[Nonviolenza] Telegrammi. 2018



 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2018 del 18 giugno 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com

 

Sommario di questo numero:

1. "Il primo dovere e' salvare le vite". Un incontro a Viterbo

2. Enrico Peyretti: La guerra come antitesi del diritto (2011) (parte seconda e conclusiva)

3. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"

4. Segnalazioni librarie

5. La "Carta" del Movimento Nonviolento

6. Per saperne di piu'

 

1. INCONTRI. "IL PRIMO DOVERE E' SALVARE LE VITE". UN INCONTRO A VITERBO

 

Si e' svolto mercoledi' 17 giugno 2015 a Viterbo presso il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" un incontro di riflessione e di testimonianza sul tema: "Il primo dovere e' salvare le vite".

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Concludendo l'incontro il responsabile della struttura nonviolenta viterbese, Peppe Sini, ha ancora una volta chiesto che i governi europei, e innanzitutto il governo italiano, riconoscano a tutti gli esseri umani il diritto di giungere in Italia e in Europa in modo legale e sicuro, e cosi' facciano cessare immediatamente la strage nel Mediterraneo.

E' dovere morale, civile, giuridico, soccorrere ogni persona in pericolo.

E' dovere morale, civile, giuridico, accogliere ed assistere ogni persona bisognosa, minacciata, perseguitata.

Cessi lo scellerato ed assurdo sperpero di 72 milioni di euro al giorno del bilancio dello stato italiano per le spese militari (ovvero per le armi e gli armigeri che servono a fare la guerra, guerra che sempre e solo consiste nell'uccisione di esseri umani); si utilizzino invece queste ingentissime risorse finanziarie del popolo italiano per aiutare le persone a vivere una vita degna: e' possibile con queste risorse salvare ed assistere milioni e milioni di persone.

E cessi la violenza razzista e schiavista nel nostro paese: siano abolite le perverse, incostituzionali, criminali e criminogene misure razziste; sia finalmente rispettata la legalita' che salva le vite, la democrazia che ogni essere umano riconosce ed include, la civile convivenza, l'umana solidarieta'.

Si riconosca subito il diritto di voto nelle elezioni amministrative a tutte le persone straniere residenti in Italia: cinque milioni di persone che attualmente subiscono un criminale regime di apartheid. Una persona, un voto: e' il fondamento della democrazia.

Si rispetti finalmente la Costituzione della Repubblica Italiana che difende i diritti umani, riconosce il diritto d'asilo, ripudia la guerra.

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Ogni vittima ha il volto di Abele.

Salvare le vite e' il primo dovere.

Abolire le guerre, gli eserciti, le armi; alla politica della folle violenza assassina sostituire la razionale e coerente politica della nonviolenza che riconosce e salva le persone e che fonda la civile, umana convivenza.

Soccorrere, accogliere, assistere tutti gli esseri umani in pericolo.

Riconoscere concretamente a tutti gli esseri umani il diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.

Vi e' una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.

Opporsi alla guerra e a tutte le uccisioni, opporsi al razzismo e a tutte le persecuzioni, opporsi al maschilismo e a tutte le oppressioni.

Un solo mondo, una sola umanita'.

Una sola umanita': civile, responsabile, solidale.

Pace, giustizia, solidarieta'.

E' l'ora della nonviolenza.

La nonviolenza e' in cammino.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

 

2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA GUERRA COME ANTITESI DEL DIRITTO (2011) (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)

[Dal sito di Peacelink riprendiamo il testo della relazione tenuta da Enrico Peyretti al convegno "Le regole della guerra" promosso dal Cisp - Centro Interatenei piemontesi Studi per la Pace - nel dicembre 2011. La prima parte abbiamo pubblicato nei "Telegrammi" n. 2017.

Enrico Peyretti (1935) e' uno dei maestri della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza; e' stato presidente della Fuci tra il 1959 e il 1961; nel periodo post-conciliare ha animato a Torino alcune realta' ecclesiali di base; ha insegnato nei licei storia e filosofia; ha fondato con altri, nel 1971, e diretto fino al 2001, il mensile torinese "il foglio", che esce tuttora regolarmente; e' ricercatore per la pace nel Centro Studi "Domenico Sereno Regis" di Torino, sede dell'Ipri (Italian Peace Research Institute); e' membro del comitato scientifico del Centro Interatenei Studi per la Pace delle Universita' piemontesi, e dell'analogo comitato della rivista "Quaderni Satyagraha", edita a Pisa in collaborazione col Centro Interdipartimentale Studi per la Pace; e' membro del Movimento Nonviolento e del Movimento Internazionale della Riconciliazione; collabora a varie prestigiose riviste. Tra le opere di Enrico Peyretti: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'e' la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; Esperimenti con la verita'. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzini, Villa Verucchio (Rimini) 2005; Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, Il Margine, Trento 2009; Dialoghi con Norberto Bobbio, Claudiana, Torino 2011; Il bene della pace. La via della nonviolenza, Cittadella, Assisi 2012; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, che e stata piu' volte riproposta anche su questo foglio; vari suoi interventi (articoli, indici, bibliografie) sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.info e alla pagina web http://db.peacelink.org/tools/author.php?l=peyretti Un'ampia bibliografia (ormai da aggiornare) degli scritti di Enrico Peyretti e' in "Voci e volti della nonviolenza" n. 68]

 

Vince in guerra il fattore morale?

Obiezione: in guerra conta molto, per vincere, il coraggio morale, fondato su una giusta ragione. Si puo' obiettare cosi' all'affermazione che la guerra dia ragione solo alla forza materiale. Il coraggio di esporsi, di soffrire e morire, dato dalla coscienza del proprio diritto, e soprattutto dalla coscienza del dovere di difendere le vite affidate a me, e' una forza morale umana nobile, che puo' superare anche la forza soverchiante delle armi e della spregiudicatezza altrui.

La forza morale della ragione e della verita' puo' superare nel confronto materiale quella forza materiale: Davide puo' prevalere su Golia. Ma non e' l'aver ragione che assicura la vittoria militare. Il vincitore nella prova mortale non vince perche' ha un maggiore e piu' giusto diritto. Mille altre volte un giusto Davide soccombe sotto i colpi di Golia, se lo affronta coi suoi mezzi. Non basta l'innocenza, nella prova tra due spade. Ma, nell'innocente ucciso da Golia, la ragione, il diritto, brillano di luce propria, non dello scintillare della spada. Il diritto e' contraddetto dalla guerra, sua antitesi, ma non e' cancellato. Chi sopravvive alla guerra e' il diritto ignorato e offeso. La guerra da' torto alla ragione dell'innocente, ma la ragione dell'innocente sopravvive alla falsa ragione della guerra.

Ne', d'altra parte, il diritto dell'innocente sarebbe affermato dalle armi: per caso, le armi lo difenderebbero, ma il diritto e' indipendente dalle armi.

Chi vince, vince perche' - con diritto o senza diritto - colpisce e uccide e distrugge piu' duramente dell'avversario. Anche l'eroe piu' coraggioso, che combatte per la causa giusta, puo' venire sconfitto, ucciso, e la sua causa puo' essere perduta (almeno sul momento). La guerra da' ragione alla morte, non da' la morte alle forze mortali.

La guerra usa la morte, non la ragione, come proclamo' Salvador Allende - "Hanno la forza ma non la ragione" - nell'atto di accogliere liberamente la morte su di se', senza riconoscere ai fuori-legge il diritto di ucciderlo e di prendere il potere.

Il generale Kutuzov ha le ragioni del diritto del suo popolo, ma vince su Napoleone solo perche' si sottrae alla logica frenetica e impaziente della guerra, si apparta ai margini del campo, si allea con il tempo e con le circostanze (il generale Inverno), che sono mezzo uguale e imparziale, dato a tutti.

La sola regola che limita i "disastri della guerra" e' l'uscita dalla guerra, l'alternativa alla violenza nel vivere i conflitti, senza eluderli.

Se la tua vita minaccia la mia, o viceversa, se la mia vita minaccia la tua, e noi adottiamo-accettiamo la regola per cui l'eliminazione della vita minacciosa sarebbe l'eliminazione della minaccia, e dunque difenderebbe la vita che ha diritto di vivere, allora la decisione del diritto e' affidata a quella forza tra le due che e' piu' mortale dell'altra, e' affidata alla vittoria della morte. La morte detta il diritto. Ma e' un diritto che toglie la vita.

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La guerra contraddice il diritto alla difesa

La decisione in guerra non e' del diritto, ma della forza materiale.

Mors tua e' anche mors mea. Dunque, davvero la guerra contraddice il diritto di tutti. C'e' una contraddizione interna alla guerra, nei riguardi del diritto: o e' per sopraffare, e allora e' illegittima; oppure e' per difendere, ma allora distrugge il diritto alla difesa eccedendo in offesa.

E' possibile una difesa armata che non diventi offesa? E' giusta prudenza la serratura alla porta, o anche i cocci di vetro sul muro del giardino, ma non un trabocchetto sulla soglia, o il cavo ad alta tensione per fermare alla frontiera i migranti. Non e' l'arma stessa, se e' letale, che ha natura di offesa? E' comprensibile - anche per Gandhi - che la polizia sia dotata di "armi leggere" (espressione curiosa, un po' ipocrita, che richiede molte distinzioni), ma quanto eccezionale autocontrollo e' richiesto agli agenti che se le trovano in mano!

Come dice Johan Galtung, vorremmo decidere politicamente il disarmo, proponendo la "difesa democratica", cioe' la difesa popolare nonviolenta, di cui l'ideologia violenta e gli interessi armisti continuano ad occultare la storia reale. Ma per decidere il disarmo non abbiamo i numeri, allora insistiamo per il transarmo, cioe' il passaggio da un armamento offensivo ad un armamento di pura difesa (non solo nominale), che sia "strutturalmente incapace di aggressione" (come dicevano i pacifisti tedeschi negli anni '80, contro lo spiegamento dei missili), e quindi dia sicurezza a questa parte senza creare insicurezza nell'altra parte, fonte di ossessivo inseguimento al superiore armamento.

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Ma esiste con le armi la pura difesa? Tolstoj propone come massima la regola evangelica "non resistere al malvagio (o al male)" (Matteo 5,39), che non e' certo offrirsi come vittime (se intendiamo bene, nel contesto palestinese al tempo di Gesu', gli esempi successivi, dell'offrire l'altra guancia, dare anche il mantello, fare un miglio in piu', che sarebbero vere tecniche di difesa nonviolenta e di denuncia: vedi Walter Wink, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, Emi, Bologna 2003), ma significa non entrare nel suo gioco, non opporre male al male, guerra a guerra, e invece - come sviluppera' l'allievo di Tolstoj, Gandhi - scoprire e opporre alla violenza altre forze, non ad essa omogenee, inventare altre regole di difesa e di affermazione del diritto.

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Come ristabilire il diritto senza la guerra?

Per uscire dalla vittoria della morte - ammesso e premesso che la nostra scelta di fondo sia per la vita piu' che per la morte; piu' per la vita di tutti che per la morte di alcuni come condizione per la vita di alcuni - la soluzione del conflitto tra i diritti a vivere, sta nel resistere e nell'usare forze alternative alla guerra:

a) nel "resistere", cioe' tener fermo senza cedere e senza attaccare: resistere alla minaccia e alla violenza senza entrare nel loro gioco, nel quale ragione, diritto, verita' sono sconfitte in partenza, vendute alle ragioni della forza materiale; per Tommaso d'Aquino c'e' piu' forza nel resistere fermi nel pericolo che nell'aggredire: "Principalior actus fortitudinis est substinere, idest immobiliter sistere in periculis, quam aggredi" (Summa Theologica, IIa, IIae, q. 123, art. 6);

b) nell'affidare il confronto conflittuale a forze diverse e alternative a quelle distruttive che la guerra usa; cioe', affidarsi alle armi della forza umana: capacita' di soffrire per la giustizia, di stare uniti nell'essenziale; capacita' di comunicare le ragioni della giustizia; capacita' di risvegliare l'umanita' comune nell'avversario, il quale, facendosi nemico, ha sepolto ma non ha perduto quella umanita' comune. Una societa' priva di queste capacita' e' indifesa davanti al tiranno come davanti al nemico.

La prima di queste forze umane, che sono superiori alle forze armate perche' possono essere di tutti, e possono rendersi invulnerabili piu' di Achille, e' la coscienza: quando non collabora alla violenza e disobbedisce al comando umanamente ingiusto, essa e' l'ostacolo massimo alla prepotenza, perche' questa ha bisogno di collaborazione. La disobbedienza civile estesa rende troppo costoso il dominio ingiusto. Non e' solo appello alla morale del tiranno, ma pressione sulla sua convenienza.

Infatti, il potere dipende dall'obbedienza. Ogni potere degli uni sugli altri consiste in definitiva nell'essere obbedito (Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, 3 volumi, vol. 1, cap. 1, Ega, Torino 1986 e anni seguenti). Disobbedire al potere, molti insieme (ma anche cominciando da uno solo), e con costanza, e pagandone lealmente il prezzo, distrugge il potere senza dover colpire gli uomini del potere nella vita e nei loro diritti umani. La coscienza libera, consapevole e coraggiosa, condiziona il potere senza usare violenza.

Una analoga profonda teoria pratica sulla resistenza al potere ingiusto e' quella di Vaclav Havel, Il potere dei senza potere (Garzanti, Milano 1991; l'originale in samizdat risale al 1978). Ne dava un'ampia sintesi Giovanni Salio in Il potere della nonviolenza (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995, pp. 16-23). Per Havel il potere dei senza potere si fonda sulla "vita nella verita'", che ha valore di vera forza politica, opposta alla "vita nella menzogna" imposta e pretesa da ogni potere totalitario. I movimenti cosi' ispirati "non puntano alla trasformazione politica violenta, e non perche' considerino questa soluzione troppo radicale, ma, al contrario, perche' e' poco radicale" (p. 70). Questa forma di azione politico-morale consiste nel "seminare pazientemente il grano, annaffiare assiduamente la terra che lo ricopre e concedere alle piante i loro tempi" (p. 42).

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La nonviolenza non funziona dove non c'e'

Se si regge il conflitto (giusto nel fine e nei mezzi) e lo si gestisce coi mezzi umani che non distruggono l'umano, si puo' vedere affermata la propria causa, ed e' un successo. Oppure si puo' perdere, ma sara' garantito il fine superiore in ogni conflitto, che e' il mantenimento e la tutela dell'umano, per tutto quanto dipende da noi.

Se l'umano si e' mantenuto e affermato, pur perdendo l'obiettivo particolare di quel determinato conflitto, l'obiettivo maggiore in ogni vicenda e' ottenuto, e' affermato. Come scrive Michael N. Nagler: "La nonviolenza a volte funziona, non sempre, ma e' sempre efficace. La violenza a volte funziona, non sempre (e' sicuro che uno dei due armati perde, e anche il piu' forte non lo e' per sempre) ma non e' mai efficace" (Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Milano, 2005, pp. 131-132).

Nagler fa un esempio tra altri: nel lager di Auschwitz, sistema finalizzato a disumanizzare, l'umanita' dei deportati fu sorprendentemente salvata quando padre Kolbe offri' la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia. Un testimone oculare riferisce: "Fu uno choc enorme per tutto il campo (...). Quindi non e' vero, ci dicemmo, che l'umanita' e' persa e calpestata (...). Migliaia di prigionieri si convinsero che il mondo reale continuava ad esistere e che le torture che subivamo non sarebbero bastate a distruggerlo (...) La morte di padre Kolbe rappresentava la salvezza di migliaia di persone" (Patricia Treece, A Man for Others, San Francisco, Harper and Row, 1982, p. 178). L'efficacia e' intesa da Nagler come quella fecondita' profonda e duratura che trasmette nel futuro elementi di umanita' libera e giusta.

La nonviolenza sicuramente non funziona dove e' pura astensione dal fare violenza; dove non e' attiva e autentica, ma e' la posizione del debole o del vile; dove non e' mai sperimentata e preparata: questo e' il caso delle politiche degli stati, che ostinatamente non la sperimentano, non vogliono neppure conoscerla davvero, decidendo a priori (e regalando grandi utili ai grossi armaioli) che solo la violenza funziona.

Come scrive il filosofo Muller: "Ora, bisogna ben riconoscerlo, quelli che affermano la necessita' della violenza, generalmente non hanno mai provato la nonviolenza. Una cosa e' dire: bisogna ricorrere alla violenza il meno possibile; altra cosa e' dire: bisogna ricorrere alla nonviolenza il piu' possibile. Se l'uomo non si prepara a mettere in atto i mezzi dell'azione nonviolenta ogni volta che e' possibile, allora la violenza sara' ogni volta necessaria. Non si puo' fare davvero risparmio di violenza se non facendo risolutamente la scelta della nonviolenza. Il risparmio di violenza non e' possibile che nella dinamica della nonviolenza" (Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa University Press, 2004, p. 296).

Un'ampia bibliografia storica di lotte nonviolente - cio' che e' fatto e' possibile - si trova in rete sotto il titolo "Difesa senza guerra".

Uno studioso e docente specializzato segnala di recente: su 323 rivoluzioni del secolo XX, quelle nonviolente sono state un centinaio e hanno avuto successo al 53%; quelle violente, invece, al 26%. Nel periodo 1975-2002, sono state 47 le rivoluzioni nonviolente o per lo piu' non violente; su 18 condotte da forze nonviolente e coese, 17 hanno vinto e una sola ha avuto un successo parziale (da Antonino Drago, Le rivoluzioni nonviolente dell'ultimo secolo, Edizioni Nuova Cultura 2010. La fonte della prima percentuale e' lo studio su "International security", Stephen e Chenoweth, Why civil resistance work, 2008, che si trova anche nella rete telematica. La fonte della seconda e' lo studio di A. Karatnycky e P. Ackerman, How Freedom is won, Freedom House 2005).

E' possibile, viste anche le esperienze piu' recenti, che stia crollando nei fatti il mito della violenza rivoluzionaria risolutiva. La violenza, militare e strutturale, rimarrebbe prerogativa dei poteri oppressivi.

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La legge italiana 8 luglio 1998, n. 230, "Nuove norme in materia di obiezione di coscienza", art. 8, lettera e), dispone che l'Ufficio nazionale per il servizio civile ha il compito di "predisporre, d'intesa con il Dipartimento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta". Questo impegno non e' mai stato veramente attuato. Con la sospensione della leva, con l'esercito professionale volontario, e, di conseguenza, la scomparsa della diretta obiezione di coscienza personale, il servizio civile e' diventato volontario, ed e' assai poco sostenuto dalla politica.

Ma resta valido il principio stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 164/1985, la quale interpreta l'art. 52 della Costituzione chiarendo che la difesa della Patria puo' esplicarsi attraverso una difesa armata o attraverso una difesa non armata, svolta mediante "prestazioni personali di portata equivalente, riconducibili anch'esse all'idea di difesa della Patria", con un servizio civile alternativo a quello militare per motivi di coscienza (cfr Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al servizio militare, terza edizione, Giuffre', Milano 1999, pp. 87-88).

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La scelta dei mezzi nonviolenti e' un atto di fede nella qualita' umana che non e' solo violenta, ne' solo nonviolenta, ma e' sempre ricuperabile ai modi non distruttivi; e' una scommessa piu' alta del sospetto, della condanna, della stretta visione della necessita'. Robert Musil: "Se esiste il senso della realta', ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilita'". Come ogni atto di fede, di affidamento, comporta un rischio. Ma e' rischio maggiore tentare di condurre il conflitto sul piano umano, delle forze e risorse umane, oppure abbandonarlo al confronto fra capacita' mortali di mezzi e volonta' omicide?

Conflitto non e' sinonimo di guerra: fanno parte della vita e della sua crescita i conflitti costruttivi. E' guerra il conflitto che diventa distruttivo. La regola del conflitto, che lo preserva dal degenerare in guerra, e' l'arte di vivere, nella pluralita' dei modi di vivere: un'arte da esercitare con tutti i suoi rischi di incertezze, errori, smarrimenti, e con tutte le sue possibilita' di correzione, ripresa, ricerca.

Non la tua morte e' la mia vita, ma la vita di ognuno e' necessaria alla vita dell'altro. Il diritto essenziale alla vita e' comune e uguale in tutti, pur variando nelle forme particolari, secondo le diverse condizioni e bisogni personali.

Sappiamo di non essere capaci di realizzare nell'immediato e sempre una linea nonviolenta di gestione dei conflitti. Ma cominciamo almeno - prima regola logica - a disonorare la guerra, a vedere l'oscenita' delle armi, percio' a proibirci come un tabu', in difesa della vita umanamente degna, ogni festa delle armi, stolta come quella ancora celebrata in Italia il 4 novembre anniversario di una vittoria che genero' anche militarismo e dittatura. E passiamo a non fondare l'eco-nomia - regola per vivere nella casa - sulla produzione di armi, capaci solo di far morire, e far profittare alcuni sulla morte di altri, cio' che smembra la casa umana.

E procediamo subito a vedere le radici della insensata violenza bellica nelle violenze strutturali - disparita' economiche gigantesche, sfruttamento del lavoro e dei corpi stessi umani, discriminazioni giuridiche, sociali e psicologiche, imprese finanziarie terribilmente speculative, pagate dai popoli - e nelle violenze insediate nelle culture che giustificano con falsi principi il diritto totale degli uni sugli altri. Senza risalire a queste radici profonde, non si sterilizza la malapianta della guerra.

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Dobbiamo riconoscere che puo' esserci bisogno di tempo e gradualita', ma altrettanto di urgenza e di stimolo chiaro e forte per la regolazione della guerra. E tuttavia questo processo, negli spiriti e nelle convenzioni sociali, deve andare verso la sua semplice eliminazione. Si regola l'omicidio col non uccidere. Il punto da sradicare, per questa evoluzione umanizzante, e' l'ideologia della fatale naturalita' della guerra, uso della morte organizzato e istituzionalizzato.

Una tale visione disperata e fatalistica sulla nostra umanita' fa precipitare il confronto tra le nostre differenze, anche preziose, nella impotenza a reggerle e nella folle spinta alla eliminazione delle differenze con l'eliminare il differente.

L'uso organizzato e istituzionalizzato della morte sa di essere una vergogna umana, e ricopre le proprie pudenda con foglie di fico strappate dall'albero dei frutti piu' buoni: la difesa della vita, l'affermazione del diritto. Col giustificarci, confessiamo di aver bisogno di giustizia, sappiamo di non essere giusti. Il vizio rende omaggio alla virtu', rivestendosi di virtu'.

La guerra confessa la sua negazione del diritto alla vita, quando piega il diritto positivo a vestire di giustizia il proprio preteso diritto di uccidere. Si tratta di un diritto preteso e non di uno stato di necessita'. Soltanto l'uccidere chi sta in quel momento per uccidere altri, se non c'e' assolutamente altro mezzo per fermarlo, puo' essere atto giustificato, e puo' essere persino un dovere (anche secondo Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, p. 69-71. Si veda anche un inedito di Giuliano Pontara, che uscira' nel 2012, sulle concessioni di Gandhi ai casi di necessita' della violenza).

Invece, nel caso della guerra, l'omicidio e' previsto da lontano, preparato freddamente, istituzionalizzato, normalizzato, persino onorato e idealizzato, tanto da rendere necessaria l'occasione per far funzionare tutto questo meccanismo scientifico-culturale-economico-militare: una molla caricata, che deve scattare per tornare a riposo. Vediamo sempre piu' che l'istituzione della guerra e' incompatibile con la societa' umana.

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La guerra come fonte di diritto

Ma la guerra sarebbe non antitesi, bensi' fonte di diritto. Essa cambia le cose, fonda un diritto. Si', ma quale diritto? Il diritto del vincitore, quello posto-imposto, non concordato liberamente tra soggetti pari, o quasi pari nei diritti e nella forza. La pace-frutto-di-guerra, lo stato di cose deciso dalla guerra e' un patto leonino.

La guerra (di per se', salvo l'influenza di altri fattori) produce la "pace d'impero", che e' la peggiore forma di pace, secondo Aron e Bobbio (Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino 1997, pp. 136-138), la piu' lontana dalla pace di soddisfazione, e anche dalla pace giusta e dalla pace di equilibrio.

Impero, dominio, sono semplicemente altri nomi della guerra, dell'offesa, in forma statica, stabilita, legittimata, anche a danno dei diritti innati dei soggetti viventi, persone e popoli.

Il diritto stabilito dalla guerra ha base nella regola della vittoria, non del patto, non della ragione, non del riconoscimento. La regola della vittoria, il diritto del vincitore, e' cieco, come il terremoto e il cataclisma. Appartiene non al mondo umano in via di umanizzazione, ma al mondo delle forze fisiche inanimate, governate dalla necessita' fisica. Cosi' sarebbe un male innocente. Invece, volonta' umane dissociate dall'umanita', usando quelle forze cieche che sono le armi omicide, dando occhi e mira a quegli strumenti innocentemente mortali, si sono fatte serve della morte contro la vita.

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Quanti codici di leggi sono nati cosi', dalla vittoria materiale sul diritto umano! E se avesse vinto Hitler? Secondo una lettura paradossale, ma non assurda, in qualche modo ha vinto Hitler. Ho raccolto questa opinione in sei autori che meritano ascolto, e almeno altri tre potrei ora aggiungerne (nel libro Dov'e' la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere, Gabrielli editori, Verona 2005, pp. 67-70). Il progetto hitleriano di dominio sterminista e imperiale e' stato interrotto dalla guerra delle democrazie, per nostra fortuna, ma l'apparato di armi di distruzione di massa e' stato ereditato, ingiustamente usato su due citta' abitate, (che non erano obiettivi militari, ma si prestavano per le buone condizioni meteorologiche), ed e' stato ultrasviluppato ingiustamente dai paesi che giustamente lo hanno impedito a Hitler.

Poi la coscienza umana, resistente e rinascente dai suoi propri errori, e' stata capace di abbozzare quel diritto cosmopolitico, e quella tavola dei diritti umani, che e' stato un momento alto di risveglio dopo la vergogna che la guerra e' per tutti, chi la promuove e chi vi e' costretto. In quel diritto di pace e dignita', che e' istituito nell'Onu, tuttavia, era ed e' ancora insediato il diritto di guerra, che attribuisce ai vincitori della guerra una parte privilegiata, fino al veto, nelle decisioni che riguardano tutti i popoli dell'unica umanita'. Inoltre, siamo stati capaci solo in piccola misura di porre nella realta' effettiva dei rapporti tra le persone e tra i popoli i principi del 1948. E' nostro compito e dovere, debito verso la storia umana e i posteri, come studiosi, come affidatari, in questo tempo, del mondo che appartiene ai posteri, come operatori nella societa', e' nostro compito e onore tenere sempre vivo il pensiero e la tensione a sviluppare nei fatti il diritto di pace. Il diritto dichiarato non e' ancora realizzato, ma non e' poca cosa averlo dichiarato: e' l'idea che guida il fatto; e' il proposito che impegna l'azione. Dal dire al fare c'e' di mezzo il mare: ma senza il dire non puoi neanche partire. Non irridiamo l'attuale impotenza dell'Onu, del diritto cosmopolitico di pace: non averlo scritto davanti agli occhi sarebbe peggio.

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Invece, la legge che ricalca la volonta' del vincitore della guerra chiama diritto cio' che e' storto, chiama giusto cio' che e' ingiusto.

Se si vuole che la legge limite della guerra sia efficace, deve valere per tutti, altrimenti e' vera guerra condotta con le armi giuridiche; altrimenti non e' legge che impegna tutti nella coscienza civile della convivenza; altrimenti, per il meccanismo di inseguimento verso l'alto nel rapporto maggiore-minore (si vedano gli studi di Pat Patfoort, per esempio Difendersi senza aggredire. La potenza della nonviolenza, Ega, Torino 2006), non fa altro che spingere chi e' meno fornito di capacita' minacciosa a rendersi piu' minaccioso.

Ora, gli stati nucleari impediscono ad altri stati di dotarsi di armi nucleari, senza denuclearizzarsi essi stessi: c'e' al mondo una cosa piu' di questa contraria al diritto? La "casta" nucleare, o comincia a dimettersi rapidamente dalla condizione di pericolo pubblico numero uno, oppure, col suo stesso essere, incita altri a farsi ancora piu' pericolosi. La paura e la follia corrono insieme, incitate dall'arroganza. L'arroganza, tracotanza, hubris, sono nomi di tutto cio' che nega in radice il diritto.

Gli Stati Uniti d'America sottraggono i loro cittadini al Tpi (Tribunale Penale Internazionale), mentre impongono ai non-statunitensi il Patriot Act (come osserva Luigi Bonanate, Undici settembre, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 142). La loro politica governativa e i loro soldati compiono violazioni come Guantanamo, crimini come Abu Ghraib, rapimenti e uccisioni senza la minima garanzia processuale, e sono sottratti al giudizio dell'umanita'.

Ho citato solo, en passant, lo stato visto ancora come modello di valori umani e politici, e di sviluppo, per tacere di tanti altri comportamenti dei poteri politici ed economici nel mondo, compreso il nostro paese, che spreca in pericolose spese militari, che non fa politica attiva di pace, che partecipa a guerre chiamate pace, che manipola l'interpretazione del suo art. 11 costituzionale, del quale potrebbe vantarsi nel mondo, e cosi' offende il diritto con la fede ostinata nei mezzi della guerra.

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La volonta' di potenza, l'idea della prevaricazione del mio diritto-forza sul diritto-dignita' dell'altro, e' presa di potere sulla libera volonta' e sulla vita dell'altro.

La volonta' di potenza non di regole si attornia, ma si dota di strumenti sempre piu' potenti. Siamo arrivati alla potenza nucleare, accumulata in migliaia di ordigni depositati, pronti all'uso. Solo calcolo e paura, e forse un estremo fragile ritegno, tengono chiusi per ora quei depositi. Ma gli effetti fisici, morali, politici, gli effetti sulla concezione dell'esistenza e della vita umana, si sono dispiegati in abbondanza.

Cosi', vediamo ora che la competizione economica, essa stessa una forma di guerra senza regole tra le volonta' di potenza, esaurisce la natura, cioe' il corpo vivo comune a tutte le specie viventi, distrugge anche le possibilita' di scambio e cooperazione utile e vantaggiosa dei beni vitali e migliorativi della vita, tra le diverse parti dell'unico popolo umano planetario.

Lo scambio economico, da strumento per la vita, si e' fatto campo di battaglia contro le vite, succhiate, sfruttate, calpestate, dimenticate, ridotte a strumento dello strumento. La macchina, potenziata oltre limiti gestibili, e' impazzita e travolge imbizzarrita chi credeva di poterla condurre ai propri fini.

Non ci sara' diritto di pace finche' ci sara' logica e strumentazione di guerra: le armi; gli eserciti permanenti e pervasivi, che Kant vedeva pericolosi per la loro sola esistenza. La guerra, infatti, si arroga un diritto assoluto, teocratico, di vita e di morte. E' il diritto padronale di un dio nemico, idea superata e negata dal piu' puro spirito religioso, nelle piu' elevate tradizioni spirituali. Per ragioni diverse e concomitanti, devono rifiutare questa pretesa della guerra, le persone religiose come le persone non religiose: le prime perche' Dio non e' cosi', le seconde perche' nessuna pretesa puo' farsi cosi' assoluta.

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Non ci sara' liberazione da quell'aggiunta di dolore che e' la guerra, e ogni altra violenza, ai dolori gia' insiti nella vita, fino a quando l'orientamento della cultura della societa' non sara' rivolto al ripudio della volonta' di potenza, della gara a prevaricare.

La volonta' di potenza ripudia la vita libera e giusta di tutti, fino a quando la vita di tutti non ripudia la volonta' di potenza, il cui segno piu' mastodontico, e l'effetto piu' pesante, e' la guerra, e l'ideologia della sua fatalita' insuperabile.

Il diritto - diciamo pure con orgoglio italiano, l'irriducibile art. 11 della nostra Costituzione - e' l'antitesi della guerra, perche' la guerra, nei suoi fondamenti ideologici e strutturali, e' l'antitesi del diritto.

 

3. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"

 

Per sostenere il centro antiviolenza di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.

O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.

Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, sito: http://erinna.it

Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

 

4. SEGNALAZIONI LIBRARIE

 

Riletture

- Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. LIV + 754.

- Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, pp. XXIV + 326.

 

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

 

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

 

6. PER SAPERNE DI PIU'

 

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 2018 del 18 giugno 2015

Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XVI)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it , centropacevt at gmail.com , sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

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