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[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. n. 858
- Subject: [Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. n. 858
- From: Giacomo Alessandroni <g.alessandroni at peacelink.it>
- Date: Sat, 30 Dec 2017 14:46:14 +0100
- Sender: g.alessandroni at gmail.com
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Numero 858 del 30 dicembre 2017
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Numero 858 del 30 dicembre 2017
In questo numero:
1. Disarmo e diritti umani
2. Francesco Gesualdi: Non mitraglie, ma pompe d'acqua
3. Paolo Cacciari: Possiamo osare
4. Monia Andreani presenta "Un'etica per il mondo vivente" di Luisella Battaglia
5. Maria Giulia Bernardini presenta "La cura dell'amore. Donne, uguaglianza, dipendenza" di Eva Feder Kittay
6. Antonio Cimino presenta "Introduzione alla verita'" di Franca D'Agostini
7. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
8. La Casa siamo tutte. Un appello
1. Disarmo e diritti umani
2. Francesco Gesualdi: Non mitraglie, ma pompe d'acqua
3. Paolo Cacciari: Possiamo osare
4. Monia Andreani presenta "Un'etica per il mondo vivente" di Luisella Battaglia
5. Maria Giulia Bernardini presenta "La cura dell'amore. Donne, uguaglianza, dipendenza" di Eva Feder Kittay
6. Antonio Cimino presenta "Introduzione alla verita'" di Franca D'Agostini
7. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia
8. La Casa siamo tutte. Un appello
1. SCORCIATOIE. DISARMO E DIRITTI UMANI
Sono la stessa cosa il disarmo e i diritti umani.
Cominciamo abolendo le armi atomiche, come stabilisce il Trattato Onu del 7 luglio 2017 al quale l'Italia scandalosamente non ha ancora aderito.
Cominciamo riconoscendo la cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia, che in Italia crescono e studiano.
Cominciamo riconoscendo che solo facendo il bene si contrasta il male, che solo la nonviolenza puo' sconfiggere la violenza.
Salvare le vite: il primo dovere.
Cominciamo abolendo le armi atomiche, come stabilisce il Trattato Onu del 7 luglio 2017 al quale l'Italia scandalosamente non ha ancora aderito.
Cominciamo riconoscendo la cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia, che in Italia crescono e studiano.
Cominciamo riconoscendo che solo facendo il bene si contrasta il male, che solo la nonviolenza puo' sconfiggere la violenza.
Salvare le vite: il primo dovere.
2. RIFLESSIONE. FRANCESCO GESUALDI: NON MITRAGLIE MA POMPE D'ACQUA
[Dal sito di "Comune-info" (comune-info.net) riprendiamo e diffondiamo]
[Dal sito di "Comune-info" (comune-info.net) riprendiamo e diffondiamo]
Alla vigilia di Natale, Paolo Gentiloni ha annunciato di voler trasferire in Niger parte del contingente italiano presente in Iraq. Ed ha dato tre motivazioni per questa scelta: consolidare il paese, sconfiggere il traffico di esseri umani, combattere il terrorismo. Tre situazioni che hanno bisogno di essere analizzate in dettaglio per capire se si tratta di vere motivazioni o di retorica.
Stabilita': tutti riconoscono che in Niger, come negli altri paesi del Sahel, c'e' un'assenza crescente di stato. O meglio lo stato c'e', ma non al servizio della popolazione, bensi' di un'elite. Dal 1960, anno di indipendenza, il Niger ha conosciuto almeno sette regimi civili e quattro colpi di stato militari. Il potere e' conteso fra esercito, politici di carriera, grandi commercianti, capi religiosi. Lo stesso Mahadou Issoufou, attuale capo di governo, e' oggetto di molte critiche e se la missione italiana si prefiggesse di dare stabilita' all'attuale classe politica si renderebbe complice di quella che Jean-François Bayart studioso dell'Africa sub-sahariana, chiama privatizzazione dello stato.
In un articolo del 16 agosto 2017, "le Monde" denuncia che in Mali, Niger e Mauritania, "il sistema politico e' detenuto da un'elite predatrice che ha dato il colpo finale a cio' che rimaneva dello stato... E i risultati si vedono: Secondo il rapporto della Banca Mondiale "Le visage humain d'une crise regionale" meta' della popolazione del Niger vive al di sotto della soglia della poverta'. Il 44 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di un ritardo di crescita, mentre il livello medio di scolarizzazione e' di un anno e mezzo. Le cliniche private per l'elite, si moltiplicano nella capitale, ma gli ospedali pubblici per la gente comune, sono piuttosto luoghi di morte che di cura.
E cio' nonostante il Niger dispone di una decina di campi profughi in cui ospita 166 000 rifugiati. Non persone che vogliono mettersi in viaggio per raggiungere l'Europa, ma persone che aspettano che torni la pace nei propri villaggi per tornarsene a casa in Mali o in Nigeria. Ad essi si aggiungono le decine di migliaia di migranti che mettono piede sul suolo nigerino non per restarvi, ma per transitare. Il loro punto di ritrovo e' Agadez, porta del deserto, dove il linguaggio utilizzato e' diverso dal nostro. Consci dei rischi che si apprestano ad affrontare, i migranti si autodefiniscono "avventurieri", mentre i proprietari di camion che li porteranno alla frontiera libica sono chiamati passeurs, trasportatori, non trafficanti d'uomini. In Niger se di qualcosa i migranti si lamentano e' per i prezzi esosi, non per la tratta. Per il costo del viaggio, per il costo dei viveri e dell'acqua, per le bustarelle da dare ai poliziotti affinche' li lascino passare nonostante la mancanza di documenti appropriati. Molti arrivano all'ultima oasi nigerina che non hanno piu' soldi e allora si fermano per mesi sperando di trovare un lavoro che permetta di raggranellare i soldi necessari a pagare il passaggio che li porti in Libia. Poliziotti, proprietari di camion, gestori di negozi, tutti cercano di strizzare i migranti di passaggio, ma non vanno nei villaggi della Nigeria, del Mali o del Senegal a prelevare giovani da deportare con la forza in Libia. Ed allora cosa significa combattere i trafficanti d'uomini? Arrestare un'intera regione e sequestrare un'intera economia? Non ci sarebbe piuttosto da combattere le cause della disoccupazione che spingono centinaia di migliaia di giovani ad affrontare financo la morte pur di cercare un futuro migliore in un continente ostile come l'Europa?
Combattere il terrorismo e' la terza motivazione portata da Gentiloni. Il terrorismo esiste, ma troppo spesso e' usato come alibi per avventure militari di ben altro genere. Considerato che in Niger ci sono gia' contingenti francesi, statunitensi e tedeschi, con l'arrivo degli italiani, gli eserciti stranieri presenti nel paese saranno quattro. I francesi ci sono addirittura dal 1961. Non era ancora trascorso un anno dall'indipendenza, che il nuovo governo del Niger aveva gia' firmato un accordo che garantiva alla Francia "la libera disposizione delle installazioni militari necessarie ai bisogni della difesa". Ufficialmente il colonialismo era finito, ma in zona rimanevano da proteggere gli interessi delle compagnie francesi che qualche anno piu' tardi si sarebbero arricchite dello sfruttamento di uranio.
E' arrivato il tempo di riconoscere che terrorismo e' espressione di malcontento e disperazione. E come ci ha ammonito Hiroute Guebre Sellassie, incaricata delle Nazioni Unite per il Sahel, "se non si fa nulla per migliorare l'istruzione, per creare occupazione e opportunita' per i giovani, il Sahel sara' non solo un incubatore di migrazione di massa, ma anche di reclutamento terroristico". Allora non sono i soldati che dobbiamo mandare in Niger, ma medici, infermieri e insegnanti. Non mitraglie, ma pompe d'acqua, perche' mai come oggi le parole di Sandro Pertini risultano vere: "Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgenti di vita per milioni di vite umane che lottano contro la fame".
Stabilita': tutti riconoscono che in Niger, come negli altri paesi del Sahel, c'e' un'assenza crescente di stato. O meglio lo stato c'e', ma non al servizio della popolazione, bensi' di un'elite. Dal 1960, anno di indipendenza, il Niger ha conosciuto almeno sette regimi civili e quattro colpi di stato militari. Il potere e' conteso fra esercito, politici di carriera, grandi commercianti, capi religiosi. Lo stesso Mahadou Issoufou, attuale capo di governo, e' oggetto di molte critiche e se la missione italiana si prefiggesse di dare stabilita' all'attuale classe politica si renderebbe complice di quella che Jean-François Bayart studioso dell'Africa sub-sahariana, chiama privatizzazione dello stato.
In un articolo del 16 agosto 2017, "le Monde" denuncia che in Mali, Niger e Mauritania, "il sistema politico e' detenuto da un'elite predatrice che ha dato il colpo finale a cio' che rimaneva dello stato... E i risultati si vedono: Secondo il rapporto della Banca Mondiale "Le visage humain d'une crise regionale" meta' della popolazione del Niger vive al di sotto della soglia della poverta'. Il 44 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di un ritardo di crescita, mentre il livello medio di scolarizzazione e' di un anno e mezzo. Le cliniche private per l'elite, si moltiplicano nella capitale, ma gli ospedali pubblici per la gente comune, sono piuttosto luoghi di morte che di cura.
E cio' nonostante il Niger dispone di una decina di campi profughi in cui ospita 166 000 rifugiati. Non persone che vogliono mettersi in viaggio per raggiungere l'Europa, ma persone che aspettano che torni la pace nei propri villaggi per tornarsene a casa in Mali o in Nigeria. Ad essi si aggiungono le decine di migliaia di migranti che mettono piede sul suolo nigerino non per restarvi, ma per transitare. Il loro punto di ritrovo e' Agadez, porta del deserto, dove il linguaggio utilizzato e' diverso dal nostro. Consci dei rischi che si apprestano ad affrontare, i migranti si autodefiniscono "avventurieri", mentre i proprietari di camion che li porteranno alla frontiera libica sono chiamati passeurs, trasportatori, non trafficanti d'uomini. In Niger se di qualcosa i migranti si lamentano e' per i prezzi esosi, non per la tratta. Per il costo del viaggio, per il costo dei viveri e dell'acqua, per le bustarelle da dare ai poliziotti affinche' li lascino passare nonostante la mancanza di documenti appropriati. Molti arrivano all'ultima oasi nigerina che non hanno piu' soldi e allora si fermano per mesi sperando di trovare un lavoro che permetta di raggranellare i soldi necessari a pagare il passaggio che li porti in Libia. Poliziotti, proprietari di camion, gestori di negozi, tutti cercano di strizzare i migranti di passaggio, ma non vanno nei villaggi della Nigeria, del Mali o del Senegal a prelevare giovani da deportare con la forza in Libia. Ed allora cosa significa combattere i trafficanti d'uomini? Arrestare un'intera regione e sequestrare un'intera economia? Non ci sarebbe piuttosto da combattere le cause della disoccupazione che spingono centinaia di migliaia di giovani ad affrontare financo la morte pur di cercare un futuro migliore in un continente ostile come l'Europa?
Combattere il terrorismo e' la terza motivazione portata da Gentiloni. Il terrorismo esiste, ma troppo spesso e' usato come alibi per avventure militari di ben altro genere. Considerato che in Niger ci sono gia' contingenti francesi, statunitensi e tedeschi, con l'arrivo degli italiani, gli eserciti stranieri presenti nel paese saranno quattro. I francesi ci sono addirittura dal 1961. Non era ancora trascorso un anno dall'indipendenza, che il nuovo governo del Niger aveva gia' firmato un accordo che garantiva alla Francia "la libera disposizione delle installazioni militari necessarie ai bisogni della difesa". Ufficialmente il colonialismo era finito, ma in zona rimanevano da proteggere gli interessi delle compagnie francesi che qualche anno piu' tardi si sarebbero arricchite dello sfruttamento di uranio.
E' arrivato il tempo di riconoscere che terrorismo e' espressione di malcontento e disperazione. E come ci ha ammonito Hiroute Guebre Sellassie, incaricata delle Nazioni Unite per il Sahel, "se non si fa nulla per migliorare l'istruzione, per creare occupazione e opportunita' per i giovani, il Sahel sara' non solo un incubatore di migrazione di massa, ma anche di reclutamento terroristico". Allora non sono i soldati che dobbiamo mandare in Niger, ma medici, infermieri e insegnanti. Non mitraglie, ma pompe d'acqua, perche' mai come oggi le parole di Sandro Pertini risultano vere: "Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgenti di vita per milioni di vite umane che lottano contro la fame".
3. RIFLESSIONE. PAOLO CACCIARI: POSSIAMO OSARE
[Dal sito di "Comune-info" (comune-info.net) riprendiamo e diffondiamo]
[Dal sito di "Comune-info" (comune-info.net) riprendiamo e diffondiamo]
Propongo una lettura incrociata delle due importanti interviste con Serge Latouche (Capovolgere i modi di pensare e di fare) e Massimo De Angelis (L'arcipelago dei commons) che Comune ha recentemente pubblicato. Ambedue, poi, le confronterei con quanto dice Vandana Shiva nella intervista a Lionel Astruc, La Terra ha i suoi diritti. La mia lotta di donna per un mondo piu' giusto, pubblicato da Emi, 2016.
Il pensiero della decrescita e quello dei commons - secondo me - sono collegati e si integrano. Latouche fa discendere la proposta di una societa' della de/a/crescita dalla constatazione del fallimento suicida del progetto della "occidentalizzazione" del mondo: "l'universalizzazione dell'Uomo Economico". Proprio nell'era della massima pervasivita' dei rapporti sociali capitalistici (alcuni chiamano questa l'era del Capitalocene) appaiono evidenti i limiti di capacita' di carico del pianeta. La crisi ecologica e' l'effetto di cio' che Vandana Shiva chiama il "progetto maschile" di "morte della natura". Scrive Latouche: "E' ormai l'umanita' stessa dell'uomo che e' minacciata dai progetti di transumanesimo", dalla "cibernathropia (mescolanza di uomo e macchina)". Siamo prossimi all'"Apocalisse umanitaria" di cui scrive De Angelis. Ma emergono anche resistenze irriducibili dei popoli indigeni, dei contadini, delle popolazioni impoverite e di quanti non hanno smesso di usare il proprio cervello. I nostri autori non credono alla leggenda neocolonialista secondo cui le popolazioni dei "paesi sottosviluppati" desidererebbero imitare i modelli sociali ipercapitalistici. Nemmeno nelle aree geografiche piu' ricche sembra che prosperi la felicita', la joie de vivre, il "buen vivir". Latouche, De Angelis ed anche Shiva vedono al fondo della crisi che viviamo una "perdita di senso della societa' della crescita" (Latouche); "Viviamo in un'abbondanza materiale, ma priva di senso" (Shiva); "La competizione economica [...] e' una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure" (De Angelis).
*
Oltre la pedagogia delle catastrofi
La sfida, allora, e' quella di come riuscire a non farsi annientare dalla Megamacchina (cosi' bene descritta gia' da Lewis Mumford in: Il mito della macchina, 1967) e che oggi appare nelle vesti della superpotenza delle imprese transnazionali, dei conglomerati industriali-finanziari. E' qui che a me sembra che il pensiero dei commons (Massimo De Angelis, Omnia sunt communia, 2017) e quello ecofemminista (Vandana Shiva e Maria Mies, Ecofemminism, Zed Press, London 1993) possano integrarsi e dare gambe sociali alla critica al modello di sviluppo capitalistico e superare il rischio di un semplice attendismo palingenetico in cui incorre la "pedagogia delle catastrofi".
I commons ci aiutano a delineare una idea di ordinamento sociale alternativo, liberato dal pensiero unico e dall'immaginario sviluppista, economicista, produttivista. Se superiamo le insidie di una traduzione dall'inglese che puo' generare equivoci (i "beni comun" intesi solo come risorse, come common pool resources, giacimenti naturali, patrimoni preesistenti, bagagli di conoscenze e altro ancora) e pensiamo invece ai commons come un sistema di relazioni sociali di tipo cooperativo, capaci di auto-normarsi, allora possiamo immaginare forme comunitarie dove persone e cose si specificano e si integrano. Nei commons le esigenze umane sono connaturate con quelle ecosistemiche. Genius loci e genuis popoli sono inestricabili. Societa' insediata e ambiti territoriali si compenetrano. I commons sono una particolare forma di governace autonoma, di comunita' auto-organizzate, alle diverse scale, capaci di relazionarsi tra loro, quindi, anche di federarsi. Come ha scritto John Holloway, i commons possono diventare quel "fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialita', di "comunalita'", un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune" (John Holloway, !Comunicemos!, in Herramienta, tradotto e pubblicato con il titolo: Mettiamo in comune il 3 novembre 2013 su Comune). O come hanno scritto Geroge Caffentzis e Silvia Federici:: "Le iniziative di commoning sono qualche cosa di piu' di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire" (Creare beni comuni e mondi nuovi, in Comune 2015). Ha scritto Raj Patel: "E' il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise" (Raj Patel, 2007 Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano).
*
Varchi e cunei, resistenze e diserzioni
E' possibile allora immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attivita' attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d'uso, comunita' intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni... comunque utili a formare una bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento del cambiamento necessario, imposto agli eventi. In questo senso possiamo concepire il "comune come modo di produzione" (Toni Negri, Lavoro e proprieta' a fronte del comune, intervento al seminario Disarticolare la proprieta'. Beni comuni e le possibilita' del diritto, 8 ottobre 2013. Pubblicato su: euronomade.info e ControLaCrisi.org), che va oltre le relazioni sociali capitalistiche. "Queste realta' ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale - dice De Angelis - Ma se si guarda attentamente la cosa, questo e' solo un problema di diffusione e di scala [...] e' una questione che dipende dalle forze sociali" che si mobilitano e dal "rapporto che stabiliscono con il sistema stato e il sistema capitale". Insomma si tratta di una questione eminentemente politica.
Non stiamo valutando un modello teorico scritto a tavolino, ma una famiglia di pratiche concrete inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell'economia di mercato. Molto spesso, quindi, le pratiche del commoning sono promiscue, ibride, contraddittorie; per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un'altra prefiguratrici di altre modalita' di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Ma se le motivazioni etiche sono salde e gli obiettivi socio-economici sono chiari (rigenerazione della vita, solidarieta', accoglienza, giustizia, ridistribuzione) non ci dobbiamo preoccupare troppo del rischio della loro cattura e sussunzione dentro i meccanismi del mercato (competizione, profitto, accumulazione ecc.). Possiamo anzi osare processi inversi. Ad esempio Michel Bauwens e Vasilis Niaros (teorici dei sistemi di produzione paritarie e open sources) nella pubblicazione Value in the Commons Economy, co-edito da Heinrich Boell Foundation e P2P Foundation, formulano ipotesi sorprendenti. Piuttosto che discutere sul rischio di neutralizzazione dei valori creati dalle nuove modalita' di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa puo' accadere se i commons riuscissero ad essere la base di "una nuova economia che nasce all'interno del vecchio sistema". Si potrebbe allora "pensare ad una "cooptazione inversa" (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Puo' l'emergente economia commons-centrata, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale dal sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?". Si possono, cioe', ipotizzare "all'interno dei confini dell'economia gia' esistente, flussi di valore piu' ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?". Alcuni casi studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato.
La pratica dei commons, il fare e il mettere in comune, la produzione di nuovi commons, l'emergere di un commons movement, ci dicono che qualcosa si puo' fare, oltre la denuncia e la critica, per dimostrare nel concreto che sarebbe possibile vivere in un altro modo, provocando meno sofferenze, insopportabili ingiustizie, precarieta' non necessarie, violenza. Ed e' qui che il pensiero ecofemminista di Shiva ci viene in aiuto mostrandoci una filosofia dell'azione politica. Shiva dice che non e' possibile "motivare all'impegno incutendo terrore". Meglio "accendere nei cittadini la voglia di vivere le loro migliori potenzialita' [...] La militanza comincia nella mente, nel cuore e nelle mani di ognuno". E, ancora: "Io vedo un numero crescente di persone pronte al cambiamento. Quel che manca non e' la quantita' dei cittadini in movimento, ma la connessione tra loro".
Il pensiero della decrescita e quello dei commons - secondo me - sono collegati e si integrano. Latouche fa discendere la proposta di una societa' della de/a/crescita dalla constatazione del fallimento suicida del progetto della "occidentalizzazione" del mondo: "l'universalizzazione dell'Uomo Economico". Proprio nell'era della massima pervasivita' dei rapporti sociali capitalistici (alcuni chiamano questa l'era del Capitalocene) appaiono evidenti i limiti di capacita' di carico del pianeta. La crisi ecologica e' l'effetto di cio' che Vandana Shiva chiama il "progetto maschile" di "morte della natura". Scrive Latouche: "E' ormai l'umanita' stessa dell'uomo che e' minacciata dai progetti di transumanesimo", dalla "cibernathropia (mescolanza di uomo e macchina)". Siamo prossimi all'"Apocalisse umanitaria" di cui scrive De Angelis. Ma emergono anche resistenze irriducibili dei popoli indigeni, dei contadini, delle popolazioni impoverite e di quanti non hanno smesso di usare il proprio cervello. I nostri autori non credono alla leggenda neocolonialista secondo cui le popolazioni dei "paesi sottosviluppati" desidererebbero imitare i modelli sociali ipercapitalistici. Nemmeno nelle aree geografiche piu' ricche sembra che prosperi la felicita', la joie de vivre, il "buen vivir". Latouche, De Angelis ed anche Shiva vedono al fondo della crisi che viviamo una "perdita di senso della societa' della crescita" (Latouche); "Viviamo in un'abbondanza materiale, ma priva di senso" (Shiva); "La competizione economica [...] e' una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure" (De Angelis).
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Oltre la pedagogia delle catastrofi
La sfida, allora, e' quella di come riuscire a non farsi annientare dalla Megamacchina (cosi' bene descritta gia' da Lewis Mumford in: Il mito della macchina, 1967) e che oggi appare nelle vesti della superpotenza delle imprese transnazionali, dei conglomerati industriali-finanziari. E' qui che a me sembra che il pensiero dei commons (Massimo De Angelis, Omnia sunt communia, 2017) e quello ecofemminista (Vandana Shiva e Maria Mies, Ecofemminism, Zed Press, London 1993) possano integrarsi e dare gambe sociali alla critica al modello di sviluppo capitalistico e superare il rischio di un semplice attendismo palingenetico in cui incorre la "pedagogia delle catastrofi".
I commons ci aiutano a delineare una idea di ordinamento sociale alternativo, liberato dal pensiero unico e dall'immaginario sviluppista, economicista, produttivista. Se superiamo le insidie di una traduzione dall'inglese che puo' generare equivoci (i "beni comun" intesi solo come risorse, come common pool resources, giacimenti naturali, patrimoni preesistenti, bagagli di conoscenze e altro ancora) e pensiamo invece ai commons come un sistema di relazioni sociali di tipo cooperativo, capaci di auto-normarsi, allora possiamo immaginare forme comunitarie dove persone e cose si specificano e si integrano. Nei commons le esigenze umane sono connaturate con quelle ecosistemiche. Genius loci e genuis popoli sono inestricabili. Societa' insediata e ambiti territoriali si compenetrano. I commons sono una particolare forma di governace autonoma, di comunita' auto-organizzate, alle diverse scale, capaci di relazionarsi tra loro, quindi, anche di federarsi. Come ha scritto John Holloway, i commons possono diventare quel "fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialita', di "comunalita'", un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune" (John Holloway, !Comunicemos!, in Herramienta, tradotto e pubblicato con il titolo: Mettiamo in comune il 3 novembre 2013 su Comune). O come hanno scritto Geroge Caffentzis e Silvia Federici:: "Le iniziative di commoning sono qualche cosa di piu' di un semplice argine contro gli assalti neoliberisti alle nostre vite. Esse sono semi, forme embrionali di un modo alternativo di produzione in divenire" (Creare beni comuni e mondi nuovi, in Comune 2015). Ha scritto Raj Patel: "E' il nesso che si instaura tra gli individui che definisce il bene comune. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise" (Raj Patel, 2007 Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano).
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Varchi e cunei, resistenze e diserzioni
E' possibile allora immaginare pratiche non capitaliste, spazi di separatezza e di autonomia, attivita' attinenti alla sfera del lavoro concreto e del valore d'uso, comunita' intenzionali e coerenti dimensioni culturali ed etiche che possono preparare e anticipare il cambiamento. Controtendenze contro-egemoniche, varchi e cunei, resistenze e diserzioni... comunque utili a formare una bagaglio di esperienze per non farci trovare impreparati al momento del cambiamento necessario, imposto agli eventi. In questo senso possiamo concepire il "comune come modo di produzione" (Toni Negri, Lavoro e proprieta' a fronte del comune, intervento al seminario Disarticolare la proprieta'. Beni comuni e le possibilita' del diritto, 8 ottobre 2013. Pubblicato su: euronomade.info e ControLaCrisi.org), che va oltre le relazioni sociali capitalistiche. "Queste realta' ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale - dice De Angelis - Ma se si guarda attentamente la cosa, questo e' solo un problema di diffusione e di scala [...] e' una questione che dipende dalle forze sociali" che si mobilitano e dal "rapporto che stabiliscono con il sistema stato e il sistema capitale". Insomma si tratta di una questione eminentemente politica.
Non stiamo valutando un modello teorico scritto a tavolino, ma una famiglia di pratiche concrete inevitabilmente esposte alle perturbazioni dell'economia di mercato. Molto spesso, quindi, le pratiche del commoning sono promiscue, ibride, contraddittorie; per una parte interne ai processi di valorizzazione capitalistica e per un'altra prefiguratrici di altre modalita' di relazioni produttive, di scambio e di utilizzo del lavoro umano e del patrimonio naturale comune. Ma se le motivazioni etiche sono salde e gli obiettivi socio-economici sono chiari (rigenerazione della vita, solidarieta', accoglienza, giustizia, ridistribuzione) non ci dobbiamo preoccupare troppo del rischio della loro cattura e sussunzione dentro i meccanismi del mercato (competizione, profitto, accumulazione ecc.). Possiamo anzi osare processi inversi. Ad esempio Michel Bauwens e Vasilis Niaros (teorici dei sistemi di produzione paritarie e open sources) nella pubblicazione Value in the Commons Economy, co-edito da Heinrich Boell Foundation e P2P Foundation, formulano ipotesi sorprendenti. Piuttosto che discutere sul rischio di neutralizzazione dei valori creati dalle nuove modalita' di produzione della commons economy chiediamoci, al contrario, cosa puo' accadere se i commons riuscissero ad essere la base di "una nuova economia che nasce all'interno del vecchio sistema". Si potrebbe allora "pensare ad una "cooptazione inversa" (reverse cooptation) del valore, dal vecchio sistema al nuovo. Puo' l'emergente economia commons-centrata, che crea valore in e attraverso i beni comuni, usare il capitale dal sistema capitalista o statale e aggiungerlo alla nuova logica?". Si possono, cioe', ipotizzare "all'interno dei confini dell'economia gia' esistente, flussi di valore piu' ampi sulla base di una nuova distribuzione di valore che riconosca i beni comuni e le sue distinte specie di creazione di valore?". Alcuni casi studio analizzati dagli autori dimostrano proprio le diverse interrelazioni possibili tra commons e mercato.
La pratica dei commons, il fare e il mettere in comune, la produzione di nuovi commons, l'emergere di un commons movement, ci dicono che qualcosa si puo' fare, oltre la denuncia e la critica, per dimostrare nel concreto che sarebbe possibile vivere in un altro modo, provocando meno sofferenze, insopportabili ingiustizie, precarieta' non necessarie, violenza. Ed e' qui che il pensiero ecofemminista di Shiva ci viene in aiuto mostrandoci una filosofia dell'azione politica. Shiva dice che non e' possibile "motivare all'impegno incutendo terrore". Meglio "accendere nei cittadini la voglia di vivere le loro migliori potenzialita' [...] La militanza comincia nella mente, nel cuore e nelle mani di ognuno". E, ancora: "Io vedo un numero crescente di persone pronte al cambiamento. Quel che manca non e' la quantita' dei cittadini in movimento, ma la connessione tra loro".
4. LIBRI. MONIA ANDREANI PRESENTA "UN'ETICA PER IL MONDO VIVENTE" DI LUISELLA BATTAGLIA
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.info riprendiamo il seguente articolo]
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.
Luisella Battaglia, Un'etica per il mondo vivente. Questioni di bioetica medica, ambientale e animale, Carocci, Roma 2011, pp. 295, euro 26,50.
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Questo volume offre un approfondimento scientifico della bioetica medica, ambientale e degli animali presentandosi anche come un valido strumento didattico. Il testo si apre con una parte introduttiva in cui l'autrice si cimenta nel compito di dare un taglio interpretativo della bioetica come etica della vita, una riflessione filosofica sui valori che tenga al centro la vita di tutti gli esseri viventi, compreso l'ambiente in cui viviamo. La bioetica, quindi, viene intesa come un laboratorio per trovare elementi di confronto costruttivo tra i paradigmi della scienza e quelli dell'ecologia.
Il punto di partenza e' dato dalla considerazione che il neologismo bioetica, nelle intenzioni dell'oncologo Potter, doveva promuovere una nuova direzione che avrebbe portato la scienza a migliorare la vita. Tuttavia, la bioetica si e' da subito allontanata da tali premesse, incentrate sul primato della scienza, ponendo la questione nei termini di un'etica detentrice della conoscenza dei limiti stessi della scienza. Il confronto serrato tra le due posizioni di fondo: da un lato la scientificizzazione dell'etica, e dall'altro il tentativo di eticizzazione della scienza, ha portato spesso il dibattito di fronte a strade senza uscita, pertanto si sono sviluppati alcuni modelli alternativi, volti a uscire dal pantano della contrapposizione. Il modello chiamato sfida/risposta ricostruisce la storia della bioetica nei termini di un confronto proficuo tra le innovazioni tecnologiche che hanno modificato la medicina e la riflessione etica, che e' stata arricchita da nuovi orizzonti (ad esempio, la modifica del concetto di parentalita' dopo l'avvento delle tecnologie riproduttive, l'ecologia e l'etologia come spazi in cui spendere una riflessione etica). La bioetica ha anche avuto il merito di riaprire il dibattito attorno alla razionalita' pratica e ha riattivato una discussione sul ruolo pubblico dell'argomentazione intesa come giustificazione di una scelta. La bioetica ha posto in risalto la filosofia come disciplina che ha il compito di chiarificare i termini e aiutare a impostare le argomentazioni in un campo che si rivolge inevitabilmente a questioni morali, politiche, religiose ed emotive, quindi di rilevanza assoluta in termini sia privati che pubblici. Anche se nel nostro Paese la bioetica e' intesa principalmente come terreno di scontro tra una cultura cattolica e una cultura laica, Battaglia ci ricorda che in una societa' pluralista sono molte le opzioni etiche che ragionano fuori dall'ipotesi di Dio e anche quando si parla di bioetica laica occorre considerarla come un campo articolato e per nulla univoco, seppur tendente all'ambizioso obiettivo di parlare ad un "uditorio universale", ovvero di pensare secondo criteri logici che includano l'umanita' in termini generali, anche nella prospettiva delle generazioni future. A questo proposito l'autrice introduce il pensiero della complessita' quale filtro privilegiato per lavorare sulla bioetica.
La medicina, il rapporto con l'ambiente e quello con gli animali costituiscono, infatti, le principali dimensioni attraverso cui oggi e' possibile articolare una riflessione etica complessa e interconnessa che abbia al centro il concetto di vita.
Il primo ambito di analisi e' quello della bioetica medica che l'autrice approfondisce a partire dalle molteplici significazioni e stratificazioni della medicina come spazio di cura, come "dialogo, una reciprocita' che non puo' che stabilirsi nel colloquio singolare della relazione tra due soggetti" (p. 33). Nella prospettiva attuale della medicina il paradigma paternalista e' stato sostituito da una nuova centralita' dei soggetti che partecipano alla relazione terapeutica. La ricerca della "buona medicina", che risponde alle mutate possibilita' della tecnologia diagnostica e alle nuove conoscenze biologiche, non puo' che tenere anche conto della complessita' di piani in cui si ritrovano insieme l'etica medica, la bioetica e l'etica dell'organizzazione sanitaria e prefiggersi l'obiettivo di rispondere ai principi di efficacia e giustizia e di appropriatezza, avendo sempre presente la questione dell'accesso ai servizi e delle allocazioni di risorse. Pertanto e' significativo il richiamo all'interrogazione critica del principio di autonomia, vincolato ad una doppia opzione culturale: da un lato alla cultura nord-americana che si concentra sulle decisioni autonome, dall'altro a quella europea continentale, che privilegia le persone come agenti autonomi. Scrive Luisella Battaglia: "Il contrasto e' tra una prospettiva che intende l'autonomia in modo pragmatico-empirico e una concezione che risale alla tradizione kantiana nel sottolineare il carattere autolegislatore della ragion pratica. E' possibile il dialogo tra le due tradizioni? In che modo coniugare il diritto irrinunciabile alla libera scelta con il tema cruciale della fiducia?" (p. 39). Una risposta praticabile e' quella di intendere la questione dell'autonomia sempre in gioco nella relazione tra equipe sanitaria e paziente e di esaminare il consenso informato come "la punta dell'iceberg" (p. 40) - secondo la definizione di Annette Baier - di una serie di problemi che riguardano la centralita' della relazione, in un quadro che deve tener conto del paternalismo medico da un lato e del mercantilismo della salute, dall'altro. Battaglia prende in esame la proposta di ampliamento dell'assetto valoriale della bioetica compiuta con la Dichiarazione di Barcellona del 1998, in cui accanto al principio di integrita' e a quello di dignita', si pongono sullo stesso piano il principio di autonomia e quello di vulnerabilita'. L'attenzione al paradigma della cura all'interno della riflessione bioetica e' per l'autrice una possibilita' di articolare in senso meno ideale e piu' realistico l'autonomia, per mettere in evidenza la condizione di costitutiva interdipendenza del nostro essere umani. Attraverso l'utilizzo del linguaggio della vulnerabilita', e' possibile non solo rendere giustizia all'approccio umanistico della medicina, ma soprattutto portare il linguaggio dei diritti e l'assetto giuridico dei diritti bioetici in un quadro di maggiore coerenza con la reale condizione di chi si trova in situazione di estrema vulnerabilita' e di disagio. Il linguaggio della vulnerabilita' e' debitore della visione della medicina di Paul Ricoeur che tiene al centro la figura del malato e la considerazione della malattia come quell'evento che ha un impatto tale nella biografia della persona ammalata da modificarne la sfera psicologica, quella sociale e soprattutto quella valoriale. Successivamente, Battaglia si impegna ad approfondire i quesiti bioetici che emergono dagli sviluppi dell'ingegneria genetica. A tale proposito l'autrice esamina due posizioni etiche contrapposte che prendono corpo dal lavoro di Jonas, da un lato, e da quello di Engelhardt, dall'altro. Il libro entra in una specifica analisi delle posizioni dei due autori e ne mette in luce gli aspetti piu' controversi. Da un lato la posizione di Jonas, che apre ad un'euristica della paura per enfatizzare, attraverso il principio di responsabilita', i concetti di limite e di preservazione/conservazione dell'umanita' futura; dall'altro Engelhardt, che privilegia la dimensione di utilita' sociale delle tecnologie genetiche, al fine di migliorare la vita umana.
Nel quadro di un'analisi complessa dell'etica della vita il tema della responsabilita' conduce Luisella Battaglia ad approfondire le questioni di bioetica ambientale. A tale proposito il percorso svolto e' quello di inquadrare il tema dell'ecologia come sfida per la riflessione antropologica ed etica. Secondo l'approccio dell'ecologia profonda, le conoscenze attorno alla vita del pianeta e all'interconnessione delle dinamiche vitali di tutti gli esseri viventi portano inevitabilmente l'ecologia ad essere un terreno di ridefinizione delle questioni valoriali profonde del nostro essere umani. Pertanto: "all'interno di una prospettiva biocentrica che assegna alla vita (bios) il primato assoluto, il valore intrinseco che noi attribuiamo a noi stessi viene attribuito a tutte le forme viventi" (p. 121). L'ecologia moderata, invece, accetta una parziale revisione dell'antropocentrismo e propone una serie di correzioni all'azione indiscriminata dell'uomo come padrone assoluto dell'ambiente, guidate da una visione etica centrata sulla responsabilita' e orientata alla custodia della biosfera e alla promozione della vita dell'umanita' anche nella prospettiva delle generazioni future. Dopo aver illustrato le questioni in campo, l'autrice dedica un'ampia parte alla ricostruzione del pensiero ecologico con particolare attenzione al complesso e articolato lavoro del geografo anarchico francese Elisee Reclus. Dalle istanze iniziali gia' ben enucleate da Reclus, l'etica ecologica prende corpo nella riflessione tardo novecentesca, a partire dalla visione normativa di Leopold fino alle posizioni di Toulmin dedicate al rapporto tra scienza ed ecologia con l'obiettivo di superare una visione antropocentrica della scienza. Un paragrafo di grande interesse e' dedicato al rapporto tra i modelli dell'etica e l'azione umana sull'ambiente. Al modello di sfruttamento dell'ambiente, ormai definitivamente in crisi, corrisponde un modo dell'agire che e' di puro dominio, mentre alla parziale revisione di tale modello corrisponde l'idea della conservazione delle risorse, che si configura con un'etica della gestione delle medesime; un modello ulteriormente piu' vicino all'integrazione ecologica promuove l'idea della preservazione delle risorse e una conseguente cultura della tutela. Quest'ultimo modello e' articolato in senso teorico da autori come Serge Latouche e dal punto di vista della traduzione in modelli pratici di convivenza, dalle innovative istanze del movimento delle citta' in transizione (Transition Towns Network), che vede intere comunita' territoriali in Europa scegliere percorsi di democrazia diretta per trovare soluzione condivisa al problema delle energie fossili e riconvertire le attivita' pubbliche e private verso le energie rinnovabili.
In una ridefinizione della bioetica che riguardi i soggetti umani, l'ambiente e gli animali, l'autrice introduce il tema dell'etica animale, argomento di cui si e' occupata gia' in passato e rispetto al quale e' riconosciuta tra le piu' illustri voci del dibattito italiano e internazionale. Il percorso tracciato nell'ultima parte del volume, e' di forte caratterizzazione didattica. L'autrice traccia una vera e propria mappa della filosofia animalista muovendosi tra due orientamenti diversi: una posizione libertaria, da un lato, e una filosofia ecologica, dall'altro. La posizione libertaria trae origine dalla filosofia dei diritti umani e si propone di promuovere la cultura dell'allargamento dei diritti di eguaglianza anche agli animali non umani. Al centro di questa posizione si trovano il nome di Singer e quello di Regan. Tracciando i contorni di una filosofia ecologica emerge, invece, una prospettiva diversa che vede al centro il rapporto tra esseri umani e ambiente e soprattutto la questione degli animali non umani. Secondo Passmore, il concetto stesso del diritto diventa quasi inapplicabile o inutilmente appellabile in un quadro che ha mutato la visione complessiva della comunita' biotica fino a comprendere tutti gli esseri biologicamente viventi. Sul solco di Passmore ma con l'intento di trovare una conciliazione con le posizioni radicali di Singer e Regan, la psicologa Midgley sostiene che il legame di specie non significa portare avanti istanze speciste e quindi escludenti le altre specie, ma anzi sottolinea la peculiarita' dell'intelligenza umana che e' quella di poter sviluppare una simpatia verso le altre specie e allargare l'approccio morale nella direzione di una solidarieta' allargata. Il libro prosegue la sua ricostruzione con un'accurata analisi del complesso dibattito che concerne la questione animale e la coscienza cristiana, con particolare attenzione alla voce autorevole di Primatt, che propone un allargamento del concetto di creaturalita' a tutti gli animali e apre ad un rinnovato dibattito sul concetto di giustizia verso gli altri animali.
Avviandosi alla conclusione l'autrice compie un'analisi delle prospettive etiche che si rivolgono alla fraternita' come valore da allargare agli altri esseri viventi, esaminando in particolare il tema della compassione, che Martha Nussbaum rielabora a partire da Aristotele, e l'etica della cura come quella sfida a rendersi responsabili in un quadro di asimmetria persistente tra noi umani e gli altri animali. L'ultima parte del libro si rivolge alla questione teorica del confine tra umanita' e animalita', che e' oggi la principale tematica dibattuta anche in campo bioetico. In che modo il benessere animale si coniuga con la salute umana? Perche' la bioetica veterinaria e' un campo di discussione cosi' interessante in una prospettiva interdisciplinare? Che tipo di etica alimentare promuovere di fronte alla questione animale? Viene offerto spazio anche ai temi piu' dibattuti nel campo della bioetica animale: il ruolo della Pet Therapy nelle scelte terapeutiche, la sperimentazione animale, con particolare attenzione ai modelli alternativi e alla questione dell'obiezione di coscienza, il tema del prelievo di organi da animali, la questione spinosa degli animali transgenici e l'ipotesi futuribile ma altrettanto discussa, perche' moralmente rilevante, della brevettazione degli animali.
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Questo volume offre un approfondimento scientifico della bioetica medica, ambientale e degli animali presentandosi anche come un valido strumento didattico. Il testo si apre con una parte introduttiva in cui l'autrice si cimenta nel compito di dare un taglio interpretativo della bioetica come etica della vita, una riflessione filosofica sui valori che tenga al centro la vita di tutti gli esseri viventi, compreso l'ambiente in cui viviamo. La bioetica, quindi, viene intesa come un laboratorio per trovare elementi di confronto costruttivo tra i paradigmi della scienza e quelli dell'ecologia.
Il punto di partenza e' dato dalla considerazione che il neologismo bioetica, nelle intenzioni dell'oncologo Potter, doveva promuovere una nuova direzione che avrebbe portato la scienza a migliorare la vita. Tuttavia, la bioetica si e' da subito allontanata da tali premesse, incentrate sul primato della scienza, ponendo la questione nei termini di un'etica detentrice della conoscenza dei limiti stessi della scienza. Il confronto serrato tra le due posizioni di fondo: da un lato la scientificizzazione dell'etica, e dall'altro il tentativo di eticizzazione della scienza, ha portato spesso il dibattito di fronte a strade senza uscita, pertanto si sono sviluppati alcuni modelli alternativi, volti a uscire dal pantano della contrapposizione. Il modello chiamato sfida/risposta ricostruisce la storia della bioetica nei termini di un confronto proficuo tra le innovazioni tecnologiche che hanno modificato la medicina e la riflessione etica, che e' stata arricchita da nuovi orizzonti (ad esempio, la modifica del concetto di parentalita' dopo l'avvento delle tecnologie riproduttive, l'ecologia e l'etologia come spazi in cui spendere una riflessione etica). La bioetica ha anche avuto il merito di riaprire il dibattito attorno alla razionalita' pratica e ha riattivato una discussione sul ruolo pubblico dell'argomentazione intesa come giustificazione di una scelta. La bioetica ha posto in risalto la filosofia come disciplina che ha il compito di chiarificare i termini e aiutare a impostare le argomentazioni in un campo che si rivolge inevitabilmente a questioni morali, politiche, religiose ed emotive, quindi di rilevanza assoluta in termini sia privati che pubblici. Anche se nel nostro Paese la bioetica e' intesa principalmente come terreno di scontro tra una cultura cattolica e una cultura laica, Battaglia ci ricorda che in una societa' pluralista sono molte le opzioni etiche che ragionano fuori dall'ipotesi di Dio e anche quando si parla di bioetica laica occorre considerarla come un campo articolato e per nulla univoco, seppur tendente all'ambizioso obiettivo di parlare ad un "uditorio universale", ovvero di pensare secondo criteri logici che includano l'umanita' in termini generali, anche nella prospettiva delle generazioni future. A questo proposito l'autrice introduce il pensiero della complessita' quale filtro privilegiato per lavorare sulla bioetica.
La medicina, il rapporto con l'ambiente e quello con gli animali costituiscono, infatti, le principali dimensioni attraverso cui oggi e' possibile articolare una riflessione etica complessa e interconnessa che abbia al centro il concetto di vita.
Il primo ambito di analisi e' quello della bioetica medica che l'autrice approfondisce a partire dalle molteplici significazioni e stratificazioni della medicina come spazio di cura, come "dialogo, una reciprocita' che non puo' che stabilirsi nel colloquio singolare della relazione tra due soggetti" (p. 33). Nella prospettiva attuale della medicina il paradigma paternalista e' stato sostituito da una nuova centralita' dei soggetti che partecipano alla relazione terapeutica. La ricerca della "buona medicina", che risponde alle mutate possibilita' della tecnologia diagnostica e alle nuove conoscenze biologiche, non puo' che tenere anche conto della complessita' di piani in cui si ritrovano insieme l'etica medica, la bioetica e l'etica dell'organizzazione sanitaria e prefiggersi l'obiettivo di rispondere ai principi di efficacia e giustizia e di appropriatezza, avendo sempre presente la questione dell'accesso ai servizi e delle allocazioni di risorse. Pertanto e' significativo il richiamo all'interrogazione critica del principio di autonomia, vincolato ad una doppia opzione culturale: da un lato alla cultura nord-americana che si concentra sulle decisioni autonome, dall'altro a quella europea continentale, che privilegia le persone come agenti autonomi. Scrive Luisella Battaglia: "Il contrasto e' tra una prospettiva che intende l'autonomia in modo pragmatico-empirico e una concezione che risale alla tradizione kantiana nel sottolineare il carattere autolegislatore della ragion pratica. E' possibile il dialogo tra le due tradizioni? In che modo coniugare il diritto irrinunciabile alla libera scelta con il tema cruciale della fiducia?" (p. 39). Una risposta praticabile e' quella di intendere la questione dell'autonomia sempre in gioco nella relazione tra equipe sanitaria e paziente e di esaminare il consenso informato come "la punta dell'iceberg" (p. 40) - secondo la definizione di Annette Baier - di una serie di problemi che riguardano la centralita' della relazione, in un quadro che deve tener conto del paternalismo medico da un lato e del mercantilismo della salute, dall'altro. Battaglia prende in esame la proposta di ampliamento dell'assetto valoriale della bioetica compiuta con la Dichiarazione di Barcellona del 1998, in cui accanto al principio di integrita' e a quello di dignita', si pongono sullo stesso piano il principio di autonomia e quello di vulnerabilita'. L'attenzione al paradigma della cura all'interno della riflessione bioetica e' per l'autrice una possibilita' di articolare in senso meno ideale e piu' realistico l'autonomia, per mettere in evidenza la condizione di costitutiva interdipendenza del nostro essere umani. Attraverso l'utilizzo del linguaggio della vulnerabilita', e' possibile non solo rendere giustizia all'approccio umanistico della medicina, ma soprattutto portare il linguaggio dei diritti e l'assetto giuridico dei diritti bioetici in un quadro di maggiore coerenza con la reale condizione di chi si trova in situazione di estrema vulnerabilita' e di disagio. Il linguaggio della vulnerabilita' e' debitore della visione della medicina di Paul Ricoeur che tiene al centro la figura del malato e la considerazione della malattia come quell'evento che ha un impatto tale nella biografia della persona ammalata da modificarne la sfera psicologica, quella sociale e soprattutto quella valoriale. Successivamente, Battaglia si impegna ad approfondire i quesiti bioetici che emergono dagli sviluppi dell'ingegneria genetica. A tale proposito l'autrice esamina due posizioni etiche contrapposte che prendono corpo dal lavoro di Jonas, da un lato, e da quello di Engelhardt, dall'altro. Il libro entra in una specifica analisi delle posizioni dei due autori e ne mette in luce gli aspetti piu' controversi. Da un lato la posizione di Jonas, che apre ad un'euristica della paura per enfatizzare, attraverso il principio di responsabilita', i concetti di limite e di preservazione/conservazione dell'umanita' futura; dall'altro Engelhardt, che privilegia la dimensione di utilita' sociale delle tecnologie genetiche, al fine di migliorare la vita umana.
Nel quadro di un'analisi complessa dell'etica della vita il tema della responsabilita' conduce Luisella Battaglia ad approfondire le questioni di bioetica ambientale. A tale proposito il percorso svolto e' quello di inquadrare il tema dell'ecologia come sfida per la riflessione antropologica ed etica. Secondo l'approccio dell'ecologia profonda, le conoscenze attorno alla vita del pianeta e all'interconnessione delle dinamiche vitali di tutti gli esseri viventi portano inevitabilmente l'ecologia ad essere un terreno di ridefinizione delle questioni valoriali profonde del nostro essere umani. Pertanto: "all'interno di una prospettiva biocentrica che assegna alla vita (bios) il primato assoluto, il valore intrinseco che noi attribuiamo a noi stessi viene attribuito a tutte le forme viventi" (p. 121). L'ecologia moderata, invece, accetta una parziale revisione dell'antropocentrismo e propone una serie di correzioni all'azione indiscriminata dell'uomo come padrone assoluto dell'ambiente, guidate da una visione etica centrata sulla responsabilita' e orientata alla custodia della biosfera e alla promozione della vita dell'umanita' anche nella prospettiva delle generazioni future. Dopo aver illustrato le questioni in campo, l'autrice dedica un'ampia parte alla ricostruzione del pensiero ecologico con particolare attenzione al complesso e articolato lavoro del geografo anarchico francese Elisee Reclus. Dalle istanze iniziali gia' ben enucleate da Reclus, l'etica ecologica prende corpo nella riflessione tardo novecentesca, a partire dalla visione normativa di Leopold fino alle posizioni di Toulmin dedicate al rapporto tra scienza ed ecologia con l'obiettivo di superare una visione antropocentrica della scienza. Un paragrafo di grande interesse e' dedicato al rapporto tra i modelli dell'etica e l'azione umana sull'ambiente. Al modello di sfruttamento dell'ambiente, ormai definitivamente in crisi, corrisponde un modo dell'agire che e' di puro dominio, mentre alla parziale revisione di tale modello corrisponde l'idea della conservazione delle risorse, che si configura con un'etica della gestione delle medesime; un modello ulteriormente piu' vicino all'integrazione ecologica promuove l'idea della preservazione delle risorse e una conseguente cultura della tutela. Quest'ultimo modello e' articolato in senso teorico da autori come Serge Latouche e dal punto di vista della traduzione in modelli pratici di convivenza, dalle innovative istanze del movimento delle citta' in transizione (Transition Towns Network), che vede intere comunita' territoriali in Europa scegliere percorsi di democrazia diretta per trovare soluzione condivisa al problema delle energie fossili e riconvertire le attivita' pubbliche e private verso le energie rinnovabili.
In una ridefinizione della bioetica che riguardi i soggetti umani, l'ambiente e gli animali, l'autrice introduce il tema dell'etica animale, argomento di cui si e' occupata gia' in passato e rispetto al quale e' riconosciuta tra le piu' illustri voci del dibattito italiano e internazionale. Il percorso tracciato nell'ultima parte del volume, e' di forte caratterizzazione didattica. L'autrice traccia una vera e propria mappa della filosofia animalista muovendosi tra due orientamenti diversi: una posizione libertaria, da un lato, e una filosofia ecologica, dall'altro. La posizione libertaria trae origine dalla filosofia dei diritti umani e si propone di promuovere la cultura dell'allargamento dei diritti di eguaglianza anche agli animali non umani. Al centro di questa posizione si trovano il nome di Singer e quello di Regan. Tracciando i contorni di una filosofia ecologica emerge, invece, una prospettiva diversa che vede al centro il rapporto tra esseri umani e ambiente e soprattutto la questione degli animali non umani. Secondo Passmore, il concetto stesso del diritto diventa quasi inapplicabile o inutilmente appellabile in un quadro che ha mutato la visione complessiva della comunita' biotica fino a comprendere tutti gli esseri biologicamente viventi. Sul solco di Passmore ma con l'intento di trovare una conciliazione con le posizioni radicali di Singer e Regan, la psicologa Midgley sostiene che il legame di specie non significa portare avanti istanze speciste e quindi escludenti le altre specie, ma anzi sottolinea la peculiarita' dell'intelligenza umana che e' quella di poter sviluppare una simpatia verso le altre specie e allargare l'approccio morale nella direzione di una solidarieta' allargata. Il libro prosegue la sua ricostruzione con un'accurata analisi del complesso dibattito che concerne la questione animale e la coscienza cristiana, con particolare attenzione alla voce autorevole di Primatt, che propone un allargamento del concetto di creaturalita' a tutti gli animali e apre ad un rinnovato dibattito sul concetto di giustizia verso gli altri animali.
Avviandosi alla conclusione l'autrice compie un'analisi delle prospettive etiche che si rivolgono alla fraternita' come valore da allargare agli altri esseri viventi, esaminando in particolare il tema della compassione, che Martha Nussbaum rielabora a partire da Aristotele, e l'etica della cura come quella sfida a rendersi responsabili in un quadro di asimmetria persistente tra noi umani e gli altri animali. L'ultima parte del libro si rivolge alla questione teorica del confine tra umanita' e animalita', che e' oggi la principale tematica dibattuta anche in campo bioetico. In che modo il benessere animale si coniuga con la salute umana? Perche' la bioetica veterinaria e' un campo di discussione cosi' interessante in una prospettiva interdisciplinare? Che tipo di etica alimentare promuovere di fronte alla questione animale? Viene offerto spazio anche ai temi piu' dibattuti nel campo della bioetica animale: il ruolo della Pet Therapy nelle scelte terapeutiche, la sperimentazione animale, con particolare attenzione ai modelli alternativi e alla questione dell'obiezione di coscienza, il tema del prelievo di organi da animali, la questione spinosa degli animali transgenici e l'ipotesi futuribile ma altrettanto discussa, perche' moralmente rilevante, della brevettazione degli animali.
5. LIBRI. MARIA GIULIA BERNARDINI PRESENTA "LA CURA DELL'AMORE. DONNE, UGUAGLIANZA, DIPENDENZA" DI EVA FEDER KITTAY
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.info riprendiamo il seguente articolo]
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.
Eva Feder Kittay, La cura dell'amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 358, euro 19,80.
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E' stato finalmente tradotto anche in italiano il libro piu' celebre di Eva Feder Kittay, Love's Labor - Essays on Women, Equality, and Dependency, disponibile nella sua versione italiana da ottobre 2010.
Il pensiero di Kittay e' difficilmente classificabile: la sua riflessione, che si muove nell'ambito dell'etica della cura, si compone di registri linguistici assai differenti, che spaziano dal racconto personale (l'Autrice e' madre di una donna con gravi disabilita' cognitive) alla critica alle teorie della giustizia di stampo liberale (in particolar modo al pensiero di John Rawls, uno dei piu' influenti degli ultimi trent'anni), e costituisce un importante punto di riferimento anche per il dibattito sviluppatosi in seno ai Disability Studies.
Kittay non manca poi di proporre un originale angolo prospettico da cui guardare le questioni di giustizia ed eguaglianza. L'autrice assume, infatti, come categoria in grado di dare voce alle esigenze di giustizia da lei sottolineate quella del figlio, archetipo della vulnerabilita' e della dipendenza umana, nonche' simbolo di chi si prende cura degli altri. In tal modo la Kittay si propone di mettere in discussione e riconfigurare alcune acquisizioni cardine della riflessione filosofica contemporanea, ed in particolar modo il fatto che gli elementi costitutivi essenziali dell'individuo siano la razionalita' e l'autonomia. Per Kittay, al contrario, cio' che accomuna ogni essere umano sono la fragilita' e vulnerabilita' umane, espresse in quella dipendenza che ognuno di noi sperimenta almeno in una fase della propria esistenza, l'infanzia.
Si registrano qui importanti punti di convergenza con Martha Nussbaum (cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia: disabilita', nazionalita', appartenenza di specie, Bologna, Il Mulino, 2007) e con gran parte della riflessione femminista, che gia' da alcuni decenni riflette sulla questione dell'autonomia, introducendo, ad esempio, la categoria dell'autonomia relazionale (cfr. C. MacKenzie, N. Stolijiar, Relational Autonomy: feminist perspectives on Autonomy, Agency and the Social Self, New York, Oxford University Press 2000).
La stessa Kittay, del resto, afferma che la sua critica della dipendenza sia una critica femminista dell'eguaglianza, basata sulla constatazione che la concezione della societa' costituita da eguali occulti dipendenze inique, legate ad infanzia, malattia, vecchiaia, disabilita': finche' siamo dipendenti non siamo in condizione di entrare in competizione per i beni della cooperazione sociale in termini di eguaglianza (p. XXXII). Anche il suo "io trasparente", inteso come individuo attraverso il quale vengono percepite le esigenze altrui - che vede i bisogni degli altri prima dei propri e che viene impersonificato dal dependency worker -, puo' essere inserito all'interno delle riflessioni in tema di "io-in-relazione", "io solubile" o "io-che-si-dona" gia' sviluppate, tra gli altri, da Chodorow, Keller, Gilligan, Irigaray. Si tratta, chiaramente, di un soggetto che si pone in netto contrasto con l'io della tradizione liberale dei diritti e dei vantaggi.
Il volume si compone di tre parti: elemento comune e' il requisito della dipendenza, che viene in primo luogo declinata con riguardo all'uguaglianza, alle relazioni umane ed alla figura del dependency worker (cui l'Autrice rivolge sempre un'attenzione particolare, per farla uscire dall'ombra in cui e' stata tradizionalmente relegata), poi usata come chiave di critica delle teorie egualitarie di stampo liberale (dove Rawls viene preso a modello), infine impiegata per analizzare alcune delle politiche statunitensi riguardanti la dipendenza e per rendere nota la propria esperienza personale di madre di una persona con disabilita', ed avanzare alcune riflessioni sul rapporto tra cura della disabilita' e giustizia sociale.
Un accento cosi' massiccio sulle relazioni di dipendenza e' dovuto al fatto che per l'Autrice risulta urgente, non solo superare il modello antropologico liberale riconoscendo l'interdipendenza umana, ma soprattutto constatare come, almeno in alcuni momenti della nostra vita, siamo necessariamente dipendenti: "[finche'] non accettiamo e addirittura comprendiamo questa dipendenza come origine dei nostri legami piu' profondi e come radice di ogni organizzazione sociale umana, non troveremo mai la strada verso una societa' pienamente giusta e assistenziale in cui si realizzi l'uguaglianza [...]" (pp. XIX-XX).
Riferirsi, come si fa tradizionalmente, all'interdipendenza, risulta pertanto insufficiente, sia perche' questa comincia e termina con la dipendenza (quantomeno con quella del neonato e dell'anziano), sia e soprattutto perche' si rivela anch'essa escludente nei confronti di alcune categorie di individui, in particolar modo riguardo a coloro che hanno dipendenze estreme (si pensi ad esempio a chi presenta gravi disabilita', soprattutto cognitive). Escludere la dipendenza dai contesti sociali e politici rafforza la pretesa di indipendenza, cosicche' l'interdipendenza per Kittay altro non sarebbe che una cooperazione reciproca tra persone essenzialmente indipendenti, e quindi strumento di esclusione per chi indipendente non potra' mai essere.
Si tratta di una questione cruciale in ambito filosofico, poiche' per secoli nella riflessione filosofica autonomia, indipendenza e razionalita' sono state le cifre caratterizzanti l'individuo: con il contrattualismo di Locke, Hobbes e Rousseau prima, per giungere, attraverso Kant, a Dworkin e Rawls, il modello antropologico di riferimento e' stato un individuo razionale ed indipendente, pienamente cooperativo nella societa' per almeno buona parte della propria esistenza. Nonostante, ad esempio, Rawls sia considerato un punto di riferimento imprescindibile di ogni teoria della giustizia contemporanea, nei riguardi della disabilita' egli ha scritto: "Anche se ci piacerebbe poter arrivare a rispondere a tutte queste domande, dubito molto che la cosa sia fattibile all'interno della giustizia come equita', in quanto concezione politica" (Liberalismo Politico), mentre in Una teoria della giustizia afferma: "Dovremmo ricordare i limiti di una teoria della giustizia", notando che quest'ultima non offre una spiegazione della giusta condotta nei confronti degli esseri privi della capacita' di esercitare il senso di giustizia, tra cui possono essere ricompresi gli esseri umani con gravi disabilita' mentali.
Nella sua critica al concetto di indipendenza Kittay non si oppone solo al modello antropologico liberale ancora oggi in gran parte egemone, ma contesta anche le posizioni proprie dei Disability Studies improntati al modello sociale, soprattutto di stampo inglese. Questi ultimi, infatti, sono critici circa il ruolo svolto dalla cura, in quanto quest'ultima storicamente e' stata spesso uno strumento di gestione paternalistica delle esistenze delle persone con disabilita', e propongono, di contro, l'Indipendent Living, ossia la promozione di misure che consentano alle persone con disabilita' di stabilire relazioni simmetriche con i prestatori di cura (mentre tradizionalmente le relazioni sono state connotate da asimmetria) e di svolgere una vita il piu' indipendente ed autosufficiente possibile.
Se Kittay non contesta l'importanza che riveste per ognuno il fatto di raggiungere almeno un certo grado di autosufficienza, tuttavia riflette sul fatto che insistere sull'indipendenza puo' in realta' significare cadere nuovamente nel modello liberale, che di fatto esclude comunque dalla propria riflessione quegli individui che non potranno mai raggiungere l'indipendenza, come ad esempio le persone con gravi disabilita' cognitive.
Kittay giunge poi ad alcune conclusioni simili a quelle dei Disability Studies nel settimo ed ultimo capitolo, in cui analizza alcuni dilemmi legati alla percezione socio-culturale della questione-disabilita'. Ne emerge l'importanza della socializzazione del figlio con disabilita' (e della persona con disabilita' in genere), accompagnata tuttavia dal rischio connesso alla normalizzazione. L'ansia di "normalizzare" e rendere il proprio figlio il piu' possibile simile agli altri, infatti, e' un modo - spesso anche inconsapevole - per riaffermare quella che Morris ha definito come "tirannia della perfezione", ossia e' comunque espressione della generale paura e diffidenza nei confronti della disabilita', cui e' associato un pesante stigma sociale.
Risulta pertanto necessario un profondo impegno volto ad un cambiamento socio-culturale che consenta l'accettazione del bambino (e della persona) con disabilita'. La normalizzazione, infatti, viene spesso vissuta come tentativo di cambiamento della persona con disabilita', e quindi come azzeramento e cancellazione della sua identita'. Spesso la normalizzazione e', pertanto, la negazione della diversita' umana: non e' un'accettazione della differenza e di fronte alla differenza, ma un'accettazione malgrado la differenza. Di contro, cio' che Kittay auspica, e' una risignificazione di concetti come "vulnerabilita' umana", "reciprocita'" ed "uguaglianza", che consentano di recuperare le relazioni interpersonali prima degli individui, e di configurare le stesse come costituite da una rete di dipendenze, nella consapevolezza che porre l'enfasi sulla reciprocita' non e' la chiave per ottenere una reale inclusione degli individui - e specialmente delle persone con gravi disabilita' - e consentire loro di vivere una vita decente.
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E' stato finalmente tradotto anche in italiano il libro piu' celebre di Eva Feder Kittay, Love's Labor - Essays on Women, Equality, and Dependency, disponibile nella sua versione italiana da ottobre 2010.
Il pensiero di Kittay e' difficilmente classificabile: la sua riflessione, che si muove nell'ambito dell'etica della cura, si compone di registri linguistici assai differenti, che spaziano dal racconto personale (l'Autrice e' madre di una donna con gravi disabilita' cognitive) alla critica alle teorie della giustizia di stampo liberale (in particolar modo al pensiero di John Rawls, uno dei piu' influenti degli ultimi trent'anni), e costituisce un importante punto di riferimento anche per il dibattito sviluppatosi in seno ai Disability Studies.
Kittay non manca poi di proporre un originale angolo prospettico da cui guardare le questioni di giustizia ed eguaglianza. L'autrice assume, infatti, come categoria in grado di dare voce alle esigenze di giustizia da lei sottolineate quella del figlio, archetipo della vulnerabilita' e della dipendenza umana, nonche' simbolo di chi si prende cura degli altri. In tal modo la Kittay si propone di mettere in discussione e riconfigurare alcune acquisizioni cardine della riflessione filosofica contemporanea, ed in particolar modo il fatto che gli elementi costitutivi essenziali dell'individuo siano la razionalita' e l'autonomia. Per Kittay, al contrario, cio' che accomuna ogni essere umano sono la fragilita' e vulnerabilita' umane, espresse in quella dipendenza che ognuno di noi sperimenta almeno in una fase della propria esistenza, l'infanzia.
Si registrano qui importanti punti di convergenza con Martha Nussbaum (cfr. M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia: disabilita', nazionalita', appartenenza di specie, Bologna, Il Mulino, 2007) e con gran parte della riflessione femminista, che gia' da alcuni decenni riflette sulla questione dell'autonomia, introducendo, ad esempio, la categoria dell'autonomia relazionale (cfr. C. MacKenzie, N. Stolijiar, Relational Autonomy: feminist perspectives on Autonomy, Agency and the Social Self, New York, Oxford University Press 2000).
La stessa Kittay, del resto, afferma che la sua critica della dipendenza sia una critica femminista dell'eguaglianza, basata sulla constatazione che la concezione della societa' costituita da eguali occulti dipendenze inique, legate ad infanzia, malattia, vecchiaia, disabilita': finche' siamo dipendenti non siamo in condizione di entrare in competizione per i beni della cooperazione sociale in termini di eguaglianza (p. XXXII). Anche il suo "io trasparente", inteso come individuo attraverso il quale vengono percepite le esigenze altrui - che vede i bisogni degli altri prima dei propri e che viene impersonificato dal dependency worker -, puo' essere inserito all'interno delle riflessioni in tema di "io-in-relazione", "io solubile" o "io-che-si-dona" gia' sviluppate, tra gli altri, da Chodorow, Keller, Gilligan, Irigaray. Si tratta, chiaramente, di un soggetto che si pone in netto contrasto con l'io della tradizione liberale dei diritti e dei vantaggi.
Il volume si compone di tre parti: elemento comune e' il requisito della dipendenza, che viene in primo luogo declinata con riguardo all'uguaglianza, alle relazioni umane ed alla figura del dependency worker (cui l'Autrice rivolge sempre un'attenzione particolare, per farla uscire dall'ombra in cui e' stata tradizionalmente relegata), poi usata come chiave di critica delle teorie egualitarie di stampo liberale (dove Rawls viene preso a modello), infine impiegata per analizzare alcune delle politiche statunitensi riguardanti la dipendenza e per rendere nota la propria esperienza personale di madre di una persona con disabilita', ed avanzare alcune riflessioni sul rapporto tra cura della disabilita' e giustizia sociale.
Un accento cosi' massiccio sulle relazioni di dipendenza e' dovuto al fatto che per l'Autrice risulta urgente, non solo superare il modello antropologico liberale riconoscendo l'interdipendenza umana, ma soprattutto constatare come, almeno in alcuni momenti della nostra vita, siamo necessariamente dipendenti: "[finche'] non accettiamo e addirittura comprendiamo questa dipendenza come origine dei nostri legami piu' profondi e come radice di ogni organizzazione sociale umana, non troveremo mai la strada verso una societa' pienamente giusta e assistenziale in cui si realizzi l'uguaglianza [...]" (pp. XIX-XX).
Riferirsi, come si fa tradizionalmente, all'interdipendenza, risulta pertanto insufficiente, sia perche' questa comincia e termina con la dipendenza (quantomeno con quella del neonato e dell'anziano), sia e soprattutto perche' si rivela anch'essa escludente nei confronti di alcune categorie di individui, in particolar modo riguardo a coloro che hanno dipendenze estreme (si pensi ad esempio a chi presenta gravi disabilita', soprattutto cognitive). Escludere la dipendenza dai contesti sociali e politici rafforza la pretesa di indipendenza, cosicche' l'interdipendenza per Kittay altro non sarebbe che una cooperazione reciproca tra persone essenzialmente indipendenti, e quindi strumento di esclusione per chi indipendente non potra' mai essere.
Si tratta di una questione cruciale in ambito filosofico, poiche' per secoli nella riflessione filosofica autonomia, indipendenza e razionalita' sono state le cifre caratterizzanti l'individuo: con il contrattualismo di Locke, Hobbes e Rousseau prima, per giungere, attraverso Kant, a Dworkin e Rawls, il modello antropologico di riferimento e' stato un individuo razionale ed indipendente, pienamente cooperativo nella societa' per almeno buona parte della propria esistenza. Nonostante, ad esempio, Rawls sia considerato un punto di riferimento imprescindibile di ogni teoria della giustizia contemporanea, nei riguardi della disabilita' egli ha scritto: "Anche se ci piacerebbe poter arrivare a rispondere a tutte queste domande, dubito molto che la cosa sia fattibile all'interno della giustizia come equita', in quanto concezione politica" (Liberalismo Politico), mentre in Una teoria della giustizia afferma: "Dovremmo ricordare i limiti di una teoria della giustizia", notando che quest'ultima non offre una spiegazione della giusta condotta nei confronti degli esseri privi della capacita' di esercitare il senso di giustizia, tra cui possono essere ricompresi gli esseri umani con gravi disabilita' mentali.
Nella sua critica al concetto di indipendenza Kittay non si oppone solo al modello antropologico liberale ancora oggi in gran parte egemone, ma contesta anche le posizioni proprie dei Disability Studies improntati al modello sociale, soprattutto di stampo inglese. Questi ultimi, infatti, sono critici circa il ruolo svolto dalla cura, in quanto quest'ultima storicamente e' stata spesso uno strumento di gestione paternalistica delle esistenze delle persone con disabilita', e propongono, di contro, l'Indipendent Living, ossia la promozione di misure che consentano alle persone con disabilita' di stabilire relazioni simmetriche con i prestatori di cura (mentre tradizionalmente le relazioni sono state connotate da asimmetria) e di svolgere una vita il piu' indipendente ed autosufficiente possibile.
Se Kittay non contesta l'importanza che riveste per ognuno il fatto di raggiungere almeno un certo grado di autosufficienza, tuttavia riflette sul fatto che insistere sull'indipendenza puo' in realta' significare cadere nuovamente nel modello liberale, che di fatto esclude comunque dalla propria riflessione quegli individui che non potranno mai raggiungere l'indipendenza, come ad esempio le persone con gravi disabilita' cognitive.
Kittay giunge poi ad alcune conclusioni simili a quelle dei Disability Studies nel settimo ed ultimo capitolo, in cui analizza alcuni dilemmi legati alla percezione socio-culturale della questione-disabilita'. Ne emerge l'importanza della socializzazione del figlio con disabilita' (e della persona con disabilita' in genere), accompagnata tuttavia dal rischio connesso alla normalizzazione. L'ansia di "normalizzare" e rendere il proprio figlio il piu' possibile simile agli altri, infatti, e' un modo - spesso anche inconsapevole - per riaffermare quella che Morris ha definito come "tirannia della perfezione", ossia e' comunque espressione della generale paura e diffidenza nei confronti della disabilita', cui e' associato un pesante stigma sociale.
Risulta pertanto necessario un profondo impegno volto ad un cambiamento socio-culturale che consenta l'accettazione del bambino (e della persona) con disabilita'. La normalizzazione, infatti, viene spesso vissuta come tentativo di cambiamento della persona con disabilita', e quindi come azzeramento e cancellazione della sua identita'. Spesso la normalizzazione e', pertanto, la negazione della diversita' umana: non e' un'accettazione della differenza e di fronte alla differenza, ma un'accettazione malgrado la differenza. Di contro, cio' che Kittay auspica, e' una risignificazione di concetti come "vulnerabilita' umana", "reciprocita'" ed "uguaglianza", che consentano di recuperare le relazioni interpersonali prima degli individui, e di configurare le stesse come costituite da una rete di dipendenze, nella consapevolezza che porre l'enfasi sulla reciprocita' non e' la chiave per ottenere una reale inclusione degli individui - e specialmente delle persone con gravi disabilita' - e consentire loro di vivere una vita decente.
6. LIBRI. ANTONIO CIMINO PRESENTA "INTRODUZIONE ALLA VERITA'" DI FRANCA D'AGOSTINI
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.info riprendiamo il seguente articolo]
[Dal sito wwww.recensionifilosofiche.
Franca D'Agostini, Introduzione alla verita', Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 359, euro 16,50.
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A Franca D'Agostini la cultura filosofica italiana degli ultimi quindici anni deve magistrali ricostruzioni storiografiche e sistematiche della filosofia contemporanea. Mi preme ricordare in particolare l'ormai classico Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni (1997), che ha rappresentato un fondamentale contributo al dibattito relativo alla pluricitata e controversa scissione fra filosofia continentale e filosofia analitica e che ha inaugurato una lunga serie di studi e volumi dell'Autrice, dedicati ai piu' importanti snodi teorici della discussione filosofica contemporanea.
Mi limito a menzionare, per il nesso diretto con il volume qui in discussione, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsivita' (2000) e Disavventure della verita' (2002). Nel solco di questo coerente percorso di attenta e profonda analisi rientra anche il volume Verita' avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, dato alle stampe dall'Autrice, sempre presso Bollati Boringhieri, nel 2010.
Ad una considerazione complessiva di queste e delle altre opere, si puo' senz'altro affermare che il lavoro filosofico di Franca D'Agostini e' caratterizzato da un approccio che risalta, per originalita' e ampio respiro, rispetto al generale panorama della cultura filosofica accademica in Italia, mediamente segnato da un persistente storiografismo, da un'eccessiva tendenza alla specializzazione e frammentazione nonche' da forme piu' o meno consolidate delle molteplici scolastiche continentali e analitiche. In generale sono tre i pregi che riscontro nei lavori dell'Autrice e che sono largamente visibili anche nel volume qui in esame: uno stile estremamente chiaro e brillante, che sa coniugare precisione delle singole analisi con solide sintesi sui problemi di volta in volta trattati; uno sguardo di insieme che sa abbracciare le diverse tendenze, anche quelle piu' lontane fra loro, del dibattito contemporaneo; forte consapevolezza teoretica della posta in gioco che le singole problematiche comportano. Il volume Introduzione alla verita' rispecchia in modo esemplare ciascuno di questi caratteri della scrittura filosofica dell'Autrice.
Mi preme sottolineare in particolare la felicissima scelta operata nel calibrare l'impianto di fondo del volume. L'articolazione poggia su un'introduzione generale, che funge da premessa e mette a fuoco con estrema chiarezza il complesso dei temi trattati, e da quattro parti principali, ciascuna delle quali e' conclusa con una ricapitolazione che ripercorre in modo sintetico, ma pregnante, i punti analizzati. In questo modo il lettore, anche quello meno esperto, puo' orientarsi con facilita' nella fitta trama delle numerose problematiche relative alla verita' elaborate dalla tradizione. Tale perspicuita' dell'articolazione e la notevole lucidita' dello stile, che alterna momenti di intelligente presentazione dei problemi e delle teorie a parti piu' teoretiche e analitiche, fanno si' che il volume si presenti anche come utilissimo strumento didattico, da consigliare sia a studenti interessati al tema sia a un lettore medio colto. Tuttavia, nonostante l'Autrice concepisca il suo contributo come "un chiarimento preliminare e generale sul concetto di verita'" (p. 9), non si puo' affatto dire che la portata del volume si esaurisca in un mero intento divulgativo o illustrativo. In effetti la magistrale chiarezza con cui si sviscerano i singoli problemi va di pari passo con un'attenta discussione dei punti piu' ardui del dibattito contemporaneo sulla verita', innanzi tutto sulle diverse sfaccettature che caratterizzano questa nozione capitale e alle quali sono dedicate le singole parti.
Lo scopo della prima parte del volume e' fornire una presentazione generale dei molteplici significati della nozione di verita'. L'Autrice offre un'intelligente mappatura e ricostruzione delle diverse teorie che sono state proposte, a cominciare in particolare da quelle tradizionalmente piu' diffuse e note, vale a dire: il corrispondentismo, il coerentismo e il pragmatismo. La snella ricostruzione delle teorie si accompagna ad una puntuale analisi dei punti controversi che ciascuna di esse comporta, ma altrettanta attenzione e' dedicata alle cosiddette teorie non robuste, con particolare spazio concesso allo schema di Tarski, al deflazionismo e alle teorie concernenti i fattori di verita' (truthmakers). Da sottolineare con forza e' che la prima parte si conclude con una sezione piu' teoricamente impegnata, che si concentra sulla teoria della verita' privilegiata dall'Autrice, detta "realismo aletico", la quale nella sostanza consiste in una lettura realistica dello schema di Tarski. Nello spiegare il primato del realismo aletico l'Autrice adduce buone ragioni a favore di tale teoria, evidenziandone in particolare la funzione esplicativa e quella metateorica. Infatti, il realismo aletico e' congruente, in modo piu' immediato e semplice (cfr. p. 113), con l'uso filosofico e prefilosofico del predicato "vero", e inoltre "ogni altra teoria della verita' per essere accettata deve essere giudicata "vera" proprio in questo senso realistico" (p. 113).
La seconda parte prende in considerazione la logica della nozione di verita', vale a dire come questa entra in gioco nella sfera del linguaggio e del pensiero. Oltre all'irrinunciabile presentazione delle leggi classiche della verita', l'Autrice da' ampio spazio anche alle logiche non classiche, fornendo una sintetica ma efficace ricostruzione delle logiche paracomplete, delle logiche paraconsistenti, della logica fuzzy e della logica della probabilita'. Grazie alla chiara esposizione dell'Autrice anche il lettore meno esperto puo' farsi un'idea sufficientemente precisa di come la nozione di verita' sfugga a rappresentazioni dicotomiche e rigide e richieda strumenti logici notevolmente diversificati.
La terza parte si rivolge a quella che l'Autrice chiama epistemologia della nozione di verita', riferendosi con cio' alla sua portata piu' strettamente gnoseologica. In questa parte trova spazio non solo l'analisi dei problemi piu' classici propri della teoria della conoscenza, ma soprattutto un confronto molto intelligente e mirato, mai segnato da posizioni preconcette, con le diverse forme di scetticismo, nichilismo e relativismo che hanno dominato buona parte dello scenario filosofico del secolo scorso e che continuano ad affiorare ogni volta che si affrontano problemi fondazionali. In questo complesso di problemi e autori, piuttosto complicato ed eterogeneo, l'Autrice si muove con solidita' di argomenti e profonda conoscenza delle fonti, mettendo in luce i limiti intrinseci di molte impostazioni antimetafisiche. Vale la pena sottolineare come l'analisi sviluppata dall'Autrice non si limiti a prendere in considerazione la valenza strettamente tecnica delle spinose questioni sollevate da scetticismo, nichilismo e relativismo, ma ne sappia toccare anche gli aspetti piu' generalmente culturali (cfr. ad esempio pp. 207 ss.).
Il volume si conclude con la quarta parte dedicata alla pratica della verita', vale a dire al modo in cui il concetto di verita' viene usato e/o distorto nel contesto della sfera pubblica e in ambiti non filosofici. E' una prospettiva molto interessante, soprattutto per quanti, non specialisti di cose filosofiche, vogliano orientarsi sui concreti riflessi quotidiani e politici dei problemi concernenti il vero. E' un modo pregevole di concludere questo eccellente volume, che in una certa misura documenta anche il vivace impegno piu' generalmente intellettuale e culturale dell'Autrice, il quale di recente, come ho gia' segnalato, ha dato ottimi frutti in particolare con il libro Verita' avvelenata, che rappresenta l'esito piu' direttamente connesso con la parte finale del libro qui recensito.
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A Franca D'Agostini la cultura filosofica italiana degli ultimi quindici anni deve magistrali ricostruzioni storiografiche e sistematiche della filosofia contemporanea. Mi preme ricordare in particolare l'ormai classico Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni (1997), che ha rappresentato un fondamentale contributo al dibattito relativo alla pluricitata e controversa scissione fra filosofia continentale e filosofia analitica e che ha inaugurato una lunga serie di studi e volumi dell'Autrice, dedicati ai piu' importanti snodi teorici della discussione filosofica contemporanea.
Mi limito a menzionare, per il nesso diretto con il volume qui in discussione, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsivita' (2000) e Disavventure della verita' (2002). Nel solco di questo coerente percorso di attenta e profonda analisi rientra anche il volume Verita' avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, dato alle stampe dall'Autrice, sempre presso Bollati Boringhieri, nel 2010.
Ad una considerazione complessiva di queste e delle altre opere, si puo' senz'altro affermare che il lavoro filosofico di Franca D'Agostini e' caratterizzato da un approccio che risalta, per originalita' e ampio respiro, rispetto al generale panorama della cultura filosofica accademica in Italia, mediamente segnato da un persistente storiografismo, da un'eccessiva tendenza alla specializzazione e frammentazione nonche' da forme piu' o meno consolidate delle molteplici scolastiche continentali e analitiche. In generale sono tre i pregi che riscontro nei lavori dell'Autrice e che sono largamente visibili anche nel volume qui in esame: uno stile estremamente chiaro e brillante, che sa coniugare precisione delle singole analisi con solide sintesi sui problemi di volta in volta trattati; uno sguardo di insieme che sa abbracciare le diverse tendenze, anche quelle piu' lontane fra loro, del dibattito contemporaneo; forte consapevolezza teoretica della posta in gioco che le singole problematiche comportano. Il volume Introduzione alla verita' rispecchia in modo esemplare ciascuno di questi caratteri della scrittura filosofica dell'Autrice.
Mi preme sottolineare in particolare la felicissima scelta operata nel calibrare l'impianto di fondo del volume. L'articolazione poggia su un'introduzione generale, che funge da premessa e mette a fuoco con estrema chiarezza il complesso dei temi trattati, e da quattro parti principali, ciascuna delle quali e' conclusa con una ricapitolazione che ripercorre in modo sintetico, ma pregnante, i punti analizzati. In questo modo il lettore, anche quello meno esperto, puo' orientarsi con facilita' nella fitta trama delle numerose problematiche relative alla verita' elaborate dalla tradizione. Tale perspicuita' dell'articolazione e la notevole lucidita' dello stile, che alterna momenti di intelligente presentazione dei problemi e delle teorie a parti piu' teoretiche e analitiche, fanno si' che il volume si presenti anche come utilissimo strumento didattico, da consigliare sia a studenti interessati al tema sia a un lettore medio colto. Tuttavia, nonostante l'Autrice concepisca il suo contributo come "un chiarimento preliminare e generale sul concetto di verita'" (p. 9), non si puo' affatto dire che la portata del volume si esaurisca in un mero intento divulgativo o illustrativo. In effetti la magistrale chiarezza con cui si sviscerano i singoli problemi va di pari passo con un'attenta discussione dei punti piu' ardui del dibattito contemporaneo sulla verita', innanzi tutto sulle diverse sfaccettature che caratterizzano questa nozione capitale e alle quali sono dedicate le singole parti.
Lo scopo della prima parte del volume e' fornire una presentazione generale dei molteplici significati della nozione di verita'. L'Autrice offre un'intelligente mappatura e ricostruzione delle diverse teorie che sono state proposte, a cominciare in particolare da quelle tradizionalmente piu' diffuse e note, vale a dire: il corrispondentismo, il coerentismo e il pragmatismo. La snella ricostruzione delle teorie si accompagna ad una puntuale analisi dei punti controversi che ciascuna di esse comporta, ma altrettanta attenzione e' dedicata alle cosiddette teorie non robuste, con particolare spazio concesso allo schema di Tarski, al deflazionismo e alle teorie concernenti i fattori di verita' (truthmakers). Da sottolineare con forza e' che la prima parte si conclude con una sezione piu' teoricamente impegnata, che si concentra sulla teoria della verita' privilegiata dall'Autrice, detta "realismo aletico", la quale nella sostanza consiste in una lettura realistica dello schema di Tarski. Nello spiegare il primato del realismo aletico l'Autrice adduce buone ragioni a favore di tale teoria, evidenziandone in particolare la funzione esplicativa e quella metateorica. Infatti, il realismo aletico e' congruente, in modo piu' immediato e semplice (cfr. p. 113), con l'uso filosofico e prefilosofico del predicato "vero", e inoltre "ogni altra teoria della verita' per essere accettata deve essere giudicata "vera" proprio in questo senso realistico" (p. 113).
La seconda parte prende in considerazione la logica della nozione di verita', vale a dire come questa entra in gioco nella sfera del linguaggio e del pensiero. Oltre all'irrinunciabile presentazione delle leggi classiche della verita', l'Autrice da' ampio spazio anche alle logiche non classiche, fornendo una sintetica ma efficace ricostruzione delle logiche paracomplete, delle logiche paraconsistenti, della logica fuzzy e della logica della probabilita'. Grazie alla chiara esposizione dell'Autrice anche il lettore meno esperto puo' farsi un'idea sufficientemente precisa di come la nozione di verita' sfugga a rappresentazioni dicotomiche e rigide e richieda strumenti logici notevolmente diversificati.
La terza parte si rivolge a quella che l'Autrice chiama epistemologia della nozione di verita', riferendosi con cio' alla sua portata piu' strettamente gnoseologica. In questa parte trova spazio non solo l'analisi dei problemi piu' classici propri della teoria della conoscenza, ma soprattutto un confronto molto intelligente e mirato, mai segnato da posizioni preconcette, con le diverse forme di scetticismo, nichilismo e relativismo che hanno dominato buona parte dello scenario filosofico del secolo scorso e che continuano ad affiorare ogni volta che si affrontano problemi fondazionali. In questo complesso di problemi e autori, piuttosto complicato ed eterogeneo, l'Autrice si muove con solidita' di argomenti e profonda conoscenza delle fonti, mettendo in luce i limiti intrinseci di molte impostazioni antimetafisiche. Vale la pena sottolineare come l'analisi sviluppata dall'Autrice non si limiti a prendere in considerazione la valenza strettamente tecnica delle spinose questioni sollevate da scetticismo, nichilismo e relativismo, ma ne sappia toccare anche gli aspetti piu' generalmente culturali (cfr. ad esempio pp. 207 ss.).
Il volume si conclude con la quarta parte dedicata alla pratica della verita', vale a dire al modo in cui il concetto di verita' viene usato e/o distorto nel contesto della sfera pubblica e in ambiti non filosofici. E' una prospettiva molto interessante, soprattutto per quanti, non specialisti di cose filosofiche, vogliano orientarsi sui concreti riflessi quotidiani e politici dei problemi concernenti il vero. E' un modo pregevole di concludere questo eccellente volume, che in una certa misura documenta anche il vivace impegno piu' generalmente intellettuale e culturale dell'Autrice, il quale di recente, come ho gia' segnalato, ha dato ottimi frutti in particolare con il libro Verita' avvelenata, che rappresenta l'esito piu' direttamente connesso con la parte finale del libro qui recensito.
7. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA
Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
8. REPETITA IUVANT. LA CASA SIAMO TUTTE. UN APPELLO
[Dalla Casa Internazionale delle Donne riceviamo e diffondiamo]
[Dalla Casa Internazionale delle Donne riceviamo e diffondiamo]
Sostegno alla Casa
lacasasiamotutte (lacasasiamotutte at gmail.com)
#lacasasiamotutte
A tutte le amiche e gli amici,
come avrai saputo dalla stampa o dalla televisione, la Casa Internazionale delle Donne ha bisogno di aiuto.
Abbiamo ricevuto moltissime dimostrazioni di affetto e vicinanza che ci hanno molto commosso, e ve ne siamo grate, ma anche siamo state sollecitate a richiedere un aiuto economico a quante, come te, ci conosce, ha lavorato nella Casa e con la Casa.
Essere luogo di riflessione politica delle donne, ospitare in modo sostenibile tante associazioni e tante attivita', costruire, produrre attivita' culturali, tenere aperto il piu' grande archivio della storia e della produzione femminista, mantenere decorosamente un edificio storico, farlo restare aperto, fruibile a disposizione delle donne e di tutta la citta', fornire servizi di assistenza, consulenza, sostegno al lavoro e alla vita delle donne e dei bambini, promuovere formazione, costa e costa molto.
Per questo ti chiediamo di contribuire alla sopravvivenza della Casa, per farla essere sempre di piu' e sempre meglio quel luogo unico a Roma, in Italia, in Europa che e' la nostra Casa Internazionale delle donne.
Ringraziandoti fin d'ora e ricordandoti che la Casa si sostiene solo con l'autofinanziamento, ti chiediamo anche di far partecipare le persone a te vicine al sostegno della Casa.
Per la donazione:
http://www.casainternazionaledelledonne.org/index.php/it/sostienici-support-us
IBAN IT38H0103003273000001384280
causale: "Donazione per la Casa Internazionale delle Donne"
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
Numero 858 del 30 dicembre 2017
VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: centropacevt at gmail.com
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