[Nonviolenza] La domenica della nonviolenza. 451



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 451 del 24 dicembre 2017

In questo numero:
1. Un appello al Presidente della Repubblica
2. Daniel Viglietti
3. Andrea Tarquini intervista Agnes Heller (13 novembre 2017)
4. Andrea Tarquini intervista Agnes Heller (22 dicembre 2017)
5. La Casa siamo tutte. Un appello
6. Omero Delli Storti: Un'avventura di Caterina Dinamite
7. Omero Delli Storti: Le superiori disposizioni
8. Nino Delarota: Perche' scrivo racconti come Lucio Emilio Piegapini
9. Ginesio Gennari: Un disertore. Quattro movimenti
10. Ginesio Gennari: Tre sconfitte
11. Ginesio Gennari: Previsioni del tempo
12. Miriam Aiello presenta "Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale" di Hannah Arendt
13. Valentina Riolo presenta "Socrate" di Hannah Arendt
14. Segnalazioni librarie

1. UN APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Egregio Presidente della Repubblica,
poiche' nulla la costringe a sciogliere le Camere durante le vacanze natalizie (giacche' nulla impone che si debba andare al voto entro il mese di marzo, e come gia' in passato si puo' benissimo fissare la data delle elezioni politiche entro giugno),
dia al Parlamento il tempo di deliberare su due temi di grande importanza:
1. in pro dell'adesione e della ratifica al Trattato Onu del 7 luglio 2017 per la proibizione delle armi nucleari;
2. in pro del riconoscimento della cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia e che in Italia vivono e studiano (la legge cosiddetta sullo "ius soli - ius culturae" gia' approvata anni fa dalla Camera dei Deputati che attende solo di essere confermata dal voto del Senato).
Confidando nella sua attenzione e nel suo discernimento, augurandole ogni bene,
Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 24 dicembre 2017

2. LUTTI. DANIEL VIGLIETTI

Solo da qualche settimana mi e' giunta la notizia della morte di Daniel Viglietti.
E di giorno in giorno mi riprometto di scrivere qualche riga in suo ricordo, ad attestare la gratitudine mia e di molti come me per la sua opera di musicista, di poeta, di militante del movimento delle oppresse e degli oppressi in lotta per la liberazione dell'umanita'.
Ma ogni volta che comincio a scrivere sono sopraffatto dalla commozione ed ogni mia parola mi pare inadeguata.
Sia dunque questo il muto mio ricordo: e' morto un maestro e un compagno, che rese migliore l'umanita', la cui opera ancora ci convoca alla lotta per la verita' e la giustizia, per la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani, per la comune liberazione, per la condivisione del bene che e' uno e di tutti.

3. MAESTRE. ANDREA TARQUINI INTERVISTA AGNES HELLER (13 NOVEMBRE 2017)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 13 novembre 2017 con titolo "Questa Europa malata di nazionalismo dove il passato torna a cercare vendetta"]

"Il passato torna tra noi, col volto della vendetta". Agnes Heller, grande voce dell'intelligentsia centroesteuropea, commenta cosi' a caldo.
- Andrea Tarquini: Sessantamila nazionalisti in piazza a Varsavia, che cosa ne dice?
- Agnes Heller: Sessantamila persone in piazza gridando quegli slogan sono tante. Il patriottismo diventa nazionalismo. Lo sfondo e' un'Europa che appare malata ovunque o quasi, e i partiti storici democratici sono in crisi.
- Andrea Tarquini: Qual e' stata la sua prima reazione?
- Agnes Heller: Situazione brutta, davvero. La Storia passata, ripeto, torna tra noi, irrompe nel presente come vendetta. Insisto, sessantamila nazionalisti in piazza con quegli slogan nel piu' grande paese del gruppo di Visegrad sono un segnale grosso. E la controdimostrazione era molto piccola. Stiamo andando giu' tutti, l'Europa appare malata.
- Andrea Tarquini: Il dissenso nel Centro-est era multiculturale, oggi e' una somma di nazionalismi. Perche'?
- Agnes Heller: I movimenti per la liberta', come molti decenni prima fu l'Austria-Ungheria, erano uniti da momenti di passato comune. Il Centro-est ha un passato diverso dal resto d'Europa: l'occupazione sovietica. Il nazionalismo del gruppo di Visegrad viene da quel passato.
- Andrea Tarquini: Perche' questo feeling comune di voglia di nazionalismo?
- Agnes Heller: Il passato ha creato posizioni politiche diverse, interessi diversi, terreno fertile per i populismi. Tutte le nazioni europee divennero nazionaliste dopo la prima guerra mondiale, ma nell'Est non ci fu il dopoguerra democratico. Abbiamo sottovalutato il pericolo: i trend attuali nel gruppo di Visegrad possono essere per la Ue pericolosi come fu per l'Ungheria il Trattato di Trianon che porto' alla perdita di vastissimi territori e a sviluppi nazionalisti.
- Andrea Tarquini: Sara' possibile tenere i paesi di Visegrad nella Ue?
- Agnes Heller: Dipende, se la Ue sapra' fare chiarezza sul concetto di valori europei. Furono valori europei anche i totalitarismi, che non nacquero ne' in Africa ne' in Asia. E occorre saper affrontare i conflitti tra centro e periferia dell'Europa.
- Andrea Tarquini: Come far avanzare l'integrazione politica europea?
- Agnes Heller: L'integrazione e' importante, ma richiede coraggio come fecero Francia e Germania superando secoli di ostilita'. Dobbiamo affrontare le realta' storiche: l'integrazione deve prendere in considerazione le ferite del passato in quella parte d'Europa se vogliamo riconquistarla. Invece la Ue ha commesso diversi errori verso quei paesi.
- Andrea Tarquini: Perche' la voglia d'identita' nazionale assume simili volti?
- Agnes Heller: L'identita' nazionale conta per tutti i paesi europei, la questione e' quale tipo di identita' nazionale emerge: e' ben diverso se e' sciovinista e fondata su odii verso gli altri. Ecco il problema dei paesi di Visegrad: hanno reagito cosi' all'occupazione sovietica, ritengono ancora tutti potenziali occupanti e cio' apre spazi a populismo e a piccoli despoti. Dopo l'89 purtroppo le forze democratiche nel centro est non tennero conto del peso del passato. Pensarono alla politica solo in termini parlamentari, non nella sua dimensione di umori e interessi e bisogni sociali e memoria, ed ecco il risultato.
- Andrea Tarquini: Perche' nei paesi di Visegrad si respirano paure e odii verso i migranti anche quando i migranti sul posto non esistono?
- Agnes Heller: Gli autocrati sono da tempo antioccidentali e vittimisti, da prima dell'ondata di migranti. Basta evocare la paura di essere occupati da altri, di vedere distrutta la nazione. Basta l'immagine del pericolo, anche senza pericolo reale, con una propaganda efficace. Il terreno fertile sono traumi e delusioni post-1989. E un passato che aveva distrutto la cultura borghese ed ebraica. Alcuni definiscono i migranti pericolosi anche perche' arrivano con molti bambini, e' quasi da Notte dei cristalli.
- Andrea Tarquini: La Ue puo' salvarsi dalla minaccia?
- Agnes Heller: L'Europa fa pensare a un malato di polmonite che puo' morire o guarire e rafforzarsi.

4. MAESTRE. ANDREA TARQUINI INTERVISTA AGNES HELLER (22 DICEMBRE 2017)
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 22 dicembre 2017 con titolo "Nazionalismi senza ideologie: l'Europa e' di nuovo in pericolo"]

"In Europa crescono nuove tendenze autoritarie, autoritarismi non ideologici come i vecchi totalitarismi ma pericolosi per la societa' liberale e per la pace". E' l'allarme di Agnes Heller.
- Andrea Tarquini: No polacco alle richieste Ue, modello "illiberale" in Ungheria, destre e populisti in crescita quasi ovunque: quanto sono in pericolo societa' liberale e valori costitutivi europei?
- Agnes Heller: Dipende da quanto sapremo difendere anche a livello istituzionale i diritti di ogni minoranza, elemento centrale dello Stato di diritto. Ogni democrazia senza la difesa garantita delle minoranze puo' far nascere ovunque autocrati di ogni sorta. Leader semitirannici come Orban, o Kaczynski che ha mantenuto la promessa di "portare Budapest a Varsavia", cioe' la "democrazia illiberale" teorizzata da Orban, o persino qualche Mugabe.
- Andrea Tarquini: Insisto: Polonia, Ungheria, leggi antigiustizia in Romania, destre piu' forti all'Ovest: perche' cade il tabu' dell'antifascismo?
- Agnes Heller: La questione non e' solo fascismo o nazismo. Orban parla di "democrazia illiberale" e ha lanciato un modello, vediamo al potere altri autocrati che costruiscono governance di fatto dittatoriali non fasciste ne' comuniste. Allora dobbiamo creare un nuovo concetto: trend tirannici senza supporto di ideologie strutturate. Rafforzati dal nazionalismo sempre piu' attraente perche' invita a "pensare a noi e basta" e offre un nuovo senso di identita' in una comunita'. Il nazionalismo e' sempre presente, ecco il problema. Non punta su ideologie, istiga presunti interessi personali.
- Andrea Tarquini: Che ne sara' della Ue?
- Agnes Heller: I sondaggi nei paesi europei continuano a registrare in molti paesi maggioranze pro-Europa, anche in Gb ora il no alla Brexit e' piu' forte. Ma i populisti seducono la gente con slogan e promesse, non con ideologie.
- Andrea Tarquini: Perche' cio' accade anche nell'Ovest che non e' passato da 50 anni di dominio sovietico?
- Agnes Heller: Guardiamo all'Austria, esempio col passaporto agli altoatesini. In Austria tradizioni e correnti di destra estrema sono sempre rimaste molto forti. Storicamente e' stato un paese anche molto antisemita, piu' di Ungheria e Germania. Dopo il '45, e' stata molto riluttante a riconoscere responsabilita' e complicita' coi crimini del nazismo. La Germania per tornare nel consesso dei popoli civili ha fatto i conti col passato, altri no.
- Andrea Tarquini: Quanto sono pericolosi antisemitismo, razzismo, xenofobia, all'Est come all'Ovest?
- Agnes Heller: L'antisemitismo assume nuove forme. Colpa anche delle sinistre per i loro attacchi di odio a Israele. Non e' antisemitismo sociale ma torna l'odio antisemita storico. Poi c'e' la propaganda, come quella ungherese contro Soros. Nelle menti e in piazza vive un nuovo antisemitismo, ricordiamo anche la marcia di Varsavia. La xenofobia e' purtroppo un sentimento irrazionale naturale incoraggiato da certe forze politiche.
- Andrea Tarquini: L'Austria ha offerto il passaporto agli altoatesini: e' revisionismo storico?
- Agnes Heller: Sarebbe ingiusto da parte di Vienna dare la cittadinanza agli altoatesini cui l'Italia concede pieni diritti e un'autonomia speciale sognata dalle altre minoranze in Europa. Le frontiere nate dopo due guerre mondiali non possono essere toccate. In quei confini c'e' garanzia di pace dopo secoli di conflitti. Vienna dovrebbe saperlo.

5. SOLIDARIETA'. LA CASA SIAMO TUTTE. UN APPELLO
[Dalla Casa Internazionale delle Donne riceviamo e diffondiamo]

Sostegno alla Casa
lacasasiamotutte (lacasasiamotutte at gmail.com)
#lacasasiamotutte
A tutte le amiche e gli amici,
come avrai saputo dalla stampa o dalla televisione, la Casa Internazionale delle Donne ha bisogno di aiuto.
Abbiamo ricevuto moltissime dimostrazioni di affetto e vicinanza che ci hanno molto commosso, e ve ne siamo grate, ma anche siamo state sollecitate a richiedere un aiuto economico a quante, come te, ci conosce, ha lavorato nella Casa e con la Casa.
Essere luogo di riflessione politica delle donne, ospitare in modo sostenibile tante associazioni e tante attivita', costruire, produrre attivita' culturali, tenere aperto il piu' grande archivio della storia e della produzione femminista, mantenere decorosamente un edificio storico, farlo restare aperto, fruibile a disposizione delle donne e di tutta la citta', fornire servizi di assistenza, consulenza, sostegno al lavoro e alla vita delle donne e dei bambini, promuovere formazione, costa e costa molto.
Per questo ti chiediamo di contribuire alla sopravvivenza della Casa, per farla essere sempre di piu' e sempre meglio quel luogo unico a Roma, in Italia, in Europa che e' la nostra Casa Internazionale delle donne.
Ringraziandoti fin d'ora e ricordandoti che la Casa si sostiene solo con l'autofinanziamento, ti chiediamo anche di far partecipare le persone a te vicine al sostegno della Casa.
Per la donazione:
http://www.casainternazionaledelledonne.org/index.php/it/sostienici-support-us
IBAN IT38H0103003273000001384280
causale: "Donazione per la Casa Internazionale delle Donne"

6. RACCONTI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLI STORTI: UN'AVVENTURA DI CATERINA DINAMITE

Me la ricordo, me la ricordo Caterina Dinamite, fu la prima femmina del paese che sse mise li calzoni come ll'omini. Nun e' cche sse chiamava propio Dinamite, era 'n soprannome, perche' 'ndo 'rrivava spaccava tutto. La chiamaveno pure la Maga Ciccia, che 'nvece era fina come 'n chiodo, ma era pe' vvia de la Maga Ciccia quella d'Ulisse che trasformava ll'omini zozzi in bestie. Si tte toccava d'affrontalla era mejo che 'tte davi, perche' tte riduceva 'n pizzico.
Che poi era alta 'n soldo de cacio; bella era bbella ma era 'na bbellezza strana, 'nfatti la prima volta che la vedevi manco te n'accorgevi quant'era bbella, ce voleva 'n po' de volte e doppo 'n po' de volte allora te n'accorgevi e nun te la scordavi ppiu'. Seconno me cc'era gente che cce godeva a fasse strapazza' da Rina Dinamite, che ssi ciavesse provato la su' moje l'ammazzaveno de sarapiche, ma dda Caterina buscaveno e bbasta, e a la fine je chiedeveno pure scusa. E' strana la ggente.
De storie de Caterina Dinamite al paese se ne raccontaveno 'na munchia, e po' esse pure ch'ereno tutte 'nventate ma ssiccome ce credeveme tutti, diventaveno vere pure le piu' strane. Specialmente dopo che mmori', e che mmori' 'n quel mo'.
Io nun abbito ppiu' al paese da 'na vita, ho smesso de fa' 'l pecoraretto, 'l garzone, l'elettricista e 'l radioteleriparatore co' ttanto de diploma del corso professionale pe' corrisponnenza. Cio' sessant'anne oramae, e' ade' da quanno cevo vent'anne ch'ho smesso de lavora' dde ggiorno. Pero' nun ho mmae rubbato a quarcuno del paese, solo a ggente de fori. Pe' cquesto a 'n certo punto me so' trasferito, e poi ho continuato a ggira', avro' ggirato mezz'Itaja, certo, pure ospite dei patri ostelli si mme capite, pe' fforza, 'gni tanto capita, mica tutte le ciammelle eccetera. Pero' ho approfittato pure de le vacanze forzate a spese del contribuente, nun ho bbuttato via 'l tempo, ho studiato lli' dentro: come Pajetta ch'eva fatto ll'universita' a Civitavecchia. E si vojo so' pparla' pure itajano. Nun ce credete?
E invece si'. Favorito certamente dal fatto che il dialetto che si parlava da noi tanto diverso dall'italiano in verita' non era. Ma perche' dicevo questo? Ah, si': dicevo che da tanto tempo non abito piu' al paese, e una volta partito non ci sono piu' tornato, bisogna bruciare le navi se vuoi andare avanti. Pero' ogni tanto capita d'incontrare qualcuno del paese, anche qui che saranno trecento chilometri almeno; a me sara' capitato almeno quattro o cinque volte, perlomeno che io me ne sia accorto, prche' dopo tanti anni non e' facile che una persona abbia mantenuto l'aspetto di quand'era giovane. Ebbene, che ci crediate o no, se capita che due paesani s'incontrano dopo anni ed anni e in capo al mondo, la prima cosa di cui parliamo che credete che sia? Parliamo di Rina Dinamite.
Cosi' ne so un sacco e una sporta, ne so millanta d'imprese di Caterina Dinamite, e per me sono tutte vere: non ho bisogno di prove, sono vere perche' Rina era proprio cosi': faceva quello che tutti dicevano che era impossibile, e dopo che era passata lei tutto diventava possibile. Io dico che se toccava con un dito il muro di un carcere quel muro si polverizzava e tutti i prigionieri tornavano liberi. Io dico che se batteva forte il piede per terra scaturiva una fontana di acqua cosi' dolce che pareva latte e miele. Cosi' era Rina Dinamite. Per questo l'hanno ammazzata, e poi l'hanno buttata nel canale.
Ete visto? Tutt'in itajano schietto. Che cce vo' a parla' itajano? Ma a mme mme piace parla' 'n dialetto. Come perche'? Perche' sso' quarant'anni che nu' lo parlo co' nnessuno, solo tra dde me, e allora me piace parlallo pe' nun perdelo del tutto, perche' quanno 'na parlata la parli solo tra dde te finisce che perdi 'l sono, l' ritmo, e a la fine pure le parole e nun resta piu' gnente, gnente, e ccosi' cce perdi pure i ricordi, e persi li ricordi nun ce sii ppiu' manco tu.
Mo' mm'e' ccapitato che cce sete voi, e vve parlo a vvoi. Sempre si nun do' fastidio, eh.
Lo sapevo, lo sapevo. Vabbe', mmo' vve ne racconto una d'avventura de Rina Dinamite, e ddomane, si rivenite cqui, che ttanto a mme a 'st'ora me ce trovate sempre qui a ll'osteria de la sora Nocenza si mme ggira ve ne racconto 'n'antra. Nun sete de la polizzia, eh? E ccomunque mo' ho smesso, cio' la penzione de 'nvalidita', me manca 'na cianca che 'na volta cascai da 'n cornicione e ffine de la canzone. che cce fa' ppure rima.
Veramente nu' mme va cche rreggistrate, e nnu' mme va manco che ffate le fotografie. Si vvolete che v'aricconto nun ze reggistra gnente, si vve va scrivete e magara doppo me fate legge ch'ete scritto e ssi cce so' spropositi troppo grossi ve lo dico. Vabbe'? Bbrave.
No, gnente sordi, ete fatto bbene a dillo ma nun vojo gnente, nun ze venne la vita de le perzone. Eppoi me fa' ppiacere si quarcuno scrive la su' storia. Comincio?

7. RACCONTI DELLA CITTA' DOLENTE. OMERO DELLI STORTI: LE SUPERIORI DISPOSIZIONI

Per superiori disposizioni questo locale restera' chiuso. In sogno cosi' lessi sulla porta dell'inferno.
Per superiori disposizioni i superstiti saranno passati per le armi. Quel che e' giusto e' giusto.
Per superiori disposizioni gli inferiori saranno puniti.
Per superiori disposizioni e' vietato conoscere quali siano le superiori disposizioni.
Per superiori disposizioni il signor Io. Ca. e' invitato a presentarsi in data e ora definiti nel luogo stabilito. S'ingegni il reprobo d'indivinare dove e quando e come e perche', dia cosi' prova del suo ravvedimento.
Per superiori disposizioni si resti a disposizione fino a nuovo ordine.

8. RACCONTINI DI GIORNATA. NINO DELAROTA: PERCHE' SCRIVO RACCONTI COME LUCIO EMILIO PIEGAPINI

Sembra una domanda sola ma in realta' sono due. La prima sarebbe perche' scrivo racconti. La seconda sarebbe perche' i racconti che scrivo assomigliano a quelli di Lucio Emilio Piegapini.
Rispondere alla prima e' facile, lo faccio per i soldi. Senno' perche'? Non ho messaggi da annunciare all'umanita', non ho ne' uno stile ne' un'idea da affermare, l'arte non so cosa sia, studiare ho studiato pochino e non sono uno di quei presuntuosi che si credono chissacchi'. Invece di soldi ho proprio bisogno. E non mi vergogno a dirlo, ho proprio bisogno di soldi. Potrei andare a rubare, sicuro, ma alla mia eta' e col mio fisico? Potrei cercarmi un lavoro serio, bravi, e me lo trovate voi? Io non so neppure battere a macchina, e poi ci ho l'ernia del disco. E quindi scrivo, scrivo per i soldi. E' chiaro, se questi racconti riesco a venderli. Ma a venderli ci pensero' dopo, intanto bisogna scriverli, che sembra una cosa facile e invece non e' facile per niente.
E qui entra in ballo la seconda domanda, che sarebbe poi questa: perche' imito Lucio Emilio Piegapini? Facile. Innanzitutto perche' e' un amico e e' l'unica persona che conosco che scrive racconti. Come lo so? Perche' li legge la sera all'osteria, che e' la stessa osteria che ci vado pure io, che ci andiamo tutti perche' e' la sola osteria che e' restata al paese, che una volta ce ne erano tre e adesso e' restata questa sola, non lo so perche'. E poi racconta storie di gente del paese, e io quelle storie e quella gente e quel paese li conosco perche' e' il paese che ci sono nato pure io, e pure lui. Facciamo a capirci: Lucianone (noi amici lo chiamiamo cosi', perche' e' grosso come un guerro) cambia sempre i nomi, mica e' scemo; se non cambi i nomi non e' letteratura, e' cronaca nera e non interessa a nessuno. Per questo cambia i nomi. Pero' se uno e' del paese li riconosce lo stesso, non ci vuole niente.
A me i racconti di Lucianone mi sono sempre piaciuti, cosi' ho deciso di diventare uno scrittore pure io per raccontarli pure io. Non e' che voglio raccontare proprio gli stessi che ha gia' raccontato lui. Ne racconto altri, che lui non ha raccontato, magari perche' non li sa, che non e' che le sa tutte le storie del paese, magari certe volte non ci si e' trovato. Oppure non gliel'hanno raccontata giusta. Succede. Non dico che io la so piu' lunga di lui, no, dico solo che magari certe storie io le so e lui no, senza offesa per nessuno.
Ancora non glielo ho detto che sono diventato uno scrittore pure io. Pero' penso che lui e' contento quando glielo dico e ci scommetto che gli fa piacere che io glielo dico che mi considero come se fossi, come si dice, un suo scolaro, anche se non e' vero, e' un modo di dire di noialtri scrittori. E siccome al contrario di me lui ha qualche soldo e conosce un bel po' di gente, magari mi aiuta a venderli 'sti racconti che scrivo. O almeno mi presta qualche altro soldo che poi gli restituisco questi e quelli di prima appena ho venduto i racconti che ho scritto.
Pero' adesso devo cominciare a scriverli 'sti racconti, vi devo proprio lasciare, scusate, eh.

9. TRISTI EPITAFFI. GINESIO GENNARI: UN DISERTORE. QUATTRO MOVIMENTI

I. Un disertore

Vorrei dirlo senza retorica
e so che e' impossibile.

Ma questo vorrei dire che nessuna
guerra si merita una sola stilla
di sangue.

L'ho detto e subito sento
l'accusa di vilta' e di tradimento
l'eterno fulmine che il laido panciafichista
atterra ed atterrisce ogni bennato ingegno.

Lo so
che la parola stessa disertore
soffoca e disfa chi ne viene avvolto
in guisa di avvoltoio disfattista
la cui intelligenza e' solamente
intelligenza infame col nemico
che non si e' mai della mischia al di sopra
lo so.

Ma per me disertare ogni guerra
disertare ogni esercito disertare
ogni potere
e' l'unico schieramento che accetti
l'unica banda in cui mi riconosca.

Non e' che rifiuti di essere ucciso
tutti morire dobbiamo
e' uccidere che rifiuto.

Io non mi faccio un mito della vita
processione di maschere e di stenti
ma non voglio strapparla a nessuno.

Nessuno mi chieda di guidarlo alla battaglia
nessuno si attenda da me l'urlo di guerra
nessuno voglia seguirmi la mia via
non e' una via ma solo un andarsene.

Nell'amarezza nella tristezza nella solitudine
senza scalpi senza bottino senza insegnamenti.

Nel deserto del deserto
senza parole ne' borraccia ne' miraggi
senza specchi senza enigmi senza sfingi.

Nel deserto del deserto del deserto.

*

II. Elogio dell'operosa disperazione

Sia la tua forza la disperazione
ma una disperazione operosa
che mai ceda al male.

Sia la tua forza la disperazione
ma una disperazione rabbiosa
che non ceda di un palmo a Stalingrado.

Sia la tua forza la disperazione
ma una disperazione paziente
che teneramente assista la persona sofferente.

Sia la tua forza la disperazione
ma una disperazione ferma e senza volto
che ogni empieta' combatta.

Sia la tua forza la disperazione
ma una disperazione che nulla attenda
se non questo nulla.

*

III. Questo dolore

Questo dolore incessante
che ti toglie la facolta' di parlare
che ti fa odiare chiunque vorrebbe che tu gli rispondessi
e non puoi senza soffrire come un cane
che non puo' togliersi la spina nella carne
che questo chiodo e' tutto il suo respiro.

Questo dolore incessante
che non riesci piu' a dominare
e ti toglie le forze e la volonta'
e ti riduce un sasso che vorrebbe gridare e non puo'.

Questo grottesco mentire
scrivendo sull'acqua.

Specchio del tuo disfacimento
cenere senza piu' fuoco.

Questo dolore
questo svanire.

*

IV. Dire tutto il male del mondo

Dire tutto il male del mondo
e' un modo di resistere ad esso?
di smascherarlo di denunciarlo di contrastarlo?
o non e' forse avergli gia' ceduto?

Quanta presunzione e' nelle parole
e quanta nella mente che le pensa
e sa di non sapere dove va
ne' dove torna.

Chi ha mai visto cio' che nessuno vede?
chi piu' vede cio' che tutti hanno visto?
infinita sfilata tra due specchi
galleria senza torcia che non sbocca.

Altro era da fare altro
era da dire altro
da dare da avere
e nessun conto torna.

10. TRISTI EPITAFFI. GINESIO GENNARI: TRE SCONFITTE

I

Molti sospiri non fanno un respiro
il piu' abile penello non da' vita a una sola foglia
tutto resta sabbia tutto resta nebbia
questo tuo stoicismo e' solo aridita'.

*

II

Leggevi Seneca come Villon
credevi gli scacchi fossero la vita
sempre combattesti contro te stesso.

*

III

Non saprei riconoscermi se mi rincontrassi
e non vorrei ascoltarmi ne' vorrei parlarmi
non so perche' continuo a scrivere.

11. TRISTI EPITAFFI. GINESIO GENNARI: PREVISIONI DEL TEMPO

I

Passato un po' di tempo
tutto sembra vero
ed era tutto falso.

*

II

Chi aveva una penna
vinse.

*

III

Molto tempo dopo
non si distingue piu'
la vittima dal carnefice.

La storia e' questo immane
mattatoio che tutto uguaglia
e nessuna sofferenza riscatta.

Le vittime restano vittime
per sempre.
E' questo l'inferno.

12. LIBRI. MIRIAM AIELLO PRESENTA "MARX E LA TRADIZIONE DEL PENSIERO POLITICO OCCIDENTALE" DI HANNAH ARENDT
[Dal sito www.iaphitalia.org riprendiamo e diffondiamo]

Hannah Arendt, Marx e la tradizione del pensiero politico occidentale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, pp. 168, euro 13,50.
*
Tradotti e curati da Simona Forti, impreziositi dalla postfazione di Adriana Cavarero, i testi redatti da Hannah Arendt in occasione delle conferenze tenute a Princeton nel 1953 presentano numerosi motivi di interesse. Dal punto di vista della storiografia del pensiero arendtiano, la riflessione su Marx depositata in questi lavori costituisce una significativa elaborazione "di transizione" che, da un lato, fa seguito al dibattito suscitato dalla pubblicazione de Le origini del totalitarismo mentre, dall'altro, precede cronologicamente e, in certa misura, anticipa teoreticamente la riflessione sistematica sulla condizione umana contenuta in Vita activa. Al di la' di questa collocazione contestuale, non risulta difficile ravvedere in questi lavori di Arendt anche un vero e proprio laboratorio di filosofia politica entro cui l'inizio (Aristotele) e la fine (Marx) della "tradizione politica occidentale" entrano singolarmente in contatto - sebbene si tratti per l'Autrice di un contatto non pacifico, segnato dalla continuita' non meno che dalla differenza.
Il libro raccoglie due testi: nel primo Arendt fornisce una giustificazione teorica del suo interesse nei confronti di Marx e imposta i parametri dell'esame che verra' svolto dettagliatamente nel secondo testo, dove il pensiero marxiano viene esaminato in controluce all'esperienza della tradizione politica occidentale.
Arendt mostra profonda consapevolezza delle difficolta' connesse a un simile impegno: la figura di Marx risulta gravata da una vasta storia di elogi e ricusazioni, nonche' dalla pretesa immanenza del suo pensiero alla deriva stalinista dell'esperienza sovietica post-rivoluzionaria. Rispetto a questa prima, delicata questione, Arendt si mantiene accuratamente distante da ogni semplicistica riconduzione del totalitarismo "stalinista" al pensiero di Marx come causa o centro di emanazione: dal punto di vista metodologico, "si puo' dedurre cosi' poco di cio' che e' veramente accaduto da cause spirituali o materiali passate che questi fattori appaiono come cause soltanto alla luce dell'evento stesso che illumina il suo presente e il suo passato" (p. 45). Piuttosto, nel quadro di una lettura storico-filosofica che vede Marx certo come punto di rottura, ma anche e soprattutto come "punto d'approdo" ed erede dell'intera tradizione filosofico-politica occidentale, riflettere sugli elementi "totalitari" contenuti nell'opera marxiana significa estendere una simile prospettiva critica a quella tradizione nel suo complesso.
Per la tradizione occidentale, distillata nel suo gesto inaugurale (Aristotele) e nel suo atto conclusivo (Marx), lo spazio pubblico "e' stato un mondo della politica e un mondo del lavoro; e' iniziato come mondo abitato esclusivamente da animali politici ed e' finito come mondo popolato quasi esclusivamente da 'animali che lavorano'" (p. 58). Marx ha, secondo Arendt, l'indubbio merito di aver saputo registrare alcuni cruciali mutamenti di paradigma connessi all'avvento della modernita', tematizzando la relazione tra "lavoro" e "storia". Piu' che nella teoria economica e nella tensione rivoluzionaria, il significato fondamentale della sua opera consiste allora nell'aver sottratto la classe lavoratrice al muto ciclo della riproduzione materiale, per elevarla a dignita' di compiuto soggetto storico e politico. Il carattere emancipativo di questa postura teorica non e' pero' separabile, secondo Arendt, dal suo necessario risvolto, consistente nella "glorificazione del lavoro", vale a dire, l'idea che sia il lavoro - e non il discorso razionale pubblico - a rappresentare il veicolo privilegiato dell'antropogenesi e la cifra essenziale dell'umano.
Il ribaltamento di prospettiva rispetto all'antichita' classica e' qui massimo: in modo eminente nel pensiero di Aristotele la cifra distintiva dell'umano e specificamente del cittadino ateniese e' il logos, nel senso piu' generale di facolta' "di discorso e di liberta'" (p. 66), che e' in primo luogo liberta' dal vincolo biologico e materiale della riproduzione della vita - certo sul fondamento della soggezione e del lavoro dei non-liberi, di una schiavitu' che e' autentica "condizione prepolitica della politica" (p. 86).
Se dunque l'emancipazione dal lavoro era la condizione che qualificava la liberta' degli antichi, requisito della liberta' dei moderni e' l'emancipazione del lavoro. L'ascesa della borghesia imprenditoriale trova espressione teorica nell'economia politica classica, che individua nel lavoro la fonte primaria della ricchezza. Idealmente, Marx (primariamente il giovane Marx) radicalizza e generalizza questa posizione, fondendo nel lavoro valore economico e valore morale, ricchezza materiale e ricchezza dell'identita' personale e della socializzazione, e assegnando alla classe lavoratrice il ruolo di soggetto della Storia.
Questa giuntura di lavoro e storia comporta per Arendt due inconvenienti fondamentali. Da un lato, l'identificazione dell'umano con il dominio e con la coazione: "quando Marx affermo' che il lavoro e' la piu' importante attivita' dell'uomo, egli sostenne, nei termini della tradizione, che non la liberta', ma la necessita' e' cio' che rende umano l'uomo" (p. 69). Dall'altro, l'insufficiente distinzione marxiana tra praxis e poiesis conduce a un'indebita estensione dei criteri poietici e "lavoristici" alla dimensione pratico-discorsiva. La "glorificazione del lavoro" nella misura in cui sottende una sfiducia nel discorso razionale sembra ad Arendt strettamente connessa a una "glorificazione della violenza". Nella triplice tesi secondo cui "il lavoro e' creatore dell'uomo; la violenza e' la levatrice della storia; nessuno puo' essere libero se domina su altri" (p. 66) le prime due proposizioni rendono strutturalmente impossibile la liberta' invocata dalla terza, e consolidano un'inaccettabile forma di dominio. Se, infatti, la dimensione del linguaggio e della pratica discorsiva viene a coincidere con la mistificazione dei rapporti sociali di dominio e con l'espressione di una falsa coscienza, sorgono le condizioni della violenza politica come fuoriuscita dalla falsita' del discorso, e del totalitarismo come contrazione dei suoi spazi legittimi di esercizio. Al contrario, l'esercizio del logos nella prassi discorsiva antica vincola i soggetti con la sola forza della persuasione, esemplificata, come nel suicidio socratico, dall'induzione giudiziaria alla violenza agita su se stessi.
Tuttavia, un limite che va diagnosticato alla pur suggestiva lettura arendtiana e' quello di non aver distinto, come anche Forti segnala, le specificazioni del lavoro interne al pensiero di Marx e, in particolare, il lavoro come "metabolismo con la natura", che e' condizione ineludibile di qualunque formazione sociale, dal lavoro salariato che qualifica in modo specifico il modo di produzione capitalistico. Sostiene, infatti, Arendt che l'unico aspetto propriamente utopico del pensiero marxiano sarebbe l'emancipazione dell'uomo dal lavoro, "qualcosa" chiosa Arendt "che con ogni probabilita' e' altrettanto impossibile dell'antica speranza dei filosofi di liberare l'anima dal corpo" (p. 97): ma, appunto, si tratta di utopia solo se si intende l'emancipazione dell'essere umano dalla condizione metastorica del lavoro, anziche' dalla contingenza storico-sociale del rapporto di lavoro salariato. Ed e' tuttavia proprio in questo momento utopico-teorico del pensiero marxiano che Arendt rintraccia un insospettabile e rinnovato raccordo con il pensiero aristotelico di una comunita' che ha "escluso tutti i rapporti di dominio dalle relazioni tra i suoi liberi cittadini" (p. 72).
In secondo luogo, se non appare piu' praticabile la via di un'emancipazione sociale tradotta nella formula della sola liberazione del lavoro e dal lavoro, non si deve tuttavia dedurre - come invece l'impostazione di Arendt sembra talora suggerire - che l'esercizio pubblico del logos rappresenti ipso facto una dimensione di piu' compiuta liberta' dal dominio. Se la pratica discorsiva e' a sua volta innervata di relazioni di potere e condizionata da una ineguale distribuzione dei beni simbolici e delle possibilita' di presa di parola, ancora legata alle differenze di genere, classe sociale, etc., il suo esercizio - lungi dall'essere univocamente e automaticamente sinonimo e funzione di liberta' - appare forse bisognoso di uno specifico sguardo critico e di un appropriato percorso di liberazione.

13. LIBRI. VALENTINA RIOLO PRESENTA "SOCRATE" DI HANNAH ARENDT
[Dal sito www.iaphitalia.org riprendiamo e diffondiamo]

Hannah Arendt, Socrate, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015, pp. 126, euro 11.
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"E' giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, e' oscuro a tutti, tranne che al Dio".
Con queste parole si conclude l'Apologia di Socrate, dialogo in cui Platone tratta del processo e della condanna a morte del suo maestro. Era il 399 a.C. quando Atene, la piu' democratica delle citta' greche, mando' a morte il suo uomo piu' giusto con le accuse di empieta' nei confronti degli dei venerati in citta' e di corruzione dei giovani attraverso dottrine che causavano disordine sociale.
Socrate e' una figura centrale dell'opera arendtiana e, in questo testo, l'autrice prende le mosse dal momento in cui si crea una profonda spaccatura tra filosofia e politica. La polis, luogo in cui Socrate viveva e operava non in privato e dietro compenso, ma pubblicamente e gratuitamente, lo rinnega, lo processa e lo condanna a morte. La citta' "non sa cosa farsene" di quest'uomo a cui viene attribuito l'aggettivo "atopos", colui che non ha luogo, che non puo' essere rinchiuso in uno schema predefinito, che non vive isolato ma che non ricopre nemmeno una carica istituzionale. Frequenta l'agora' e si ferma a parlare con chiunque incontri, non per dare insegnamenti dogmatici, ma per insegnare a liberarsene: non si deve accettare il gia' dato come verita' assoluta e certa, l'obbiettivita' sta nel fatto che lo stesso mondo si apre a ciascuno in maniera diversa. La verita' si puo' comprendere solo se conosco "cio' che appare a me" e, d'altra parte, posso conoscere la verita' della mia opinione solo se la relaziono con la verita' degli altri, solo attraverso quell'"essere-nel-mondo" che per Arendt corrisponde all'"essere-nel-mondo con gli altri".
Nel testo e' presente anche un'analisi del rapporto antitetico che si crea tra Socrate e Platone: il primo visto come iniziatore della pratica filosofica e politica, il secondo come colui che ha aperto alla metafisica come via di fuga dalla scena politica, e, dunque, reo di aver tradito l'insegnamento del maestro. Platone non tentera' di sanare la spaccatura creatasi con la condanna a morte di Socrate, ma anzi, aprira' una prospettiva del tutto nuova. Se per Socrate il filosofo, come un tafano, doveva pungere i cittadini ponendo domande affinche' ciascuno fosse in grado di raggiungere la verita' attraverso la propria opinione, per Platone il compito del filosofo era quello di governare la citta' e la verita' derivava da criteri assoluti.
"So di non sapere" significa, quindi, non poter avere una verita' che sia valida per tutti e per ciascuno, la sapienza consiste nell'accettare questo limite: ognuno sviluppera' un logos personale e soggettivo attraverso un continuo dialogo interiore, infatti, come si legge nel testo di Arendt, "anche se dovessi vivere completamente da solo, vivrei, per tutto l'arco della mia vita, nella condizione della pluralita'; dovrei pur sempre stare con me stesso, e non c'e' luogo in cui questo "io-con-me-stesso" si mostri cosi' chiaramente come si mostra nel puro pensiero, che e' sempre un dialogo tra i due che io sono". Si mette in evidenza l'importanza cruciale del rapporto del se' con se stesso come condizione necessaria affinche' si possa vivere con gli altri. L'"essere-insieme" si sviluppa, quindi, su un doppio asse: "l'essere-insieme con gli altri uomini e con i propri pari, da cui scaturisce l'azione, e l'essere-insieme con il proprio Se', cui corrisponde l'attivita' del pensare". Tuttavia, proprio da quest'ultima attivita' deriva un pericolo di scissione dell'io: ognuno, essendo due-in-uno, e' destinato a convivere con la propria coscienza, dunque e' meglio "essere in contraddizione col mondo intero piuttosto che con se stessi".
Proprio per questo, come sottolineano i saggi di Adriana Cavarero e Simona Forti presenti alla fine del volume, e' interessante mettere a confronto Socrate con un altro personaggio fortemente presente nelle opere di Arendt: Adolf Eichmann, funzionario tedesco processato a Gerusalemme nel 1961. Due figure opposte, due estremi: da una parte, chi vuole vivere e convivere con la propria coscienza fino al punto di accettare la morte pur di non tradirla e di non tradirsi (Socrate), dall'altra, chi vuole sopravvivere a tutti i costi, non curandosi della voce interiore e di dover passare il resto dei suoi giorni con un assassino (Eichmann). Contro la "banalita' del male", Socrate diventa paradigma di onesta' e giustizia. Ma "perche' un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che si cambi in esempio. Allora e' necessario che Socrate muoia affinche' le sue idee vivano: condannando un uomo, non si uccide, insieme a lui, l'idea che ha creato e portato in atto.

14. SEGNALAZIONI LIBRARIE

Riletture
- Romano Bilenchi, Opere complete, Rcs, Milano 1997, 2009, pp. XXXVIII + 1258.
- Erskine Caldwell, Il piccolo campo, Bompiani, Milano 1953, pp. 324.
- Carlo Cassola, Un cuore arido, Einaudi, Torino 1961, 1962, pp. 312.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 451 del 24 dicembre 2017
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