Archivi. 37
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- Date: Sun, 6 Feb 2011 08:46:22 +0100 (CET)
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)
Numero 37 del 6 febbraio 2011
In questo numero:
Jean-Marie Muller: Significato della nonviolenza (parte seconda e conclusiva)
TESTI. JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Riproponiamo ancora una volta questo testo di uno dei massimi studiosi e amici della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller, Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980: da questo opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio mulleriano, ivi alle pp. 7-27.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005]
Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l'intendiamo generalmente, e' un metodo che si apparente direttamente all'azione nonviolenta: e' una azione di non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L'analisi sulla quale si fonda lo sciopero e' questa: se i borghesi, vale a dire i proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e la loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta per questi di cessare ogni attivita' per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e cio' e' al di fuori del nostro proposito, pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza. Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se queste violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente detto. Ci si puo' d'altronde chiedere se queste violenze non siano venute piuttosto a screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come lo sciopero di Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero puo' essere condotto con piu' efficacia in una prospettiva nonviolenta.
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Il boicottaggio
Il boicottaggio e' ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano economico: rifiuto di far beneficiare l'altro del mio potere d'acquisto che diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio avversario. C'e' soltanto da constatare che questa forma di lotta e' stata pochissimo utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera; potrebbe certamente essere utilizzata meglio, in particolare nell'ambito delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati Uniti, che avevano una fortissima clientela nera e nonostante cio' si rifiutavano di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo decisero il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero sufficiente di posti di lavoro non fossero stati creati per i neri. Da quel giorno piu' nessun nero ando' a rifornirsi in quei magazzini. Molto rapidamente, dopo una settimana o due, i proprietari di quei magazzini decisero di soddisfare le richieste di M. L. King.
E' interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di Martin Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri? Si erano forse convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto questa eventualita'. Tuttavia la piu' verosimile e' che la minaccia del fallimento, che incombeva su quei magazzini, li ha costretti e cedere: cio' traduce perfettamente la nozione di costrizione e tuttavia di una costrizione senza violenze.
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La lotta di classe
Esaminero' un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera notevolissima la possibilita' di condurre con la nonviolenza uno sciopero e un boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza puo' forse soddisfare le esigenze spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non puo' assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto cio' sia fondato, soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno per molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la realta' stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non insegnava la lotta di classe, ma l'amore delle classi, come se fosse possibile l'amore in situazioni di ingiustizia. E' una presa in giro predicare l'amore quando da una parte esistono poveri che restano poveri e dall'altra parte ricchi che intendono restare ricchi. Logicamente, cio' non vuol nemmeno dire che il fatto di riconoscere la lotta di classe e parteciparvi debba necessariamente sfociare in scontri violenti. Ma c'e' una certa nonviolenza che non merita nemmeno di essere presa in considerazione: quando i poveri sono pronti a scendere in piazza per far riconoscere i loro diritti, forse da quel momento i ricchi saranno tentati di parlare di nonviolenza. In questo senso vi e' un rischio di recupero della nonviolenza da parte delle classi privilegiate. Cio' spiega quella diffidenza, cosi' caratteristica di quelli che sono impegnati nella lotta per la giustizia, nei confronti della nonviolenza: hanno paura che essa generi una certa smobilitazione. Ma, al di la' degli equivoci, deve essere invece chiaro che non soltanto la nonviolenza non e' smobilitazione, ma che e' un appello alla mobilitazione, un appello alla lotta.
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L'azione di Cesar Chavez
L'azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta da noi, e' un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno la possibilita' di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i responsabili dell'azione, i leaders del movimento, diano ordini precisi in questo senso.
Cesar Chavez non e' venuto in mezzo ai poveri, e' nato in mezzo a loro; e' nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che costituiscono la mano d'opera preferita dai grandi proprietari agricoli degli Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello "establishment" della societa' americana, non e' la stessa cosa nel campo agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine messicana, che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso disorganizzato e supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti fino allora per giungere all'organizzazione di questa popolazione erano falliti. Tanto erano potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Cbavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di "coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle autorita' federali, cioe' governative, poterono comunque reclutare altrettanto rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro che guadagnare un po' di denaro per sopravvivere. C'erano dunque dei "crumiri" che hanno permesso il raccolto dell'uva, sebbene ci fossero stati picchetti di sciopero che, ancora una volta, non intendevano fare uso della violenza ma tentavano di mostrare il senso dello sciopero e che era nell'interesse di tutti parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar Chavez decise di affiancare allo sciopero il bolcottaggio. Proclamo' cosi' il boicottaggio dell'uva, dapprima nelle grandi citta' degli Stati Uniti. Gli scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di spiegare le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo boicottaggio si dimostro', molto presto, di un'efficacia sorprendente. Cbavez ottenne subito il concorso dei militanti del movimento di M. L. King, e in particolare degli studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo, il boicottaggio dell'uva divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d'un qualche rilievo, la repressione si abbatte' su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivo' al punto di prendersi beffa di loro mangiando un grappolo d'uva davanti alle telecamere. Per vendere il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l'uva: interi mercantili furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarieta' col movimento di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l'uva. Ultimo tentativo fu quello di spedire l'uva ai soldati americani nel Vietnam che dovettero mangiare uva dalla mattina alla sera. Ma cio' non e' stato sufficiente. Dopo uno sciopero e un boicottaggio durati cinque anni, i proprietari furono costretti a cedere alle rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi e' diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani; i sindacati riprendono sempre di piu' questi metodi nonviolenti e tentano di accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di fronte ai rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l'azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare l'aggressivita' dei poveri, nel creare il conflitto, e' dunque inevitabile che ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi e se questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sara' da stupirsi se da un momento all'altro, esasperati, ricorrono alla violenza. Ma a questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della violenza, intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni tattiche (sapeva bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero potuto benissimo scatenare una repressione brutale). Digiuno' per venticinque giorni, non perche' i proprietari cedessero alle sue esigenze, ma perche' gli operai stessi accettassero di attenersi ai principi dell'azione nonviolenta. Dopo quei 25 giorni di digiuno, essi giunsero ad un accordo, cio' che ha certamente reso possibile al movimento di durare e infine di riuscire.
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Il boicottaggio del caffe' dell'Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffe' dell'Angola organizzato nei Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti piu' importanti per il finanziamento della guerra coloniale condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano sull'esportazione dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffe' dell'Angola rappresentava una parte importante dell'esportazione totale (32%) e, dall'altra parte, i Paesi Bassi erano il secondo paese importatore di questo caffe' (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d'azione per l'Angola lancia il boicottaggio del caffe' organizzando una campagna d'informazione sulla situazione nelle colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffe' angolano e' un atto di collaborazione con la politica condotta dal Portogallo. Questa azione ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e il boicottaggio riscontro' rapidamente un grande successo. Alla fine di un mese, nemmeno un grano di caffe' dell'Angola era piu' in vendita sul mercato dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l'opinione pubblica olandese era mobilitata per altre battaglie.
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La disobbedienza civile
La piu' forte azione di non-collaborazione e' l'azione di disobbedienza civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di smobilitare le energie e le volonta' necessarie nella lotta per la giustizia, cosi' da destra siamo accusati di rimettere in discussione la legalita' e l'ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione che non sarebbe affatto nonviolenta.
E' vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non la preconizza a sproposito. In ogni societa' le leggi hanno una loro funzione. La funzione della legge e' insieme quella di mantenere l'ordine e di promuovere la giustizia; essa percio' deve difendere i diritti dei piu' poveri contro i privilegi dei piu' ricchi. C'e' da dire poi che le leggi non sono stabilite una volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in discussione per migliorarle. Quando la legge non adempie piu' alla sua funzione, anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei piu' sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l'ingiustizia, non soltanto e' un diritto, ma e' un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare sistematicamente l'obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non puo' imporsi a noi su dei problemi di coscienza. E' ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perche' su tali problemi le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi che impegnano invece realmente la nostra responsabilita' morale, non ci e' possibile rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della maggioranza. E' a questo punto che la nonviolenza preconizza la disobbedienza civile. Questa possibilita' di disobbedire alla legge e' necessaria all'equilibrio stesso della democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in coscienza obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la possibilita' di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi totalitari per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, pero', riconoscerne i limiti. Bernanos diceva che "il suffragio universale non rende alla fin fine piu' liberi gli uomini di quanto la lotteria nazionale non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perche' il potere cambi politica o per provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto di disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l'ingiustizia. Gandhi afferma: "la vera democrazia non verra' dalla presa del potere da parte di qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli abusi delle autorita'". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la presa del potere per il popolo e' una delle piu' pericolose deviazioni dove si finisce molto spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, percio', a evitare questa deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per proprio fine la presa del potere per il popolo, ma la presa del potere direttamente da parte del popolo stesso. Non e' lo Stato forte a costituire la vera democrazia, ma i cittadini liberi.
Tra l'insufficienza della scheda elettorale e l'inefficacia del lancio di pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per l'azione politica.
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La vera figura di Gandhi
Prendero' un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta da Gandhi per l'indipendenza dell'India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perche' nella maggior parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio e' stato volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che Gandhi ha potuto acquistare l'indipendenza del suo paese di fronte all'impero britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play" dei gentlemen britannici, come se a quell'epoca l'impero britannico fosse pronto a lasciare le Indie e come se fosse bastata la santita' attribuita, a torto o a ragione, a Gandhi perche' gli Inglesi accettassero di partire. Credo che sarebbe interessante studiare a fondo quali siano le azioni di Gandhi e quale fu la sua strategia. E' utile sottolineare, a questo proposito, che i membri del Congresso dell'India, primo dei quali Nehru, non condividevano le convinzioni religiose e morali di Gandhi. Se Nehru accetto' di seguire Gandhi nella pratica della nonviolenza e' soltanto perche' questa si dimostro' efficace. E il popolo indiano non era per niente pronto ad attenersi alle esigenze della nonviolenza di Gandhi, che e' estranea alla tradizione religiosa dell'India. Come tutti gli altri popoli, e forse piu' ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la rassegnazione e la violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non e' orientale ma occidentale, non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma all'azione all'interno dei conflitti.
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La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza civile e' una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge che nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare una tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia veniva a simboleggiare tutta l'ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzo' una lunga marcia attraverso l'India per diverse centinaia di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli abitanti e li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del mare, compi' il simbolico gesto di raccogliere dell'acqua per poterne estrarre il sale. Da quel momento preciso, Gandhi per l'impero britannico era diventato un ribelle. Il governo, a dir la verita', era molto imbarazzato perche', o arrestava Gandhi, facendone cosi' un martire e aumentandone di conseguenza il prestigio presso le masse indiane, o non lo arrestava affatto, dimostrando cosi' di tollerare la sfida aperta e dando, in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale delle autorita' ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si arresto' Gandhi ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano imitato; perche' questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma esigevano di andarci. Esiste, pero', un limite di saturazione delle prigioni oltre il quale un governo non puo' piu' governare in completa serenita'. Si puo' discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate in prigione per far si' che un popolo sia piu' forte di qualsiasi governo - Martin Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi: non soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema dell'indipendenza.
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La violenza e' l'arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte alle situazioni d'ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non esiste piu' che una sola soluzione e che questa soluzione e' la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione puo' essere la violenza? E anche: la violenza puo' veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King mori', ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva chiedere, gia' da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi sul piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e di stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacita' di repressione di cui dispone il potere bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva gia' essere previsto: i movimenti neri che si richiamano alla violenza si trovarono nella incapacita' di mettere in opera azioni rilevanti all'infuori di qualche colpo di mano che potevano effettuare. La stampa ne parlo': il partito delle "Pantere Nere" che e' stato il piu' rappresentativo di questo movimento violento e' attualmente smantellato, si trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi della repressione del potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver puo' moltiplicare, da Algeri dove si trova in esilio, le dichiarazioni fracassanti contro il potere bianco, ma cio' non puo' venire in aiuto ai neri che sono negli USA; cosi' pure Stokely Carmichael, che fu uno dei leaders del "Potere Nero", che milito' nelle file delle "Pantere Nere" e che si trova ora in Guinea, di la' non puo' proporre ai suoi fratelli degli Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra Africa.
Cosi' nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella affermazione che solo la violenza puo' essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento e' stato trattato da dom Helder Camara quando gli e' stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento, necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il nostro avversario avra' sempre un numero maggiore di armi e piu' perfette delle nostre; e' vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova di forza".
Il Padre Comblin e' venuto a confermarci nell'aprile '72 le affermazioni di dom Helder Camara: "Una piccola parte dell'opposizione e' entrata nella clandestinita', ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato delle operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un apparato di repressione estremamente potente, che e' riuscito praticamente non solo a contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre piu'. E, in questo momento, il potere alimenta una psicosi d'angoscia che sta creando un "circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere: sentendosi minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei controlli sempre raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di paura, la quale provoca a sua volta una piu' grande angoscia nei dirigenti... e cosi' di seguito". ("Informations catholiques internationales", 15 aprile '72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la capacita' di violenza degli oppressori sara' sempre smisuratamente piu' grande della capacita' di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia per porci sul piano della violenza e', in fondo, un errore strategico: quando un movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene ad offrire all'avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la sua repressione.
Ogni dibattito pubblico che sara' aperto da atti di violenza non vertera' sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi, sui metodi che sono stati utilizzati. L'azione armata attira l'attenzione dell'opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull'ingiustizia che io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all'avversario i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire che i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - e' certo che in una prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata sul movimento nonviolento e la sua forza consistera' nella misura della capacita' che avra' di resistere a questa repressione - ma questa repressione restera' senza vera giustificazione; essa arrivera' al contrario a screditare quelli che l'esercitano e ad accreditare, per cio' stesso, il movimento.
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La nonviolenza e' preferibile
Data l'ignoranza e insieme il disprezzo nei quali e' stata tenuta fino ad ora la nonviolenza, non e' concepibile che essa sia in grado di risolvere tutti i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall'una e dall'altra parte; non e' facile, a partire di la', tentare di intravvedere una soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d'accordo su questa ipotesi di lavoro: se la nonviolenza e' possibile, allora essa e' preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto cariche di grossissima responsabilita' nel governo rivoluzionario, chiedevo se credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo algerino. Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi era il maestro al quale ci ispiravamo". Perche' diceva questo? Precisamente perche' Gandhi fu il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo lasciati prendere forse troppo dall'idea che il colonialismo britannico fosse un colonialismo dove il "fair-play" prevaleva sulla brutalita' - cio' costituisce, invece, una contro-verita' storica. Gandhi appariva in effetti ai popoli colonizzati come colui che, per primo, si oppose a questa oppressione. Ma, aggiungeva quest'algerino, non conoscevamo proprio niente di questa nonviolenza, non ne eravamo per niente preparati, e non ci era assolutamente possibile costruire la nostra lotta in questa prospettiva. Diceva ancora - ed e' proprio questo che mi pare molto interessante: "attualmente mi interesso e studio sulla possibilita' della nonviolenza, perche' se la nonviolenza e' possibile, sarebbe criminoso per un rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza e', dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di studiare le possibilita' offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l'abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie caricature della nonviolenza; cio', evidentemente, ci permetteva di condannarla piu' facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di cio' che puo' essere fatto, cercando di discernere cio' che e' possibile da cio' che non lo e'. Comunque, se la nonviolenza non puo' permetterci di risolvere subito tutti i nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere questioni, finiremo certamente con l'entrare insieme nelle vere risposte".
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Numero 37 del 6 febbraio 2011
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