Nonviolenza. Femminile plurale. 309



 

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Numero 309 del 29 marzo 2011

 

In questo numero:

1. L'"Associazione italiana medici per l'ambiente" continua nell'impegno di informare i cittadini sul problema arsenico

2. Alcuni estratti da "Beni comuni vs merci" di Giovanna Ricoveri

3. Alessandra De Perini presenta "Speranza nel buio" di Rebecca Solnit

 

1. INCONTRI. L'"ASSOCIAZIONE ITALIANA MEDICI PER L'AMBIENTE" CONTINUA NELL'IMPEGNO DI INFORMARE I CITTADINI SUL PROBLEMA ARSENICO

[Dall'"Associazione italiana medici per l'ambiente" (per contatti: isde.viterbo at gmail.com) riceviamo e diffondiamo.

Antonella Litta svolge l'attivita' di medico di medicina generale a Nepi. E' specialista in Reumatologia ed ha condotto una intensa attivita' di ricerca scientifica presso l'Universita' di Roma "la Sapienza" e contribuito alla realizzazione di uno tra i primi e piu' importanti studi scientifici italiani sull'interazione tra campi elettromagnetici e sistemi viventi, pubblicato sulla prestigiosa rivista "Clinical and Esperimental Rheumatology", n. 11, pp. 41-47, 1993. E' referente locale dell'Associazione italiana medici per l'ambiente (International Society of Doctors for the Environment - Italia) e per questa associazione e' responsabile e coordinatrice nazionale del gruppo di studio su "Trasporto aereo come fattore d'inquinamento ambientale e danno alla salute". E' referente per l'Ordine dei medici di Viterbo per l'iniziativa congiunta Fnomceo-Isde "Tutela del diritto individuale e collettivo alla salute e ad un ambiente salubre". Gia' responsabile dell'associazione Aires-onlus (Associazione internazionale ricerca e salute) e' stata organizzatrice di numerosi convegni medico-scientifici. Presta attivita' di medico volontario nei paesi africani. E' stata consigliera comunale. E' partecipe e sostenitrice di programmi di solidarieta' locali ed internazionali. Presidente del Comitato "Nepi per la pace", e' impegnata in progetti di educazione alla pace, alla legalita', alla nonviolenza e al rispetto dell'ambiente. E' la portavoce del Comitato che si oppone al mega-aeroporto di Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto aereo, in difesa della salute, dell'ambiente, della democrazia, dei diritti di tutti. Come rappresentante dell'Associazione italiana medici per l'ambiente (Isde-Italia) ha promosso una rilevante iniziativa per il risanamento delle acque del lago di Vico e in difesa della salute della popolazione dei comuni circumlacuali. E' oggi in Italia figura di riferimento nella denuncia della presenza dell'arsenico nelle acque destinate a consumo umano, e nella proposta di iniziative specifiche e adeguate da parte delle istituzioni per la dearsenificazione delle acque e la difesa della salute della popolazione]

 

La dottoressa Antonella Litta, referente dell'Associazione italiana medici per l'ambiente -Isde (International Society of Doctors for the Environment - Italia), e' intervenuta come relatrice in vari incontri pubblici, svoltisi a Viterbo il 9 e 29 gennaio, a Capranica il 10 marzo, a Pomezia il 26 marzo e a Grotte di Castro il 27 marzo 2011, presentando relazioni medico-scientifiche sul tema: "L'arsenico nelle acque destinate a consumo umano: problematiche ambientali e sanitarie, e proposte d'intervento".

Nel corso delle relazioni la dottoressa Litta ha presentato in maniera rigorosa e documentata i meccanismi di azione e d'interazione dell'arsenico, elemento tossico e cancerogeno, e le patologie neoplastiche e le malattie correlate all'esposizione cronica a questo elemento soprattutto attraverso l'assunzione cronica di acque contaminate e di alimenti preparati con le stesse.

La dottoressa Litta ha inoltre illustrato le proposte dell'"Associazione italiana medici per l'ambiente" per realizzare subito interventi efficaci per fornire di acqua dearsenificata alle popolazioni e ha ricordato come la comunita' scientifica internazionale e l'Organizzazione mondiale della sanita' indicano e auspicano come obiettivo di qualita' un contenuto di arsenico pari a zero (o al piu' e in via transitoria di 5 microgrammi/litro) nelle acque destinate a consumo umano come vera ed unica tutela della salute pubblica.

 

2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "BENI COMUNI VS MERCI" DI GIOVANNA RICOVERI

[Dal sito www.recalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Giovanna Ricoveri, Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010, pp. 114.

Giovanna Ricoveri, direttrice responsabile e principale animatrice della rivista "CNS Capitalismo Natura Socialismo - Ecologia Politica", intellettuale della sinistra critica, economista, collaboratrice di James O'Connor, particolarmente impegnata sui temi dell'ecologia e della critica del modello di sviluppo dominante, e' tra le studiose e militanti piu' rilevanti della riflessione e dell'impegno ecologista. Tra le opere di Giovanna Ricoveri: (a cura di), Capitalismo Natura Socialismo, Jaca Book, Milano 2006; Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010]

 

Indice del volume

Ringraziamenti; Introduzione. I beni comuni salveranno il mondo? Capitolo primo. Di che cosa stiamo parlando. I beni comuni: un caleidoscopio; Beni comuni a geometria variabile; Empedocle e i quattro elementi; Madre Natura e i servizi ecosistemici; La proprieta': comune, collettiva, pubblica, privata, statale; La comunita', ieri e oggi: un concetto controverso; La tragedia dei beni comuni? Capitolo secondo. La delegittimazione dei beni comuni: un excursus storico. La Rivoluzione industriale tra prima e seconda accumulazione originaria; Il riduzionismo scientifico e la "Morte della Natura"; La mano invisibile e l'homo oeconomicus; Capitolo terzo. Le conseguenze: distruzione di ricchezza a mezzo merci. Premesse ed esiti della crisi: vincitori e vinti; Le nuove recinzioni al Nord e al Sud; Colonialismo e neocolonialismo come politiche di recinzione; Il colonialismo sotto mentite spoglie: lo "sviluppo"; Il consenso tra menzogne e omologazione; Capitolo quarto. Tutto il potere ai commons. Finanziarizzazione: il cancro che divora i beni comuni; Il ritorno dei beni comuni: una proposta; Il territorio e l'empowerment delle comunita'; La democrazia reale, la politica e l'ecologia politica; Bibliografia essenziale.

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Da pagina 11

Introduzione. I beni comuni salveranno il mondo?

Agli inizi del terzo millennio, le frontiere del profitto si sono spostate sui beni comuni e sui beni pubblici. Si tratta di un patrimonio consolidato di beni naturali, di infrastrutture e di servizi il cui valore e' aumentato via via, grazie al lavoro, all'ingegno e al risparmio delle popolazioni locali - una ricchezza collettiva molto appetibile per le grandi multinazionali e per la finanza. Una riprova del fatto che i beni comuni non sono un retaggio del passato, ne' una realta' che riguarda solo i "poveri" nei paesi in ritardo di sviluppo del Sud globale, ma una realta' ambita dal capitale e dalla finanza.

Il concetto di beni comuni ha subito nel tempo cambiamenti profondi: da una parte si e' dilatato fino a diventare un termine di uso corrente per indicare i beni e servizi cui tutti dovrebbero avere accesso: cibo, acqua, farmaci, energia, salute, istruzione, spazio pubblico. Per affermare la natura collettiva di questi beni e servizi - molti dei quali considerati anche diritti umani - ne viene rivendicata la proprieta' e gestione pubblica, e cioe' dello Stato. L'assunto che pubblico e statale siano la stessa cosa, proprio della cultura giuridica dei paesi di tradizione giuridica napoleonica, comincia finalmente ad essere messo in discussione: l'evidenza indica infatti che lo Stato non svolge piu' la funzione di terzieta' rispetto alle imprese e ai cittadini, essendosi spostato dalla parte delle multinazionali, del profitto monopolistico e della finanza.

Il significato del concetto di beni comuni si e' nello stesso tempo ristretto tanto da far passare in secondo piano i beni comuni naturali, ancora attuali in molte parti del Sud globale, dove un terzo della popolazione mondiale vive nelle campagne e nelle vicine foreste e trae il proprio sostentamento direttamente dal libero accesso alle risorse naturali di sussistenza. Nella cultura occidentale, estesasi anche nel Sud del mondo, e' ormai radicata la convinzione che le comunita' non esistono piu' ed e' bene che sia cosi', perche' esse rappresenterebbero un ostacolo alla modernizzazione. E' caduto dunque sui beni comuni lo stesso anatema che ha marginalizzato e distrutto i contadini e l'agricoltura contadina agli inizi del secolo scorso, per far posto all'agricoltura industriale. I beni comuni e le comunita' esistono invece anche nel Nord del mondo, in forme nuove all'interno dei movimenti ambientalisti e contadini, che non sono ne' percepite ne' riconosciute come tali dalla cultura dominante.

Il premio Nobel per l'economia, assegnato nel 2009 a Elinor Ostrom - la studiosa statunitense dei beni comuni della University of Indiana -, e' un segnale autorevole della vitalita' e dell'attualita' di questo modo di organizzazione sociale, produttiva e istituzionale. Il contributo del suo pensiero e' cosi' efficacemente sintetizzato da lei stessa: "Il tema centrale di questo studio e' il modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in una situazione di interdipendenza possono auto-organizzarsi e autogovernarsi per ottenere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tutti tentati di sfruttare le risorse gratuitamente, evadere i contributi o comunque agire in modo opportunistico".

Affrontare il tema dei beni comuni "materiali naturali" oggi, nel pieno della globalizzazione neoliberista e della sua crisi, e' facile e difficile allo stesso tempo: facile perche' la crisi del capitalismo e degli assiomi, grazie ai quali quel sistema si e' esteso al mondo intero negli ultimi 250 anni, favorisce "oggettivamente" la "riproposizione" riveduta e corretta dei beni comuni come modello di organizzazione sociale e culturale "altra" rispetto a quella della mano invisibile o scambio di equivalenti. Difficile perche' íl dominio economico e culturale conquistato dal mercato capitalistico e' penetrato a fondo in tutti gli aspetti della societa', cancellando non solo la conoscenza di altri modi di pensare e operare, ma anche la percezione delle alternative possibili che, se prese in considerazione, aprirebbero molte altre strade. In questo modo, e' stata legittimata l'abitudine a pensare e operare in termini di monocolture della mente: "Le monocolture della mente cancellano la percezione della diversita' e insieme la diversita' stessa. La scomparsa della diversita' fa scomparire le alternative e crea la sindrome della 'mancanza di alternative'. Troppo spesso, di questi tempi, lo sradicamento totale della natura, della tecnologia, della comunite' e della civilizzazione intera viene giustificato dalla 'mancanza di alternative'. Le alternative ci sono, ma non sono prese in considerazione: farlo richiederebbe un diverso contesto, caratterizzato dalla diversita'".

Il testo che segue si occupa esclusivamente dei beni comuni materiali naturali (quelli legati agli elementi vitali di Empedocle: aria, acqua, terra e fuoco), considerati qui prioritari dal punto di vista della costruzione di un'alternativa al dominio del mercato capitalistico rispetto a tutti gli altri beni comuni: immateriali, culturali, welfare e servizi pubblici locali. La tesi e la proposta del libro e' che la difesa dei beni comuni (dove essi ancora esistono) e la loro riproposizione (dove sono stati cancellati) non e' tanto o soltanto un problema di giustizia distributiva delle risorse, ma la risposta piu' robusta possibile alle forze distruttive del sistema: una risposta parziale, che tuttavia - nella fase attuale di crisi del modello dominante - puo' diventare un grimaldello per avviare la costruzione di una societa' e di uno sviluppo alternativi a quelli delle merci e del mercato.

Affinche' questa proposta possa essere presa in considerazione, molte cose dovrebbero cambiare, prima fra tutte il modus operandi della politica. La politica dovrebbe essere intesa anche come "ecologia politica", nel senso di messa in conto a monte dei limiti fisici delle risorse naturali da cui dipende la ricchezza delle nazioni e di una valutazione ex ante di quali potranno essere gli effetti (ecologici e sociali) delle sue scelte. Dovrebbe inoltre diventare orizzontale, instaurando un sistema di interazione permanente tra amministratori e amministrati, governanti e governati, nelle forme adeguate alla scala territoriale delle scelte - da quelle locali fino a quelle internazionali. Occorre riconoscere infatti che nella globalizzazione la democrazia rappresentativa non e' piu' in grado di assolvere da sola questa funzione, e finisce per dare una delega in bianco ai governanti.

Un'altra ragione, che sta alla base della proposta avanzata nel testo, riguarda il significato attuale dei diritti umani individuali che, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, hanno sostituito i diritti comuni, anziche' integrare i primi con i secondi. La conquista dei diritti umani, che ha segnato un passaggio fondamentale nella vicenda dei popoli, incontra oggi forti limiti a causa della rinascita dei nazionalismi e del divampare delle guerre per il petrolio e per le risorse, millantate spesso come guerre di religione. E' lecito dunque chiedersi che valore concreto abbiano le "Carte dei diritti" approvate o proposte nelle diverse sedi internazionali, inclusa quella europea, nell'attuale fase storica caratterizzata dall'esclusione sociale, come sostiene molto autorevolmente il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos.

Forse e' arrivato il momento in cui le esperienze di riappropriazione delle risorse naturali da parte delle comunita' locali e' piu' importante, perche' "capace di futuro".

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Da pagina 17

Capitolo primo. Di cosa stiamo parlando

Partendo dalla definizione "impossibile" dei beni comuni, si passano in rassegna in questo capitolo gli elementi costitutivi dei beni comuni "storici" (acqua, terra, foreste, pascoli, pesca), legati ai beni naturali di sussistenza. Si riportano poi alcuni casi di beni comuni storici; taluni ancora in essere sia al Nord che al Sud. Si spiega subito dopo che i beni comuni naturali sono legati agli elementi vitali di Empedocle - aria, acqua, terra, fuoco-energia - e che anche per questo sono importanti e tali da ridefinire la sussistenza in termini ampi di rapporto con l'energia, il clima e l'atmosfera, la scarsita' idrica e la terra, il territorio, l'agricoltura e i servizi degli ecosistemi. Segue una riflessione sulla proprieta' privata, che almeno in relazione ai beni comuni naturali e' sicuramente un furto, e sulla comunita' in quanto soggetto naturale e multiforme dei beni comuni: proprietario e gestore, anzi, "usufruttuario".

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I beni comuni: un caleidoscopio

Non e' possibile, e sarebbe comunque sbagliato, definire in modo preciso e univoco i beni comuni, la cui forza e ragion d'essere e' la specificita' di luogo e la flessibilita' con cui le comunita' riescono ad adattarsi al variare delle situazioni. E' possibile tuttavia descriverne i tratti distintivi, e cercare di render conto - in questo modo - del perche' essi possono diventare utili, se riproposti in forme adeguate alla realta' attuale, come antidoto alla crisi del modello di sviluppo dominante. Riproporre i beni comuni anche nei paesi del Nord, nelle forme nuove adeguate alla realta' contemporanea, e' infatti un problema diverso dal riappropriarsi dei beni comuni, che e' l'obiettivo storico delle comunita' del Sud, la cui vita dipende direttamente dall'accesso ad acqua, terra, e foreste. Ancora oggi nei paesi del Sud del mondo un terzo della popolazione mondiale vive grazie alle economie locali di sussistenza, e cioe' grazie alla possibilita' di accedere ai beni comuni. Queste popolazioni o comunita' locali usano terra, foreste e acqua senza averne la proprieta', ma esercitando forme efficaci e partecipate di sovranita'. Configurano infatti un tipo di organizzazione istituzionale, sociale e produttiva alternativa al mercato capitalistico.

I beni comuni sono risorse collettive condivise, amministrate e autogestite dalle comunita' locali, che incarnano un sistema di relazioni sociali fondato sulla cooperazione e sulla dipendenza reciproca. Non sempre pero' sono risorse in senso proprio, e cioe' beni fisici o materiali - un campo da coltivare, un pascolo, un corso d'acqua, una zona di pesca. Sono anche diritti d'uso comuni o collettivi sui frutti derivanti da un bene naturale - i common rights della common law anglosassone, gli usi civici nella tradizione giuridica italiana -; le "servitu'" che gravano sui beni naturali, grazie ai quali le comunita' ricavano, o integrano, i loro mezzi di sussistenza. Un punto da chiarire riguarda il termine comunita', che puo' indicare sia il gruppo di persone che gestiscono insieme il bene naturale o godono del diritto d'uso sui suoi frutti; oppure l'autorita' di villaggio che e' proprietaria delle terre fertili da distribuire tra le famiglie del villaggio, affinche' le usino per la propria sussistenza. Questo avviene ancora oggi in molti paesi tra cui l'Etiopia, che e' uno dei casi più noti in letteratura, nella maggior parte dei paesi dell'Africa subsahariana, in tutti i paesi dell'Asia sudorientale incluse l'India e la Cina, e nei paesi andini dell'America Latina, fortemente caratterizzati dalle comunita' di villaggio, spesso indigene.

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Da pagina 95

Capitolo quarto. Tutto il potere ai commons

Il titolo di questo capitolo conclusivo non va preso alla lettera, non solo perche' lo slogan che imita, "tutto il potere ai Soviet", non porto' fortuna ai Soviet; ma perche' la proposta che di seguito si avanza non e' dare la sovranita' esclusiva sulle risorse naturali alle comunita' locali, ma recuperare la logica di solidarieta' e di cooperazione che caratterizza l'istituto dei beni comuni. Nel merito si affrontano brevemente quattro questioni: la finanziarizzazione dell'economia, che alza il livello della sfida ai beni comuni come modo di produzione e di organizzazione sociale; la riproposizione o ritorno dei beni comuni anche nei paesi industriali del Nord in questa fase storica; l'empowerment delle "nuove" comunita', come soggetti dotati della sovranita' per co-decidere sull'uso delle risorse naturali insieme agli altri soggetti gia' dotati di questo potere; il superamento della dicotomia Stato-Mercato e pubblico-privato, e la costruzione di uno spazio entro cui i beni comuni possano contribuire a ridare legittimazione allo Stato, all'intervento pubblico e alla politica. L'ecologia politica e' uno strumento per ricostruire quello spazio.

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Finanziarizzazione: il cancro che divora i beni comuni

Di fronte alla crisi globale apertasi nell'autunno del 2008, analisti e ricercatori si sono chiesti se il capitalismo sara' in grado di rinnovarsi e superare la crisi, oppure se sia giunto al capolinea. Le proposte avanzate da quanti pensano che il sistema sara' in grado di riorganizzarsi si articolano in estrema sintesi intorno a due assi: la riconversione ecologica dell'economia, una green economy a risparmio energetico o economia a bassa intensita' di carbonio, che riprenda l'ispirazione del New Deal rooseveltiano degli anni Trenta; una nuova e piu' stringente regolamentazione dei mercati finanziari, una Bretton Woods rivista alla luce dei tempi.

La proposta della green economy - un modo di produzione piu' sobrio, che risparmi le risorse naturali e induca un modello di consumo piu' frugale - esprime un punto di necessita' e di verita', ed e' pertanto utile "a prescindere". La Natura e' il piu' grande produttore al mondo di beni e servizi, da usare con parsimonia senza distruggerli: attraverso processi ecologici complessi, la Natura fornisce le risorse naturali che sono alla base di tutti i beni e servizi prodotti dall'uomo: servizi ecosistemici che nessun laboratorio potrebbe mai produrre, quali la rigenerazione delle risorse idriche, i microrganismi che fertilizzano il suolo, l'impollinazione che consente alle piante di riprodursi, e molti altri processi di circolazione della materia. La green economy e' dunque uno strumento utile, anche come base per un progetto di riconversione ecologica delle economie industriali, nei paesi dove esiste un apparato tecnologico e infrastrutturale complesso e articolato, che fa parte della ricchezza sociale di quel paese e che non deve essere appropriato dal capitale, ma destinato a fini socialmente utili.

La proposta di nuove regole da imporre alla finanza appare invece velleitaria in una fase come questa, dominata dalla finanziarizzazione che ha imposto le sue finalita' speculative a tutti i settori dell'economia - industria, agricoltura e servizi -. Schematizzando, si puo' dire infatti che l'economia si articola su tre livelli: quello della finanza, che produce "ricchezza virtuale", fatta di debiti che crescono su se stessi; quello "reale", o economia produttiva, che non puo' crescere tanto da coprire i debiti, se i debiti sono fuori controllo; e il livello "reale-reale", cioe' l'economia dell'energia e dei flussi di materia, che cresce appena o non cresce affatto: gli stock di carbone e petrolio diminuiscono, cosi' come e' limitata la capacita' degli ecosistemi di assorbire anidride carbonica.

Il fine dell'economia dovrebbe essere il benessere e la felicita', la buona occupazione, non la speculazione. Ma e' lecito dubitare che questi obiettivi possano essere raggiunti nel regno della finanza, e che bastino regole piu' stringenti per contenerne la logica distruttiva. L'economia di carta e' un cancro che ha contagiato tutti i settori dell'economia e della societa', facendo fare un ulteriore passo avanti alla privatizzazione delle risorse e dei beni comuni: favorisce il malaffare, il traffico della droga e la camorra. Marcia a vele spiegate sia nell'edilizia e nelle infrastrutture sia nei servizi, dove la finanziarizzazione e' legittimata dal Wto: nato al fine preciso di aumentare il commercio internazionale, e' stato pertanto accompagnato da uno degli accordi collegati - il Gats, l'accordo sui servizi - che del Wto e' la logica conseguenza, il braccio armato. La finanza e' entrata con determinazione - recentemente - nel settore agroalimentare, dove gli investimenti finanziari si sono moltiplicati di 20 volte dal 2003, con ripercussioni pesantissime sui prezzi; dove la terra fertile e' diventata - con il fenomeno del land grabbing - un importante settore di investimento internazionale, che condiziona a monte le scelte degli operatori del settore: la Cina ad esempio si sta comprando mezza Africa.

Il caso piu consolidato e'  quello dell'industria manifatturiera, che e' ormai parte integrante della finanza. Cio' spiega perche' una crisi apparentemente finanziaria come quella attuale si sia subito trasformata in crisi verticale dell'occupazione in generale e di quella industriale in particolare. Il nesso tra questi due elementi non sta tanto nella spiegazione che viene normalmente addotta, secondo cui le banche - colpite o minacciate dalla crisi - hanno ridotto il credito alle imprese, che sono cosi' state costrette a ridurre il livello di attivita' e i posti di lavoro. Il nesso vero sta nella trasformazione della natura dell'impresa, che la finanza ha imposto all'industria da quando alcune decine di anni fa gli investitori istituzionali - fondi comuni, fondi pensione e assicurazioni - si sono impadroniti di oltre il 50% del capitale delle societa' quotate in Borsa, in media a livello globale.

Cio' ha loro permesso di imporre all'industria una nuova concezione dell'impresa, coerente con i fini speculativi che le sono propri: l'impresa non e' piu' un'organizzazione di parti interdipendenti sia in senso economico che sociale, che tocca gli interessi di una pluralita' di soggetti: azionisti, dipendenti, fornitori, comunita' locali (oggi ridefinite territorio), verso i quali sa di essere "responsabile". E' diventata invece un insieme di attivita' (cose materiali che si producono ma anche assets finanziari e futures) connesse temporaneamente tra di loro da un contratto; e' diventata dunque "irresponsabile". Ciascuna componente dell'impresa - un impianto, un ufficio vendite, un'impresa di pulizie - e' costantemente monitorata per verificarne il rendimento finanziario, che deve risultare eguale o superiore a quello dei suoi concorrenti sul mercato globale, pena la ristrutturazione, vendita o chiusura, con effetti comunque negativi sull'occupazione. I costi della disoccupazione cosi' creata vengono addossati allo Stato del paese di insediamento dell'unita' produttiva ristrutturata o chiusa: la solita socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni, spinta agli estremi.

Un altro aspetto della finanziarizzazione dell'industria manifatturiera e' l'esternalizzazione della produzione a scala mondiale. L'integrazione verticale del processo produttivo e' stata sostituita dal coordinamento orizzontale, affidato a un gruppo ristretto di persone che controllano centinaia o migliaia di produttori sparsi per il mondo. Prima l'impresa mirava a produrre al suo interno tutte le parti necessarie al prodotto finito; oggi, non vorrebbe produrre piu' niente, ma solo coordinare l'attivita' dei piccoli produttori sparsi in tutti i continenti, dei quali si puo' liberare in qualsiasi momento, anche per posta elettronica. I vantaggi per l'impresa sono consistenti in termini di profitti; i costi lo sono altrettanto sia per i lavoratori (aumento della precarieta', bassi salari, perdita della pensione e dell'assistenza sanitaria, debolezza del sindacato) sia per i cittadini, visto che le perdite sono socializzate.

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Il ritorno dei beni comuni: una proposta

La sfida e' oggettivamente complessa, soprattutto perche' nella societa' dei consumi di massa e' passata la convinzione che le banche e la finanza siano necessarie, anzi, indispensabili. La ribellione popolare che normalmente esplode contro le misure di austerita' decretate dai governi per ripagare i debiti contratti per far fronte ai dissesti finanziari delle banche e della finanza - come e' successo nel 2010 nei paesi europei denominati Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna - non arriva mai al nocciolo della questione: dire con chiarezza che l'economia finanziaria e' un'economia "parallela" e parassitaria, dove non si crea ricchezza ma la si distrugge. E' lo strumento con cui le classi dominanti vivono a scapito delle classi subalterne, sulle cui spalle viene scaricato il prezzo della speculazione: cosi' facendo, esse vivono alla grande, mentre la maggioranza della popolazione fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. D'altra parte, e' vero che la denuncia di questa economia parassitaria richiederebbe molto coraggio da parte dei governi, a meno che non fossero fortemente sostenuti da un'opinione pubblica consapevole e determinata.

L'economia finanziaria e' la negazione "estrema" dell'economia dei beni comuni, intesi non solo come beni naturali di sussistenza, ma come un sistema istituzionale, sociale e produttivo alternativo a quello delle merci. Un paradigma "altro" rispetto al mercato, che privilegia il locale e non il globale; la solidarieta' e non la concorrenza; i consumi collettivi, e non quelli individuali; le energie rinnovabili decentrate e non quelle fossili controllate da una decina di multinazionali, localizzate in una decina di paesi; l'agricoltura contadina e di prossimita' e i cicli corti, non quella industriale che distrugge la fertilita' dei suoli, aumenta la fame nel mondo, crea insicurezza alimentare e minaccia la biodiversita'; il controllo idrogeologico del territorio; la rigenerazione dei cicli vitali della natura; i saperi e le culture locali.

Per rispondere a questa sfida e impedire che le ragioni del capitale travolgano la societa' contemporanea, occorre rispondere al capitale sul suo stesso terreno, rilanciando l'esperienza dei beni comuni e delle comunita', dando voce alle popolazioni che le multinazionali espropriano e sfruttano. Occorrerebbe in buona sostanza mettere in campo risposte altrettanto radicali anche se non esaustive, una delle quali e' sicuramente il ritorno dei beni comuni legati alle risorse naturali, incluse quelle minerarie ed energetiche, come chiedono decine di organizzazioni della societa' civile dei paesi del Sud tra cui Indonesia, Filippine, Sri Lanka, Nigeria, Ghana, Sudafrica ed Ecuador. Il ritorno dei beni comuni di cui si parla in questa sede e' altra cosa dalla riappropriazione dei beni comuni, che esprime la rivendicazione delle popolazioni locali - in particolare nel Sud del mondo - per arginare il saccheggio delle risorse naturali dalle quali dipende la loro sopravvivenza.

Le associazioni e i movimenti che lottano in difesa delle risorse e della sostenibilita' locale esprimono le istanze provenienti dal territorio e possono essere considerate come le nuove comunita'. Sono i soggetti che gia' esistono e operano in tutti i paesi del mondo al Nord e al Sud, pur essendo privi di soggettivita' giuridica e di sovranita' sulle risorse. E questo e' vero dovunque, con poche eccezioni: Bolivia ed Ecuador, dove la nuova Carta costituzionale riconosce sia i diritti della Natura sia la sovranita' delle comunita' indigene, e i paesi ancora caratterizzati dalle comunita' di villaggio come l'India. Altrove, le nuove comunita' locali sono messe peggio di quelle "storiche", che ricevevano questa investitura dalla common law o dal diritto consuetudinario. Hanno pertanto vita difficile perche' osteggiate in tutti i modi possibili: con l'indifferenza dei pubblici poteri, con il taglio dei fondi loro riservati, con l'esproprio per pubblica utilita' delle risorse o dello spazio su cui operano, e soprattutto con il mancato riconoscimento della loro sovranita' a decidere o co-decidere su quelle risorse o su quello spazio.

Occorre chiarire che la proposta di nuove comunita' qui avanzata dovrebbe essere "problematizzata" per compensare le differenze naturali, storiche e geopolitiche dei territori e per tener conto del fatto che la natura umana e le comunita' non sono sempre "buone". Il ritorno al territorio, in risposta alla globalizzazione e alla finanziarizzazione, non dara' infatti i frutti sperati se le nuove comunita' non saranno cosmopolite, aperte, solidali, capaci di valorizzare le specificita' locali come leva per la valorizzazione delle differenze. E' compito della politica fare in modo che cio' avvenga, ma non e' detto che la buona politica esista sempre e dovunque: sarebbe pero' sbagliato - e soprattutto privo di efficacia - entrare nei dettagli operativi e redistributivi della proposta, prima che si sia consolidata la sua logica generale, tendente a limitare l'attuale centralizzazione del potere economico e di quello politico.

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Il territorio e l'empowerment delle comunita'

Per essere ancora piu' precisi, si avanza qui la proposta di rilanciare - riveduta e corretta - un'esperienza storica di organizzazione produttiva, sociale e istituzionale ancora vitale, capace di esprimere un'alternativa al mercato, basata sui rapporti concreti tra le persone e non su quelli astratti del mercato, che assicuri l'efficienza economica e la sostenibilita' sociale ed ecologica delle risorse naturali, e favorisca nel contempo l'empowerment delle comunita' quanto a decidere su quel che le riguarda. Il termine empowerment, coniato dal movimento femminista e dagli studi di genere, indica la capacita' di un soggetto di contare, perche' ha acquisito la consapevolezza della sua identita' e forza, ottenendone il riconoscimento da parte degli altri soggetti. In estrema sintesi, la tesi che si avanza e' che sia necessario e possibile rilanciare i beni comuni naturali come antidoto alla mercificazione e alla distruzione del mondo e quindi alla crisi globale del capitalismo in questa fase storica.

La ragione principale di questa proposta sta nella convinzione che il recupero dei diritti delle comunita' sui beni comuni e la riappropriazione da parte delle comunita' di risorse naturali come l'acqua e le fonti energetiche (rinnovabili e non rinnovabili) e delle risorse minerarie - i beni demaniali di proprieta' statale, di cui gli Stati concedono lo "sfruttamento" alle multinazionali, spesso senza limiti ne' condizioni - configurano un nuovo paradigma di societa' organizzata a livello locale e partecipazione democratica, integrativo e in parte sostitutivo di quello del mercato. L'agricoltura organica di prossimita', i cicli corti, la riduzione dei costi energetici dei trasporti, la gestione comunitaria dell'acqua, e piu' in generale il controllo democratico del territorio e delle risorse locali da parte delle comunita', possono fare la differenza e rilegittimare l'intervento pubblico, oggi ridotto alla copertura di interessi privati, distruttivi della natura e spesso dominati dalla corruzione e dalle mafie, nazionali e internazionali. A condizione che le moderne comunita' siano aperte verso l'esterno e cosmopolite, non arroccate in difesa di interessi locali corporativi: che siano capaci di perseguire vantaggi collettivi permanenti vincendo la tentazione di agire in modo opportunistico, come dice Elinor Ostrom nel passo riportato nell'introduzione.

 

3. LIBRI. ALESSANDRA DE PERINI PRESENTA "SPERANZA NEL BUIO" DI REBECCA SOLNIT

[Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo la seguente recensione apparsa su "Autogestione e politica prima" n. 4 di ottobre-novembre 2010 col titolo "Buone pratiche di vicinato e di prossimita'".

Su Alessandra De Perini dal sito "Donne e conoscenza storica" riprendiamo la seguente scheda (abbiamo omesso le note): "Vive a Mestre dove insegna Italiano in un Istituto tecnico statale. Nei primi anni Settanta, ha dato vita, insieme ad altre, a Lotta femminista di Venezia, impegnandosi, fino al 1976, nelle analisi, le azioni di denuncia e le manifestazioni del femminismo rivendicativo. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta riflette in un piccolo gruppo sulla recente esperienza femminista, prendendone le distanze, ma riconoscendone, insieme agli errori, le forme ideologiche e le forti contraddizioni, l'eredita' piu' significativa: le libere relazioni femminili. Dal 1982 al 1985, insieme alla bibliotecaria del Centro Donna di Mestre Marisa Bettini, si rende responsabile di incontri allargati per ragionare insieme ad altre sul "piacere e il sapere dei rapporti fra donne" e confrontare percorsi, modificazioni soggettive e nuovi stili di vita. Tra la fine del 1984 e il 1987 ha la possibilita' di partecipare agli incontri mensili di Diotima, la comunita' di filosofe dell'Universita' di Verona, il cui lavoro ha dato inizio al pensiero della differenza in Italia. Dal 1987, prima con le amiche dell'associazione La rete della differenza, poi, nei primi anni Novanta, con Le Vicine di casa, si impegna a fare e pensare la differenza nella sua citta'. Insieme con Luana Zanella, Nadia Lucchesi, Daniela Bettella, Piera Moretti, Paola Nordio, Annalisa Paoloni, Cristina Bergamasco, Lucia Scrivant e Lucia Pitteri organizza momenti pubblici di confronto sui grandi problemi del mondo attuale: il lavoro, la scuola, la guerra, il degrado urbano, l'immigrazione povera dal Sud e dall'Est del mondo, la prostituzione, mettendo in luce la differenza tra le forme della politica tese ad un salto di qualita' nei rapporti umani e quelle che producono strutture di potere, ideologie, mercificazione e alienazione. Con il contributo del Centro Donna o di alcune istituzioni cittadine, invita a parlare a Mestre filosofe, scrittrici, libere pensatrici, donne che, a partire da una critica radicale ai vuoti rituali della cultura dominante, hanno indicato nelle relazioni la via per un cambiamento reale e profondo della societa'. Fa parte della redazione di "Via Dogana", la rivista delle donne della Libreria di Milano, oggi edita a Mantova, promuovendone fin dall'inizio la diffusione a Mestre, attraverso numerosi dibattiti, pubbliche iniziative, incontri fra lettrici. Ha partecipato alla discussione e alla stesura dell'ultimo numero di Sottosopra, periodico della Libreria delle donne di Milano, intitolato "E' accaduto non per caso", un testo diffuso in migliaia di copie che ha avuto ampia risonanza sulla stampa nazionale e internazionale, nel quale si parla della fine del patriarcato come di un evento storico e simbolico con cui e' necessario fare i conti per capire il difficile presente e cogliere le premesse di un nuovo cammino dell'umanita'. Dal 1993 ha scritto, o firmato con altre, numerosi testi per l'Osservatorio della rivista trimestrale "Esodo"; conduce corsi di Storia delle donne, promossi dalle Vicine di casa, da istituzioni o associazioni cittadine, assessorati, scuole, gruppi politici e culturali di altre citta'. Numerosi sono gli interventi, gli incontri e le "conversazioni" riguardanti "l'oro" delle Vicine di casa".

Rebecca Solnit e' un'intellettuale, scrittrice e attivista pacifista americana, autrice di diverse opere che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti; vive a San Francisco e per il suo impegno culturale e politico e' considerata l'erede di Susan Sontag. Riportiamo anche la scheda biobibliografica in calce a un'intervista a cura di Marco D'Eramo apparsa sul quotidiano "Il manifesto" e ripresa in "Coi piedi per terra" n. 133 del 5 novembre 2008: "Rebecca Solnit ha studiato a Parigi, e' una collaboratrice regolare di "Harper's", ha vinto nel 2004 il National Book Critics Circle Award (il premio nazionale dei critici americani). Ha scritto finora tredici libri e oltre venti saggi in volumi collettivi. Il testo di cui si discute nell'intervista, Hope in the Dark, e' del 2004 ed e' stato tradotto in coreano, francese, giapponese, olandese, svedese, tedesco; in Italia e' uscito nel 2005 presso Fandango libri col titolo Speranza nel buio, in cui rischia di perdersi il gioco di parole inglese: "in the dark" significa anche "essere all'oscuro", l'oscurita' di cio' che e' ignoto. Tra i suoi altri volumi, Savage Dreams: A Journey into the Landscape Wars of the American West (Sogni selvaggi: un viaggio nelle guerre di paesaggio del West americano, Sierra Club Books 1994, riedito nel 1995 e 1999), su Yosemity Park e i test nucleari in Nevada; Wanderlust: A History of Walking (Viking/Penguin 2000), tradotto in italiano presso la Bruno Mondadori (Storia del camminare, 2005); Hollow City: The Siege of San Francisco and the Crisis of American Urbanism (Citta' vuota: l'assedio di San Francisco e la crisi dell'urbanismo americano, Verso 2001); As Eve Said to the Serpent. On Landscape, Gender and Art (Come Eva disse al serpente: su paesaggio, genere e arte, University of Georgia Press 2001), River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West (Fiume di ombre: Eadweard Muybridge e il tecnologico selvaggio West, Viking 2003); Storming the Gates of Paradise: Landscapes for Politics (All'assalto del paradiso: paesaggi per la politica, UC Press 2007). Il suo testo piu' recente, cui si fa cenno anche nell'intervista, e' News from Nowhere: Iceland's polite dystopia, sull'Islanda, uscito nel numero di ottobre 2008 della rivista "Harper's"". Opere di Rebecca Solnit: Savage Dreams: A Journey Into the Landscape Wars of the American West (1994); Book of Migrations: Some Passages in Ireland (1998); (con Susan Schwartzenberg), Hollow City: The Siege of San Francisco and the Crisis of American Urbanism (2002); Wanderlust: A History of Walking (2002); River of Shadows: Eadweard Muybridge and the Technological Wild West (2003); As Eve Said to the Serpent: On Landscape, Gender, and Art (2003); Hope in the Dark: Untold Histories, Wild Possibilities (2006); (con Philip L. Fradkin, Mark Klett, Michael Lundgren), After the Ruins, 1906 and 2006: Rephotographing the San Francisco Earthquake and Fire (2006); A Field Guide to Getting Lost (2006); Storming the Gates of Paradise: Landscapes for Politics (2007); A Paradise Built in Hell (2009). In italiano sono disponibili: Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002, 2005; Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, 2005; Un paradiso all'inferno, Fandango, Roma 2009]

 

Rebecca Solnit, Speranza nei buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, Roma 2005.

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Chi avrebbe immaginato, solo due decenni fa, un mondo in cui fosse scomparsa l'Unione Sovietica e avesse fatto il suo arrivo Internet? E che il prigioniero politico Nelson Mandela sarebbe diventato presidente del Sudafrica trasformato o che la rivolta zapatista nel Messico meridionale avrebbe segnalato il risorgere dell'universo indigeno? Rebecca Solnit, saggista e critica d'arte femminista, dalla prosa brillante e incisiva, attiva nei movimenti del suo paese, gli Stati Uniti, pone queste domande all'inizio del testo intitolato Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, una raccolta di brevi saggi, pubblicata nel 2005, in piena epoca Bush.

La Solnit afferma che ci sono momenti in cui non solo il futuro, ma lo stesso presente sono oscuri e che solo poche persone riconoscono quanto sia radicalmente trasformato il mondo in cui viviamo. L'autrice vuole proporre una nuova visione del modo in cui avvengono le trasformazioni e sostiene, criticando la concezione meccanicistica del cambiamento, basata sulla logica dei rapporti di causa/effetto, che bisogna innanzitutto "cambiare l'immaginario del cambiamento". Questo, secondo lei, e' il grande problema di oggi.

I cambiamenti, le rivoluzioni che contano, infatti, per la Solnit, si svolgono innanzitutto dentro di noi, nella nostra mente e nelle forme della nostra immaginazione. Il cambiamento piu' difficile e' rendersi conto che la politica nasce dalla diffusione delle idee e dalla immaginazione che prende forma. I cambiamenti che contano sono cosi' difficili da fare, perche' non scorrono lungo il tempo lineare della Storia, ma seguono il tempo della vita materiale, con i suoi umori, la sua lentezza, le improvvise intuizioni.

La storia, dice Rebecca Solnit, non e' un esercito che marcia sempre avanti, obbedendo al principio di causa ed effetto, e' come "un granchio che scappa lateralmente", e' "un rivolo d'acqua che gocciola sulla pietra consumandola", un "terremoto che spezza secoli di tensione". A volte poche persone ricche di passione cambiano il mondo, a volte le parole di una persona sola ispirano un movimento, anche dopo molti anni. A volte il cambiamento avviene improvvisamente, come quando cambia il tempo; a volte, invece, e' necessario un accumulo graduale di cambiamenti impercettibili perche' si determini una svolta nella storia.

Senza speranza, tuttavia, nessun cambiamento e' possibile. Convinta che il mondo attuale sia assai migliore di quello di ieri, la Solnit sostiene che i motivi di speranza oggi non mancano. La societa' civile, infatti, negli ultimi vent'anni ha assunto un ruolo sempre piu' influente e significativo. Il futuro e' oscuro, e' vero, ma non nel senso di cupo e minaccioso, quanto piuttosto imperscrutabile, inconoscibile. Accadono, infatti, tutti i giorni cose impreviste e imprevedibili dalla nostra immaginazione.

La trasformazione del mondo attuale, secondo Solnit, e' dovuta non solo al capitale globale, ma anche e soprattutto ai sogni di liberta' e giustizia di tanta gente in ogni parte del mondo.

Ci adattiamo alle trasformazioni, senza valutarle pienamente e tendiamo a dimenticare quanto sia cambiata la cultura. Decisioni che sarebbero state impensabili solo pochi decenni fa, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, oggi sono possibili. Il mondo e' sempre piu' imprevedibile rispetto alla nostra capacita' di immaginazione. Nel 1982, per esempio, un milione di persone si radunarono nel Central Park di New York per chiedere il congelamento bilaterale degli ordigni nucleari, come primo passo sulla via del disarmo. Non l'ottennero e molte di quelle persone tornarono a casa deluse o sfinite. Tante pero' continuarono la lotta, cosi' in meno di un decennio furono negoziate riduzioni significative delle armi nucleari, con l'aiuto dei movimenti antinucleari europei. Da allora, la corsa al riarmo prosegue e nuove nazioni scelgono il nucleare. Questo pero' non compromette il valore di quella lotta. L'attivismo di quella stagione e' finito a causa della sua visione rigida e di un calendario difficile da rispettare, ma anche perche', sostiene la Solnit, nessuno aveva saputo prevedere che alla fine del decennio la guerra fredda sarebbe terminata. Quelle e quelli che si erano impegnati nella lotta non sono rimasti in campo sufficientemente a lungo per raccogliere il "dividendo della pace" e per questo sono rimaste/rimasti a mani vuote.

E' sempre troppo presto per tornare a casa, dopo l'impegno politico attivo, ed e' sempre troppo presto anche per calcolare gli effetti delle nostre azioni. Un'attivista che militava nel "Women Strike for Peace" (Donne in sciopero per la pace), il primo grande movimento antinucleare degli Stati Uniti (ottenne il Trattato per la limitazione dei test nucleari del 1963), racconta di come si sentisse stupida e inutile una mattina, mentre protestava sotto la pioggia di fronte alla Casa Bianca. Alcuni anni dopo pero', le capito' di ascoltare il dottor Benjamin Spock che dichiarava di essersi convinto proprio allora ad intervenire contro i test nucleari per la pericolosita' della ricaduta dei materiali radioattivi che si ritrovavano nel latte materno e nei denti dei bambini: quel piccolo gruppo di donne cosi' appassionate e impegnate, che si dichiaravano casalinghe e protestavano sotto la pioggia davanti alla Casa Bianca, abitata allora da Kennedy, e mettevano in ridicolo i membri del Comitato parlamentare per le attivita' antiamericane, gli avevano fatto capire improvvisamente che, come loro, era giusto che anche lui dedicasse attenzione e impegno al problema.

Le trasformazioni hanno in comune il fatto di avere inizio nella speranza e nell'immaginazione. All'inizio di ogni grande cambiamento c'e' chi punta sul futuro e spera che il suo desiderio si avveri o chi pensa che l'incertezza e il gioco d'azzardo siano meglio della sicurezza e dello sconforto. Vivere significa rischiare e sperare e' pericoloso. La speranza e' per Rebecca Solnit "un'ascia che serve ad abbattere le porte in caso di emergenza". La speranza si serve di ogni parte di noi per far cambiare rotta alla societa', per allontanare il futuro dalla guerra, dall'annientamento dei tesori del pianeta e dallo stritolamento di masse di persone povere e marginali. La speranza chiede l'azione e agire e' impossibile senza speranza. Sperare significa donarsi al futuro, prendere un impegno preciso nei confronti del futuro. Tutto puo' accadere e tutto dipende dal nostro agire o dalla nostra mancanza di azione. Per chi oggi si impegna per un futuro migliore e' gia' in atto la sfida piu' grande, quella in cui si rischia il tutto per tutto. In ogni parte del mondo e' in corso un processo di sradicamento causato della volonta' di dominio globale. La civilta' tecnologica sta distruggendo la natura da cui dipendiamo. Tuttavia il futuro, benche' oscuro, dipende in parte ancora da noi, dalla nostra azione, dal nostro pensiero.

In questo libro Rebecca Solnit rende conto del mondo incredibilmente trasformato in cui viviamo e propone di non sottovalutare le vittorie politiche degli ultimi vent'anni che, una dopo l'altra, pone davanti ai nostri occhi perche' le vediamo con occhi nuovi e ci rendiamo conto di quanto siano importanti per il presente: sono punti di riferimento nel disorientamento generale, leve straordinarie per uscire dallo sconforto e dalla delusione e progettare nuove trasformazioni. La Solnit fa un bilancio delle possibilita' e dei pericoli che abbiamo davanti in questo momento e cerca di cogliere in ogni parte del mondo quei segni di liberta' e di giustizia di cui abbiamo bisogno per continuare, appunto, a sperare e a non rinunciare all'azione.

Lia Cigarini, sempre molto attenta a quello che accade negli Stati Uniti, nel numero 92 (marzo 2010) della rivista "Via Dogana", intitolato "Cambiare l'immaginario del cambiamento", riprende la Solnit, collocandola tra quelle donne che si danno l'autorita' di indirizzare l'agire politico dei grandi movimenti (pacifista, ambientalista, no global), nei quali sono attive. Basta pensare a Naomi Klein, autrice di No logo, che ha saputo convincere il movimento No global americano sul valore politico e l'efficacia degli atti simbolici e culturali, evitando cosi' la deriva della contrapposizione che conduce inevitabilmente allo scontro di piazza, come e' avvenuto in Europa. Oppure si pensi, dice Lia Cigarini, a Sara Horowitz, a Susan Sontag, a Elinor Ostrom, alle tante filosofe, sociologhe, economiste che, abituate a una politica diretta, agiscono e prendono la parola in prima persona. Cigarini afferma che i testi di queste donne, in cui c'e' l'eco profondo del femminismo degli anni '60 e '70, costituiscono la teoria dei movimenti attuali in Usa.

Anche in Italia, continua la Cigarini, ci sono tante donne che camminano nella politica e fanno teoria (per esempio, il movimento di "Autoriforma della scuola", il Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano che ha prodotto il "Sottosopra" sul lavoro, il movimento "No dal Molin" di Vicenza e molte altre esperienze in ogni parte d'Italia), ma non hanno la forza di cambiare il modo di fare la politica ne' l'immaginario connesso, secondo cui il necessario compimento della politica sarebbe la costruzione di un partito o la rappresentanza parlamentare. Secondo Cigarini, i partiti italiani, divenuti delle pure sigle per eleggere deputati e senatori, come negli Usa, nell'immaginario di tanti militanti e di elettori/elettrici sono ancora il cardine della politica e della democrazia e questa mancanza di consapevolezza "finisce per mettere ai margini della politica quello che succede nelle aree creative, che dovrebbero esserne invece il centro".

A questo punto Lia Cigarini, rilanciando la sfida di Rebecca Solnit, si rivolge ai delusi e alle deluse della politica, in particolare a quelle e quelli della sinistra italiana che continuando a ripetere che tutto va a rotoli, chiedendo loro di voltarsi verso le aree creative che ci sono, e tante, in primo luogo quella delle donne; a quelle e quelli che non credono piu' nel valore e nell'efficacia del voto per cambiare le cose o a quelle e quelli che fanno una politica reattiva, di pura contrapposizione alle mosse dell'avversario, ma anche a quelle donne impegnate nella politica della differenza che troppo insistono sulla pratica del partire da se' e delle relazioni e che forse, senza volerlo, ostacolano la varieta' delle narrazioni, l'aprirsi di nuovi orizzonti.

L'impegno politico non va visto unicamente come risposta alle innumerevoli emergenze e ai pericoli del mondo contemporaneo, afferma Lia Cigarini, riprendendo la Solnit, ma come una parte gioiosa della vita quotidiana. Gia' circolano nuove narrazioni e bisogna tener conto del fatto che non tutte/tutti sono disponibili a portare un bagaglio pesante, fatto di delusione, disperazione e profonda sfiducia. Ecco allora la sfida che con molto coraggio la Solnit lancia alla politica tradizionale di sinistra: dissolva nell'acqua le proprie certezze, non per sostituirle, ma per costruire nel presente, faccia la politica del presente, del qui e ora, mettendo al primo posto il contesto reale dell'azione e non l'ideologia, non pretenda di controllare il futuro, ma si decida ad abbandonare il potere per trovare la liberta'.

 

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

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Numero 309 del 29 marzo 2011

 

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