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Coi piedi per terra. 265
- Subject: Coi piedi per terra. 265
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 17 Jun 2010 11:35:04 +0200
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COI PIEDI PER TERRA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 265 del 17 giugno 2010
In questo numero:
1. Aggiornato il sito www.coipiediperterra.org
2. Jean-Marie Muller: Significato della nonviolenza (parte seconda e
conclusiva)
3. Per contattare il comitato che si oppone al mega-aeroporto di Viterbo e
s'impegna per la riduzione del trasporto aereo
1. STRUMENTI. AGGIORNATO IL SITO WWW.COIPIEDIPERTERRA.ORG
E' stato aggiornato il sito del comitato che si
oppone al mega-aeroporto di Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto
aereo: www.coipiediperterra.org
Nel sito sono disponibili e agevolmente
consultabili tutti i fascicoli del notiziario "Coi piedi per terra", che
costituiscono una sorta di enciclopedia in progress delle molte ragioni per
opporsi non solo all'illegale e devastante mega-aeroporto a Viterbo, ma anche
piu' complessivamente al dissennato incremento del trasporto aereo. Il sito contiene anche una documentazione fotografica di alcune iniziative del comitato, sezioni specifiche che presentano comunicati, relazioni, interviste, bibliografie e sitografie, link utili e siti amici, un'ampia cronologia delle attivita' svolte, una sezione in lingua inglese particolarmente apprezzata. Di particolare rilevanza e' un'ampia sezione di testi di studio, che presenta anche opere integrali di Gunther Anders, Piero Calamandrei, Aldo Capitini, Susan George, Martin Luther King, Alexander Langer, Primo Levi, Giulio A. Maccacaro, Jean-Marie Muller, Vandana Shiva, ed ancora altre autrici ed altri autori. Nel sito e' ospitato anche uno spazio dell'Isde di Viterbo (l'Isde e' la prestigiosa Associazione italiana medici per l'ambiente - International Society of Doctors for the Environment Italia). 2. TESTI. JEAN-MARIE MULLER: SIGNIFICATO DELLA NONVIOLENZA (PARTE SECONDA E
CONCLUSIVA)
[Riproponiamo ancora una volta questo testo di uno dei massimi studiosi e
amici della nonviolenza; esso e' stato pubblicato nel 1974 e tradotto in
italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller, Significato
della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980: da questo
opuscolo abbiamo ripreso il testo del solo saggio mulleriano, ivi alle pp.
7-27.
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative
nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi
presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits
(Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo
avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle
armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour
une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader
dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente
armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel
far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la
non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005]
Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l'intendiamo generalmente, e' un metodo che
si apparente direttamente all'azione nonviolenta: e' una azione di
non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L'analisi
sulla quale si fonda lo sciopero e' questa: se i borghesi, vale a dire i
proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e la
loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta per
questi di cessare ogni attivita' per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e cio' e' al di fuori del nostro proposito,
pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza.
Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se queste
violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente detto. Ci
si puo' d'altronde chiedere se queste violenze non siano venute piuttosto a
screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come lo sciopero di
Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero puo' essere condotto con piu'
efficacia in una prospettiva nonviolenta.
*
Il boicottaggio
Il boicottaggio e' ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano
economico: rifiuto di far beneficiare l'altro del mio potere d'acquisto che
diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio avversario.
C'e' soltanto da constatare che questa forma di lotta e' stata pochissimo
utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera; potrebbe certamente
essere utilizzata meglio, in particolare nell'ambito delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati
Uniti, che avevano una fortissima clientela nera e nonostante cio' si
rifiutavano di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di
sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo decisero
il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero sufficiente di posti di
lavoro non fossero stati creati per i neri. Da quel giorno piu' nessun nero
ando' a rifornirsi in quei magazzini. Molto rapidamente, dopo una settimana o
due, i proprietari di quei magazzini decisero di soddisfare le richieste di M.
L. King.
E' interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno
indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di Martin
Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri? Si erano forse
convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto questa eventualita'.
Tuttavia la piu' verosimile e' che la minaccia del fallimento, che incombeva su
quei magazzini, li ha costretti e cedere: cio' traduce perfettamente la nozione
di costrizione e tuttavia di una costrizione senza violenze.
*
La lotta di classe
Esaminero' un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera
notevolissima la possibilita' di condurre con la nonviolenza uno sciopero e un
boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza puo' forse soddisfare le esigenze
spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non puo'
assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto cio' sia fondato,
soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno
per molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la
realta' stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non
insegnava la lotta di classe, ma l'amore delle classi, come se fosse possibile
l'amore in situazioni di ingiustizia. E' una presa in giro predicare l'amore
quando da una parte esistono poveri che restano poveri e dall'altra parte ricchi
che intendono restare ricchi. Logicamente, cio' non vuol nemmeno dire che il
fatto di riconoscere la lotta di classe e parteciparvi debba necessariamente
sfociare in scontri violenti. Ma c'e' una certa nonviolenza che non merita
nemmeno di essere presa in considerazione: quando i poveri sono pronti a
scendere in piazza per far riconoscere i loro diritti, forse da quel momento i
ricchi saranno tentati di parlare di nonviolenza. In questo senso vi e' un
rischio di recupero della nonviolenza da parte delle classi privilegiate. Cio'
spiega quella diffidenza, cosi' caratteristica di quelli che sono impegnati
nella lotta per la giustizia, nei confronti della nonviolenza: hanno paura che
essa generi una certa smobilitazione. Ma, al di la' degli equivoci, deve essere
invece chiaro che non soltanto la nonviolenza non e' smobilitazione, ma che e'
un appello alla mobilitazione, un appello alla lotta.
*
L'azione di Cesar Chavez
L'azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta
da noi, e' un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno la
possibilita' di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i
responsabili dell'azione, i leaders del movimento, diano ordini precisi in
questo senso.
Cesar Chavez non e' venuto in mezzo ai poveri, e' nato in mezzo a loro; e'
nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che
costituiscono la mano d'opera preferita dai grandi proprietari agricoli degli
Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello
"establishment" della societa' americana, non e' la stessa cosa nel campo
agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e
propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine messicana,
che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso disorganizzato e
supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti fino allora per
giungere all'organizzazione di questa popolazione erano falliti. Tanto erano
potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Cbavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di
"coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla
nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle
autorita' federali, cioe' governative, poterono comunque reclutare altrettanto
rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro che guadagnare
un po' di denaro per sopravvivere. C'erano dunque dei "crumiri" che hanno
permesso il raccolto dell'uva, sebbene ci fossero stati picchetti di sciopero
che, ancora una volta, non intendevano fare uso della violenza ma tentavano di
mostrare il senso dello sciopero e che era nell'interesse di tutti
parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar
Chavez decise di affiancare allo sciopero il bolcottaggio. Proclamo' cosi' il
boicottaggio dell'uva, dapprima nelle grandi citta' degli Stati Uniti. Gli
scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di spiegare
le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo boicottaggio si
dimostro', molto presto, di un'efficacia sorprendente. Cbavez ottenne subito il
concorso dei militanti del movimento di M. L. King, e in particolare degli
studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo, il boicottaggio dell'uva
divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d'un qualche rilievo, la
repressione si abbatte' su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire
violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente
Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivo' al punto di prendersi
beffa di loro mangiando un grappolo d'uva davanti alle telecamere. Per vendere
il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l'uva: interi mercantili
furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarieta' col movimento
di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l'uva. Ultimo tentativo fu quello
di spedire l'uva ai soldati americani nel Vietnam che dovettero mangiare uva
dalla mattina alla sera. Ma cio' non e' stato sufficiente. Dopo uno sciopero e
un boicottaggio durati cinque anni, i proprietari furono costretti a cedere alle
rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi e' diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani;
i sindacati riprendono sempre di piu' questi metodi nonviolenti e tentano di
accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto
secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di fronte ai
rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l'azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare
l'aggressivita' dei poveri, nel creare il conflitto, e' dunque inevitabile che
ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi e se
questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sara' da
stupirsi se da un momento all'altro, esasperati, ricorrono alla violenza. Ma a
questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della violenza,
intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni tattiche (sapeva
bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero potuto benissimo
scatenare una repressione brutale). Digiuno' per venticinque giorni, non perche'
i proprietari cedessero alle sue esigenze, ma perche' gli operai stessi
accettassero di attenersi ai principi dell'azione nonviolenta. Dopo quei 25
giorni di digiuno, essi giunsero ad un accordo, cio' che ha certamente reso
possibile al movimento di durare e infine di riuscire.
*
Il boicottaggio del caffe' dell'Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffe' dell'Angola organizzato nei
Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti piu' importanti per il finanziamento della guerra coloniale
condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano sull'esportazione
dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffe' dell'Angola rappresentava una parte importante
dell'esportazione totale (32%) e, dall'altra parte, i Paesi Bassi erano il
secondo paese importatore di questo caffe' (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d'azione per l'Angola lancia il boicottaggio
del caffe' organizzando una campagna d'informazione sulla situazione nelle
colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffe' angolano e'
un atto di collaborazione con la politica condotta dal Portogallo. Questa azione
ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e il boicottaggio riscontro'
rapidamente un grande successo. Alla fine di un mese, nemmeno un grano di caffe'
dell'Angola era piu' in vendita sul mercato dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l'opinione pubblica olandese
era mobilitata per altre battaglie.
*
La disobbedienza civile
La piu' forte azione di non-collaborazione e' l'azione di disobbedienza
civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la
disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di
smobilitare le energie e le volonta' necessarie nella lotta per la giustizia,
cosi' da destra siamo accusati di rimettere in discussione la legalita' e
l'ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione che non sarebbe
affatto nonviolenta.
E' vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non
la preconizza a sproposito. In ogni societa' le leggi hanno una loro funzione.
La funzione della legge e' insieme quella di mantenere l'ordine e di promuovere
la giustizia; essa percio' deve difendere i diritti dei piu' poveri contro i
privilegi dei piu' ricchi. C'e' da dire poi che le leggi non sono stabilite una
volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in discussione per
migliorarle. Quando la legge non adempie piu' alla sua funzione, anzi, al
contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi dei privilegiati, dei
ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei piu' sfavoriti, quando la
legge copre e garantisce l'ingiustizia, non soltanto e' un diritto, ma e' un
dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in
maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare sistematicamente
l'obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non puo' imporsi a noi su dei problemi di
coscienza. E' ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine
puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perche' su tali problemi
le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi che impegnano
invece realmente la nostra responsabilita' morale, non ci e' possibile
rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della maggioranza. E' a questo
punto che la nonviolenza preconizza la disobbedienza civile. Questa possibilita'
di disobbedire alla legge e' necessaria all'equilibrio stesso della
democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in
coscienza obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere
complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la
possibilita' di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio
universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi totalitari
per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, pero', riconoscerne i limiti.
Bernanos diceva che "il suffragio universale non rende alla fin fine piu' liberi
gli uomini di quanto la lotteria nazionale non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perche' il potere cambi politica o per
provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il
proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto di
disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l'ingiustizia. Gandhi
afferma: "la vera democrazia non verra' dalla presa del potere da parte di
qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli abusi delle
autorita'". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la presa del potere
per il popolo e' una delle piu' pericolose deviazioni dove si finisce molto
spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, percio', a evitare questa
deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per proprio fine la
presa del potere per il popolo, ma la presa del potere direttamente da parte del
popolo stesso. Non e' lo Stato forte a costituire la vera democrazia, ma i
cittadini liberi.
Tra l'insufficienza della scheda elettorale e l'inefficacia del lancio di
pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per
l'azione politica.
*
La vera figura di Gandhi
Prendero' un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta
da Gandhi per l'indipendenza dell'India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perche' nella maggior
parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio e' stato
volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per
terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che
questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi
accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che
Gandhi ha potuto acquistare l'indipendenza del suo paese di fronte all'impero
britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play" dei gentlemen
britannici, come se a quell'epoca l'impero britannico fosse pronto a lasciare le
Indie e come se fosse bastata la santita' attribuita, a torto o a ragione, a
Gandhi perche' gli Inglesi accettassero di partire. Credo che sarebbe
interessante studiare a fondo quali siano le azioni di Gandhi e quale fu la sua
strategia. E' utile sottolineare, a questo proposito, che i membri del Congresso
dell'India, primo dei quali Nehru, non condividevano le convinzioni religiose e
morali di Gandhi. Se Nehru accetto' di seguire Gandhi nella pratica della
nonviolenza e' soltanto perche' questa si dimostro' efficace. E il popolo
indiano non era per niente pronto ad attenersi alle esigenze della nonviolenza
di Gandhi, che e' estranea alla tradizione religiosa dell'India. Come tutti gli
altri popoli, e forse piu' ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la
rassegnazione e la violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non e' orientale
ma occidentale, non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma
all'azione all'interno dei conflitti.
*
La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza
civile e' una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge che
nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si
trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare una
tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia veniva a
simboleggiare tutta l'ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzo' una lunga marcia attraverso l'India per diverse centinaia
di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli abitanti e
li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del mare, compi' il
simbolico gesto di raccogliere dell'acqua per poterne estrarre il sale. Da quel
momento preciso, Gandhi per l'impero britannico era diventato un ribelle. Il
governo, a dir la verita', era molto imbarazzato perche', o arrestava Gandhi,
facendone cosi' un martire e aumentandone di conseguenza il prestigio presso le
masse indiane, o non lo arrestava affatto, dimostrando cosi' di tollerare la
sfida aperta e dando, in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale
delle autorita' ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si
arresto' Gandhi ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano
imitato; perche' questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma
esigevano di andarci. Esiste, pero', un limite di saturazione delle prigioni
oltre il quale un governo non puo' piu' governare in completa serenita'. Si puo'
discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate in
prigione per far si' che un popolo sia piu' forte di qualsiasi governo - Martin
Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi:
non soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema
dell'indipendenza.
*
La violenza e' l'arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte
alle situazioni d'ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non
esiste piu' che una sola soluzione e che questa soluzione e' la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione puo' essere la violenza? E anche: la
violenza puo' veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King mori',
ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva
potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti
violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva
allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani
Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva
chiedere, gia' da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi sul
piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e di
stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacita' di repressione di cui dispone il potere
bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per
intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva gia' essere previsto: i movimenti neri che
si richiamano alla violenza si trovarono nella incapacita' di mettere in opera
azioni rilevanti all'infuori di qualche colpo di mano che potevano effettuare.
La stampa ne parlo': il partito delle "Pantere Nere" che e' stato il piu'
rappresentativo di questo movimento violento e' attualmente smantellato, si
trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi della repressione del
potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver puo' moltiplicare, da Algeri dove si
trova in esilio, le dichiarazioni fracassanti contro il potere bianco, ma cio'
non puo' venire in aiuto ai neri che sono negli USA; cosi' pure Stokely
Carmichael, che fu uno dei leaders del "Potere Nero", che milito' nelle file
delle "Pantere Nere" e che si trova ora in Guinea, di la' non puo' proporre ai
suoi fratelli degli Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra
Africa.
Cosi' nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella
affermazione che solo la violenza puo' essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento e' stato trattato da dom Helder Camara
quando gli e' stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento,
necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il nostro
avversario avra' sempre un numero maggiore di armi e piu' perfette delle nostre;
e' vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova di forza".
Il Padre Comblin e' venuto a confermarci nell'aprile '72 le affermazioni di
dom Helder Camara: "Una piccola parte dell'opposizione e' entrata nella
clandestinita', ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato delle
operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un apparato di
repressione estremamente potente, che e' riuscito praticamente non solo a
contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre piu'. E, in
questo momento, il potere alimenta una psicosi d'angoscia che sta creando un
"circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere: sentendosi
minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei controlli sempre
raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di paura, la quale
provoca a sua volta una piu' grande angoscia nei dirigenti... e cosi' di
seguito". ("Informations catholiques internationales", 15 aprile '72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la
capacita' di violenza degli oppressori sara' sempre smisuratamente piu' grande
della capacita' di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia
per porci sul piano della violenza e', in fondo, un errore strategico: quando un
movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene ad offrire
all'avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la sua
repressione.
Ogni dibattito pubblico che sara' aperto da atti di violenza non vertera'
sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi, sui
metodi che sono stati utilizzati. L'azione armata attira l'attenzione
dell'opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull'ingiustizia che
io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all'avversario
i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire che
i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - e' certo che in una
prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata sul
movimento nonviolento e la sua forza consistera' nella misura della capacita'
che avra' di resistere a questa repressione - ma questa repressione restera'
senza vera giustificazione; essa arrivera' al contrario a screditare quelli che
l'esercitano e ad accreditare, per cio' stesso, il movimento.
*
La nonviolenza e' preferibile
Data l'ignoranza e insieme il disprezzo nei quali e' stata tenuta fino ad
ora la nonviolenza, non e' concepibile che essa sia in grado di risolvere tutti
i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall'una e
dall'altra parte; non e' facile, a partire di la', tentare di intravvedere una
soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d'accordo su questa ipotesi di lavoro: se
la nonviolenza e' possibile, allora essa e' preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto
cariche di grossissima responsabilita' nel governo rivoluzionario, chiedevo se
credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo algerino.
Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi era il maestro
al quale ci ispiravamo". Perche' diceva questo? Precisamente perche' Gandhi fu
il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo lasciati prendere forse
troppo dall'idea che il colonialismo britannico fosse un colonialismo dove il
"fair-play" prevaleva sulla brutalita' - cio' costituisce, invece, una
contro-verita' storica. Gandhi appariva in effetti ai popoli colonizzati come
colui che, per primo, si oppose a questa oppressione. Ma, aggiungeva
quest'algerino, non conoscevamo proprio niente di questa nonviolenza, non ne
eravamo per niente preparati, e non ci era assolutamente possibile costruire la
nostra lotta in questa prospettiva. Diceva ancora - ed e' proprio questo che mi
pare molto interessante: "attualmente mi interesso e studio sulla possibilita'
della nonviolenza, perche' se la nonviolenza e' possibile, sarebbe criminoso per
un rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza e', dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di
studiare le possibilita' offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l'abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre
accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie
caricature della nonviolenza; cio', evidentemente, ci permetteva di condannarla
piu' facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti
per la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per
la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di cio' che puo' essere fatto,
cercando di discernere cio' che e' possibile da cio' che non lo e'. Comunque, se
la nonviolenza non puo' permetterci di risolvere subito tutti i nostri problemi,
ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere
questioni, finiremo certamente con l'entrare insieme nelle vere
risposte".
3. RIFERIMENTI. PER CONTATTARE IL COMITATO CHE SI OPPONE AL MEGA-AEROPORTO
DI VITERBO E S'IMPEGNA PER LA RIDUZIONE DEL TRASPORTO AEREO
Per informazioni e contatti: Comitato che si oppone al mega-aeroporto di
Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto aereo, in difesa della
salute, dell'ambiente, della democrazia, dei diritti di tutti: e-mail:
info at coipiediperterra.org , sito: www.coipiediperterra.org
Per contattare direttamente la portavoce del comitato, la dottoressa
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Numero 265 del 17 giugno 2010
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