alle pratiche piu' innominabili che il Malleus maleficarum e l'opera omnia del divin marchese sono ormai libro di testo dalle Orsoline, e i bamboli, i bamboli te li raccomando, che vengono cresciuti a filmetti sado-maso che aveva ragione Popper buonanima, che ancora impuberi, come lo forze lo permettono, passano dalla contemplazione e lo studio della teoria alla pratica ad libitum del crimine come una delle belle arti.
Che fare? Come diceva il compagno Lenin. Mettere annunci sui giornali? figurarsi se quel puzzone del Puzzone leggeva gli annunci. Fotocopiare un volantino ed affiggerlo ai pali della segnaletica stradale, alle bacheche dell'universita', a quelle rientranze dei muri in cui i senza fissa dimora espletano i loro corporali bisogni se un'urgenza impellente sopravviene? E figurarsi l'esito: una coorte, una legione di frodolenti impostori che ti si presentano nella callida speranza di buscarsi un immeritato guiderdone. Occorreva pensare a ben altro.
Ma non mi veniva in mente niente di ben altro.
*
Poi fu lui che trovo' me.
Il mio prezzolato informatore lo aveva avvisato che c'era un vecchio sporcaccione che lo cercava e che era proprio desso che gli aveva rubato il prezioso scrigno delle sue catalettiche metriche fatiche. E gli aveva descritto la mia persona con sufficiente approssimazione: lunga barba bianca, zoppia, abitudine declamatoria a se stesso rivolta nel corso delle deambulazioni, propensione a sganciar pezzi da dieci euro.
Cosi' il Puzzone si era messo alla mia ricerca e dal momento che io medesimo di mia spontanea volonta' mi aggiravo nei luoghi medesimi in cui essolui sua sponte si aggirava, il fatidico incontro avvenne e fu effettivamente tale: fatidico.
Lo raccontero' un'altra volta, e' chiaro.
*
II. Un incontro
- E' lei che mi cerca?
- Se e' suo questo quaderno, si'.
- Se sulla prima pagina c'e' il mio nome e cognome, direi di si'.
- E avrebbe un documento d'identita'?
- Ecco la mia carta d'identita'.
- Bene. Bene. Grazie. Ma non e' lo stesso nome.
- Non sa che noi poeti amiamo gli pseudonimi?
- E quale e' lo pseudonimo che il frontespizio ostenta?
Diede la risposta giusta.
- E il titolo dell'opera?
Bis.
- Direi allor di si', e' lei colui che cerco.
- Bene, e quinci potrei riavere il mio quaderno?
- Senza dubbio, senza fallo.
- Grazie. Posso chiederle come lo ha avuto?
- l'ho acquistato, era su una bancarella di libri usati. Due euro.
- La risarciro'.
- No, non occorre, sono lieto che sia tornato nelle sue mani. Ma vorrei avere l'opportunita' di conferire con lei per sciogliere un mio dubbio.
- Non mi prostituisco.
- No, no, ci mancherebbe altro. Vorrei veramente soltanto scambiare quattro chiacchiere con lei e nient'altro.
- Credo di aver preso un abbaglio, la prego di scusarmi.
- Non importa, non importa.
- Potremmo sederci a un tavolo del bar qui di fronte.
- Ottima proposta.
- Bene.
- Io prenderei volentieri un caffe', un caffe' anche per lei?
- Grazie. Molto gentile.
*
- Bene, se vuole dirmi il suo dubbio...
- E' un po' complicato, mi consenta un minimo preambolo.
- D'accordo.
- Come forse immaginera', ho letto il contenuto del quaderno.
- Immaginavo.
- E l'ho trovato particolarmente interessante.
- La ringrazio. Ma sono solo esercitazioni, per cosi' dire, e canovacci, che richiederebbero ancora una lunga elaborazione, e poi, va da se', quel labor limae senza il quale...
- Scusi se la interrompo, ma no, non si tratta di questo, e' che volevo chiederle, lei permette, vero, una franca domanda a cui dare una franca risposta?
- Se sono in grado...
- Senza alcun dubbio. E la domanda e': questi testi li ha scritti lei?
- E chi altri?
- No, non intendevo riferirmi all'atto meccanico della scrittura, intendevo dire: li ha ideati lei?
- Non capisco; in che senso?
- Nel senso che non li ha copiati, non glieli hanno dettati, non li ha trascritti da una qualunque fonte, ma li ha pensati e scritti proprio lei, da solo.
- Si', li ho pensati e scritti proprio io, da solo. Certo che poi, va da se', avro' subito l'influenza di molteplici fonti, alcune piu' evidenti, altre meno...
- Naturale, naturale, pero' insomma queste poesie sono sue.
- Mie, si'. Per poco che valgano sono comunque opera del mio ingegno.
- Questo volevo sentirle dire.
- E questo le ho detto. C'e' altro?
- No, non abbia fretta, in effetti c'e' dell'altro, ma si tratta di cosa non agevole a dirsi, e a credersi.
- La dica ugualmente, attendo a pie' fermo.
- Ecco, so che la cosa potra' apparirle bizzarra ed anzi del tutto fantastica, e frutto di, si', diciamolo, di un delirio, ma...
- Ma?
- Ecco, mi sembra, anzi, ne sono certo, sono certo che queste poesie le scrissi gia' io circa mezzo secolo fa. Ecco, l'ho detto.
- Come?
- Si', queste poesie le ho gia' scritte io cinquant'anni fa, quando ero studente e sovversivo.
- Mi scusi la precisazione, ma in primo luogo io non sono un sovversivo; in secondo luogo queste poesie le ho scritte io e le posso assicurare che non ho mai commesso un plagio in vita mia, e se lei mi sta accusando di un reato, allora...
- No, no, lei mi ha frainteso, o meglio: io mi son espresso male e faccio ammenda; io non la sto accusando di niente, ci mancherebbe. Al contrario, questa fortuita circostanza mi ha cosi' fortemente colpito che, lei mi capira', ho pensato di dover cercare l'autore di questo quaderno proprio per cercar di venirne a capo: ammettera' che la coincidenza e' assai stravagante.
- Assai, si'. Ma, e mi scusi se mi permetto, lei possiede ancora quei suoi testi ed ha effettuato un riscontro...
- No, no, purtroppo non ho piu' ne' i miei scritti giovanili ne' tante altre cose che ho posseduto nel corso della vita: tutto e' andato perduto, ma ho buona memoria. Vuole che le reciti l'incipit di Erodoto? In greco, intendo. O il XXVI dell'Inferno? Ho buona memoria, mi creda.
- Le credo, ma quanto mi ha teste' detto, ne converra', e' difficilmente credibile, specialmente in assenza del benche' minimo riscontro, come dire, documentale, o documentario se preferisce.
- Me ne rendo conto, me ne rendo ben conto. Ma come vede non ho esitato a restituirle il suo quaderno quantunque io lo abbia regolarmente acquistato; e come vede non metto in dubbio la sua parola, nonostante che lei metta in dubbio la mia. Non ho ne' cattive intenzioni, ne' secondi fini: sono solo un uomo a cui, in tarda eta', accade un fatto straordinario come quello che per l'appunto le ho or ora comunicato, e che vorrebbe capirci qualcosa. Ed a tal fine le chiede aiuto.
- La aiuterei ben volentieri, ma non credo di poterlo fare in alcun modo. Forse la potrebbe aiutare un medico, uno psicologo...
- La prego, non dica cosi'; la mia canizie dovrebbe essere motivo sufficiente a persuaderla dell'iniquita' di infliggermi una simile umiliazione.
- Lei ha ragione, sono stato veramente imperdonabile, e ritiro ogni mia parola che possa averla offesa. Ma detto questo non saprei cos'altro aggiungere, oltre al fatto che adesso avrei un impegno...
- Ma potremmo rivederci. Ci terrei molto. Potremmo rivederci qui domani alla stessa ora, che ne dice?
- Per me va bene, si', domani qui alla stessa ora. Signor... posso chiederle come si chiama, visto che lei conosce il mio nome forse sarebbe bene che anch'io conoscessi il suo.
Glielo dissi.
*
III. Anni dopo
Ovviamente il giorno dopo non si fece vedere, ne' il successivo, e per quanto io continuassi per giorni e giorni (e per sere e sere) il mio girovagare tra l'universita' e i bar del quartiere non comparve piu'.
E non avevo neppure fotografato o fotocopiato il quaderno.
E dopo qualche settimana non ero piu' sicuro neppure del nome.
Poi dovetti trasferirmi per lavoro in un'altra citta'.
E passo' qualche anno. Non saprei dire quanti con precisione.
*
Una sera bussarono alla porta, aprii e lo sconosciuto disse: "Si ricorda di me?".
- Veramente no. Signor?
- Ma sicuramente si ricorda del mio quaderno.
E lo tiro' fuori dalla tasca ed immediatamente me ne ricordai.
- Prego, entri, come ha fatto a trovarmi?
- Per caso, mi creda, per puro caso. Ero davanti all'edicola dove ha comprato un periodico poco fa, non ero certo fosse lei, allora l'ho seguita fino a casa e quando ho letto il suo nome sul campanello - sa, non l'ho piu' dimenticato dal nostro precedente colloquio - allora ho bussato. Tutto qui. Mai avrei immaginato di trovarla in questa citta' nella quale io stesso mi trovo per puro caso, e' la prima volta che la visito e domani la lascio. Lei abita qui, invece?
- Si', da un anno o quasi.
- Mi permetta innanzitutto di scusarmi per essere scomparso, ma lei mi aveva davvero spaventato.
- Spaventato?
- Si', l'avevo presa per un maniaco. Pensi che la sera stessa del nostro colloquio lasciai la capitale e mi trasferii a Milano.
- A Milano?
- A Milano, ma una citta' valeva l'altra per me a quel tempo, non avevo legami e vivevo alla giornata.
- E adesso e' qui a Firenze?
- Solo di passaggio, per lavoro.
- Ah, bene, quindi adesso ha un lavoro.
- In effetti si', ho un lavoro, un lavoro per cui viaggio molto.
- Come un commesso viaggiatore.
- Si', piu' o meno.
- Ma prego, si accomodi, metto su il caffe', ci metto un attimo.
- Non vorrei disturbare.
- Ma scherza? Lei oggi mi fa il regalo piu' grande della mia vita.
- No, onoro semplicemente un debito, sperando di poterle essere utile a risolvere quel suo dubbio. Sa, ci ho ripensato sopra tante volte.
- Veramente?
- Si', si', veramente. E adesso vorrei anch'io saperne di piu' su questo strano accidente.
- Gia', uno strano accidente.
*
IV. Storia del giovane hegeliano
Adesso si era tagliato la barba e i capelli e vestiva in modo decente. Non puzzava. Doveva aver trovato lavoro. Aveva trovato lavoro, infatti: disse che vendeva enciclopedie porta a porta. "Pessimo lavoro", dissi. "Non lo dica a me", rispose, "Ma una notte illune mi sorpresero a sfasciare un telefono per acquisirne i gettoni alle mie casse, e quasi mi presero; corsi a perdifiato per un tempo che mi parve infinito per vicoli e vicoli fino a finire in una scarpata che era una specie di imondezzaio. Mentre ero li' che cercavo di trattenere il respiro - ed invece sembravo un mantice per l'affanno - mi ripromisi di cambiar genere di vita: avevo avuto paura che il cuore mi sarebbe scoppato, non so se mi capisce". "Certo che la capisco". "Cosi' adesso faccio questo, e intanto leggo gli annunci economici sui giornali per vedere se trovo di meglio". "Naturale".
Mi disse che era un lavoro con cui ci si campava, ma certo il prezzo morale era turlupinare le famiglie di poveracci che quelle enciclopedie se le compravano pur non avendone alcun bisogno credendo di far un buon investimenti per i figli ancor piccini ma tanto volenterosi che volevano far studiare affinche' non facessero una vita di fame come la loro e divenissero invece avvocati o dottori o ingegneri o usurai. "Dovremmo dirgli che ci sono le biblioteche pubbliche, invece". "Dovreste". "Ma l'uomo e' cio' che mangia". "Feuerbach". "Certo, Feuerbach". "Anch'io sono sempre stato feuerbachiano". "Anche lei? Ma anch'io". "E marxista". "Naturalmente". "Naturalmente".
Gli dissi che avrei potuto ospitarlo, mi disse che non poteva accettare. "Faccia come vuole, pero' la smetta di raccontarmi panzane". "Panzane?". "Il commesso viaggiatore, le enciclopedie, le cabine telefoniche scassinate...". "Mi perdoni, e' per prudenza". "Lo so, lo capisco e la capisco, ma e' meglio dire che lavora alle poste, no?". "Lei dice". "Dico". "E' una buona idea". "E gliela regalo". "Grazie". "Prego". "Si ferma a cena?". "Perche' no?".
Faceva truffe, scippi, furti, rapine, ovviamente. E aveva smesso di scrivere, quando si fa quel lavoro niente tracce, e l'inconscio e' traditore, il peggiore dei traditori. "E allora perche' ha ancora con se' il quadernetto?". "Non e' mica il mio nome che c'e' sopra". "Ah". "Eh". "Ma la grafia e' la sua, immagino". "Quella si', ma ne so fare molte altre. Mi ci sono esercitato". "E' comunque una traccia". "D'accordo, pecco di sentimentalismo". "Direi di si'. E quale sarebbe il suo vero nome?". "Quello sulla carta d'identita'", "Si', cosi' come il mio e' quello che sta sul campanello", "Gia'". "Gia', e allora?", "Andiamo. Prima ceniamo". "D'accordo".
Mangiammo. Dopo.
- Ma un lavoro normale?
- E come si trova un lavoro normale?
- Gia'.
- Lei come lo ha trovato?
- Io? Non l'ho mai trovato.
- Eppure e' giunto a una bella eta'.
- A una brutta eta', pero' ci sono arrivato, e' vero.
- E come ha fatto.
- Meglio non parlarne.
- Perche' no?
- Perche' la cena l'ho offerta io e dunque e' lei che deve raccontare per primo la sua storia.
- Non e' molto interessante.
- Lasci dirlo a me.
- Prima pero' mi dica una cosa.
- Quale?
- Era vero quello che mi disse nel nostro precedente incontro?
- E che le dissi?
- Che le mie poesie le aveva gia' scritte lei.
- Adesso non saprei che dirle, ma allora mi sembro' di si'.
- E perche' adesso no?
- Non ho detto di no, e' che non le ho piu' rilette, il suo quaderno lo diedi a lei, no?
- Eccolo, se vuole sfogliarlo.
- Non serve, mi resterebbe il dubbio che ricordo il ricordo di quando lessi il quaderno, non il ricordo di quando scrissi le poesie che credetti di rileggere nel suo quaderno allora.
- E quindi?
- E quindi che?
- Gia', quindi che?
- Appunto.
- Appunto.
- Adesso racconti.
- C'e' poco da raccontare, sono nato a Montecarogno che e' una frazione di...
- Lo so, ci sono nato anch'io.
- Cosa?
- Ci sono nato anch'io.
- Ma lei chi e'?
- No. Chi e' lei.
Era nato a Montecarogno, la solita trafila scolastica, poi era successo un fatto che non voleva dirmi, perlomeno non ancora, e allora si era trasferito nella capitale spacciandosi per studente universitario che a quei tempi tutti quelli che avevano meno di trent'anni dicevano di essere studenti universitari. Viveva di espedienti e leggeva Rimbaud e Leopardi, e partecipava alle manifestazioni della sinistra rivoluzionaria, badando pero' a non legare con nessuno. Si manteneva con i gettoni telefonici che recuperava scassinando i telefoni pubblici. "Possibile?", gli chiesi. "Piu' che possibile, reale", mi rispose. Erano altri tempi.
Erano altri tempi anche, anzi: ancor piu', rispetto ad ora che scrivo queste memorie. E perche' io scriva adesso queste memorie me lo chiedo anch'io. Ma torniamo a lui.
Pero' non si limitava a scassinare i telefoni pubblici, faceva dell'altro e fu per quell'altro - che non volle specificare - che dovette in fretta e furia abbandonare la citta'. La sera del nostro incontro, ma non per il nostro incontro, bensi' perche' quella sera accadde quell'altra cosa di cui non voleva parlare. "Lei e' alquanto reticente", "E lei e' assai curioso". "Ammettera' che e' proprio la sua reticenza che m'induce a chiedere maggiori lumi". "E consentira' che quei lumi io non le dia". "Ineccepibile, ma nel prosieguo della nostra conoscenza questo si rivelera' un inciampo non dappoco". "Vedremo poi". "Poi vedremo".
Lascio' la grande cloaca e si sposto' al nord. Entro' e usci' da una banda di balordi, e decise che era meglio fare da soli piuttosto che avere a che fare con una banda di balordi. SI sposto' in un'altra citta' e poi in un'altra ancora e cosi' via. "E cosi' via, come direbbe Kilgore Trout". "E' anche il mio autore". "Ne ero certo, ormai".
- Perche' e' venuto qui?
- Come, prego?
- Perche' e' qui, perche' mi ha cercato, cosa vuole da me?
- No, no, e' stato veramente casuale, l'ho vista e mi sono ricordato di lei; la mia vita e' povera di incontri, e quello con lei, lo ammettera', aveva un suo bizzarro fascino. Cosi' l'ho seguita...
- Per favore, non abusi della mia pazienza.
- Preferirebbe che le dicessi che l'ho cercata affannosamente finche' non l'ho trovata?
- Non affannosamente.
- Ne' affannosamente ne' non affannosamente, e' stato un puro caso reincontrarla.
- I casi non sono mai puri.
- D'accordo, e la purezza non e' mai casuale.
- Dobbiamo continuare con queste lepidezze o vogliamo tornare a noi?
- A noi, dunque.
Insistette che fu un incontro fortuito e che non accettavo questa realta' perche' avendolo io lungamente cercato proiettavo ora su di lui il mio atteggiamento che e' un tipico transfert, e simili blaterazioni.
Quando fui saturo di noia dissi: "Le poesie". "Quali poesie?". "Le poesie", ripetei.
Fu allora.
*
Era stato elettricista quando l'elettricita' non era ancora parte del paesaggio naturale ma costituiva il mondo moderno, come le televisioni nei bar; poi vennero i registratori, i telefoni anche nelle case, le radio che da grosse come una cassa da morto diventavano piccole piccole e le facevano i giapponesi. Ma di fare l'elettricista non gli piaceva, cosi' imparo' a fare il meccanico, il benzinaio, il guardiano notturno che tanto non riusciva a dormire lo stesso; poi aveva combinato un guaio - cosi' disse: "poi avevo combinato un guaio" - e aveva lasciato il paese senza neppure passare da casa a prendersi una valigia, solo col suo quaderno, ed era andato in citta', nella grande citta', perche' pensava che quello fosse il modo migliore di far perdere le proprie tracce e che un modo per campare lo avrebbe trovato, in citta' sopravvivono tutti.
Arrivato in citta', fuori dalla stazione dei treni c'era una fila di bancarelle che vendevano libri, e ne compro' uno che costava poco e che era una pagina in francese e quella davanti in italiano, ed erano le poesie di Rimbaud: voleva imparare il francese nel caso avesse deciso di emigrare, ma si accorse subito che era difficile; pero' le poesie in italiano (che erano le stesse di quelle francesi nella pagina di fronte, comincio' a leggerle, e anche se non ci si capiva niente gli piacevano. La sera stessa apri' il quaderno che era ancora tutto bianco e comincio' a scrivere anche lui come veniva veniva.
Ne raccontava di bugie. Non c'era verso di fargli dire la verita'. Puo' darsi che non se la ricordava piu', che a forza di immaginarsi un passato ormai confondeva i sogni e la vita reale, se poi la vita che aveva fatto si poteva considerare piu' reale dei sogni, che almeno finche' li sognava e anche per qualche minuto dopo che si era svegliato gli davano qualche emozione, e qualche alternativa. La vita vera, invece.
Disse che veniva da una famiglia numerosa e rumorosa, e che per non restare incastrato e assordato aveva rinunciato alla figliolanza e quindi al matrimonio, anche se questo implicava anche quell'altra rinuncia, piu' gravosa. Ma non era un porco, non era un fascista.
Avevo mai sentito parlare di un delitto che fece rumore al paese? Dei due amici che uno aveva ucciso quell'altro e poi era sparito? No, non ne avevo mai sentito parlare, gli dissi, ma dal paese io me ne ero andato cinquant'anni prima di lui e non ci ero piu' tornato e non avevo mai piu' incontrato nessuno di quelli che conoscevo. E neppure la giustizia mi aveva mai raggiunto, vivevo con la carta d'identita' di un altro, di uno che non l'avrebbe potuto piu' dire a nessuno che avevo preso il posto suo nel mondo. Pare che la storia fosse andata cosi', che quei due erano amici per la pelle e insieme lavoravano di notte con esito fortunato, troppo fortunato, al punto che quando il bottino era veramente ingente uno dei due si accorse di non volerlo piu' spartire e fece quel che doveva fare. Oppure: erano amici per la pelle, ma poi s'innamorarono tutti e due della stessa ragazza e uno fece quello che doveva fare prima che a fare quello che doveva fare fosse quell'altro. Lei, non lo so se l'ammazzo', non me lo disse, o non mi ricordo, o non se lo ricordava. Poi spari'. Sono storie che si raccontavano al paese. Volevano dire qualche cosa? O era solo la solita storia di Caino e Abele che la gente la racconta in mille modi diversi ed e' sempre la stessa? Prima gli italiani, padroni a casa nostra, e intanto il fratello affoga o fa lo schiavo con la schiena spezzata in mezzo al campo finche' il sole lo cuoce e si disidrata e lo sotterrano appena due metri dopo la fine della fila dei pomodori o dell'aranceto. Ma di che, di chi stiamo parlando? Lo sai di che, di chi stiamo parlando, lo sai dalla prima riga di che, di chi stiamo parlando.
*
V. Storia del vecchio marxista
Sono passati tanti anni, e la mia vita e' stata solitudine e amarezze. E rimorsi, e rimpianti. E dolore per il dolore sparso e per quello che non seppi contrastare. Alle persone cui volli bene procurai soltanto male, per questo decisi che restare solo era la cosa migliore. Le notti che non lavoro me ne sto da solo in casa ad ubriacarmi. Compro libri che non leggo e che lascio nelle case che lascio quando mi trasferisco in un'altra citta'. Mi trasferisco spesso. Non mi hanno mai preso, sono uno prudente, e sono anche uno deciso. Se e' o me o quell'altro, non esito. Ci tengo alla mia liberta', che poi e' anche la mia prigione.
Il quaderno pero' ce l'ho ancora.
Non solo la rivoluzione non c'e' stata, ma l'umanita' intera e' regredita.
Adesso la tecnologia totalitaria ha imprigionato tutti, e con quale strumento? Televisione e telefonini connessi a una rete. E' il terzo milllennio.
Io lasciai il paese non mi ricordo piu' perche', dovevo aver fatto qualcosa che mi convinse a cambiare aria. O forse cambiai aria perche' li' tanto non si poteva fare niente. Era il mondo dei vinti. Pero' poi ho sempre vissuto da sradicato. E' buffo, no? Fatichi per staccarti dalla terra e appena ci riesci vorresti tornare ad essere il contadino, il paesano che sei sempre stato. Ma la modernita' irrompe sempre, ed e' sempre come un inizio, e invece e' un cristallo, un fossile, una foresta pietrificata, pero' la senti che arriva e senti che quando arriva nel paese pare nuova ma invece in verita' e' anch'essa gia' il passato: quello che sembra nuovo e' gia' vecchio, il mistero che t'incanta e' gia' solo un trucco da baraccone, e lo stesso baraccone non e' neppure un baraccone, ma la parodia, lo scarto residuo di un baraccone. E lo stesso incanto del disincanto e' solo l'altro nome della gabbia di ferro, la ragione strumentale della societa' amministrata, la rete che tutte intrappola le anguille.
Cosi' il negozio, l'officina, il laboratorio, mi sembravano gabbie; cosi' passai dal mestiere di orologiaio a quell'altro mestiere che fa brillare le cose. O forse anche questa era solo una fantasia, un sogno sognato due volte e dopo pensi che era vero, solo perche' non si sogna due volte lo stesso sogno eracliteo. E' la veglia che si ripete incessante. Pero' la cosa successe e quando successe non si poteva tornare indietro; e quando successe successe insieme una cosa che non mi aspettavo: che sentivo un dolore come non l'avevo mai sentito, e una stanchezza come se avessi ammazzato sgozzandoli uno per uno un esercito intero di poveri cristi schierati uno dopo l'altro inc atene in una fila infinita che tagliava le colline e le pianure tra le montagne di ghiaccio e il mare che sempre respira e respira incessante. Lasciai il paese e decisi che avrei passato il resto della vita ad espiare. E' la prima volta che uso questa parola, quindi non posso averla pensata allora. Allora non lo so perche' me ne andai, o almeno non lo sapevo allora, dovette succedere per caso. E anche tutto questo racconto sono tutte bubbole, fantasticherie, cose copiate dai sogni fatti o da quei sogni fatti da altri che poi leggi nei libri. E io ne ho letti di libri, a pezzi e bocconi, quando avevo la bancarella. Ero gia' marxista? Non mi ricordo. Ero gia' un militante comunista? Non mi ricordo.
Certe volte non mi ricordo piu' se sono il vecchio marxista o il giovane hegeliano. O se eravamo la stessa persona.
E se questo racconto sono tutte fole inventate da un vecchio che non guarda la televisione e non ha il telefonino e si nasconde dal mondo immondo.
Certe volte non riesco a sopportare la vita che ho fatto, e magari potessi pensare di essere un avatar del nipote di Rameau, o di Oblomov, o di Funes il memorioso.
Si tratta solo di mettere ordine in queste avventure, si tratta solo di scoprire il significato dei significanti, deve avere un fine la trama, deve esserci un disegno nell'ordito.
*
VI. Ingens sylva
Non sono mai tornato al paese, e neppure sono sicuro di ricordarmene il nome, Montignoso, Monterogna, Lebbrario, qualcosa del genere. Non ci perdo certo tempo a cercare su un'enciclopedia in qualche biblioteca.
Adesso mi viene in mente quell'idea di Hemingway sul racconto come iceberg. Certe volte mi vengono in mente delle idee cosi', che non c'entrano niente. Poi svaniscono subito. Ma se le scrivi, allora le fissi. Non si deve mai scrivere niente. Uno che scrive le cose e' uno che vuole soffrire. Acqua e vento, arco e freccia.
Non mi preoccupa che la mia vita sia un caos, il mondo stesso lo e', e quindi si conferma quel rispecchiamento tra microcosmo e macrocosmo. Le cose che hai letto da giovane non te ne liberi piu'. Materialismo ed empiriocriticismo.
Ci avete fatto caso? Man mano che si avvicina la fine di una storia si va sempre piu' di fretta. E' che chi racconta si annoia e non vede l'ora di farla finita. Scioglimento, katastrophe'.
Cala la sera.
Sparano per strada.
Bussano alla porta.
*
VII. Congedo
Tutti i racconti sono menzogne. Le chiamiamo invenzioni, ma poi uno che si inventa? le stesse cose che ha sempre visto. Non c'e' niente di nuovo sotto il sole. Si sente il bisogno di raccontare e di mascherare, di tacere e di suggerire, di occultare in piena luce, di ingannare se stessi ed altrui. Non so perche'. Da giovani si pensa che da vecchi si vivra' nella verita', invece da vecchi si vive solo nel dolore, che e' lo stesso della gioventu' senza piu' l'illusione che le cose possano cambiare. Quante stupidaggini si dicono, e sempre le stesse.
Tutte le storie finiscono nella medesima delusione, cosi' come la terra assorbe tutta la pioggia, e la notte segue sempre al giorno.

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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 347 del 4 novembre 2019
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