[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 708
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- Date: Tue, 9 Jun 2015 15:43:08 +0200 (CEST)
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVI)
Numero 708 del 9 giugno 2015
In questo numero:
1. In memoria di Bertha von Suttner
2. Isabella Bresci: Un ritratto di Bertha von Suttner
3. Simone Scala: Il 1956 e il suo impatto sulla cultura di sinistra in Italia. Alcune considerazioni generali
1. MAESTRE. IN MEMORIA DI BERTHA VON SUTTNER
Ricorre oggi, 9 giugno, l'anniversario della nascita di Bertha von Suttner.
Ogni persona impegnata per la pace e' a lei che ispira la sua azione e il suo pensiero; di ogni movimento per la pace e' lei la scaturigine e lo specchio; e il giorno che la guerra aboliremo sara' la festa di Bertha von Suttner.
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Bertha von Suttner (Praga, 9 giugno 1843 - Vienna, 21 giugno 1914), scrittrice, straordinaria militante pacifista, ricevette il premio Nobel per la pace nel 1905. Opere di Bertha von Suttner: Giu' le armi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989; Abbasso le armi! Storia di una vita, Centro stampa Cavallermaggiore (Torino) 1996. Opere su Bertha von Suttner: Nicola Sinopoli, Una donna per la pace, Fratelli Palombi, Roma 1986. Su Bertha von Suttner segnaliamo anche i testi di Marta Galli (comprensivo di un'utile sitografia) e di Rosangela Pesenti apparsi rispettivamente nei nn. 850 e 845 de "La nonviolenza e' in cammino", l'ampio saggio di Verdiana Grossi ripubblicato in "Voci e volti della nonviolenza" n. 483, la voce di Giancarla Codrignani nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 514.
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Nel ricordo di Bertha von Suttner proseguiamo nell'azione nonviolenta per la pace e i diritti umani; per il disarmo e la smilitarizzazione; contro la guerra e tutte le uccisioni, contro il razzismo e tutte le persecuzioni, contro il maschilismo e tutte le oppressioni.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Vi e' una sola umanita' in un unico mondo vivente casa comune dell'umanita' intera.
Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignita', alla solidarieta'.
Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.
2. MAESTRE. ISABELLA BRESCI: UN RITRATTO DI BERTHA VON SUTTNER
[Dal sito del Centro studi "Sereno Regis" di Torino (http://serenoregis.org) riprendiamo il seguente articolo li' pubblicato il 9 giugno 2014]
A volte il destino e' clemente, come nel caso di Bertha von Suttner che dopo una vita passata a promuovere la causa della pace tra le nazioni, mori' il 21 giugno 1914, cioe' una settimana prima del fatale attentato di Sarajevo che diede inizio alla prima guerra mondiale. Fu una pioniera del movimento per la pace che ebbe origine verso la fine dell'Ottocento e fu la prima donna a ricevere il premio Nobel per la Pace nel 1905; se vi recate in Austria troverete il suo volto raffigurato sulla moneta da due euro.
In Italia pochi la conoscono, purtroppo, ma quest'anno si celebrano i cento anni dall'inizio della prima guerra mondiale e la sua figura riemerge da quel passato che non e' poi cosi' lontano. Era di famiglia aristocratica, infatti il suo nome completo e' Bertha Sophia Felicita dei conti Kinsky von Chinic und Tettau, pero' lei sentiva di non appartenere a quel mondo e infatti col tempo se ne allontano' per vivere del suo lavoro come istitutrice e segretaria. La vita degli anni della giovinezza le permise in seguito di descrivere efficacemente quell'ambiente conservatore dove la carriera militare e la gloria delle medaglie era la massima aspirazione e un modo di avanzare nella scala sociale.
Bertha von Suttner fu una scrittrice prolifica ma il vero successo arrivo' solo con il romanzo Abbasso le armi!, uno straordinario documento storico attraverso il quale riusci' a diffondere efficacemente le idee pacifiste che le stavano a cuore. Il libro all'inizio trovo' le solite resistenze alla pubblicazione da parte degli editori a causa delle idee rivoluzionarie che veicolava ma infine venne pubblicato a Dresda nel 1889, quando l'autrice aveva quarantasei anni, e in seguito venne tradotto in circa venti lingue. La sua intuizione che un romanzo avvincente sarebbe stato sicuramente piu' efficace di un trattato per divulgare le sue idee, si rivelo' corretta. Leggendo si e' indotti a pensare che la protagonista Martha sia in realta' l'autrice, tanto la narrazione e' intensa e realistica. Con un abile artificio narrativo scavalca i dubbi di proselitismo: "Non hai qualche timore? Si nota la tua intenzione e questo puo' irritare - fa dire al figlio della protagonista verso la fine del romanzo - Cio' puo' valere soltanto quando si intuisce che l'autore crede di poter tenere nascosta la sua intenzione con furbizia. Ma la mia e' li', chiara come la luce del sole; e' gia' resa nota dalle tre parole del titolo".
Questo successo si spiega per vari motivi: prima di tutto il grande talento narrativo, la capacita' di descrivere i caratteri e i sentimenti umani con notevole approfondimento psicologico unita alla conoscenza dettagliata della situazione politica. Le novita' rappresentate dal romanzo erano innanzitutto il racconto della guerra dalla prospettiva di una donna e le descrizioni incredibilmente realistiche delle spaventose battaglie che nessuno aveva mai fatto. Il tema della pace, rivoluzionario per quell'epoca, riusci' a scuotere molte coscienze; il grande Tolstoj scrisse: "La pubblicazione del vostro libro e' per me un buon segno. Il libro La capanna dello zio Tom ha contribuito all'abolizione della schiavitu'. Dio faccia si' che il vostro libro serva allo stesso scopo per l'abolizione della guerra".
Il libro usci' in concomitanza con alcuni importanti eventi e questo favori' l'attenzione del pubblico verso di esso: l'Esposizione internazionale a Parigi, le celebrazioni per il centenario della Rivoluzione Francese, ma soprattutto il Congresso Universale della Pace che diede modo di incontrarsi a tutti gli attivisti per la pace del mondo e ai parlamentari che costituirono l'Unione Interparlamentare. Il romanzo venne anche pubblicato a puntate sul giornale "Vorwarts" ("Avanti"), la von Suttner infatti simpatizzava per i socialisti perche' il pacifismo era un punto importante del loro programma ma non aderi' mai ad alcun partito politico perche' la Lega per la Pace aveva come unico obiettivo la pace internazionale e Bertha era sicura che questa avrebbe alleviato la poverta' e la tensione sociale, era infatti fermamente convinta che prima fosse indispensabile il disarmo e che le condizioni sociali sarebbero migliorate di conseguenza.
Il racconto non manca ogni tanto di punte di ironia e di sarcasmo, specialmente quando parla delle contraddizioni insite nei discorsi religiosi relativi alla protezione degli eserciti in guerra: "Non rimane che invocare la benedizione del cielo sui combattenti. Poiche' questo e' certo: al buon Dio deve interessare molto che il protocollo dell'8 maggio sia mantenuto e che la legge del 13 gennaio sia annullata. Egli deve guidare le cose in modo da fare si' che muoiano tanti uomini e brucino tanti villaggi quanti ne occorrono perche' il ramo dei Gluckstadt o quello degli Augustenburg regni sopra questa piccola particella del globo terrestre".
Abbasso le armi! e' un libro poco conosciuto in Italia; viene tradotto e pubblicato la prima volta nel 1897 dalla famosa Fratelli Treves Editori, e nel 1996 viene ripreso dal Centro Stampa Cavallermaggiore. Quest'anno, nell'anniversario della prima guerra mondiale, e' stato ristampato e spero vivamente che venga riscoperto perche' oltre ad essere una lettura avvincente, ci rende consapevoli di come fosse terribile la guerra anche prima del Novecento: scontri tra eserciti fatti di feroci combattimenti sui campi di battaglia dove i feriti venivano abbandonati agonizzanti per giorni perche' il servizio infermieristico era assolutamente inadeguato. Viene riportato che il Ministro francese delle Finanze Dunajewski nel 1890 disse: "Signori, prendetevi alcune ore di tempo per leggere Die Waffen nieder! Vergogna a tutti quelli che, avendolo letto, si sentono ancora in grado di muovere guerra".
Il romanzo e' basato su approfondite ricerche di materiali e resoconti sulle atrocita' della guerra, incontri avuti con generali, studio di cifre e bilanci dell'esercito e della Croce Rossa allora appena istituita. Questa ebbe un inizio travagliato per l'opposizione di molti e la von Suttner ne apprese i dettagli. Avvio' quindi una corrispondenza col fondatore, lo svizzero Henri Dunant, che grazie alla sua influenza personale su Alfred Nobel, nel 1901 ottenne il Premio Nobel per la Pace.
Queste sue parole rendono bene l'idea del suo pensiero in proposito: "La cosa piu' stupefacente, a me sembra, e' che gli uomini si possano mettere da soli, volontariamente, in uno stato simile; che gli uomini che hanno visto cose simili non cadano in ginocchio prestando il giuramento piu' appassionato di fare la guerra alla guerra e, se sono re o principi, non gettino via la loro spada e, se invece non hanno potere, non consacrino almeno la loro attivita' di parola, di penna, di pensiero, d'insegnamento e di azione ad uno scopo: abbasso le armi!".
Come donna occupava una posizione privilegiata. Era accettata in un mondo di uomini, partecipava come gli uomini a molti eventi ufficiali, come la Conferenza de L'Aja, ove aveva lo status speciale di giornalista acquisito fondando la rivista "Die Waffen nieder!" (Abbasso le armi!) avente come scopo di appoggiare l'Unione Interparlamentare e i Congressi Universali della Pace. L'aver iniziato la sua carriera di pacifista al Campidoglio di Roma, prima donna ad aver tenuto un discorso, le conferi' probabilmente grande coraggio e fiducia. Da quel momento divento' uno dei conferenzieri piu' famosi del suo tempo, riconosciuta come scrittrice di livello e leader pacifista. Ispirava rispetto e nessuno rimaneva indifferente perche' aveva l'autorevolezza di chi lavora instancabilmente per un alto ideale. La stampa maschilista dell'epoca la deride con vignette satiriche ma lei non se ne cura e continua a dire: "le donne non staranno zitte. Scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la societa' e loro stesse" e dopo il suo discorso in Campidoglio l'ironia maschile si tramuto' in ammirazione. Non aderi' direttamente al movimento femminista ma lo segui' con interesse incoraggiandolo sempre.
E' da poco stato tradotto e pubblicato da Moretti & Vitali il volume Alfred Nobel, Bertha von Suttner - Un'amicizia disvelata, il carteggio tra i due dal 1883 al 1896 che ci permette di comprendere le circostanze e seguire i passi che avrebbero portato all'istituzione del premio Nobel per la pace. Bertha von Suttner ebbe frequenti contatti con Alfred Nobel, ma allo stesso tempo prese le distanze dalle sue teorie secondo le quali la pace doveva essere "armata". Nella complessa personalita' di Alfred Nobel convivevano il chimico e il poeta, l'inventore della dinamite e il pacifista, il misantropo e l'amico fedele della von Suttner. La pace armata di Nobel implicava un potenziale di distruzione bellica che, se portava all'eliminazione degli eserciti, metteva pero' in pericolo tutta l'umanita' e comportava uno spreco di risorse e di energie che si potevano utilizzare altrimenti. I quarantacinque anni di Guerra Fredda hanno tristemente dato ragione alla nostra autrice... La soluzione ipotizzata dalla von Suttner consisteva invece nel disarmo totale di tutte le nazioni e nell'istituzione di una "Corte d'Arbitrato" che risolvesse i conflitti internazionali facendo ricorso al diritto e non alla violenza; vi e' stato un tentativo di realizzare questo con l'istituzione dell'Onu ma come e' ormai evidente esso e' miseramente fallito.
Curiosamente, uno dei pericoli per la pace, per la von Suttner consisteva nell'americanizzazione globale: "un fenomeno ravvisato da alcuni dei nostri contemporanei piu' perspicaci. Qual e' la necessita' per gli uni di essere assorbiti dagli altri? Non e' meglio che le culture si compenetrino l'un l'altra e che si viva insieme dopo aver realizzato l'unita' al maggior livello possibile? Questo e' lo scopo della societa' umana che lavora per il progresso". Fino alla fine continuo' a viaggiare per diffondere la sua missione di pace, a scrivere e a tenere conferenze, anzi, col passare degli anni il suo impegno aumento'. Aveva compreso che era necessario convincere le classi dominanti a schierarsi per la pace, e sapeva che era necessario rivolgersi ai politici, quindi cerco' di farsi ascoltare servendosi della sua influenza. Incontro' molti dei leader del suo tempo e per questo viaggio' moltissimo in Europa e negli Stati Uniti e molti compresero il suo messaggio. I risultati che ottenne, pero', purtroppo non furono sufficienti ad arrestare il nazionalismo estremo e l'aggressivita' delle politiche imperialiste che stavano aumentando in quel periodo e che sfociarono infine nella prima guerra mondiale. Forse per un presentimento, nell'ultimo periodo si sentiva piu' sfiduciata e pessimista perche' non sentiva coinvolgimento da parte dei giovani e la situazione internazionale non sembrava migliorare.
Come si diceva all'inizio il destino le risparmio' di assistere all'ecatombe della prima guerra mondiale che vedra' l'utilizzo di molte armi nuove come la mitragliatrice, i gas, i carri armati e gli aerei e dove ci furono circa dieci milioni di morti tra i militari, circa sette tra i civili in seguito ad azioni militari e carestie, e ventuno milioni di feriti. Dopo questa carneficina i suoi libri, i suoi appelli e il ricordo dei suoi sforzi caddero nell'oblio per lungo tempo come spazzati via dall'immane tragedia.
Il suo importante messaggio pero' era come un piccolo seme destinato a germogliare molto tempo dopo, come spesso accade nella storia dell'umanita'; i tanti movimenti internazionali lo testimoniano anche se purtroppo la guerra non solo esiste ma e' diventata come si usa dire "diffusa", cioe' globale, senza piu' un nemico facilmente individuabile perche' messa in atto per accaparrarsi le risorse del pianeta e spesso portata avanti da bande di mercenari assoldati dalle varie potenze.
"Ogni guerra, qualunque sia il suo esito, contiene sempre il germe di una guerra successiva. Ed e' piu' che naturale. Un atto di prepotenza offende sempre qualche diritto. L'offeso fa valere presto o tardi le sue ragioni e allora il nuovo conflitto viene risolto da una nuova prepotenza, gravida di ingiustizie, e cosi' di seguito senza fine".
Cosa direbbe oggi, a noi contemporanei, Bertha von Suttner? Molto probabilmente ci spronerebbe dicendo: "Non arrendetevi mai e lavorate per diffondere e realizzare l'ideale della Pace".
Il suo messaggio e' piu' attuale che mai.
3. RICERCHE. SIMONE SCALA: IL 1956 E IL SUO IMPATTO SULLA CULTURA DI SINISTRA IN ITALIA. ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI
[Il testo che segue riproduce il quinto paragrafo del primo capitolo del lavoro di Simone Scala, "Renato Solmi a confronto con Th. W. Adorno e M. Horkheimer. Storia intellettuale ed editoriale di una mediazione culturale", tesi di dottorato in Teoria e storia delle culture e letterature comparate, Universita' degli studi di Sassari, a.a. 2011-2012 (il testo integrale e' disponibile on line nel sito http://eprint.uniss.it).
Renato Solmi e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria strumentazione intellettuale; e' stato impegnato nel Movimento Nonviolento del Piemonte e della Valle d'Aosta. E' deceduto il 25 marzo 2015. Dal risvolto di copertina del recente volume in cui sono raccolti taluni dei frutti maggiori del suo magistero riprendiamo la seguente scheda: "Renato Solmi (Aosta 1927) ha studiato a Milano, dove si e' laureato in storia greca con una tesi su Platone in Sicilia. Dopo aver trascorso un anno a Napoli presso l'Istituto italiano per gli studi storici di Benedetto Croce, ha lavorato dal 1951 al 1963 nella redazione della casa editrice Einaudi. A meta' degli anni '50 ha passato un periodo di studio a Francoforte per seguire i corsi e l'insegnamento di Theodor W. Adorno, da lui per primo introdotto e tradotto in Italia. Dopo l'allontanamento dall'Einaudi, ha insegnato per circa trent'anni storia e filosofia nei licei di Torino e di Aosta. E' impegnato da tempo, sul piano teorico, e da un decennio anche su quello della militanza attiva, nei movimenti nonviolenti e pacifisti torinesi e nazionali. Ha collaborato a numerosi periodici culturali e politici ("Il pensiero critico", "Paideia", "Lo Spettatore italiano", "Il Mulino", "Notiziario Einaudi", "Nuovi Argomenti", "Passato e presente", "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini", "Il manifesto", "L'Indice dei libri del mese" e altri). Fra le sue traduzioni - oltre a quelle di Adorno, Benjamin, Brecht (L'abici' della guerra, Einaudi, Torino 1975) e Marcuse (Il "romanzo dell'artista" nella letteratura tedesca, ivi, 1985), che sono in realta' edizioni di riferimento - si segnalano: Gyorgy Lukacs, Il significato attuale del realismo critico (ivi, 1957) e Il giovane Hegel e i problemi della societa' capitalistica (ivi, 1960); Guenther Anders, Essere o non essere (ivi, 1961) e La coscienza al bando (ivi, 1962); Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo (ivi, 1966 e 1980); Seymour Melman, Capitalismo militare (ivi, 1972); Paul A. Baran, Saggi marxisti (ivi, 1976); Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918 (Boringhieri, Torino 1976)". Opere di Renato Solmi: segnaliamo particolarmente la sua recente straordinaria Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata 2007]
Nel riassumere e nell'analizzare la biografia e l'attivita' intellettuale di Renato Solmi, siamo arrivati al punto di svolta del 1956. Si tratta, com'e' noto, di una data che ha avuto conseguenze importanti sull'evoluzione futura di tutta la sinistra italiana e - a livello internazionale - su tutti i movimenti e i partiti politici che si rifacevano all'ideologia comunista e marxista. Per tale ragione non ci pare opportuno soffermarci, in questa sede, piu' dello stretto necessario su un argomento dalla portata cosi' ampia che meriterebbe di per se' un apposito approfondimento. Riassumendo per sommi capi, sono tre i principali eventi (nell'ambito della sfera d'influenza sovietica) che hanno fatto si' che quell'anno venga tuttora annoverato come ricco di conseguenze per la storia politica quantomeno europea: il XX Congresso del Partito comunista sovietico del febbraio, gli scioperi polacchi del giugno e i fatti di Budapest del novembre.
L'intervento di Chruscev davanti ai delegati sovietici venne letto quasi come l'autorizzazione definitiva non solo alla critica dello stalinismo, iniziata dopo la morte del dittatore, nella stessa Unione Sovietica, ma anche nei confronti del rigido controllo russo sui cosiddetti paesi satelliti. Mentre in Polonia agli scioperi e all'insurrezione di Poznan segui' il raggiungimento di un nuovo compromesso nazionale imperniato sulla personalita di Wladislaw Gomulka la cui evoluzione, dal punto di vista della politica estera, non preoccupo' eccessivamente i sovietici, fu in Ungheria che si registrarono le conseguenze piu' radicali e piu' tragiche del vento di cambiamento proveniente da Mosca (157). Soprattutto a Budapest, infatti, si sviluppo' a partire dall'ottobre un movimento di protesta contro il governo filostalinista di Rakosi. Tale movimento raggruppava diverse componenti: studenti e intellettuali (come il noto circolo Petofi), le organizzazioni operaie (che chiedevano una maggiore autonomia nella cornice del socialismo) e i settori piu' nazionalisti legati alla Chiesa. Le principali richieste che venivano avanzate riguardavano la sostituzione di Rakosi, la fine della presenza di truppe sovietiche nel paese, elezioni pluripartitiche e la nomina a capo del governo di Nagy (espulso dal Partito qualche mese prima con l'accusa di "deviazionismo di destra"). Quest'ultima richiesta venne accordata - con il consenso dell'Unione Sovietica - e Nagy avvio' le prime riforme componendo un governo di coalizione, abolendo il sistema monopartitico e decretando l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia. Fu probabilmente tale decisione (unita anche al fatto che nel frattempo continuavano gli assassinii politici e gli scontri tra insorti, polizia segreta e membri del Partito) che provoco l'intervento dell'Urss, le cui truppe occuparono Budapest il 4 novembre, rovesciarono il governo Nagy (di cui faceva parte anche Lukacs in qualita' di ministro della Pubblica istruzione) e in pochi giorni soffocarono nel sangue la rivolta e consegnarono il potere a Kadar per la costituzione di un nuovo esecutivo fedele al Cremlino.
Da un punto di vista piu' propriamente politico ed interno al dibattito in ambito comunista, l'aspetto importate che ci preme evidenziare riguarda la messa in discussione di tutta una serie di principi su cui si fondava il potere staliniano: da quelli economici sulla affrettata e schematica previsione della caduta del capitalismo, a quelli legati al rapporto tra gli Stati che si rifacevano al marxismo (Urss, Jugoslavia, Cina); dal culto della personalita', alla pratica consolidata della "supervisione ideologica" sulle opere d'arte e culturali in genere (derivata dalla teoria leniniana del rispecchiamento). Durante il XX Congresso, infatti, il mito di Stalin era stato fortemente messo in crisi (anche se non del tutto abbattuto) dal rapporto segreto di Chruscev (158), che ne denunciava i crimini e le incoerenze politiche cercando di sottolineare, pero', quanto il problema fosse Stalin stesso e non il sistema che egli aveva guidato piegandolo al proprio volere. Le conseguenze - com'e' facile comprendere - si ripercossero anche sui partiti comunisti dei paesi capitalistici, sebbene spesso le dichiarazioni dei leader di questi ultimi non andassero oltre formulazioni generiche sia contro il dogmatismo, sia contro il revisionismo. Dal punto di vista dell'elaborazione intellettuale, invece, anche nei paesi occidentali si apri' una nuova fase interpretativa delle opere marxiane. Nell'ambito di cio' che viene solitamente definito come "disgelo" (avviatosi subito dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953), la cosiddetta "rinascita del marxismo" prende avvio dallo studio piu' approfondito di testi che fino ad allora erano stati completamente ignorati o respinti dall'ortodossia (si tratta, principalmente, degli scritti giovanili di Marx quali i Manoscritti economico-filosofici e i Grundrisse). Inoltre, bisogna considerare anche l'apertura verso nuove discipline quali la sociologia, la psicologia e l'antropologia. Cio' porto' ad una nuova discussione su Marx con il fine di superare i tratti del "marxismo-leninismo" elaborati dallo stalinismo: "Vi fu al tempo stesso una liberazione da tabu' e da obblighi imposti dal 'marxismo-leninismo' dell'eta' staliniana; si scopri' o si riscopri' allora il giovane Marx e si comincio' a usare il concetto di 'alienazione', sulla scorta dei Grundrisse, pubblicati in tedesco nel 1953, ci si libero' dell'immagine semplicistica di una successione lineare delle formazioni sociali, e si scopri', nello stesso lavoro, la possibilita' di una modificazione della teoria del plusvalore nel periodo dell'automazione. Nella nuova situazione si respinse recisamente il passato dogmatico, in cui i portavoce di una concezione assolutistica avevano preteso di poter enunciare verita' eterne, a spregio del carattere attivo del processo conoscitivo, e con il ritorno al principio della discussione si abbandono' l'atteggiamento superbo comunista di chi aveva preteso non solo il monopolio della visuale marxista, ma anche quello di ogni conoscenza in genere, in base alla tesi staliniana che il piu' umile comunista e' infinitamente superiore al piu grande non comunista" (159).
Se quindi il XX Congresso, pur rappresentando un trauma a causa della denuncia dei crimini staliniani, ha in qualche modo favorito l'apertura di un periodo di dibattito all'interno del mondo marxista, la durissima repressione sovietica della rivolta di Budapest ha costituito un brusco momento di arresto per ogni progetto di rinnovamento. Per quanto riguarda le reazioni in Italia, la mancanza di una chiara presa di posizione del Pci relativamente sia al XX Congresso, sia a quei tragici avvenimenti, fece si' che molti intellettuali mettessero fortemente in discussione la posizione dei vertici, arrivando in numerosi casi ad abbandonare il Partito stesso. Secondo le efficaci parole di Paolo Spriano, ad esempio, si passera' molto rapidamente dal "tempo della critica" al "tempo della diaspora" (160) per molti intellettuali comunisti. Per la maggior parte dei casi si tratta - del resto - di una scelta carica di sofferenza soggettiva in quanto venne a cadere "quella fiducia acritica in una storia a disegno che sorresse l'adesione di tanti intellettuali al comunismo. [...] Gli anni successivi mostreranno che i dubbi sulla collocazione nazionale e internazionale del Pci si esprimeranno in due versioni, via via piu' divaricate, da parte degli intellettuali che hanno lasciato il Pci [...]. Una sara' quella della riproposizione dei valori di liberta' e di democrazia propri del socialismo occidentale, e si esprimera' anche, per molti intellettuali, in un ingresso nel partito socialista al quale [...] si vorrebbe ora affidare una funzione di egemonia all'interno della sinistra. L'altra, pur non essendo meno critica sullo stalinismo, e' la direzione di una critica 'da sinistra', emergente dalla fine degli anni '50 e gia' esplicita all'inizio di quelli '60, carica di referenti ideologici 'eterodossi', pur se attinti al patrimonio marxista (dalla Luxemburg a Trockij, da Korsch ai vari teorici 'consiliari'), ma anche intenta ad una nuova ricognizione della realta' economica, della struttura capitalistica nell'intimo della produzione e del meccanismo di riproduzione (sara' il caso, con il 1961, della rivista dei 'Quaderni rossi' e dell'elaborazione di Raniero Panzieri)" (161). In effetti, quest'ultima linea riusci' a far coagulare attorno a se' anche intellettuali che non provenivano ne' dal Pci ne' dal Psi, ma che avevano sempre frequentato tendenze "eretiche" rispetto ai partiti organizzati e avevano dato alla loro attivita' e militanza una chiara impronta in senso marxista. Tra questi va certamente annoverato anche lo stesso Renato Solmi. In modo particolare vedremo a breve come tale adesione ideologica si accentuo' con la frequentazione proprio di Raniero Panzieri durante il lavoro comune all'Einaudi.
Intanto, pero', vogliamo soffermarci ancora un momento sulle reazioni agli avvenimenti di quell'"indimenticabile 1956" (Pietro Ingrao) ed in modo particolare sulle conseguenze che ebbero nel dibattito tra gli intellettuali vicini a Solmi e alla casa editrice Einaudi. Innanzitutto abbiamo gia' notato come questa crisi produsse in molti - e soprattutto in quelli piu' legati al Partito comunista - una prima fase di disorientamento e quindi di profonda riflessione poiche' le certezze politiche e culturali finora considerate come assodate venivano inevitabilmente rimesse in discussione. Franco Fortini riesce felicemente a sintetizzare in poche battute tale difficolta': "Ma la dialettica e' ironica per definizione. Nel momento in cui grazie al raggiungimento di un dato livello di produzione l'egemonia mondiale passa al campo socialista, il mondo socialista scopre - con gioia, pena e stupore - che l'Avversario era parte di se stesso. Ne' piu' nelle vesti di spia o di agente nemico; non nella forma bestiale che assumono i saraceni agli occhi dei paladini di Roncisvalle, nel poema di Rolando; ma in quella del meglio che quella societa' aveva. Esso e' una parte del Capo venerato, una parte del Partito vittorioso" (162). Se e' vero, da un lato, che all'ironia della dialettica va sommato - in questo caso - anche il sarcasmo del critico toscano, e' altrettanto vero, dall'altro, che ne' alla crisi del mito di Stalin ne' ai fatti d'Ungheria corrisposero azioni unitarie, di lungo respiro e coerenti con la necessita' di un rinnovamento. E cio' vale tanto per la direzione politica, quanto per gli intellettuali - come nota ancora lo stesso Fortini: "la maggior parte dei nostri comuni conoscenti e compagni intellettuali... Non parlo di coloro che non capiscono e non sentono, percentuale necessaria; ma degli altri. Ci son quelli che han lasciato il partito e che ormai disinvolti parlano come se da sempre fossimo stati d'accordo e solo un deplorevole malinteso ci avesse impedito, negli anni ancora prossimi, di rendercene conto; ci son quelli, numerosissimi, che ti spiegano come l'articolo da loro pochi giorni innanzi firmato significa - nel contesto interno del partito - tutt'altra cosa da quello che sembra dire, e che la pensano in tutto come te; altri e piu' tristi ve ne sono, che stanno col piede in piu' staffe [...]; altri invocano che ove il fallo abbondo' la grazia abbondi e chiedono agli studiosi di studiare in silenzio dopo aver in silenzio accettato che per anni, e rumorosamente, costoro ignorassero e facessero ignorare altrui; e altri, senza nemmeno immaginare di dover scuse alla verita' per quanto han scritto sino a poco tempo fa, vanno levando il dito, fracristofori del peggio, in ripetuti 'Verra' un giorno...'; verra' un giorno, dicono, nel quale noi ci pentiremo di esserci posti contro il comunismo della intelligenza comunista italiana e contro il linguaggio politico della attuale direzione del Pci, come contro l'Unione Sovietica che Kadar esalta..." (163).
Anche Nello Ajello, nel ricostruire il rapporto tra intellettuali e Pci, sottolinea in modo particolare come pure dal punto di vista culturale - oltreche' politico - la rivolta di Budapest (tacciata da parte degli organi comunisti ufficiali come "controrivoluzionaria") rappresenti il fulcro attorno a cui ruotano importanti decisioni future che ci pare marchino un vero cambiamento di passo epocale: "Nei ranghi intellettuali del Pci non possono tuttavia essere ignorate le radici culturali della rivolta ungherese. Non si puo' rinnegare d'un tratto l'attivita' di quel circolo Petofi che e' stato celebrato fino a ieri come esempio della vitalita' intellettuale del marxismo dopo lo scossone benefico del XX congresso [...]. Il fatto che adesso la cultura ungherese piu' viva e moderna si trovi tutta schierata coi 'controrivoluzionari', viene infatti percepito da molti intellettuali come il dramma piu' aspro all'interno del complessivo dramma del 1956. [...] La scappatoia piu' usuale consiste nel plaudire all'intervento sovietico considerandolo un espediente provvisorio esperito il quale si tornera' appena possibile a ripercorrere le irrinunciabili vie nazionali al socialismo. Ma si tratta di uno stratagemma psicologico tutt'altro che semplice: anche chi ha deciso di restare nei confini dell'ortodossia tradisce lo sforzo" (164).
Il ripensamento politico e la linea culturale degli intellettuali, dunque, non furono oggetto di un dibattito aperto e approfondito per la ricerca di una soluzione condivisa che tendesse a rompere un certo irrigidimento settario ed evitasse cosi' di diventare un mero strumento di propaganda (tanto a favore degli esponenti piu' conservatori all'interno dello stesso Partito comunista, quanto per gli avversari politici "reazionari" che ebbero facile gioco nell'accusare il Pci - ma con una semplicistica generalizzazione, peraltro molto diffusa in Italia, tutto il marxismo - di condividere nella sostanza la repressione militare in Ungheria (165). Piuttosto si moltiplicarono i distinguo e le soluzioni individuali, talvolta anche in difesa di interessi soggettivi e, in qualche caso, egoistici. D'altro canto neanche la dirigenza comunista fu in grado di affrontare e guidare criticamente questa situazione assai complicata. E' Sebastiano Timpanaro (anch'egli, come Fortini, allora iscritto al Partito socialista) a sintetizzare correttamente tale punto di vista: "In sostanza il gruppo dirigente del Pci non e' assolutamente capace di fare neanche la piu' piccola critica a un atteggiamento attuale dell'Urss: ammette, si', che in Urss siano stati fatti degli sbagli, ma non mai che ne facciano in questo momento: il verbo errare lo coniugano solo al passato: hanno adottato una specie di teoria gentiliana dell'errore" (166).
In sintesi, a partire dai primi mesi del 1957 le posizioni concernenti i rapporti tra intellettuali e Pci possono essere ricondotte sostanzialmente a tre: la prima e' quella di chi lascia - piu' o meno in modo clamoroso - il Partito (Reale, Sapegno, Trombatore, ecc.); la seconda, invece, e' quella di chi decide di restare - almeno in questo primo periodo di confusione e finche' la situazione lo consente -, assumendo pero' una posizione critica rispetto alla linea stabilita dall'alto (Giolitti, Muscetta); infine, vi e' chi rimane e conserva essenzialmente un atteggiamento di accordo con le scelte della direzione (Banfi, Salinari). Secondo Cases - in quel periodo ancora legato a Lukacs, sebbene tendesse gia' a prenderne le distanze - la scelta meno egoistica e, al tempo stesso, piu' utile sia per la prosecuzione della vita del Partito, sia per l'attivita' degli intellettuali marxisti che non volevano soggiacere acriticamente alle posizioni ufficiali, e' quella di chi sceglie di esercitare (anche con difficolta') una certa attivita' di contrasto dall'interno: "Sono pienamente d'accordo con te che bisogna invece lavorare dall'interno cercando di dire la verita' entro i limiti di rottura, e magari anche facendo finta di niente e andando al di la' di quei limiti come se non si sapesse bene dove sono. Dopo il XX Congresso, insomma, mi pare che sia molto piu' onorevole essere espulsi che dare le dimissioni (ed essere espulsi, beninteso, non con cancan alla Reale, ma solo quando ti mettono di fronte a un'alternativa senza via d'uscita). Comunque bisogna reagire alla posizione intimidatoria adottata da Alicata, cui mi pento di aver mandato una cartolina con gli auguri di capodanno. Alicata dovrebbe capire che gli intellettuali erano prima disposti, anche consapevolmente, a chiudere gli occhi su tante cose che adesso vogliono vedere chiaramente. Il comportamento delle case editrici e' sintomatico, e mi pare che Einaudi e Feltrinelli facciano a gara a chi pubblica roba piu' scottante. Se il Pc non consente almeno sotto sotto a tutto questo finira' in un isolamento di tipo francese e si accorgera' che anche gli intellettuali servono a qualche cosa" (167).
Le parole di Cases ci possono essere doppiamente utili. Da un lato, infatti, ci permettono di comprendere quale fosse la posizione di un intellettuale iscritto al Pci ma - allo stesso tempo - con numerosi e profondi contatti in quell'ambiente politico-culturale che si era sviluppato vicino ma al di fuori del partito (in quanto - tra l'altro - diventato collaboratore di peso dell'Einaudi, soprattutto per quel che concerne la letteratura e la filosofia tedesca). Dall'altro, poi, testimoniano anche che il mondo dell'editoria - dopo un periodo di comprensibile smarrimento - ha in effetti reagito alle sollecitazioni sviluppatesi dal terremoto del 1956, approfittandone per cercare una maggiore autonomia editoriale rispetto ai legami con la cultura comunista. Lo confermano anche le parole di Ajello quando sostiene che "Tra gli editori di maggior influenza, sia Giulio Einaudi che Giangiacomo Feltrinelli percorrono vie diverse o contrastanti col Pci. Il primo (che non ha mai preso la tessera) accentua quell'eclettismo culturale che la sua azienda ha praticato anche nei periodi di piu' intense simpatie togliattiane; il secondo rompe clamorosamente con il partito dopo la pubblicazione del romanzo di Pasternak Il dottor Zivago nel novembre 1957" (168).
Data la complessita' e l'asprezza del dibattito culturale del periodo (169), e' chiaro che anche tra le fila dell'Einaudi non puo' essere sempre rilevata una linea concorde ed univoca (ad esempio, nel febbraio 1956 Felice Balbo lascia la casa editrice a causa delle crescenti divergenze ideologiche non controbilanciate da un adeguato riconoscimento del suo lavoro (170)). Tuttavia il periodo successivo al XX Congresso determina un'atmosfera in cui si fa piu' chiara e decisa la distanza nei confronti della linea culturale del Pci. Ne costituisce una prova la dura presa di posizione da parte di Calvino durante la riunione della Commissione culturale del partito comunista del 23 e del 24 luglio 1956 (presenti numerosi intellettuali e dirigenti comunisti, tra i quali, ad esempio, Alicata e Salinari, Negarville e Gerratana, Spinella e Trombadori, Rossanda e appunto Calvino). Infatti, in questa occasione Calvino, oltre a ribadire la necessita' di ampliare l'attuale orizzonte della cultura italiana, "riprendeva e articolava quanto gia' scritto da Bollati, con un preciso attacco ad Alicata, alla 'inadeguatezza ai tempi' della sua relazione, alla 'totale inettitudine', alla 'insipienza madornale' nel non aver saputo cogliere e indirizzare quanto vi era stato di nuovo, di 'prezioso' nel dibattito sul 'Contemporaneo', che era stato chiuso in un modo che sarebbe restato 'a vergogna dei compagni dell'attuale commissione culturale'" (171). La richiesta e' dunque quella di una maggiore democrazia all'interno del partito e della necessita' di ristabilire il principio della discussione. Nel concludere, egli giunge sino ad indicare quale soluzione per le presenti difficolta' le dimissioni dei dirigenti della politica culturale e di quella economica a causa dei gravi errori commessi: "Molti che hanno cavalcato la tigre devono essere sbalzati da quella scomoda cavalcatura" (172). Quello dello scrittore e' un intervento, quindi, che manifesta con forza la prima e significativa frattura tra esponenti della casa appartenenti al Partito comunista (la cosiddetta "cellula Giaime Pintor" (173)) e i dirigenti dello stesso. A tale divaricazione corrisponde, tra i collaboratori di Einaudi, il rafforzarsi del sentirsi parte, se non di una comunita', quantomeno di un collettivo coeso, almeno in quella circostanza: "Era un gioco di squadra, un gioco di rimandi e anche di sfumature, reso possibile dall'abitudine a lavorare insieme. Tu hai una certa posizione, benissimo, l'altro non dice niente a te, ma tu sai che sta pensando a quello che hai detto tu, e non osi neanche piu' esprimerla, questa posizione. Non e' che il collettivo fosse rituale, cerimoniale: ora discutiamo dell'Unione Sovietica, regoliamo gli orologi. E' nel modo stesso di esistere come collettivo che si formano le regole e il gioco dei contrasti" (174).
Intrecciata a tale svolta politica (e in qualche modo morale) e a conferma delle parole di Cases precedentemente citate, si assiste ad una rinnovata fase editoriale, ovvero all'intenzione di ricercare "roba scottante" e di pubblicare titoli, principalmente di attualita', che si ponessero problematicamente e criticamente rispetto a questa stagione culturale di trasformazione. Basti, per il momento, citare tre libri che vanno precisamente in questa direzione: il pamphlet fortemente antistalinista e critico nei confronti del Pci "Socialismo e verita'" di Roberto Guiducci; il reportage "Qui Budapest" sui fatti di Ungheria scritto da Luigi Fossati (gia' pubblicato sull'"Avanti!") con una prefazione di Nenni; il libro di Antonio Giolitti "Riforme e rivoluzione", che sancisce la rottura tra l'autore e il Partito comunista (di cui, peraltro, era stato uno dei principali esponenti all'interno dell'Einaudi). Inoltre, va inserita in questo contesto l'idea di riproporre il vecchio progetto (risalente al 1954, ma mai effettivamente andato in porto) della collana dei "corpuscoli" (o "opuscoli"), ovvero brevi testi di massimo cento pagine il cui scopo fondamentale era "di mettere maggiormente in risalto il legame tra la nostra attivita editoriale e i problemi vivi del nostro tempo. Sarebbero pubblicati articoli importanti tratti da riviste italiane e straniere, opuscoli inediti, documenti, discorsi, vecchi scritti la cui pubblicazione puo' costituire, a un certo momento, una battuta importante in una discussione su un problema vivo" (175). Infine, si avvio' in quel frangente la collana di attualita' politica "Libri bianchi", il cui primo libro pubblicato fu proprio quello di Fossati con la corrispondenza da Budapest.
Per quanto fin qui e' stato riferito, risulta facile comprendere come il tentativo einaudiano di essere punto di riferimento per il "disgelo" in Italia non potesse essere affatto accettato senza difficolta' da parte di Botteghe oscure. Ne costituiscono un'importante testimonianza le lettere che durante l'inverno 1956-1957 si scambiarono Giulio Einaudi e Mario Alicata. La discussione verteva, in superficie, su questioni legate a scelte editoriali (come tra l'altro la possibilita', soprattutto dopo che Muscetta ne aveva lasciato la direzione, che Einaudi continuasse a stampare la rivista "Societa'", di fatto organo culturale del Pci, oppure l'apertura e l'interesse del partito nei confronti della casa editrice milanese Feltrinelli, fondata nel 1954). Ma in realta' la vera questione (piu' o meno palesemente espressa) riguardava - ancora una volta - i rapporti futuri tra casa editrice e partito. Se, in merito agli imminenti progetti editoriali di via Biancamano, Alicata scriveva ad esempio: "[...] Scusa la nota un po' amara - ma ho appena finito di leggere il Guiducci, che comunque si voglia presentare ha scritto puramente e semplicemente un pamphlet anticomunista, per apprendere che e' gia pronto un volume di Fossati - di cui ben ricordo gli articoli sull'Avanti - sui fatti ungheresi..." (176), lamentando, quindi, la linea apertamente contraria rispetto a quella ufficiale comunista di queste scelte; Einaudi - da parte sua e pur con tutte le cautele del caso - cercava di insistere sulla necessita' che la casa editrice imboccasse una via che marcasse una sempre maggiore distanza e, se non indipendenza, sicuramente autonomia rispetto alle scelte culturali del Pci (177). Significativa in questo senso e' anche la testimonianza dello stesso Einaudi rilasciata a Severino Cesari nel suo libro-intervista: "Non che noi alla Einaudi abbiamo creduto a lungo [al mito di Stalin e dell'Unione Sovietica], no. Nel '56 ci chiamarono 'quei controrivoluzionari della cellula Einaudi', e Antonio Giolitti, forse il piu' esposto di noi verso il Pci, il marxista piu' convinto anche in senso politico, colui che aveva appunto determinato nei fatti, sul finire degli anni Quaranta, la fine di ogni residuo di liberismo einaudiano originario in economia, a favore di quei libri di politica economica programmata, fu proprio Giolitti in primissima fila nella battaglia interna al Pci, seguito da Italo Calvino. La mia posizione sui fatti d'Ungheria, ad esempio, e' nota; mandai un fonogramma a Togliatti, e Togliatti rispose con una lettera del 29 ottobre 1956 dicendosi d'accordo nella sostanza con me, e giudicando l'intervento sovietico in Ungheria 'cosa grave, pericolosa e dannosa', pur aggiungendo di essere stato costretto a esprimere con molta prudenza tale giudizio perche' 'lontani dai fatti e un giudizio secondo noi giusto poteva non esserlo affatto nelle condizioni in cui si svolgeva la lotta di Budapest'. E aggiungeva: 'Come vedi, il governo ungherese si e' mosso nella direzione del ritiro'" (178). Evidentemente - a parte un'altra prova delle cosiddetta "altalena di Togliatti" (179) - la distanza che si e' aperta in questa occasione tra casa editrice e Partito comunista aveva assunto un'ampiezza tale da poter essere ricomposta solo con grande difficolta' e a prezzo di uno sforzo che nessuno dei due soggetti pareva voler fare. Ci pare, inoltre, che gia' a partire da questo periodo si possa leggere chiaramente un cambiamento paradigmatico nelle scelte della casa editrice in cerca di nuovi spazi culturali, di nuove strategie industriali e commerciali, oltreche' di nuovi referenti politici ed economici. Ed in effetti, in quello stesso torno di tempo, alcuni degli esponenti comunisti che avevano un ruolo di primissimo piano anche all'interno della casa editrice lasciarono definitivamente il partito: tra la fine del 1956 e l'estate del 1957 si dimisero o non rinnovarono piu la tessera Bollati, Foa', Calvino, Muscetta, Cantimori e Giolitti (180).
*
Note
157. Cfr. R. D'Agata, Disfatta mondiale, Odradek, Roma 2007, p. 92.
158. Chruscev lesse il suo intervento a porte chiuse, ovvero dopo che tutti i delegati stranieri vennero fatti allontanare. Tuttavia, il 26 marzo, il "New York Times" pubblico' un articolo del suo ex corrispondente da Mosca, Harrison Salisbury. Questi - servendosi di un rapporto dell'ambasciatore degli Stati Uniti in Urss Charles Bohlen - ricostruiva per sommi capi il discorso "segreto" pronunciato dal leader sovietico la notte tra il 24 e il 25 febbraio davanti ai congressisti del Pcus. Ne emerge l'abbozzo di un quadro che successivi dettagli potranno completare e arricchire, ma non modificare nella sostanza. In Italia "l'Unita'" e "l'Avanti!" sono gli unici giornali a non far subito parola dello scoop di Salisbury. Cfr. N. Ajello, cit., p. 367.
159. F. Marek, "La disgregazione dello stalinismo", in E. J. Hobsbawm (a cura di), Storia del marxismo, volume terzo, Il marxismo nell'eta' della terza internazionale, II, Dalla crisi del '29 al XX Congresso, Einaudi, Torino 1982, p. 819.
160. P. Spriano, "Marxismo e storicismo in Togliatti", in E. J. Hobsbawm (a cura di), cit. p. 789.
161. Ibidem, p. 790.
162. F. Fortini, Dieci inverni, 1947-1957. Contributo ad un discorso socialista, De Donato, Bari 1973, p. 264.
163. Ibidem, p. 290.
164. N. Ajello, cit., p. 410.
165. F. Fortini, Dieci inverni, 1947-1957, Cit., p. 283: "Se i vostri intellettuali e i vostri studenti potessero sapere quali sconvolgimenti ha provocato, fra i lavoratori e gli intellettuali progressisti italiani, la notizia degli eventi di Ungheria; e quale obiettivo aiuto vien dato al fascismo potenziale italiano e europeo, quale rovina del lavoro e della speranza di lunghi anni abbia seguito le vostre decisioni militari; potessero sapere e vedere, sono certo che manifesterebbero la loro opinione, il loro giudizio morale e politico, e percio' culturale, sulle conseguenze, in Occidente, dell'intervento armato a Budapest".
166. C. Cases, S. Timpanaro (a cura di L. Baranelli), Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, Scuola Normale Superiore, Pisa 2004, p. 14. Si tratta della lettera di Timpanaro a Cases del 24 novembre 1956.
167. Ibidem, p. 21. Lettera di Cases a Timpanaro del 31 gennaio 1957.
168. N. Ajello, cit., p. 444.
169. Un esempio e' dato dalla polemica sviluppatasi sulle pagine della rivista del Pci "Il Contemporaneo" (fondata nel 1954 e diretta da Salinari e Trombadori) a cui parteciparono, tra gli altri, Calvino, Pasolini, Fortini, Bollati, Muscetta. Il "Dibattito sulla cultura marxista" (ovvero "Conformismo e Marxismo") si proponeva di esaminare i rapporti tra politica e cultura alla luce degli interrogativi e dei nuovi problemi aperti dal XX Congresso. Tra i vari punti che vengono affrontanti durante i diversi interventi "quello di gran lunga piu importante concerne l'attacco che numerosi dibattitori muovono alla linea imposta dai responsabili culturali del Pci su ispirazione di Togliatti: cioe', in sostanza, all'ossequio nei riguardi della tradizione dell'idealismo italiano. Questa tradizione viene considerata invadente, anacronistica, fonte di ritardi e sordita', incurante di quanto di positivo esiste nelle "nuove filosofie", denigratrice di antiche e illustri scuole di pensiero, responsabile delle sensazioni d'impotenza, dei complessi, delle paralisi che colgono i comunisti di fronte ai problemi esplosi nella vita
produttiva e sindacale", ovvero - come esemplifica compiutamente il titolo dell'intervento del filosofo
Ludovico Geymonat - "Troppo idealismo". Cfr. N. Ajello, cit., p. 374 sgg.
170. L. Mangoni, cit., p. 854.
171. Ibidem, p. 857.
172. Citato in: N. Ajello, cit., p. 395.
173. A proposito della repressione sovietica del movimento di rivolta ungherese e alla mancata presa di posizione del Pci, gli esponenti di questa cellula scrivono tra l'altro: "sia sconfessato l'operato della direzione [del partito]; si dichiari apertamente la nostra piena solidarieta' con i movimenti popolari polacco e ungherese e con i comunisti che non hanno abbandonato le masse protese verso un radicale rinnovamento dei metodi e degli uomini", citato in N. Ajello, cit., p. 535, nota 13.
174. S. Cesari, cit., p. 67.
175. L. Mangoni, cit., p. 862, nota 910.
176. Ibidem, p. 865.
177. Ibidem, p. 864.
178. S. Cesari, cit., p. 64.
179. Cfr. N. Ajello, cit., a proposito della famosa intervista di Togliatti a "Nuovi Argomenti", p. 380.
180. L. Mangoni, cit., p. 866 e N. Ajello, cit., p. 438. Quello di non rinnovare la tessera era un modo adottato da molti intellettuali (o comunque personaggi di primo piano della societa' italiana) per lasciare il Partito senza provocare troppo scalpore. Secondo la ricostruzione di Ajello, Giolitti lascio' il Partito comunista in seguito alla pubblicazione del suo saggio "Riforme e rivoluzione" e, soprattutto, dopo le polemiche che ne scaturirono sulle pagine dei giornali e delle riviste di partito in cui lo si accusava, tra l'altro, di "revisionismo". Calvino fara' riferimento alla vicenda di Giolitti nella sua lettera con cui comunichera' le proprie dimissioni. Scrive ad esempio Ajello: "Lo scrittore [Calvino] rievoca in questo messaggio di saluto, la speranza che il 1956 fosse 'veramente l'anno del rinnovamento e rafforzamento del partito' e la conseguente delusione nel constatare che il Pci, anziche' battersi contro i dogmatismi, ha posto 'l'accento sulla lotta contro i cosiddetti "revisionisti" e si e' chiuso in un sostanziale conservatorismo'". Inoltre, sulla rivista "Citta' aperta" (fondata in quegli stessi mesi da intellettuali comunisti di vari interessi ma su posizioni critiche e talvolta apertamente dissenzienti rispetto al
partito) esce il suo racconto "La grande bonaccia delle Antille", una satira assai scoperta sull'immobilismo di Togliatti (a cui risponde su "Rinascita" Maurizio Ferrara facendo a sua volta uso di una "parabola marinara"). Cfr. p. 440.
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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Numero 708 del 9 giugno 2015
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