[Nonviolenza] Telegrammi. 2060
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- Date: Wed, 29 Jul 2015 22:51:49 +0200 (CEST)
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 2060 del 30 luglio 2015
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com
Sommario di questo numero:
1. Una proposta di azione contro il razzismo
2. Anna Bravo: Senza armi contro Hitler: in Italia (parte prima)
3. Segnalazioni librarie
4. La "Carta" del Movimento Nonviolento
5. Per saperne di piu'
1. INIZIATIVE. UNA PROPOSTA DI AZIONE CONTRO IL RAZZISMO
E' necessario e urgente un impegno contro il razzismo in Italia. Ed invero vi sono gia' molte iniziative in corso. Quella che vorremmo proporre potrebbe essere agevole da condurre e produrre qualche risultato.
*
Un ragionamento
Due sono gli obiettivi: il primo: ottenere, se possibile, risultati limitati ma concreti che vadano nella direzione del riconoscimento dei diritti fondamentali per il maggior numero possibile di esseri umani almeno nel nostro paese; il secondo: contrastare con le nostre voci e la nostra azione il discorso e la prassi dominanti, che sono il discorso e la prassi dei dominatori razzisti e schiavisti, dei signori della guerra e della barbarie.
L'idea e' di provare ad attivare alcune risorse istituzionali per contrastare il razzismo istituzionale.
La proposta e' di premere sui Comuni e sul Parlamento con una progressione degli obiettivi.
Alcuni provvedimenti - quelli che proponiamo ai Comuni - sono agevolmente ottenibili se si creano localmente dei gruppi (persone, associazioni, rappresentanze istituzionali...) capaci di premere nonviolentemente in modo adeguato e con la necessaria empatia e perseveranza; e sono agevolmente ottenibili perche' molti Comuni d'Italia li hanno gia' deliberati e realizzati, e quindi nulla osta in via di principio al fatto che altri Comuni li adottino a loro volta.
Le cose che chiediamo al Parlamento sono meno facilmente ottenibili, ma la nostra voce puo' comunque contribuire se non altro a suscitare una riflessione, a promuovere la coscientizzazione, a spostare i rapporti di forza, ad opporsi a ulteriori violenze smascherando la disumanita' delle scelte razziste e indicando cio' che invece sarebbe bene fare.
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Un metodo
Noi suggeriremmo a chi ci legge e condivide questa proposta di cominciare scrivendo di persona agli amministratori comunali ed ai parlamentari; poi proponendo ad altre persone di fare altrettanto; poi se possibile coinvolgendo anche associazioni e media ed attraverso essi sensibilizzando e coinvolgendo altre persone ancora; poi chiedendo incontri con i rappresentanti istituzionali; e perseverando.
Non vediamo bene un'iniziativa piramidale con un "coordinamento nazionale" e le modalita' burocratiche che ne conseguono. Preferiremmo un'iniziativa policentrica, in cui ogni persona possa agire da se', e meglio ancora con le persone con cui sente un'affinita', e meglio ancora se si riesce ad organizzare un coordinamento locale, ma tra pari e senza deleghe ed in cui le decisioni si prendono con la tecnica nonviolenta del metodo del consenso.
Una sola condizione poniamo come preliminare e ineludibile: la scelta della nonviolenza.
Proponiamo di cominciare e vedere cosa viene fuori. Comunque non sara' tempo sprecato.
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Ed ecco le proposte:
1. Quattro richieste ai Comuni:
1.1. affinche' il sindaco - qualora non lo abbia gia' fatto - informi, inviando loro una lettera, tutte le persone straniere diciottenni residenti o domiciliate nel territorio del Comune che siano nate in Italia ed in Italia legalmente residenti senza interruzioni fino al compimento del diciottesimo anno di eta', che la vigente legislazione prevede che nel lasso di tempo tra il compimento del diciottesimo ed il compimento del diciannovesimo anno di eta' hanno la possibilita' di ottenere la cittadinanza italiana facendone richiesta davanti all'Ufficiale di Stato Civile del Comune di residenza con una procedura alquanto piu' semplice, rapida e meno dispendiosa di quella ordinaria per tutte le altre persone aventi diritto;
1.2. affinche' il Comune - qualora non lo abbia gia' fatto - attribuisca la cittadinanza onoraria alle bambine e ai bambini non cittadine e cittadini italiani con cui la comunita' locale ha una relazione significativa e quindi impegnativa (ovvero a) tutte le bambine e tutti i bambini nate e nati nel territorio comunale da genitori non cittadini italiani; b) tutte le bambine e tutti i bambini non cittadine e cittadini italiani che vivono nel territorio comunale; c) tutte le bambine e tutti i bambini i cui genitori non cittadini italiani vivono nel territorio comunale ed intendono ricongiungere le famiglie affinche' alle bambine ed ai bambini sia riconosciuto il diritto all'affetto ed alla protezione della propria famiglia, ed affinche' i genitori possano adeguatamente adempiere ai doveri del mantenimento e dell'educazione delle figlie e dei figli);
1.3. affinche' il Comune - qualora non lo abbia gia' fatto - istituisca la "Consulta comunale delle persone straniere residenti nel Comune";
1.4. affinche' il Comune - qualora non lo abbia gia' fatto - istituisca la presenza in Consiglio Comunale dei "consiglieri comunali stranieri aggiunti".
2. Quattro richieste al Parlamento:
2.1. affinche' legiferi il diritto di voto nelle elezioni amministrative per tutte le persone residenti;
2.2. affinche' legiferi l'abolizione dei Cie e di tutte le forme di detenzione di persone che non hanno commesso reati;
2.3. affinche' legiferi l'abolizione di tutte le ulteriori misure palesemente razziste ed incostituzionali purtroppo tuttora presenti nell'ordinamento;
2.4. affinche' legiferi il riconoscimento del diritto di tutti gli esseri umani di giungere in modo legale e sicuro in Italia.
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Naturalmente
Sono naturalmente disponibili alcuni modelli di lettera (e molti materiali di riferimento) per ognuno di questi punti, che chi vuole prender parte all'iniziativa puo' riprodurre e adattare.
2. STORIA. ANNA BRAVO: SENZA ARMI CONTRO HITLER: IN ITALIA (PARTE PRIMA)
[Dal libro di Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Roma-Bari 2013, riportiamo il capitolo quarto "Senza armi contro Hitler: in Italia" (pp. 90-126). Ringraziamo di cuore l'autrice.
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Tra le opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008; (con Federico Cereja), Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, Torino 2011; La conta dei salvati, Laterza, Roma-Bari 2013; Raccontare per la storia, Einaudi, Torino 2014]
Premessa
Se c'e' un conflitto che i tre quarti del mondo hanno cercato disperatamente di evitare, e' la seconda guerra mondiale. Ci si illudeva che la Germania, una volta riacquistato prestigio e ruolo internazionali, avrebbe fermato la sua aggressivita'; si pensava che fosse comunque un baluardo contro l'Unione Sovietica; si teneva in conto la maggioritaria tendenza pacifista delle opinioni pubbliche (1). Premeva soprattutto il ricordo dei massacri della grande guerra. Trova origine da qui la politica dell'appeasement: conciliazione a tutti i costi, fino all'inerzia di fronte alle violazioni degli accordi internazionali, al regime di terrore instaurato in Germania, alla persecuzione razzista, agli attacchi contro altri paesi.
Sebbene concepisse la politica estera come pura azione di forza, Hitler non avrebbe potuto, inizialmente, ignorare pressioni e sanzioni severe e rigorosamente applicate. Che pero' mancano. Dopo l'occupazione dei Sudeti, il primo ministro inglese Chamberlain chiede addirittura la mediazione di Mussolini. Salutata come la vittoria della pace, la Conferenza di Monaco del settembre 1938 e' il momento di maggior acquiescenza verso Hitler (2).
Nel marzo '39, la Germania occupa Praga, reclama dalla Polonia Danzica e il "corridoio polacco" (3), mentre Mussolini assoggetta l'Albania. Nessuna reazione di rilievo. Gli europei non vogliono "morire per Danzica", e non lo nascondono, mentre Hitler fa apertamente l'ipotesi di un conflitto generale.
La storia di questi anni si puo' leggere come lo sforzo, infelice, di "tramare la pace" da parte dei maggiori paesi europei, che per stornare da se' l'aggressività tedesca tentano di "ammorbidire" Hitler e di stringere alleanze in Europa. Ma il vecchio sistema di equilibri e contrappesi ha smesso di essere decisivo con la grande guerra, e Hitler non e' Guglielmo II. Per battere la Germania, dice Churchill, bisogna accordarsi anche con il diavolo, vale a dire con Stalin. Parole inascoltate: il negoziato con l'Urss si trascina e il 21 agosto fallisce. Due giorni dopo Stalin stringe con il Terzo Reich il Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov.
Quando il primo settembre 1939 truppe tedesche passano il confine occidentale della Polonia, mentre l'Urss la invade da est, si arriva alla dichiarazione di guerra alla Germania da parte di Francia e Gran Bretagna.
Vissuto e interpretato come la resa dei conti fra civilta' e barbarie, il secondo conflitto mondiale e' oggi l'unico a conservare un'immagine di tragica necessita'. Che le armi siano indispensabili non vuole pero' dire che rappresentino l'unica risorsa, o che bastino da sole.
Quello del Terzo Reich e' un progetto di dominio totale, "biopolitico" (4), che pretende di annettersi via via l'intera gamma delle prerogative e delle potenzialita' umane, e dunque deve sottomettere la societa' e le sue strutture. Che provano a resistergli, sia pure attraverso azioni di netta minoranza. In Norvegia, per esempio, quando i pronazisti al governo vogliono imporre una associazione obbligatoria per tutte le professioni del servizio pubblico e iniziano a precettare le federazioni sportive, queste reagiscono smettendo ogni attivita': non ci sara' piu' alcuna gara in Norvegia fino alla fine della guerra, una decisione che contagera' varie altre istituzioni; con la Chiesa di Stato luterana c'e' un crescendo di scontri che sbocca nella rottura ufficiale di qualsiasi legame con il regime. In Olanda sono i medici a opporsi alla nazificazione del loro mestiere. In tutta Europa scoppiano agitazioni e scioperi per migliori condizioni materiali, per ostacolare la deportazione in Germania di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici (5), per impedire lo sfruttamento delle risorse e la distruzione di beni essenziali. E per testimoniare con manifestazioni pubbliche la propria identita' nazionale.
La resistenza civile - preziosa definizione per indicare le pratiche antinaziste dei cittadini e delle istituzioni (6) - ha molte facce, e alcune armi immateriali: coraggio morale, duttilita', capacita' di manipolare il nemico, inventiva; usa modalita' pacifiche, anche se non sempre, e non necessariamente per principio. Che abbia o meno un pedigree nonviolento importa pero' poco. Importa la sua capacita' di risparmiare il sangue, come nel caso delle prede di Hitler: antifascisti, sbandati, partigiani, prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento, persone che per i motivi piu' diversi il Reich colloca fra i suoi nemici, come le popolazioni zingare. E gli ebrei. Con l'eccezione della Danimarca, a combattere la soluzione finale e' sempre una minoranza, dalle organizzazioni ebraiche di soccorso a gruppi strutturati, a singole persone, figure o settori istituzionali, Chiese, reti informali. Sempre con l'eccezione della Danimarca e, in parte, della Bulgaria, di alcuni grandi soccorritori e delle donne tedesche di Rosenstrasse (7), a essere salvati sono piccolissimi gruppi, spesso una sola persona.
Ma la gloria dei soccorritori sta nella capacita' di agire nell'intervallo cruciale del "mentre". Mentre tedeschi e collaborazionisti danno la caccia a partigiani, antifascisti, prigionieri alleati. Mentre per la prima volta in Occidente un popolo viene condannato in quanto tale alla sparizione. Mentre i paesi democratici centellinano l'accoglienza, l'Unione Sovietica arriva a consegnare alle SS molti ebrei delle regioni polacche che ha occupato, il Vaticano evita di esprimere una condanna esplicita; mentre nella condotta della guerra fermare le deportazioni e il genocidio non e' mai una priorita' strategica.
Certo neppure le lotte inermi da sole bastano. Ma conta il loro significato: la nonviolenza e' stata possibile anche di fronte al nazismo, anzi, proprio quel picco di distruttivita' la rendeva essenziale. Se si voleva uscire da questa guerra senza che la propria umanita' fosse annichilita, era necessario si' spargere il sangue, ma bisognava anche risparmiarlo. Diversamente, il mondo dopo Hitler sarebbe pur sempre assomigliato al mondo di Hitler. Come diceva Gandhi in otto parole, "l'hitlerismo non sara' mai sconfitto da un controhitlerismo" (8).
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Meritevoli fantasmi
Ci sono casi in cui l'incapacita' di dare valore alle resistenze senza armi sembra politicamente autolesionista. In Italia la memoria pubblica ha ignorato per decenni due grandi e visibilissimi fenomeni: la protezione dei militari sbandati nei giorni successivi all'8 settembre 1943, e l'aiuto offerto ai prigionieri alleati evasi in quegli stessi giorni dai campi di concentramento italiani.
Il paese aveva molto di cui provare vergogna, dalla primogenitura del fascismo alla persecuzione degli ebrei, dall'Asse con Germania e Giappone all'attacco alla Francia alle violenze in Jugoslavia. Perche' non includere nella costruzione di una nuova immagine nazionale vicende che avevano coinvolto centinaia di migliaia di persone e contribuito alla salvezza di decine di migliaia di altre? La risposta e' penosamente semplice: in sintonia con la cultura dell'epoca, si erano scelti come terreno elettivo del riscatto la lotta in armi e l'antifascismo militante. I protagonisti e protagoniste delle azioni disarmate restano a lungo anonimi, fusi e confusi nello scenario della guerra civile, al piu' presentati come un supporto della "vera resistenza", un contorno utile ma secondario. Meritevoli fantasmi.
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L'8 settembre
Nei giorni immediatamente successivi all'8 settembre 1943, sulle strade italiane si vedevano "file praticamente continue di gente [...] tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete [...]. Pareva che tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva" (9).
Si era appena sparsa la notizia dell'armistizio di Cassibile, che segnava il passaggio dall'alleanza con la Germania a quella con gli angloamericani. Mentre tedeschi e fascisti occupavano velocemente i due terzi del paese e predisponevano la creazione della neofascista repubblica di Salo', i Savoia e gli alti comandi avevano abbandonato Roma senza dare alcuna direttiva, e decine di migliaia di militari erano rimasti abbandonati a se stessi, con l'unico pensiero di tornare a casa. Solo due minoranze circoscritte si erano subito schierate: contro i tedeschi, alcuni settori delle forze armate e gruppi di militari e di civili; contro gli angloamericani, i fascisti dichiarati, insieme ad alcuni cui l'armistizio sembrava un tradimento.
Se si vuole dare credito allo stereotipo dell'italiano codardo e figlio di mamma, i giorni dello sbando sono un buon argomento. Gia' all'epoca. Lisli Basso, giovane intellettuale madre di due figli, scriveva: "perduta l'occasione di separare la nostra responsabilita' da quella del fascismo [...]. Il tedesco in casa, il nazismo con tutto quello che significa di bestialita' crudelta' e orrore, tutto questo non vede, non pensa, non sente questo popolo diseducato a meditare sui propri destini [...] tutti a casa, dalla mamma". Molti anni dopo aggiungera': "Mi scuso di queste parole tracotanti; ma allora la delusione, la rabbia, e' stata tremenda" (10).
Ma per un ex prigioniero inglese: "Eravamo al quarto anno di conflitto, troppi personaggi troppo lontani dalla realta' della guerra avevano [...] impartito troppi ordini a troppi uomini, perche' i soldati non finissero per gettare le armi al mero scopo di salvare la pelle. Sarebbe stata una pazzia pretendere che questi soldati italiani morissero per difendere un casamento vuoto" (11).
Rischiano ugualmente la vita: per un disertore cattura vuol dire fucilazione o nel migliore dei casi deportazione nei campi di concentramento tedeschi, cui decine di migliaia non sfuggiranno - considerati tutti i fronti di guerra, sono 700.000 i militari finiti in lager. Ma in Italia un numero imprecisato (e vasto) si salva perche' molte case si aprono per accoglierli e nasconderli, molti armadi ormai sguarniti sono setacciati in cerca di capi per rivestirli in borghese, molte guide improvvisate cercano di accompagnarli sulla strada del ritorno. Come se nella confusione del momento la sola scelta capace di imporsi fosse impedire a tedeschi e fascisti di mettere le mani su di loro.
Non ci sono leader a ispirare i soccorritori, ne' direttive politiche, ne' appelli di figure eminenti, che del resto non si erano attivate neppure dopo le leggi antiebraiche del '38. L'8 settembre l'Italia esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione, infiltrato le strutture sociali e avviato la nazionalizzazione delle masse; i sentimenti civici, gia' storicamente deboli, sono sbriciolati, le risorse miserrime; le istituzioni statali hanno perduto ogni credibilita', mentre i partiti mancano di radicamento, quadri, mezzi, conoscenze, una condizione che di per se' quasi azzera le loro possibilita' di direzione e organizzazione.
Ad agire sono microcerchie amicali, famiglie, singole persone senza particolari ruoli, impiegati pubblici - come quelli, lontanissimi dallo stereotipo del passacarte zelante, che in Trentino riempiono centinaia di fogli di via con i nomi degli sbandati, per farli viaggiare verso casa come se fossero in regolare licenza (12). A Torino, e' un piccolo gruppo di giovani antifascisti a impadronirsi dei permessi e a passarli ai soldati (13). Rapidi ed efficienti, questi exploit sono a volte improvvisati, ma piu' spesso si reggono sulle nervature tenaci e complesse della coesione sociale - reti di parentele, quartiere, caseggiato, comunita'.
E' la piu' grande operazione di travestimento e salvataggio della storia italiana (14), realizzata in ordine sparso e in spirito nonviolento: ne' armi ne' scontri fisici, in loro vece la capacita' di simulare, dissimulare, confondere le carte in tavola - le tattiche elettive per risparmiare il sangue.
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Un maternage
Tante le donne - proletarie e contadine, aristocratiche e borghesi, giovanissime, mature, vecchie. In una guerra che dilaga su interi territori nazionali, assottigliando i confini tra fronte bellico e fronte interno ed esponendo masse di uomini alla cattura, le donne diventano mobili e visibili come mai prima; in tutta Europa passano ore davanti ai negozi e alle rivendite clandestine, attraversano le citta' e percorrono le campagne in cerca di cibo e di ricoveri di fortuna, prendono treni per sfollare, peregrinano fra comandi tedeschi e collaborazionisti per conoscere la sorte di mariti, fratelli, figlie, figli; e da questa moltiplicazione dei compiti e delle responsabilita' ricavano esperienza e consenso sociale.
In Italia il fascismo ha presto dimostrato di non saper garantire la sicurezza e l'organizzazione dei consumi. Gia' un anno prima dell'ingresso in guerra i prezzi dei generi alimentari crescono in modo incontrollato; per un fenomeno di accaparramento precoce cominciano a scarseggiare beni di prima necessita'. Tra giugno e dicembre del '40 vengono razionati caffe', sapone, zucchero, olio, farina, pasta, riso; il primo dicembre '41 tocca al pane; nel '42 le calorie previste dalle tessere scendono a un quarto di quelle allora ritenute necessarie. E il mercato nero invade il paese marcando divisioni profonde fra chi puo' usufruirne e chi no. Quanto ai rifugi, il loro numero restera' sempre insufficiente e la qualita' pessima; i bombardamenti con la tecnica dell'area bombing fanno migliaia di vittime e distruggono milioni di case, dando origine a flussi di sfollamento che arrivano a dimezzare le citta'.
Nel frattempo la serie strabiliante di sconfitte militari ha travolto l'illusione di una guerra lampo e indolore. Mentre anche le istituzioni civili faticano a reggere, il malcontento si esprime in proteste individuali, assalti a treni che trasportano viveri e combustibili, finche', nel marzo 1943, un'ondata di scioperi scoppia nelle fabbriche del Nord.
Questo tracollo complessivo fa delle donne le titolari quasi in esclusiva della manutenzione della vita, a costo di uno sfruttamento esponenziale delle energie. E' a loro che si affidano i molti uomini costretti a rimanere nascosti, e' a loro che tocca scegliere fra i comportamenti possibili. E' a loro che gli sbandati si rivolgono quasi naturalmente, come a figure forti e salvifiche, vale a dire materne. E proprio a causa della loro vulnerabilita', le donne li vivono come una sorta di figli virtuali. L'8 settembre ha in se' questa singolare componente di maternage che rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana. Descrivendo la stazione di Vicenza, affollata di militari e perlustrata da tedeschi, ancora Luigi Meneghello, uno dei pochissimi a capire il significato del fenomeno, racconta di gente che gridava: "'Per di qua, alpini! per di la'': il popolo italiano difendeva il suo esercito, visto che si era dimenticato di difendersi da se': non volevano saperne che glielo portassero via [...] fummo afferrati e passati praticamente di mano in mano finche' fummo al sicuro. Le donne pareva che volessero coprirci con le sottane, qualcuna piu' o meno provo'" (15). Un testimone racconta con commozione di ragazze emiliane che "aspettavano i soldati, portavano da mangiare e poi dicevano: 'se volete fermarvi qua...'" (16).
Si tratta per lo piu' di donne cosiddette comuni, che agiscono senza il sostegno di ideologie politiche, che non hanno armi per difendersi, e se le avessero non saprebbero ne' probabilmente vorrebbero usarle. Ci si aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente.
Anche loro rischiano. Nascondere un disertore e' equiparato al coinvolgimento diretto nelle attivita' antifasciste e antitedesche.
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Donne
Rosa S., torinese di mezza eta', moglie di un lavoratore della Fiat Fonderie, di sentimenti antifascisti, era nata e cresciuta in Borgo San Paolo, una moderna barriera operaia - popolazione proletaria e piccolo-borghese, molte officine e medie fabbriche, ai margini dell'abitato qualche anticipo di campagna in cui si puo' cercare rifugio. Ci si conosceva e ci si frequentava - con discrezione, perche' il regime aveva infiltrato i luoghi della coesione sociale.
Rosa S. e' una donna "tremenda" (17), per lo spirito d'iniziativa e la determinazione. Si rende subito conto delle dimensioni di massa del pericolo e del bisogno, e comincia a fare incetta di indumenti borghesi un po' dovunque, da familiari e conoscenti fino alle suore di un istituto di carita'. La sua casa diventa un centro di raccolta dei militari, il suo dopo 8 settembre un exploit imprenditoriale. Riveste i primi sbandati, la voce gira, ne arrivano sempre di nuovi: "signora, non ha qualcosa da mettermi?". Allora lei: "venga con me".
Li fa dormire nelle cantine dell'edificio, li sveste, li riveste. Comprese le scarpe, perche' quelle dell'esercito li tradirebbero; allora ne da' un paio di "civili" a uno, gli toglie le sue, le tinge, e appena asciutte le passa a un altro - modello catena di montaggio, in piu' l'amore del lavoro ben fatto che puo' salvare una vita. "Alla fine li accompagnava alla stazione, li baciava, li abbracciava, cosi' e cosa', mio parente, e li metteva sui carri bestiame, perche' allora non c'era altro". Di notte bruciava nel cortile le divise abbandonate, perche' farsele trovare era una condanna a morte, e buttava le armi nei tombini, perche' di guerre non ne poteva piu'.
Quello di Rosa S. e' un 8 settembre raro per l'ampiezza e l'organizzazione; a renderlo possibile e' il suo radicamento nel quartiere, che le consente di chiedere vestiti e scarpe ai vicini, implicitamente garantendo che in caso di "complicazioni" non li coinvolgera'.
Altre storie sono meno spettacolari, ma non per questo meno importanti. La ragazzina Maria Assunta Fonda, figlia di un ufficiale degli alpini, poi staffetta partigiana, cattolica credente, ha in mente la visione "penosa" dei militari mandati a presidiare la Corsica, "una compagnia scalcagnata in tutto e per tutto, con le sue fasce e pezze da piedi scomode e assurde, le camionette senza benzina tirate dai muli"; ricorda gli alpini del corpo di spedizione in Russia, stipati nei carri bestiame, "poveri ragazzi", "tristi e spaesati", davanti ai quali si simula allegria per tenerli su. E' gia' predisposta al suo 8 settembre. Quando vede i "soldatini" di Abbadia Alpina, un piccolo centro del Pinerolese, appostarsi sul sagrato della chiesa e rimanerci in attesa di ordini che non verranno, senza mangiare ne' dormire, resta con la sorella a sorvegliare la zona, finche' vengono riportati in caserma, disarmati, imprigionati, e i loro abiti civili chiusi a chiave. Li sente chiedere aiuto, "aggrappati alle finestre, disperati", corre a casa, bussa ai vicini, raccoglie abiti civili quanti piu' puo'. Li riveste, li vede partire per la via di casa, "un lungo e pericoloso viaggio".
Fiorella Pachner, studentessa di famiglia borghese, racconta quei giorni come un'impresa familiare. Quando la IV armata italiana si disfa sul confine francese, lei e' in montagna a Sauze d'Oulx, vede arrivare di corsa "frotte e frotte di ragazzi in cerca di aiuto". E per giorni la madre e le zie tolgono le coperte dal letti per fare i pantaloni per i soldati. "Mia madre... era una precisina che faceva solo quello che sapeva fare, e in altri momenti si sarebbe ritenuta assolutamente incapace di inventare dei pantaloni maschili... e tanto piu' con una coperta, e tanto piu' in una casa di montagna... Pero' questi dovevano coprirsi in qualche modo ed e' stato bello vedere queste donne oltretutto privilegiate, ricche, coi loro bambini, che si mettevano alla macchina da cucire e giu' cuciture su cuciture... per mettere dei panni addosso a questi ragazzi che fuggivano".
A Castelnuovo Berardenga, un paese in provincia di Siena, una ragazzina e' andata a un forno dove si dice diano il pane senza tessera; mentre ne porta a casa "due filini" incontra "un soldatino: mi guardava con quegli occhi azzurri, guardava il pane, mica guardava me, sai mamma. E allora gliel'ho dato. Senti, vuol dire che si lessera' due patate anche stasera" (18).
Ma Domenica Cecchinelli, romana, che ha nascosto in casa un carrista della divisione Ariete gravemente ustionato e rifiuta di aprire ai tedeschi che le ordinano di consegnarlo, muore crivellata di colpi di mitragliatore sparati attraverso la porta chiusa (19).
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I prigionieri alleati
Ai primi di settembre 1943 in Italia esistevano settantadue campi di concentramento per i militari alleati caduti in mano a tedeschi e italiani in Nord-Africa e in Grecia a partire dal 10 giugno 1940, per un totale di circa 79.543 prigionieri (20), piu' qualche centinaio catturati in Sicilia e alcuni piloti abbattuti. Insieme ai britannici, la maggioranza, c'erano americani, indiani, neozelandesi, sudafricani, francesi, australiani (21).
Al momento dell'armistizio (22), in qualche caso l'ufficiale alleato piu' alto in grado aveva deciso di rimanere nel campo aspettando l'arrivo delle proprie unita', secondo gli ordini del War Office, che contava su una resa italiana senza occupazione tedesca. Altrove si cercava di organizzare la fuga con l'aiuto dei comandanti italiani dei campi - ma alcuni di questi fingevano di favorire il progetto solo per dilazionare il momento della liberazione. Oltre 35.000 uomini, circa la meta', avevano deciso autonomamente e si erano dispersi sul territorio.
Dispersi, e smarriti. Se le guerre del Novecento hanno segnato un tracollo dell'identita' maschile, nella prigionia se ne raggiunge il culmine. Spogliati degli oggetti personali, trasportati in massa verso destinazioni sconosciute, i prigionieri vivono una dimensione arcaica del dominio in cui ci si sente sempre meno soggetti, sempre piu' schiavi di guerra, costretti alla passivita' e logorati dall'ansia. Persino l'imprevista liberta' puo' essere vissuta come una minaccia ulteriore (23). Con ragione.
Non sanno dove si trovano ne' di chi fidarsi, cosa puo' esserci dietro una collina, una svolta della strada, uno sguardo, un cenno; quelli che avendo accettato di lavorare in campagna o in fabbrica (24) si sono fatti nuovi amici, si dirigono subito verso di loro. Ma i piu' non conoscono che qualche parola di italiano, e dell'Italia hanno solo una idea vaga, e altamente negativa. Dopo mesi o anni di prigionia sono sottonutriti, deboli, a volte ammalati, confusi - e quel che vedono intorno, dagli sbandati dell'8 settembre alle macerie dei bombardamenti anglo-americani, aumenta l'insicurezza. Non sanno neppure come sta andando la guerra, e a chi chiedere notizie. Le sole certezze sono l'armistizio e la necessita' di mettere la propria vita nelle mani di sconosciuti.
Come per i salvataggi dei soldati italiani, non esistono direttive politiche o appelli in grado di indirizzare i comportamenti della popolazione.
Eppure piu' della meta' dei prigionieri riesce a non farsi ricatturare: una parte raggiunge la Svizzera, il fronte sud o le formazioni partigiane, grazie all'opera dei servizi segreti alleati, della nascente resistenza, di reti improvvisate a livello locale da professionisti, industriali, parroci, antifascisti riapparsi nel periodo dei quarantacinque giorni - o da qualche compagno intraprendente (25). Ma sono ben piu' numerosi quelli che restano nascosti, a volte per settimane o mesi, a volte per tutto il resto della guerra - il 20% degli ex prigionieri presenti in Piemonte all'8 settembre 1943 era ancora nella regione ai primi di maggio 1945 (26).
Dati stupefacenti, che testimoniano una estesa solidarieta' da parte della maggioranza degli italiani con cui i militari entrano in contatto, per lo piu' contadini - braccianti, mezzadri, piccoli proprietari, fittavoli - perche' e' nelle campagne, dove all'epoca lavorava meta' della popolazione attiva, che cercano scampo.
In genere povera o poverissima, la comunita' contadina era gia' in quegli anni piu' sfaccettata e meno impermeabile all'esterno di quanto si pensasse. Il fascismo aveva infiltrato le campagne con la sua modernita' di facciata e con l'insediamento di funzionari locali; in ogni paese c'era un "americano" rientrato in Italia, o un parente al di la' dell'oceano di cui si leggevano le lettere durante le veglie intorno al fuoco. Variamente filtrati, arrivavano i messaggi e le relazioni a distanza tipici della societa' di massa - l'espressione "donne comuni" nei primi anni Quaranta indicava donne che ancora mantenevano attivi i rapporti faccia a faccia, ma che potevano sognare la macchina da cucire, migliori rapporti con gli uomini, la radio, il cinema, la citta'. "Furono prima le donne - scrive Salvatore Satta - con l'udito e l'animo esercitato dalla solitudine, a sentire la loro [dei prigionieri] presenza nelle campagne" (27).
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Una strana alleanza
Il rapporto inizia spesso sotto il segno di un'incredulita' gioiosa e confusa, nell'illusione comune che gli alleati arriveranno in qualche settimana, che la guerra sia finita. E' una luna di miele punteggiata di magri festeggiamenti, brindisi, raduni, in cui gli ex prigionieri sono i benvenuti, e i contadini quasi se li disputano come ospiti interessanti e non troppo pericolosi - tedeschi e fascisti non hanno ancora fatto una priorita' della loro cattura, occupati come sono a dare la caccia agli sbandati dell'esercito italiano.
Lungo i mesi di ottobre e novembre, molto cambia, piu' o meno drammaticamente a seconda dei luoghi. Diventa chiaro che la guerra non finira' a breve, e cosa significa occupazione nazista. Beninteso, non si tratta della strategia di sterminio e dissanguamento economico attuata in Polonia e all'Est, territori per i quali il Terzo Reich prevede un destino similcoloniale. Ma anche nell'Europa occidentale, dove non si punta a distruggere programmaticamente il tessuto sociale e si cerca di guadagnare, se non la simpatia, la tolleranza delle popolazioni, l'obiettivo e' organizzare l'annientamento di interi gruppi, sfruttare all'estremo le risorse locali, impadronirsi di macchinari, raccolti, opere d'arte, e di milioni di lavoratori da impiegare nelle fabbriche e nell'agricoltura tedesche.
In Italia il rovesciamento delle alleanze trasforma da un momento all'altro l'alleato in nemico incline a vendicarsi. Per stroncare ogni appoggio alla resistenza, per stanare i prigionieri alleati e colpire i loro soccorritori, si impiegano tutti i mezzi del terrore, dai rastrellamenti alle retate, dagli incendi di case e di interi paesi agli assassini alle stragi di civili. Si instaura una pratica di requisizioni selvagge che ancora decenni dopo porta a identificare i tedeschi non solo come persecutori senza pieta', ma come ladri di coperte, lenzuola, suppellettili, farina, vino. Nelle campagne si disseminano spie in uniforme inglese e si fanno circolare voci (e verita') sul trattamento riservato ai soccorritori. Le prime vittime sono probabilmente quattro contadini che hanno nascosto alcuni prigionieri nei boschi intorno a Sulmona; arrestati il 27 ottobre, sono uccisi tre giorni dopo, senza processo (28) - l'esecuzione non verra' considerata crimine di guerra, probabilmente perche' poco prima, il 9 ottobre, era stato emanato da Salo' un decreto militare in cui si comminavano la deportazione o la pena di morte per chi avesse fornito documenti falsi ai ricercati, rifugio a prigionieri e militari alleati o ne avesse facilitato la fuga (29). Singolare formalismo.
Ma l'assistenza ai prigionieri - di qualsiasi paese, religione, colore - continua, e comprende sostentamento, abiti civili, cure ai malati, una guida sul territorio, a volte denaro per il viaggio verso le linee alleate. E, sempre, l'ospitalita': nelle case, in rifugi di fortuna o costruiti appositamente, in conventi, nelle parrocchie, nei boschi vicini, dove si puo' andare ogni giorno a portare cibo. Proteggere un prigioniero e' spesso un'impresa collettiva, organizzata a livello familiare o grazie alle reti informali gia' cosi' preziose per la salvezza degli sbandati. In casa Cervi a Gattatico nel giro di pochi mesi passano oltre ottanta uomini fra sbandati e prigionieri, alcuni presi poi in carico da altre famiglie (30). Nella grande tenuta agricola dei marchesi Origo, in Val d'Orcia, sono distribuiti fra la villa padronale e le case coloniche (31).
Alcuni militari raccontano di aver presto imparato che era meglio presentarsi alla porta delle case visibilmente piu' modeste: "piu' povera la famiglia, piu' generosa l'accoglienza". Altri ricordano la maggiore disponibilita' delle donne, sorrette - dicono alcune protagoniste ai "loro" prigionieri - dall'idea di una parentela femminile capace di scavalcare le frontiere, alimentando la speranza che chissa' dove e come, un'altra avrebbe soccorso il marito, figlio o fratello. Quasi il mito di un'Internazionale delle donne, combinato con la fede in una giustizia retributiva. "Pensammo cosi' di dar da mangiare ai nostri prigionieri - spiega una ragazzina di allora - nella speranza che qualcuno provvedesse a aiutare nostro zio", e conclude trionfalmente: "e infatti arrivo' a casa ben pasciuto" (32). La provvidenza aveva fatto il suo dovere.
"Fino al giorno della liberazione la maggioranza degli italiani formo' una strana alleanza con i prigionieri" - dira' il 17 maggio 1946 (33) Sir Noel Charles, ambasciatore inglese in Italia. Ma e' un'alleanza sbilanciata su un punto cruciale: i prigionieri sono, almeno in teoria, tutelati dalla normativa internazionale (34); sui loro protettori incombe l'accusa capitale di tradimento, mentre la delazione e' doppiamente incoraggiata: 1800 lire per chi fara' catturare militari alleati, oppure il rimpatrio di altrettanti prigionieri italiani internati in Germania.
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Il mondo alla rovescia
Il rapporto dei prigionieri con i soccorritori puo' avere una componente economica, come quando partecipano al lavoro nei campi. In questi anni, con il disfacimento del sistema degli ammassi e la penuria di viveri, i contadini hanno per la prima volta avuto un incremento di reddito, che consentirebbe ai non proprietari di realizzare il sogno di possedere un pezzo di terra, e ai piccoli proprietari di ampliarlo - se non fosse per la drammatica mancanza di manodopera che impedisce di estendere le coltivazioni. Il lavoro dei prigionieri puo' compensare l'assenza di tanti giovani maschi partiti in guerra, mai piu' tornati o tornati invalidi.
Ma questo scambio non e' la sola ne' la principale modalita' di relazione. Da sempre i contadini hanno vissuto il rapporto citta'-campagna come polo debole, nel segno di uno scacco fatto di sfruttamento materiale e di mancanza di rispetto: la citta' comandava sull'economia delle campagne, decideva prezzi, insediamenti, percorsi di strade e ferrovie, giudicava su cultura e consuetudini, identificando nelle proprie una forma superiore di civilta'.
Con la guerra, c'e' stato un rovesciamento in cui e' la citta' a dipendere dalla campagna, a dover accettare le sue condizioni, i suoi usi e valori. Ora i contadini si sentono riconosciuti come eguali, a volte migliori, grazie alla loro capacita' di garantire la propria sopravvivenza e quella altrui. E' una ridistribuzione del potere e un terreno di rivincita da cui nascono sia benevolenza, sia taglieggiamento, sia chiusura a priori; nella societa' contadina convivono tradizioni di ospitalita' e diffidenza verso gli estranei; capacita' di sacrificio, attaccamento alla "roba" e grandi generosita'; compassione, indifferenza, durezza.
Molto dipende dall'immagine del forestiero. I prigionieri sono giovani, spaesati, esotici con la loro altezza svettante, con la pelle chiara degli anglosassoni, quella scura degli indiani, quella nera degli afroamericani; vengono da terre lontane, irradiano ansia e paura, hanno la fame negli occhi.
Molto dipende dai comportamenti. Questi sconosciuti non arrivano per sfruttare e comandare; chiedono aiuto, dipendono in tutto e per tutto dai loro soccorritori, ne seguono i consigli e gli ordini, ne assorbono le conoscenze geografiche, ambientali, climatiche essenziali per sopravvivere nascondendosi e passando da un luogo all'altro. Mostrano gratitudine e affetto, rispettano gli usi locali a volte con disarmante semplicita', come quando, per adattarsi a quella che credono un'abitudine italiana, alcuni riempiono di pane spezzettato la scodella della minestra prima di mettersi a mangiare, e se vedono gli altri stupirsi chiedono: "Non si fa?" (35).
Come scrive Absalom, nel suo repentino materializzarsi il prigioniero allude in embrione al grande mito popolare del mondo alla rovescia (36), in cui il povero si trasformera' in ricco, il debole in forte, il perseguitato in ospite d'onore - e l'illetterato in sapiente. Il millenarismo contadino sopravvive anche quando nelle campagne si sono gia' sperimentate moderne espressioni di coscienza politica e mobilitazione sociale. E ora si nutre di nuove proiezioni incrociate.
Per Eric Newby (37) (e non per lui solo), l'Italia della campagna e della montagna e' insieme una magica arcadia traboccante di fiori, frutta, animali dei boschi, e uno sprofondo arcaico abitato da un popolo strano, che spesso si lamenta: "poveri noi!", ma sa organizzare scherzi e ridere a pochi chilometri dal fronte. Per i soccorritori, il fuggiasco e' il messaggero della mitica Inghilterra dei cinque pasti al giorno, della ricca America sognata dagli emigranti, dell'Africa, dell'India, un "figlio di milionari", un "gentiluomo" che inanella "grazie" e "per favore" a ogni occasione.
Le costruzioni fantastiche non ostacolano affatto la nascita di legami affettivi.
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Note
1. Sugli aspetti "punitivi" della pace di Versailles - secondo molti studiosi una concausa della guerra - Niall Ferguson sostiene invece che il problema a proposito della pace non era il fatto che fosse troppo dura, ma che gli Alleati non riuscirono a farla rispettare, cfr. La verita' taciuta. La Prima guerra mondiale: il piu' grande errore della storia moderna, Corbaccio, Milano 2002, cap. "Come (non) pagare per la guerra", pp. 511-550.
2. La Francia stringe un patto di non aggressione con la Germania, e la Gran Bretagna si impegna a dirimere qualsiasi controversia attraverso negoziati.
3. La guerra e' gia' in atto in Oriente, dove il Giappone sta espugnando le regioni della Cina piu' ricche e modernizzate.
4. In nome dei criteri "eugenetici" e "razziali", si classificano i corpi a partire dal loro statuto demografico positivo o negativo, fino a dividere gli individui fra degni di vivere (gli "ariani") e indegni: i riottosi, gli "imperfetti", gli oppositori, gli zingari e, prima di ogni altro, gli ebrei.
5. In Francia, Belgio e Paesi Bassi, nella primavera-estate '43 si arriva alla piu' ampia lotta di fabbrica e di strada nella storia dell'occupazione nazista.
6. La messa a punto di questo concetto si deve a Jacques Semelin, nel suo importantissimo Senz'armi di fronte a Hitler. La Resistenza Civile in Europa. 1939-1943, trad. it., Sonda, Torino 1993.
7. Tra febbraio e marzo 1943, migliaia di donne "ariane" protestano a Berlino in manifestazioni nonviolente contro la deportazione dei loro mariti ebrei, e riescono a farli liberare: il regime ha la fobia delle reazioni interne; cfr. Nathan Stoltzfus, Resistance of the Heart: Intermarriage and the Rosenstrasse Protest in Nazi Germany, Norton, London-New York 1996.
8. Gandhi, in "Harijan", June 26, 1940, citato in M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, trad. it., a cura e con un saggio introduttivo di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1973 (ora 2006), p. 240.
9. Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 23.
10. Cfr. Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 69-70.
11. Eric Newby, Amore e guerra negli Appennini, trad. it., il Mulino, Bologna 1995, p. 57.
12. Giuseppe Ferrandi, Una ricerca sulla "resistenza civile" in Trentino, in Giorgio Giannini (a cura di), La lotta non armata nella resistenza, Centro studi difesa civile, Quaderno n.1, Roma 1994 (in realta' 1995).
13. L'informazione mi e' stata data della partigiana piemontese Lucia Testori.
14. Ernesto Galli Della Loggia, Una guerra "femminile"? Ipotesi sul mutamento dell'ideologia e dell'immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 3-28, che rende onore alla mobilita', visibilita', politicizzazione delle donne in questi anni, e nel confronto fra prima e seconda guerra mondiale, mostra che anche gli eventi sono interpretabili attraverso il genere sessuale.
15. Meneghello, I piccoli maestri cit., p.27.
16. Cosi' Carlo Rameri, in Daniele Borioli e Roberto Botta, I giorni della montagna. Otto saggi sui partigiani della Pinan Cichero, WR Ediprint, Alessandria 1990, p. 80.
17. L'espressione e' della figlia Chiara S., il cui racconto e' in Bravo e Bruzzone, In guerra senza armi cit., al capitolo "Madri", dove compaiono anche le due successive citazioni.
18. Il racconto e' in Alida Soldani e Silvia Vugliano (a cura di), Donne valorose. Raccolta di testimonianze del passaggio del fronte, Associazione Quinquatrus, Castelnuovo Berardenga 2011, p. 20.
19. Racconto di Maria Teresa Regard, in Simona Lunadei (a cura di), Donne a Roma 1943-1944. Memorie di una indomabile cura per la vita, Cooperativa Libera Stampa, Roma 1996, pp. 43 e 44. Nel 1990, per iniziativa di alcune partigiane romani, viene apposta una lapide a Porta San Paolo per ricordare Domenica Cecchinelli e altre 27 donne uccise durante la difesa di Roma.
20. Secondo l'ultima statistica attendibile, raccolta dal War Office britannico a meta' agosto 1943. Tutti i dati quantitativi sono in Roger Absalom, A Strange Alliance. Aspects of Escape and Survival in Italy 1943-45, Olschki, Firenze 1991.
21. 42.194 gli inglesi, 26.126 i sudafricani, 2.000 i francesi, 1.310 gli americani, 49 relativi ad "altri alleati europei", 1.689 i greci, 6.153 gli jugoslavi, 12 i russi.
22. Una clausola dell'armistizio imponeva al comando italiano di liberare tutti i prigionieri e impedire, se necessario con le armi, che ricadessero nelle mani tedesche e fasciste; ma un esercito allo sbando non era in grado neppure di difendere se stesso.
23. Nell'amplissima letteratura sulla prigionia, abbondano termini come limbo e morte civile, a indicare la separazione radicale da quel che si era; molti si definiscono nullita', derelitti, branco, schiavi. Questi stati d'animo ricorrono da un continente all'altro, da una guerra all'altra, come ricorrono ansie violente all'idea di qualsiasi cambiamento e fantasie di abbandono tipiche di chi e' recluso.
24. Al Nord, nella primavera del 1943, molti campi erano stati suddivisi in piccoli sottocampi, contenenti tra cinquanta e duecento prigionieri che si erano dichiarati disponibili a lavorare, in genere in campagna, compensati da un rancio migliore e da un assaggio di vita "normale".
25. Il 22 novembre, 2.000 prigionieri avevano passato le linee raggiungendo il Sud ed altri 2.000 erano riusciti a spingersi in Svizzera: gli alleati agivano soprattutto con le missioni dell'IS9 e di altre organizzazioni, la resistenza aveva messo in piedi al Nord, gia' a partire dal 20 settembre 1943, l'Ufficio assistenza prigionieri di guerra alleati. Cfr. Absalom, A Strange Alliance cit., cap III.
26. Roger Absalom, L'assistenza agli ex prigionieri alleati in Piemonte. Una storia "scritta sull'acqua"?, in "L'impegno", XI, 2, agosto 1991.
27. Salvatore Satta, De profundis, Adelphi, Milano 1980, p. 69.
28. Absalom, A Strange Alliance cit., p. 225.
29. Seguira' a breve un analogo decreto tedesco.
30. Quaderno dell'Istituto Alcide Cervi dedicato alla madre Genoeffa Cocconi, 2004, racconto di Maria Cervi, pp. 59 e sgg.
31. Vedi la storia di quei mesi nel classico Iris Origo, Guerra in Val d'Orcia, Bompiani, Milano 1986, pp. 76 e sgg.
32. Racconto di Lina Gerolin, di Pravisdomini Mosto nel Veneto Orientale, in Lucia Antonel, I silenzi della guerra: prigionieri di guerra alleati e contadini nel Veneto Orientale: 1943-1945, Nuova Dimensione Edizioni, Portogruaro 1995, p. 65.
33. In un discorso al Teatro Adriano a Roma, in occasione della Allied Screening Commission Ceremony, citato in Absalom, A Strange Alliance cit., p. 11.
34. Ma ci sono casi di eccidi di prigionieri, cfr. per esempio a Nozzano vicino a Pisa, dove sono portati in campagna e mitragliati, vedi Anna Calloni, La memoria, in Alessandra Peretti e Stefano Sodi (a cura di), La popolazione civile, le istituzioni ecclesiastiche, il clero a Pisa durante la II guerra mondiale, Quaderni del Centro per la didattica della Storia, 11, 2006, p. 88.
35. In Arrigo Benedetti, In montagna con gli inglesi, in Italia e Gran Bretagna nella lotta di Liberazione, Atti del convegno tenuto a Bagni di Lucca nel 1976, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 46.
36. E' una delle tesi piu' forti e convincenti di A Strange Alliance cit.
37. Eric Newby, Amore e guerra negli Appennini cit., passim.
(Parte prima - segue)
3. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Letture
- Theodor Ebert, Il potere dal basso con l'azione nonviolenta, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2015, pp. 120, euro 16.
4. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
5. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 2060 del 30 luglio 2015
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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