[Nonviolenza] Nonviolenza. Femminile plurale. 666
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- Date: Sat, 23 Dec 2017 13:53:37 +0100 (CET)
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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento del notiziario telematico quotidiano "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVIII)
Numero 666 del 23 dicembre 2017
In questo numero:
1. "Lo tempo e' poco omai che n'e' concesso". Una lettera aperta ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati
2. La Casa siamo tutte. Un appello
3. Angela Dogliotti presenta "Le nostre lacrime hanno lo stesso colore" di Bushra Awad e Robi Damelin
4. Enrico Peyretti presenta "Vie islamiche alla nonviolenza" di Jawdat Said
1. LETTERE. "LO TEMPO E' POCO OMAI CHE N'E' CONCESSO". UNA LETTERA APERTA AI PRESIDENTI DEL SENATO DELLA REPUBBLICA E DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
Al Presidente del Senato della Repubblica
alla Presidente della Camera dei Deputati
e per opportuna conoscenza:
a tutte e tutti i parlamentari italiani
a tutte e tutti i componenti del Consiglio dei Ministri
Oggetto: richiesta di impegno affinche' il Parlamento prima del termine della legislatura deliberi ed impegni il Governo all'adesione e alla ratifica del Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari del 7 luglio 2017.
Gentile Presidente del Senato della Repubblica,
gentile Presidente della Camera dei Deputati,
la legislatura volge al suo termine, ma prima del suo scioglimento un atto di fondamentale importanza il Parlamento potrebbe e dovrebbe ancora compiere: deliberare ed impegnare il governo all'adesione e alla ratifica del Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari del 7 luglio 2017.
Dopo Hiroshima e' a tutti finalmente evidente che non vale piu' l'antico e sciagurato motto secondo cui se vuoi la pace devi preparare la guerra; e' a tutti finalmente evidente che non vale piu' la celebre e tristissima constatazione che la guerra e' la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Dopo Hiroshima l'umanita' sa che se prepari la guerra non vuoi la pace, perche' solo guerra e stragi e devastazioni otterrai; dopo Hiroshima l'umanita' sa che la guerra e' il contrario della politica e la catastrofe dell'umanita'.
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Gentile Presidente del Senato della Repubblica,
gentile Presidente della Camera dei Deputati,
e' per il vostro ruolo istituzionale che ci rivolgiamo a voi, ed attraverso voi a tutte le persone che in Parlamento siedono.
Come legislatori e come esseri umani non ignorate che il primo dovere e' salvare le vite.
Abolire le armi atomiche e' il primo dovere che ogni essere umano ed ogni legittima istituzione ed ogni ordinamento giuridico ha nei confronti dell'umanita' intera.
Abolire le armi atomiche ed avviare con cio' il necessario e urgente disarmo universale e' il primo punto del programma comune della politica dell'umanita'.
La repubblica italiana, che solennemente nella sua Costituzione "ripudia la guerra", non puo' essere complice delle armi atomiche che in se stesse sono gia' dittatura e guerra, e che minacciano la civilta' umana e l'umanita' stessa di estinzione.
Il Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari del 7 luglio 2017 adempie un voto dell'umanita' intera, costituisce un passo decisivo nel cammino verso il bene comune, e' un ineludibile appello che convoca ogni persona ed ogni stato alla politica prima: la politica che salva le vite.
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Gentile Presidente del Senato della Repubblica,
gentile Presidente della Camera dei Deputati,
in questo poco tempo che resta prima della fine della legislatura, vogliate adoperarvi affinche' il Parlamento italiano si esprima affinche' l'Italia aderisca e ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi atomiche del 7 luglio 2017.
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Augurandovi ogni bene,
il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 23 dicembre 2017
2. SOLIDARIETA'. LA CASA SIAMO TUTTE. UN APPELLO
[Dalla Casa Internazionale delle Donne riceviamo e diffondiamo]
Sostegno alla Casa
lacasasiamotutte (lacasasiamotutte at gmail.com)
#lacasasiamotutte
A tutte le amiche e gli amici,
come avrai saputo dalla stampa o dalla televisione, la Casa Internazionale delle Donne ha bisogno di aiuto.
Abbiamo ricevuto moltissime dimostrazioni di affetto e vicinanza che ci hanno molto commosso, e ve ne siamo grate, ma anche siamo state sollecitate a richiedere un aiuto economico a quante, come te, ci conosce, ha lavorato nella Casa e con la Casa.
Essere luogo di riflessione politica delle donne, ospitare in modo sostenibile tante associazioni e tante attivita', costruire, produrre attivita' culturali, tenere aperto il piu' grande archivio della storia e della produzione femminista, mantenere decorosamente un edificio storico, farlo restare aperto, fruibile a disposizione delle donne e di tutta la citta', fornire servizi di assistenza, consulenza, sostegno al lavoro e alla vita delle donne e dei bambini, promuovere formazione, costa e costa molto.
Per questo ti chiediamo di contribuire alla sopravvivenza della Casa, per farla essere sempre di piu' e sempre meglio quel luogo unico a Roma, in Italia, in Europa che e' la nostra Casa Internazionale delle donne.
Ringraziandoti fin d'ora e ricordandoti che la Casa si sostiene solo con l'autofinanziamento, ti chiediamo anche di far partecipare le persone a te vicine al sostegno della Casa.
Per la donazione:
http://www.casainternazionaledelledonne.org/index.php/it/sostienici-support-us
IBAN IT38H0103003273000001384280
causale: "Donazione per la Casa Internazionale delle Donne"
3. LIBRI. ANGELA DOGLIOTTI PRESENTA "LE NOSTRE LACRIME HANNO LO STESSO COLORE" DI BUSHRA AWD E OBI DAMELIN
[Dal sito del Centro studi "Sereno Regis" di Torino riprendiamo questa recensione]
Bushra Awad, Robi Damelin, Le nostre lacrime hanno lo stesso colore, Edizioni Terra Santa, Milano 2017, pp. 151, euro 16.
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Nel bellissimo libro edito dalle Edizioni Terra Santa, la giornalista francese Anne Guion raccoglie le testimonianze dell'associazione israelo-palestinese The Parents Circle-Families Forum (Pcff), attraverso il racconto dell'esperienza di vita e dell'incontro di due donne, Robi Damelin, ebrea israeliana di origine sudafricana, che vive a Tel Aviv, e Bushra Awad, palestinese che vive in Cisgiordania.
The Parents Circle, fondata nel 1994, dopo gli accordi di Oslo, dall'ebreo israeliano Ytzhak Frankental dopo la morte del figlio Arik, e' un'associazione ormai abbastanza nota, perche' da allora si impegna nel portare avanti un processo di pace dal basso attraverso la reciproca conoscenza e l'incontro tra persone di entrambe le parti che, a causa del conflitto, hanno perso dei familiari e che, proprio a partire da questo lutto, si propongono di trovare strade diverse dalla violenza per affrontare in modo equo e sostenibile le questioni in campo. Dal 2003 il Pcff e' binazionale, con uffici a Tel Aviv e a Beit Jala.
Ma il libro e' molto di piu': e' un intreccio tra la piccola storia e la grande storia, nel quale le vicende personali di Robi e di Bushra, entrambe madri di ragazzi uccisi nel corso del conflitto, e di diversi altri protagonisti, sono collocate nel contesto della Cisgiordania occupata da Israele in seguito all'esito della guerra dei sei giorni del 1967. Sono cosi' via via messe in scena le speranze e le delusioni legate al processo di Oslo; il movimento dei refusnick, soldati israeliani che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati; la realta' delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est; la situazione di Hebron, divisa in due dal 1997 e per il 20% controllata da Israele; i check point e la rete di strade riservate agli israeliani che collegano le colonie tra loro e con le citta', chiudendo lo spazio palestinese in enclaves separate come isole in mezzo al mare e immobilizzando la popolazione in quella che Jeff Halper ha chiamato la "matrice di controllo"... Questa politica di separazione rende estranei e ostili gli uni agli altri, favorendo processi di demonizzazione che acutizzano il conflitto anziche' favorirne una trasformazione positiva.
Ma questa drammatica situazione, frutto di un conflitto pluridecennale che rischia di diventare "intrattabile", e' anche contrassegnata da molteplici sacche di resistenza: non solo palestinesi, ma anche di quelle associazioni israeliane come B'Tselem (per la difesa dei diritti umani), Icahd (Comitato israeliano contro la demolizione delle abitazioni), guidato dal gia' citato Jeff Halper, Breaking the silence (Infrangere il silenzio), fondata dall'ebreo ortodosso Yehuda Shaul e composta da ex-soldati israeliani; o Machson Watch, associazione di donne israeliane che denunciano e tentano di contrastare violenze e soprusi contro i civili; o gruppi misti come (oltre a Pcff) Ta'ayush, che cerca di proteggere gli abitanti palestinesi dalle aggressioni dei coloni nelle zone piu' calde, come Hebron; o i Combattenti per la pace, associazione di ex combattenti delle due parti, fondata nel 2005 dal palestinese Bassam Aramin e dall'israeliano Rami Elhanan (entrambi membri di Pcff per aver perso le figlie nel conflitto); tutte associazioni che hanno scelto la via del dialogo e della ricerca della pace, per citarne solo alcune.
E c'e' un edificio a Beit Jala, vicino a Betlemme, l'hotel Everest, che e' "l'unico luogo della Cisgiordania in cui israeliani e palestinesi possono incontrarsi senza bisogno di permessi speciali" (p. 55) dal momento che la strada che passa davanti all'hotel si trova in zona C, ed e' quindi percorribile dagli israeliani, mentre i palestinesi possono raggiungere la struttura da Beit Jala. E' in questo albergo che avviene l'incontro tra Robi e Bushra, nell'ambito di una iniziativa organizzata da Pcff. Un documentario, Two Sided Story, racconta le fasi, le difficolta', la straordinarieta' di questi incontri: il passaggio dalla diffidenza e dalla paura reciproca alla scoperta di condividere lo stesso dolore, alla catarsi, alle lacrime che aprono a nuove relazioni.
Ma come far dialogare l'occupante e l'occupato? Non e' facile, e talvolta rischia di essere fittizio, se le due parti si incrociano senza mai incontrarsi davvero, come scrive Abu Nimer: "Accettando di sedersi insieme e di dialogare senza mai sfiorare le questioni spinose, israeliani e palestinesi sono diventati compagni di negazione" (p. 77). Solo quando il dialogo riesce ad andare in profondita' e a realizzare un confronto di identita' che tocca nervi scoperti del conflitto puo' essere efficace e produttivo, come sostiene Dan-Bar-On. Su questa base si sviluppa il Narrative Project del Pcff: attraverso una serie di incontri e di avvicinamenti progressivi il gruppo misto passa dalla conoscenza interpersonale al dialogo sul conflitto, spesso doloroso, perche' "Molti scelgono di raccontarsi come vittime [...] Tutti si mettono ad usare argomentazioni culturali, etiche o storiche per squalificare l'altro schieramento. I palestinesi parlano delle violenze dei soldati israeliani e dei coloni nei territori occupati. Gli israeliani ribattono elencando gli attacchi palestinesi contro civili israeliani e via cosi'" [...] "i due gruppi lottano per far si' che la responsabilita' delle sofferenze di tutti ricada sugli oppositori, che ritengono colpevoli di aver innescato il ciclo di violenze" (p. 77).
Poi, per convincere l'altro, i partecipanti finiscono quasi sempre per raccontare storie personali legate al conflitto: "La legittimita' dell'esperienza personale e il tono di voce addolorato risvegliano la compassione e iniziano a infrangere il muro della negazione. Le voci si fanno piu' basse e spuntano le lacrime, che si sostituiscono alla cacofonia di fondo. Il fatto di passare dal racconto dei "traumi collettivi preferiti" alle storie personali genera momenti catartici durante i quali i partecipanti cominciano a esprimere gli effetti emotivi della violenza e dell'oppressione e a piangere insieme su cio' che ciascuno ha perso" (p. 79). Tali momenti catartici provocano una trasformazione interiore che tocca tutti i partecipanti: "Il processo di guarigione scatta proprio perche' queste storie sono condivise con l'Altro. Perche' fintanto che si rimane nel proprio ambiente, e' facile restare nel dolore, nella rabbia e nell'odio e abituarsi al ruolo di vittima" (p. 80).
Questo viaggio alla scoperta dell'altro si accompagna ad un altro viaggio, in direzione di se stessi, per scoprirsi esseri umani, al di la' delle convinzioni e delle identita' storiche, culturali o religiose. Uscire dall'essere bloccati nel proprio ruolo di vittima, per gli uni e per gli altri, e' possibile quando si prende coscienza, attraverso una relazione empatica con l'altro, della relativita' del proprio punto di vista. E cio' consente di rifiutare l'uso politico che viene spesso fatto, da una parte e dall'altra, dei traumi del passato (la Shoah, la Nakba), per giustificare cio' che non puo' essere giustificato nell'oggi.
Il testo affronta con profondita' e finezza molte delle questioni cruciali che quotidianamente emergono dal conflitto israelo-palestinese. Tra queste, merita di essere citata l'accusa di "normalizzazione dell'occupazione" mossa da alcune parti a coloro che cercano di promuovere contatti tra palestinesi ed israeliani. Anche Pcff e' stato accusato di cio'. Ma l'approccio con il quale questa associazione agisce non ha nulla a che vedere con l'accettazione della situazione presente, come scrive il blogger palestinese Aziz Abu Sarah: "Scrivere della vita durante l'occupazione su una rivista online con autori israeliani non significa "normalizzare". Raccontare alle classi la vita quotidiana delle citta' palestinesi non vuol dire normalizzare. Come non lo e' incontrare degli israeliani in un gruppo di dialogo per discutere dei modi migliori di cambiare lo status quo" (p. 123).
Un'altra questione controversa e' la campagna Bds (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), nata nel 2005 all'interno della societa' palestinese con l'obiettivo di denunciare e sottrarre consenso alla politica di occupazione e colonizzazione dei territori palestinesi da parte dei governi israeliani. Secondo l'appello di alcuni intellettuali francesi comparso su "Le Monde" del primo novembre 2010: "Cedere all'appello di boicottaggio, impedire gli scambi, infliggere ad esempio ai ricercatori israeliani o agli scrittori non si sa quale punizione collettiva significa abbandonare ogni prospettiva di soluzione politica al conflitto e dichiarare che ormai il negoziato non e' piu' possibile" (p. 121). Coloro che sostengono il movimento di boicottaggio lo considerano, invece, "una risposta delle societa' civili all'impotenza della comunita' internazionale. E pongono una domanda semplice: Israele si ritirera' dai territori occupati in assenza di pressioni o sanzioni? Certo che no" (p. 122).
Ci sara' mai una soluzione a questo conflitto? Come si puo' affrontare una situazione di stallo, in cui i negoziati sono fermi e l'estensione degli insediamenti israeliani ha raggiunto il numero di circa 500.000 coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est?
Sari Nusseibeh, intellettuale palestinese, riprende la proposta "2 States, 1 Homeland", basata sull'idea della creazione di due stati, Palestina e Israele, senza frontiere che li separino (p. 134).
Proposte analoghe sono state fatte recentemente anche da Jeff Halper e certo non sono soluzioni facili da realizzare. In ogni caso, nessuna soluzione potra' prescindere da un processo di pace e di riconciliazione dal basso che permetta di sanare le ferite e di imparare a conoscersi e a convivere tra due realta' da troppo tempo immobilizzate in un conflitto acuto e lacerante.
Cosi' scrive Robi ai familiari di Thaer, il giovane palestinese che ha ucciso suo figlio David: "Capisco che vostro figlio sia considerato un eroe da molti palestinesi, un combattente per la liberta' che lotta per la giustizia e per uno stato palestinese indipendente e vitale, ma penso anche che se capisse che togliere la vita agli altri non puo' essere una soluzione, se prendesse davvero coscienza delle conseguenze del suo atto, capirebbe che, affinche' i nostri due paesi possano un giorno vivere insieme in pace, la sola strada possibile e' quella della nonviolenza. Le nostre vite sono legate cosi' intimamente che ognuno di noi dovra' rinunciare ai suoi sogni per il bene e per il futuro dei figli che sono ancora sotto la nostra responsabilita'" (p. 88).
Comunque si valuti la situazione, non si può non ascoltare queste voci con rispetto e ammirazione.
4. LIBRI. ENRICO PEYRETTI PRESENTA "VIE ISLAMICHE ALLA NONVIOLENZA" DI JAWDAR SAID
[Ringraziamo Enrico Peyretti per questa recensione]
Vie islamiche alla nonviolenza, di Jawdat Said. Cura e Introduzione di Naser Dumairieh, Prefazione di Adnane Mokrani, Edizioni Zikkaron, Marzabotto (Bo) (koinonia.montesole at gmail.com)
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Si conoscono di piu' le violenze riferite all'islamismo che l'islam come tale. Questo libro, molto chiaro tra altri che diremo, mostra la nonviolenza propria dell'islam, mentre noi conosciamo di piu' quella delle altre grandi religioni e culture. L'autore, Jawdat Said, nato nel 1931, e' siriano. Ha studiato in Egitto e in Arabia Saudita. E' fervente musulmano, intellettuale impegnato, persuaso nonviolento, critico delle idee prevalenti nei popoli musulmani, arrestato piu' volte e impedito di insegnare. Dal 2013 e' rifugiato a Istanbul.
Il curatore Naser Dumairieh, siriano, laureato in filosofia islamica a Damasco, ha acquisito un master in studi cristiani sull'ermeneutica biblica all'Universita' Gregoriana di Roma, e' ricercatore universitario a Montreal. Il prefatore Adnane Mokrani, teologo musulmano tunisino, vive in Italia, insegna alla Pontificia Universita' Gregoriana di Roma e al Pontificio Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, e' autore di Leggere il Corano a Roma (2010).
Nella Prefazione, Adnane Mokrani mostra vari aspetti dell'opposizione dell'Islam ad ogni violenza (pp. VII-XIV). Pur senza dimenticare le tradizioni guerresche, presenti nella tradizione islamica, come in altre tradizioni, compresa quella cristiana, egli ricorda le figure di Abdul Ghaffar Khan, il "Gandhi musulmano" che precedette Gandhi con la propria azione nonviolenta, e di Ramin Jahanbegloo, filosofo della nonviolenza a Harward. Tra i discepoli musulmani di Gandhi c'e' anche Maulana Abul Kalam Azad, che, come Said, fonda la nonviolenza nel cuore del pensiero religioso islamico. Questi pensatori musulmani, piu' che in uno stato per i musulmani, vedevano nello stato laico la maggiore garanzia di uguaglianza e giustizia. Jawdat Said non fece azione politica, come Gandhi, ma l'onda verde in Iran nel 2009 e la Primavera araba del 2011 provarono che la nonviolenza e' presente nei movimenti popolari, ed e' temuta dai dittatori piu' delle azioni violente che giustificano la repressione.
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Introduzione
In un'ampia Introduzione (pp. XV- LIII), Naser Dumairieh, studioso di islamismo e cristianesimo, spiega bene, sul problema della guerra, la differenza tra il periodo meccano e quello medinese di Mohammed. Alla Mecca egli vieto' ai musulmani persino l'autodifesa, quando erano perseguitati e torturati, ordinando pazienza e sopportazione. A Medina nacque il primo stato islamico territoriale, includente musulmani, politeisti, ebrei, con una legge che salvaguardava i diritti di ogni gruppo. La fondazione dello stato implica anche l'uso della forza per la sicurezza pubblica e la difesa da continui attacchi esterni. A Medina troviamo il primo versetto del Corano, 22,39-40, che autorizza l'uso della forza per difendersi. Il jihad non e' piu' soltanto lo sforzo personale per la fedelta' religiosa, ma diventa anche il combattimento politico, la guerra. La giustificazione di questo combattimento dipende da precise condizioni: quando la gente viene uccisa, o viene cacciata dalle sue case, a causa della propria fede. E si combatte contro chi vuole costringere a cambiare idee o religione, contro l'oppressore. A me pare che, a Medina, le condizioni per giustificare la guerra statale (non privata) siano sostanzialmente quelle che, nell'occidente cristiano, costituirono la teoria della "guerra giusta", diritto riconosciuto anche agli stati cristiani, e messo in discussione solo oggi, nei piani più avanzati della riflessione morale. Nelle regole di Medina, in caso di vittoria non e' lecito costringere il vinto a diventare musulmano, anzi egli ha diritto a restare nella sua fede. Persino l'idolatra deve essere protetto e accompagnato. E' ordinato di com-battere, non di uccidere: com-battente e' chi si difende, mentre chi aggredisce e' chiamato uccisore. E' ordinato di difendere la liberta' di credo e di pensiero, non di imporre un'idea. Non sono vero jihad le lotte interne tra l'imam 'Ali e i khawarij, estremisti fanatici che non rispettano il principio della non-costrizione. Non si trova nel linguaggio islamico l'espressione "guerra santa", coniata in occidente per le guerre di religione.
Dumairieh sottolinea, nello sviluppo del pensiero di Said, la "morte della guerra", arrivata alla distruttivita' totale: "Le armi non difendono: esse sono come i feticci che venivano adorati prima dell'avvento dell'Islam". L'alternativa alla violenza e' la conoscenza. Said chiarisce anche il punto dell'uccisione dell'apostata: Mohammed non impedi' il ritorno alla Mecca di quelli che volevano abbandonare l'Islam. Il detto "chi cambia la sua religione uccidetelo" per Said riguarda un caso specifico, perche' il principio generale e' la "non-costrizione". Le guerre della riddah, dell'apostasia, per la maggior parte degli storici sono guerre politiche di difesa e non guerre di religione.
Importante per Said e' pure la distinzione tra la devozione e i modi giusti per esercitarla: "Questa e' la tragedia di molti giovani devoti e fanatici che non hanno compreso la direzione giusta in cui impiegare questa devozione". E' chiaro il riferimento a quei musulmani che noi in Europa chiamiamo "radicalizzati" e che compiono violenze nel nome di Allah, come i khawarij di altri tempi. Il fanatico e' come una madre che ama molto il suo bambino, ma e' ignorante sui modi di allevarlo e curarlo, e finisce per fare il suo male.
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Il pensiero di Jawdat Said
Jawdat Said, fin dal suo primo libro in Egitto, nel 1965, insegna La dottrina del primo figlio di Adamo, Abele, che dice a Caino: "E se tu stenderai la mano contro di me per uccidermi, io non stendero' la mano su di te per ucciderti, perche' temo Dio, il Signore dei mondi" (Corano 5,28). Il libro incontra reazioni contrarie. Gli appelli alla nonviolenza risultavano incomprensibili presso i musulmani. In quel racconto simbolico di Abele, Said vede l'evoluzione dell'uomo alla consapevolezza, che trova anche in Socrate e nella Bibbia. Cosi' fanno anche tutti i profeti, e noi vogliamo seguirne l'esempio. Gli inviati di Dio hanno pazienza e non rispondono alle offese (Corano 14,9-13) (pp. 3-16).
Chi segue la dottrina di Abele non vuole avere altra colpa che di aver detto: "Il nostro Signore e' Dio". Said intende per jihad "l'impiego della forza armata da parte di un regime islamico arrivato al potere con il consenso del popolo, poiche' questo e' un compito del governo e non dei singoli individui o dei gruppi". "Il jihad si compie contro chi spinge gli altri ad abbandonare il proprio credo e le proprie case con la forza armata". "Lo scopo del jihad non e' diffondere l'Islam, bensi' impedire l'ingiustizia, e per questo il jihad serve a proteggere il dissidente, ossia a creare un clima di liberta' di pensiero senza coercizione. Il jihad e' contro l'oppressore, anche se fosse musulmano (...), perche' l'oppressore diffonde la discordia [la fitnah, il conflitto interno alla comunita'], e "la discordia e' peggiore dell'uccisione" (Corano 2,191)".
Il jihad, quindi, ha delle condizioni di cui i musulmani "hanno cominciato ad essere consapevoli", anche se continuano conflitti sulla loro definizione. I limiti del jihad sono fortemente ristretti dal principio coranico "Non vi e' costrizione nella religione" (2,265). Ma, mentre molti popoli sono arrivati a questo principio, "i musulmani non vi sono ancora arrivati", lamenta Said, anche perche' sono governati da tiranni (tawaghit) con la costrizione, dalla quale nessuno si sforza di liberare le persone. "La religione non si ordina con la forza dei muscoli o delle armi, o con la distruzione, bensi' con la forza delle idee e con la rettitudine, aiutando gli altri a liberarsi dall'ingiustizia e dalla costrizione", scriveva Said nel 2000 (pp. 17-22).
La violenza da abbandonare non e' solo quella fisica: e' la violenza dei cuori. Lo promette il Corano (7,43; 59,10), con parole simili al profeta ebraico Ezechiele. I sufi e i devoti curano i cuori e sanno che Dio accetta il meglio di ciascuno "senza tenere conto delle loro cattive azioni" (Corano 46,16).
"La violenza e' una sconfitta ideologica basata sull'idea di uccidere il malato anziche' guarirlo". Non basta volere il giusto, bisogna anche conoscere i mezzi, altrimenti si ha la "devozione senza senno". Il problema islamico (nella componente salafita come in quella nazionalista) e' di questo tipo. "Sono tutti devoti alla loro comunita', ma nutro forti sospetti sulle loro idee, condanno i loro metodi e mi oppongo al modo con cui alcuni di loro considerano gli altri". Non accettano la sfida ideologica perche' non hanno fiducia nelle loro idee. "Perche' temono l'arena delle idee e ricorrono a quella dei corpi? Perche' praticano la costrizione nella religione?". "Chi e' sconfitto ideologicamente ricorre alla battaglia corporale". "Dobbiamo pazientare nella battaglia ideologica" (pp. 22-27).
"Io sento una pace sublime e posso affrontare il mondo intero nel modo in cui hanno fatto i profeti, ossia solo con la parola uguaglianza, la parola giustizia e la parola timore di Dio", scrive Said. Per questo egli chiede a tutti i sostenitori dei diritti umani di collaborare per abolire il diritto di veto (dei vincitori della guerra nel 1945) nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, scandalo nella modernita', ostacolo alla crescita del mondo, contrario all'umanita'.
Il metodo della nonviolenza ha molti vantaggi, che Said esamina in 8 punti. I suoi benefici si estendono a tutti i contendenti, sono collettivi: chi aderisce al dialogo, "non si sentira' sconfitto o obbligato, ma percepira' il dolce rivelarsi della verita' e il sottomettersi ad essa senza coercizione; chi vince non sentira' di aver vinto con l'imposizione della forza". La via nonviolenta "elimina la mortificazione di chi cambia opinione e la presunzione di chi invita alla verita'". "Noi chiediamo di scendere nel campo della lotta ideologica nella quale, per natura sua, chi vince non e' chi detiene piu' armi". "Noi non vogliamo fare altro che annunciare il messaggio dell'Islam. Perche' allora aiutiamo i nemici di quella religione facendo cose che suscitano la loro ostilita' nei nostri confronti?" (pp. 27-35).
La diversita' e' importante. "Proteggendo la diversita' e mettendo in relazione le persone si libera la verita'". "Come facciamo a rendere unanime la parola dei musulmani? Essi pensano che l'unita' si realizzi solo eliminando le idee considerate false o sbagliate", invece "l'errore si elimina mostrando cio' che e' giusto e con questo metodo salvo me stesso e salvo la mia storia". "Credo che dobbiamo accettare dagli altri cio' che di meglio hanno fatto, al di la' delle loro azioni cattive, poiche' noi siamo predicatori e non giudici o poliziotti". Said chiede di creare nuove relazioni, alternative alle vecchie relazioni. "L'alternativa che propongo e': non vi e' costrizione nella religione", ne' nella dottrina ne' nella politica. Lasciamo che le idee sbagliate "muoiano di morte naturale". "L'errore ha il diritto di vivere; se non gli do il diritto di vivere, nemmeno io avro' lo stesso diritto. Questo e' fondamentale". Ibn'Arabi (Murcia 1165 - Damasco 1240) ha scoperto di poter convivere nell'amore nonostante la diversità di religione, di dottrina e di politica. E anch'io - dice Said - ho percepito questo. "Chissa' chi trarra' beneficio dal mio appello all'amore per il bene di tutte le dottrine e le religioni, e perfino degli atei! Quello che chiedo loro e' solo di ripudiare la violenza, di lasciare agli esseri umani il diritto di scegliere l'orientamento che desiderano, anziché uccidersi tra loro" (pp. 35-40).
Bastino queste citazioni dirette a mostrare il valore di questo pensatore militante. Mi pare che egli intenda la nonviolenza anzitutto come dialogo, ascolto, rispetto. In altri paragrafi del suo scritto principale espone il concetto di giustizia come uguaglianza perche' siamo davanti a Dio e "non prendiamo alcun padrone che non sia Dio" (Corano 3,64). Si legge l'universale regola d'oro nelle parole di Said: "Ti conferisco lo stesso diritto che prendo per me stesso e vieto a te cio' che vieto a me stesso» (p. 42). Continua con altri cenni critici verso modi di vivere presenti tra i musulmani. "Una regola fondamentale e' che il cambiamento inizia da se stessi, dal voler cambiare se stessi e non l'altro". Qui Said parla come Gandhi. "Tu non risolverai il problema se non amerai colui che diverge da te". "Possiamo amare il nemico, ossia chi e' colpito dalla malattia, pur odiando la malattia". "Gesu', su di lui la pace, non aveva chiesto l'impossibile quando disse: "Amate i vostri nemici" (Matteo 5,44) e cosi' il Corano quando disse: "Ecco, voi li amate ma essi non vi amano" (3,119)" (pp. 46-49).
In un articolo recentissimo, dell'agosto di quest'anno 2017 Jawdat Said vede, nella risposta di Dio agli angeli che prevedono la violenza dell'uomo, in un bel testo coranico (2,30), la "morte della guerra". Oggi la guerra non serve piu' a risolvere i conflitti. Sembra di sentire Giovanni XXIII nella Pacem in terris. Con l'inviare uomini in guerra ad uccidersi tra loro si compiono barbari sacrifici umani offerti agli idoli del potere, da politici stolti e malvagi, e dal cinismo dei produttori di armi. Di questa malattia e' malato anche il mondo islamico. Il mito della forza impedisce le soluzioni. C'e' bisogno di conoscenza per uscire da un "tempo abrogato", dalla ignoranza sulla natura e sulla societa'. Rettitudine e democrazia, scuole, istruzione, scienza e religione, sono necessarie. Democrazia e' fare ricorso alla persuasione anziche' alla coercizione, rinunciare alla violenza e affidarsi alle urne elettorali. Tutti coloro che detengono la bomba atomica sono contro l'umanita', e cosi' quelli che bramano di ottenerla. La ricetta concreta per il capovolgimento sociale tramite la conoscenza e' "la regola della disobbedienza e dell'insubordinazione quando ci viene ordinato qualcosa contrario alle leggi dell'universo e dell'uomo". Ecco, Said vede bene che la coraggiosa non-collaborazione al male e' la prima regola della nonviolenza. E di nuovo condanna il diritto di veto delle potenze, perche' nessuno e' al di sopra della legge. Il principio coranico dell'unicita' di Dio fonda l'eguaglianza umana, e la nullita' degli idoli di potenza. "Oh voi altri, oh mondo, oh esseri umani: Dio non vuole sacrifici, Dio e' clemente e misericordioso" (pp. 51-64).
Un'appendice di Naser Dumairieh illustra il ruolo di Said nella rivoluzione siriana del 2011, sostenitore delle forme nonviolente, per elezioni democratiche, per il pluralismo e l'uguaglianza. Non c'e' costrizione nella religione, chi vuole creda e chi non vuole non creda - dice Dio agli uomini - percio' non vi sia costrizione neanche nella politica e nella societa'.
In uno scritto del 2003 (qui pp. 69-84), Said stesso ricapitola il suo lavoro educativo, la sua fiducia nel bene e nella ragione, nell'umanita' guidata da Dio (con qualche ingenuita' sulla storia recente, a dire il vero), la sua speranza impegnata nella evoluzione morale umana, sempre attento a criticare i ritardi e a promuovere la consapevolezza dei popoli musulmani. Vediamo che Jawdat Said sa difendere l'Islam dal pregiudizio che lo condanna come religione fanatica e violenta (a qualcuno sembrera' che faccia troppa apologia, ma la sua lettura dell'Islam e' positiva), pero' nello stesso tempo denuncia e critica liberamente il ritardo dei popoli musulmani e delle politiche dei loro paesi nel conoscere e applicare i principi pacifici dell'Islam.
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Islam e nonviolenza
Questo bel libro di Jawdat Said viene ad arricchire una serie di pubblicazioni (indicate, per esempio, in www.transcend.org) che, specialmente dal 2015, di fronte alle violenze dell'Isis/Daesh, spettacolarizzate dai media piu' di ogni altra guerra, distinguono tra Islam religioso, civile, anche nonviolento, e l'abuso che ne viene fatto per giustificare feroci lotte di potere. Chi studia la nonviolenza non si stupisce di incontrare cultura e prassi nonviolenta nell'Islam. L'informazione grossolana fa vedere solo il terrorismo, ma nelle bibliografie ragionate (http://enricopeyretti.blogspot.it/ Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonviolente) si trova la storia esemplare di Badshah Khan, il Gandhi musulmano, si incontra il libro di Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, come pure il fascicolo Les dossiers de Non-violence Politique, n. 2, che illustra numerosi casi storici di lotte nonviolente, tra cui anche Iran 1978-79. Questo fascicolo e' tradotto nei Quaderni della Dpn, col titolo Resistenze civili: le lezioni della storia. Nel volume di D. Morrison, Ph. Taylor, Sh. Ramachandaran, Media, guerre e pace, troviamo vari altri casi storici, tra cui il caso Iran, sul quale ha scritto pure Ryszard Kapuscinski in Sha in Shah. Sul tema Islam, pace, nonviolenza ho raccolto del materiale in tre capitoli (da p. 124 a 135) nel mio La politica e' pace (ed. Cittadella, Assisi 1998). Segnalo anche Ramin Jahanbegloo, Leggere Gandhi a Teheran, e Mahmoud Mohamed Taha (1909 o 1911- 1985), Il secondo messaggio dell'Islam, e vari altri.
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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Numero 666 del 23 dicembre 2017
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