Telegrammi. 443
- Subject: Telegrammi. 443
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- Date: Sat, 22 Jan 2011 00:51:20 +0100 (CET)
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 443 del 22 gennaio 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Sommario di questo numero:
1. Una lettera aperta al Ministro della Difesa
2. Goffredo Fofi ricorda Alexander Langer
3. Anna Bravo: La Shoa' e i Giusti in Italia
4. Anna Bravo: La compassione nella Resistenza
5. Si e' svolto il 21 gennaio a Viterbo un incontro di studio
6. Per sostenere il Movimento Nonviolento
7. "Azione nonviolenta"
8. Segnalazioni librarie
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'
1. DOCUMENTI. UNA LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA DIFESA
[Riceviamo e diffondiamo]
Al Ministro della Difesa
e per opportuna conoscenza: al prefetto di Viterbo, al sindaco del Comune di Viterbo, al presidente della Provincia di Viterbo, alla presidente della Regione Lazio, a tutti i consiglieri del Comune di Viterbo, a tutti i consiglieri della Provincia di Viterbo, a tutti i consiglieri della Regione Lazio, al presidente del Senato della Repubblica, al presidente della Camera dei Deputati, ai capigruppo parlamentari del Senato della Repubblica
ai capigruppo parlamentari della Camera dei Deputati, ai capigruppo parlamentari del Parlamento Europeo, ai mezzi d'informazione locali e nazionali
*
Gentile Ministro della Difesa,
la partecipazione militare italiana alla guerra in corso in Afghanistan e' palesemente in contrasto con l'art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana.
Chiediamo che cessi questo crimine e che l'Italia torni immediatamente nell'alveo della legalita' costituzionale.
Solo la pace salva le vite.
La guerra e' nemica dell'umanita'.
Distinti saluti,
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le persone partecipanti all'incontro di formazione alla nonviolenza svoltosi domenica 16 gennaio 2011 presso il centro sociale "Valle Faul" di Viterbo
Viterbo, 22 gennaio 2011
Per comunicazioni: partecipanti agli incontri di formazione alla nonviolenza presso il centro sociale "Valle Faul", strada Castel d'Asso snc, 01100 Viterbo, e-mail: viterbooltreilmuro at gmail.com
2. MEMORIA. GOFFREDO FOFI RICORDA ALEXANDER LANGER
[Ringraziamo Edi Rabini (per contatti: edorabin at fastwebnet.it) per averci inviato il seguente testo di Goffredo Fofi che costituisce la nota introduttiva per la settima edizione della raccolta di scritti di Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 2010.
Edi Rabini, che e' stato grande amico e stretto collaboratore di Alex Langer, e' impegnato nella Fondazione Alexander Langer (per contatti: e-mail: info at alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org), di cui e' infaticabile e generosissimo animatore.
Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, ha lavorato in campo pedagogico e sociale collaborando a rilevanti esperienze. Si e' occupato anche di critica letteraria e cinematografica. Tra le sue intraprese anche riviste come "Linea d'ombra", "La terra vista dalla luna" e "Lo straniero". Per sua iniziativa o ispirazione le Edizioni Linea d'ombra, la collana Piccola Biblioteca Morale delle Edizioni e/o, L'ancora del Mediterraneo, hanno rimesso in circolazione testi fondamentali della riflessione morale e della ricerca e testimonianza nonviolenta purtroppo sepolti dall'editoria - diciamo cosi' - maggiore. Opere di Goffredo Fofi: tra i molti suoi volumi segnaliamo particolarmente almeno L'immigrazione meridionale a Torino (1964), e Pasqua di maggio (1989). Tra le pubblicazioni degli ultimi decenni segnaliamo ad esempio: con Tony Thomas, Marlon Brando, Gremese, 1982; con Franca Faldini, Toto', Pironti, Napoli 1987; Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Marietti, Casale Monferrato 1988; con P. Polito, L'utopia concreta di Aldo Capitini, Lacaita, Manduria 1988; Prima il pane, e/o, Roma 1990; Storie di treno, L'Obliquo, 1990; Benche' giovani. Crescere alla fine del secolo, e/o, Roma 1993; Strana gente. 1960: un diario tra Sud e Nord, Donzelli, Roma 1993; La vera storia di Peter Pan e altre storie per film (1968-1977), e/o, Roma 1994; Piu' stelle che in cielo. Il libro degli attori e delle attrici, e/o, Roma 1995; Come in uno specchio. I grandi registi del cinema, Donzelli, Roma 1995; Strade maestre. Ritratti di scrittori italiani, Donzelli, Roma 1996; con Gad Lerner e Michele Serra, Maledetti giornalisti, e/o, Roma 1997; Sotto l'Ulivo. Politica e cultura negli anni '90, Minimum Fax, 1998; Un secolo con Toto', Dante & Descartes, Napoli 1998; Le nozze coi fichi secchi, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 1999; con Gianni Volpi, Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Lindau, 1999; con Stefano Benni, Leggere, scrivere, disobbedire. Conversazione, Minimum Fax, 1999; con Franca Faldini, Toto'. L'uomo e la maschera, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2000; con Stefano Cardone, Intoccabili, Silvana, 2003; Paolo Benvenuti, Falsopiano, 2003; con Ferruccio Giromini, Santosuosso, Cooper e Castelvecchi, 2003; Alberto Sordi, Mondadori, Milano 2004; con Giovanni Da Campo e Claudio G. Fava, Simenon, l'uomo nudo, L'ancora del Mediterraneo, Napoli 2004; con Franca Faldini, Toto'. Storia di un buffone serissimo, Mondadori, Milano 2004; Circo equestre za-bum. Dizionario di stranezze, Cargo, 2005. Opere su Goffredo Fofi: non conosciamo volumi a lui dedicati, ma si veda almeno il ritratto che ne ha fatto Grazia Cherchi, ora alle pp. 252-255 di Eadem, Scompartimento per lettori e taciturni, Feltrinelli).
Alexander Langer e' nato a Sterzing (Vipiteno, Bolzano) nel 1946, e si e' tolto la vita nella campagna fiorentina nel 1995. Promotore di infinite iniziative per la pace, la convivenza, i diritti, l'ambiente. Per una sommaria descrizione della vita cosi' intensa e delle scelte cosi generose di Langer rimandiamo ad una sua presentazione autobiografica che e' stata pubblicata col titolo Minima personalia sulla rivista "Belfagor" nel 1986 (poi ripresa in La scelta della convivenza). Opere di Alexander Langer: Vie di pace. Rapporto dall'Europa, Arcobaleno, Bolzano 1992 esaurito). Dopo la sua scomparsa sono state pubblicate alcune belle raccolte di interventi: La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996; Scritti sul Sudtirolo, Alpha&Beta, Bolzano 1996; Die Mehrheit der Minderheiten, Wagenbach, Berlin 1996; Piu' lenti, piu' dolci, piu' profondi, suppl. a "Notizie Verdi", Roma 1998; The Importance of Mediators, Bridge Builders, Wall Vaulters and Frontier Crossers, Fondazione Alexander Langer Stiftung - Una Citta', Bolzano-Forli' 2005; Fare la pace. Scritti su "Azione nonviolenta" 1984-1995, Cierre - Movimento Nonviolento, Verona, 2005; Lettere dall'Italia, Editoriale Diario, Milano 2005; Alexander Langer, Was gut war Ein Alexander-Langer-ABC; inoltre la Fondazione Langer ha terminato la catalogazione di una prima raccolta degli scritti e degli interventi (Langer non fu scrittore da tavolino, ma generoso suscitatore di iniziative e quindi la grandissima parte dei suoi interventi e' assai variamente dispersa), i materiali raccolti e ordinati sono consultabili su appuntamento presso la Fondazione. Opere su Alexander Langer: Roberto Dall'Olio, Entro il limite. La resistenza mite di Alex Langer, La Meridiana, Molfetta 2000; AA. VV. Una vita piu' semplice, Biografia e parole di Alexander Langer, Terre di mezzo - Altreconomia, Milano 2005; Fabio Levi, In viaggio con Alex, la vita e gli incontri di Alexander Langer (1946-1996), Feltrinelli, Milano 2007. Si vedano inoltre almeno i fascicoli monografici di "Azione nonviolenta" di luglio-agosto 1996, e di giugno 2005; l'opuscolo di presentazione della Fondazione Alexander Langer Stiftung, 2000, 2004; il volume monografico di "Testimonianze" n. 442 dedicato al decennale della morte di Alex. Inoltre la Casa per la nonviolenza di Verona ha pubblicato un cd-rom su Alex Langer (esaurito). Videografia su Alexander Langer: Alexander Langer: 1947-1995: "Macht weiter was gut war", Rai Sender Bozen, 1997; Alexander Langer. Impronte di un viaggiatore, Rai Regionale Bolzano, 2000; Dietmar Hoess, Uno di noi, Blue Star Film, 2007. Un indirizzo utile: Fondazione Alexander Langer Stiftung, via Latemar 3, 9100 Bolzano-Bozen, tel. e fax: 0471977691; e-mail: info at alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org]
Se si dovesse chiudere in una formula cio' che Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carita' nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioe' farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilita' di ridare alla politica il valore della responsabilita' di uno e di tutti verso "la cosa pubblica", il "bene comune", verso una solidarieta' tra gli umani e tra loro e le altre creature secondo il progetto o sogno di chi "tutti fra se' confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli ultimi perigli e nelle angosce/ della guerra comune".
Dico carita' nel preciso senso evangelico, poiche' Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici che era possibile conoscere in quegli anni nel "movimento" (e oggi sono ancora di meno) e non, come tanti di noi che gli fummo contemporanei e amici, di fragilissime convinzioni "marxiste" oppure, al meglio, mossi confusamente da una visione solo etica del cristianesimo. La "diversita'" di Alex, la sua superiorita' sui suoi amici e compagni, gli veniva anche da una storia famigliare piu' ricca, a cavallo tra lingue e culture, tra Germania e Italia e tra ebraismo e cattolicesimo, ma nessuno vide mai in questo il marchio del privilegio, poiche' essa era caratterizzata in lui da una convinzione di umilta' reale e non esibita, non appariscente, dalla propensione all'ascolto degli altri, di tutti, dalla liberta' dei collegamenti e dalla scelta di "far da ponte".
Quante volte Alex Langer non ha teorizzato nei suoi testi la funzione e l'imprescindibile necessita' dei "ponti"? Ricordava tanti anni fa Piero Calamandrei fondando, a guerra appena conclusa, una rivista che si chiamava "Il ponte", il significato metaforico ma anche concreto dei ponti, da riedificare dopo le distruzioni della guerra che si era accanita a distruggerli. Ponti veri, che gli uni o gli altri avevano fatto saltare, e che dovevano mettere di nuovo in comunicazione e in "commercio" persone e citta', culture e territori. Ponti ideali, che potessero permettere ai vinti e ai vincitori, tutti infine perdenti, sopravvissuti ai conflitti e alle stragi e cioe' al dominio della morte, di ritrovare nell'incontro e nel dialogo la possibilita' di un futuro migliore. (L'attaccamento di Alex alle sue radici regionali e la sua ambizione cosmopolita gli hanno permesso una concretezza precisa, mai parolaia, e una visione ampia, internazionale, nel filone di quell'utopia che era stata per un tempo di una parte del movement americano, quella che diceva di doversi preoccupare ostinatamente di due ambiti da tenere strettamente collegati tra loro: "il mio villaggio e il mondo").
Il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta, che ad Alex costo' infine la vita, e' fallito e continua a fallire in un mondo dove le incomprensioni permangono e prosperano gli odi, sollecitati dai diversi poteri e dal peso dei torti ricevuti e fatti, di una memoria di gruppo che, invece che rendere aperti, rende piu' chiusi alle ragioni degli altri. Poiche' troppa memoria puo' uccidere alla pari della (nostra, italiana) assenza di memoria. E tuttavia il messaggio di Langer e' stato fino all'ultimo chiaro: se anche c'e' chi cade, chi non regge piu' il peso della storia e della solitudine (forse ci si uccide perche' ci si sente o si e' rimasti soli - ma alcuni, come i vecchi e i malati, perche' si e' tagliati via dalla vita - piu' che per l'oggettiva debolezza e insicurezza del genere umano e per la fatica di dover continuamente ricominciare), bisogna imparare dall'esperienza quel che se ne puo' ricavare, e andare avanti. Non perche' "si spera", ma perche' "si ama": e la "carita'" e' allora il centro di tutto, come voleva san Paolo - piu' della speranza e piu' della fede.
Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l'incontro, e quella dell'apertura a un rapporto nuovo tra l'uomo e il suo ambiente naturale. E se nel primo caso, quello piu' determinato dalle pesanti contingenze della storia (per Alex, la guerra interna alla ex Jugoslavia), si trattava di far da ponte ma anche da intercapedine, da camera d'aria dove potesse esprimersi un dialogo assai difficile, nel secondo si trattava piuttosto di additare nuovi territori all'azione politica responsabile, allargandone il significato da citta' a contesto, da polis a natura.
Se sul fronte della pace e della convivenza tra umani di diversa etnia o religione o parte politica Alex e' stato un continuatore, egli e' stato su quel secondo fronte un precursore, uno dei piu' persuasi pionieri dell'indispensabilita' di una visione ecologica dell'agire politico. Ha visto tra i primi l'arrivo della novita', come lo Zaccheo del Vangelo che si porto' nel luogo piu' avanzato del suo villaggio e nel suo punto piu' alto per poter vedere per primo l'arrivo del Messia, e cioe' della Novita', ed e' stato confortato in questo dalla sua conoscenza e vicinanza a uno dei pochi veri profeti dello scorso secolo, il prete e filosofo che si faceva chiamare Ivan Illich. Tra l'antico e l'eterno del messaggio cristiano e la verde novita' dell'ecologia, tra le esigenze della pace (gli uomini) e quelle dell'armonia (degli uomini con la natura) tra loro fittamente intrecciate, sempre piu' interdipendenti, Langer si e' mosso quotidianamente, attento al presente ma cosciente del passato e straordinariamente aperto al futuro, al possibile e al doveroso dei compiti della politica (della militanza, della persuasione). Contro il gioco chiuso del potere. E contro i ricatti paralleli di un'impazienza non meditata e di una lentezza non ipocrita: nell'avvicendarsi che appartiene alla storia delle fasi di stasi e di quelle di febbre, occorre prepararsi nella stasi per saper meglio muoversi nella furia che, prima o poi, si scatenera'. Anche se il nostro ritmo e tempo non sono quelli del potere e del capitale, della violenza che essi propongono o provocano, dobbiamo pero' conoscerli, studiarli, contrastarli. L'azione soffre di aver trascurato il pensiero, quando i suoi tempi si accelerano, e un pensiero senza azione serve a poco, cambia poco. Si tratta allora di agire su un doppio binario secondo modalita' difficili da gestire, che esigono ponderatezza e prontezza. Ma si tratta anche di saper giudicare la storia - per esempio, l'incidenza delle trasformazioni radicali, soggiacenti del sistema economico, e il peso delle "sovrastrutture" che quelle finiscono per sconvolgere o scatenare. E si tratta di sapere, nell'idealita' di una sintonia dei fini con i mezzi, cosa e' possibile proporre, cosa e' doveroso contrastare. Tutto questo Alex Langer ha, mi pare, tenuto in gran conto.
Dopo la secca sconfitta dei movimenti del dopo guerra mondiale, nel mondo di fantascienza realizzata e di nuova barbarie, di nuovi sistemi di dominio attuati (tra consumo e consenso) nei paesi ricchi, che in questo mortuario progetto sono riusciti a coinvolgere quelli poveri ma anche, a volte, a irritarli fino a provocare la loro risposta piu' tradizionale e micidiale, quella del fondamentalismo identitario e religioso, la sfida di Alex e' stata infine quella di molti, ma piu' lucida e vissuta con piu' radicale generosita', e' stata quella di non-accettare lo stato delle cose, di non darlo per scontato cercando e trovando al suo interno il proprio spazio, bensi' di metterlo in discussione fattivamente:con la rivolta, se necessario di pochi ma in funzione del tutti. Con maggiore comprensione da parte sua delle contraddizioni, della complessita' dei problemi, e si e' trattato allora per lui di viverle, le contraddizioni, secondo il filo rosso della propria coscienza e delle proprie convinzioni morali. Viverle, le contraddizioni - anche le nostre di complici e di oppressi allo stesso tempo - analizzandole senza paraocchi, e tentando di superarle nel fare, nel "ben fare". Contro le verita' provvisorie e i fumi delle ideologie, del vitalismo dimentico del sentimento dell'inquietudine e della domanda, o se vogliamo del tragico. Riconquistando alla responsabilita' verso la collettivita', verso la polis, il suo spazio centrale di azione per il cambiamento positivo, nella direzione dell'affermazione di una solidarieta' "che tutti fra se' confederati estima".
Si e' trattato insomma per Alex Langer e per pochi altri come lui, e si tratta per noi oggi, di superare la diffidenza antica e nuovissima per la politica, di continuare o ricominciare a occuparci della "cosa pubblica" con lo sguardo antico e nuovissimo di una vocazione insieme profondamente cristiana e limpidamente laica, e con la coscienza chiara dell'obbligo di superare i nostri limiti, di abbandonare le nostre acquiescenze, di abbattere i nostri luoghi comuni ridefinendo la politica a partire dagli obblighi di ciascuno, a partire dal gruppo (le minoranze eticamente determinate) e dal singolo, chiedendo a noi stessi il massimo, ma del possibile. E ricordando, come Alex Langer ha sempre avuto ben presente, che "non si lava con l'acqua sporca" (e' il rimprovero che Aldo Capitini faceva ai comunisti) ma anche - come diceva Charles Peguy parlando di coloro che criticavano chi agiva in nome di una purezza che la storia, e cioe' le necessita' dell'intervento, fanno impossibile - che le mani bisogna almeno averle, e che bisogna saperle usare.
Il sentiero di cresta su cui Alex si e' mosso (e l'immagine gli si addice, uomo di montagna e di confine) e' stato, spinto fin quasi all'estremo, il piu' esemplare ed educativo di tutti quelli percorsi dalla sua generazione, il piu' aperto al confronto con le contraddizioni della politica e anche il piu' autenticamente, coerentemente, lucidamente drammatico e vero. Di questo gli siamo grati, perche' e' anche a partire dalle riflessioni sulla sua scelta finale che si puo' ancora ricominciare, nella coscienza delle difficolta' e dei limiti delle nostre possibili scelte, della precarieta' e fragilita' della nostra condizione di uomini, dell'immane peso della storia ma anche della necessita' di reagire e di dare un senso alla brutalita' o al torpore della nostra vita con scelte degne, nobili, responsabili e chiare oggi piu' che mai.
3. MEMORIA. ANNA BRAVO: LA SHOA' E I GIUSTI IN ITALIA
[Riproponiamo ancora una volta il seguente saggio di Anna Bravo originariamente pubblicato come voce "Giusti d'Italia", nel Dizionario dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004, 2007 (edizione italiana curata da Alberto Cavaglion).
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008. Si veda anche l'intervista apparsa nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 353]
Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi.
Gli aspetti favorevoli allpopera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure 8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che a agire e' una minoranza.
Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della "personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e alti funzionari delle zone occupate dall'Italia - Croazia, sud della Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli arresti di ebrei del luogo.
Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare, amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi, spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu' continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli.
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Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa salvatori.
Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici, storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le istituzioni statali svuotate.
Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica).
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Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire dalla Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento partigiano del centro-nord.
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Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu' eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute, e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato, fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per 20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia delle forze della resistenza e del clero locale.
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34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco, profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945; l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex ospiti.
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Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre vie.
Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto, cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera. Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro Giusto, don Carlo Salvi.
Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie: in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate '44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici.
A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto.
Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini gli aveva confidato di aver ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro religione e religiosita'.
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Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu' singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola, che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi, e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine, circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del 44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei fascisti spagnoli.
4. MEMORIA. ANNA BRAVO: LA COMPASSIONE NELLA RESISTENZA
[Nuovamente riproponiamo e nuovamente ringraziamo Anna Bravo per averci messo a disposizione questo suo intervento apparso sul quotidiano "La repubblica" del 24 aprile 2006]
Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che ha stimolato reazioni le piu' varie. Si e' parlato del tasso aggiuntivo di violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi fasciste e naziste. Ma quasi mai si e' puntato a una nuova sacralizzazione della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle generalizzazioni in negativo non si e' risposto con generalizzazione di segno contrario, come avviene con i temi piu' esposti all'uso pubblico della storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabu' politici e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda.
Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto e' che Il sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza partigiana. Con il rischio di ridare legittimita' alla vecchia divisione dei ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti, l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas - in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi, tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata sulla tutela di regole elementari di umanita' e sulla salvaguardia di beni essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza distinzioni. Non solo i vescovi, per la verita': ci sono donne che nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione aiutano isolati militari tedeschi, perche' un nemico vinto e in fuga smette di essere un vero nemico.
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Puo' allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo "scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si e' fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come e' avvenuto per decenni. E' vero che il ritiro del consenso al regime e' diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra all'orgoglio individuale o di comunita' - penso a molti episodi di protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo "esistenziale", che cosi' come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima persona, puo' svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave politica e' stato una sorta di imperialismo retrospettivo.
Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla societa', e punta invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza e per la sua versatilita', che puo' aiutare a rompere la contrapposizione fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono radicali.
Sul piano generale, ogni movimento di resistenza si muove nella logica della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio, ed e' loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorita' e' colpire il nemico, il che puo' portare a esiti drammatici. Ne racconta un esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per travolgere tutti i protagonisti.
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Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna capitalizzare i piccoli passi.
Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa della donna, l'organizzazione piu' attiva nel sostenere le proteste contro la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E Nelia non e' stata certo la sola.
Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto piu' noto e' la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio economico e di potere, e' stata incoraggiata dai partigiani. A volte si concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala.
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Mi chiedo perche' temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal dibattito. E mi rispondo cosi': forse a qualcuno sarebbe sembrato di accampare attenuanti per una responsabilita' che si stentava a attribuire ai propri compagni. Forse semplicemente non ci si e' pensato, e non e' una dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura, della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E si' che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziche' a distruggere, capace di una pieta' dolorosa e affettuosa verso persone, animali, piccole cose, verso tutto cio' che e' esposto, indifeso, alla guerra, e' un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino).
Gli aspetti piu' singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per organizzare le onoranze funebri delle vittime dei tedeschi, impresa decisiva per l'autostima di una collettivita'; spiccano quei Cln che si fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati citta' gia' normalizzate. Ma quello spirito si puo' esprimere in occasioni e attraverso soggetti imprevisti, fino a fondersi con una bellicosita' all'apparenza fine a se stessa.
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Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina. Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora piu' pittoresco del solito (e il suo solito era gia' spettacolare); indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho sentito le persone piu' disparate ricordarlo con compiacimento mentre passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari" con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa ne' gradi, e alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella esibizione di mascolinita' superarmata curava una ferita simbolica piu' diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria. Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della rispettabilita' pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro merce'.
Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun significato negativo: la marcia del sale di Gandhi e' stata un grande pezzo di teatro politico). In piu', con il suo talento di eroe popolare, sapeva che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi piu' micidiali rincuorava persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che con ogni probabilita' temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto. Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che avevano in mente i partiti antifascisti.
Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse piu' spazio per storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso.
5. INCONTRI. SI E' SVOLTO IL 21 GENNAIO A VITERBO UN INCONTRO DI STUDIO
Venerdi' 21 gennaio 2011 a Viterbo, presso la sede del "Centro di ricerca per la pace", si e' svolto un incontro di studio.
L'incontro e' stato dedicato allo studio di Max Weber e Georg Simmel e ad alcune questioni di sociologia generale.
6. APPELLI. PER SOSTENERE IL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Sostenere economicamente la segreteria nazionale del Movimento Nonviolento e' un buon modo per aiutare la nonviolenza in Italia.
Per informazioni e contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
7. STRUMENTI. "AZIONE NONVIOLENTA"
"Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata da Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito sulle tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 30 euro sul ccp n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona.
E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto "copia di 'Azione nonviolenta'".
8. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Luca Bagetto, Etica della comunicazione. Che cos'e' l'ermeneutica filosofica, Paravia, Torino 1999, pp. 158.
- Eleonora Missana, L'etica nel pensiero contemporaneo, Paravia - Bruno Mondadori, Torino-Milano 2000, pp. 212.
- Elena Soetje, La responsabilita' della vita. Introduzione alla bioetica, Paravia, Torino 1997, pp. 138.
9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.
10. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 443 del 22 gennaio 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
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