La domenica della nonviolenza. 228



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 228 del 9 agosto 2009

In questo numero:
1. Peppe Sini: Per Giovanni Jervis
2. Stefano Mistura ricorda Giovanni Jervis
3. Alcuni estratti da "Contro il relativismo" di Giovanni Jervis

1. LUTTI. PEPPE SINI: PER GIOVANNI JERVIS

Come molti, anch'io in quegli anni ho letto il Manuale critico di
psichiatria; e ancora oggi lo consiglio ai giovani e agli studenti che mi
chiedono di indicar loro qualche buon libro: e tra quelli che piu'
frequentemente suggerisco ci sono le Tre ghinee di Virginia Woolf, I
sommersi e i salvati di Primo Levi, la Grammatica della fantasia di Gianni
Rodari, ed appunto il Manuale di Jervis.
E come molti, anch'io in quegli anni ho letto Il buon rieducatore; che e'
una raccolta di saggi esemplare di una temperie e di un momento storico
(dalla meta' degli anni '60 alla meta' degli anni '70), ed e' una sventura e
uno scandalo che molti ne abbiano letto solo il primo testo, e lo abbiano
letto male, e solo a fini polemici.
*
Sul finire degli anni '70 ho dato anch'io una mano alla lotta contro la
violenza manicomiale. Ho animato l'esperienza dei "comitati democratici
contro l'emarginazione" che condussero per alcuni anni un'ampia iniziativa
per l'abolizione dei manicomi criminali (i famigerati Opg, che ancora
sussistono, sopravvissuti sia alla riforma penitenziaria del '75 sia alla
riforma dell'assistenza psichiatrica del '78: un'istituzione totale che
cumula le violenze del carcere e del manicomio). Nel vivo di
quell'esperienza di lotta, come e' abitudine di ogni persona onesta ho
voluto anche seriamente studiare cio' di cui mi occupavo, e cosi' ho letto,
ruminato e postillato centinaia di libri e migliaia di saggi ed articoli
sulla psichiatria e l'assistenza psichiatrica; formandomi anche un
convincimento che ancora mi accompagna, ovvero che quell'esperienza (che
convenzionalmente chiamiamo del movimento di psichiatria democratica e della
lotta ai manicomi), ed in essa particolarmente la riflessione concreta di
Franco Basaglia e di Franca Ongaro Basaglia, costituisca il contributo piu'
grande della cultura italiana del Novecento alla civilta' umana. In quel
movimento, in quelle esperienze teoriche e pratiche, e' ovvio e banale
cogliere affinita' e  divergenze, equivoci e rotture, la pluralita' e
contradddittorieta' di linguaggi e di prassi e di prospettive (e basti
leggere almeno quelle due corpose antologie curate allora da Laura Forti per
Feltrinelli e da Luigi Onnis e Giuditta Lo Russo per Savelli per cogliere
l'ampiezza e la diversificazione delle posizioni nel movimento a livello
internazionale), ma su tutto il resto prevaleva quell'afflato e
quell'impegno di solidarieta' e di liberazione e di responsabilita' (nel
senso forte levinassiano) che resta eredita' decisiva e irrinunciabile.
Le polemiche di allora e di oggi tra quanti sono stati e sono ancora
impegnati sullo stesso fronte, per quanto aspre esse siano state e siano,
non mi impressionano: sono un vecchio militante, e so come vanno certe cose,
e quanto e' facile che le parole vadano oltre la misura e quanto e'
difficile poi ad ogni orgoglioso e ferito cuore dire quelle due magiche,
magiche parolette che suonano "chiedo scusa". Le polemiche invece promosse
dai violatori della dignita' umana e dai loro manutengoli non mi
interessano: trovo orribile che vi sia ancora chi pensa che sia una buona
idea mettere in gabbia le persone o bruciare loro il cervello.
*
Ho continuato da allora a leggere Jervis, come molti altri e molte altre che
furono compagni di lotta in quegli anni, e maestre e maestri. Sovente
dissentendo e colluttando, ma mi capita con tutti gli autori che leggo
(intendo: quelli che leggo per il piacere e il nutrimento del mio spirito;
prescindo qui da tutta l'immondizia su cui quotidianamente devo affondar gli
occhi e consumar le ore per obbligo di lavoro o di cortesia); sovente
dissentendo e colluttando, ma sempre anche saggiando e apprezzando, e fin
nella colluttazione valorizzando e tesaurizzando quel che di vero trovi
anche in cio' che non condividi o ti pare sforzato o non sufficientemente
temperato.
Ora che Giovanni Jervis e' deceduto mi sembra quasi che il suo ricordo, il
suo volto, si ricongiunga a quello dell'eroico suo padre, di cui tutti
leggemmo quell'ultimo messaggio nelle Lettere dei condannati a morte della
Resistenza.
E alla memoria di entrambi anch'io ora m'inchino e rendo ancora omaggio.

2. LUTTI. STEFANO MISTURA RICORDA GIOVANNI JERVIS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 agosto 2009 col titolo "Giovanni
Jervis. La forza di passioni condivise" e il sommario "Dagli anni con
Basaglia a quelli dell'insegnamento vissuto come missione. Vicenda anche
etica, che si intreccia con la storia di Resistenza e antifascismo. Un
ricordo dello psichiatra scomparso domenica"]

Alla fine degli anni Sessanta, era facile stringere amicizia. Non mancava,
in quegli anni, il coraggio di mirare a obiettivi precisi e in tal modo
costruire forme di comune e condivisa appartenenza. Accadde cosi' anche
quando l'allora trentaquattrenne Gionni - con questo nome conoscenti e amici
chiamavano Giovanni Jervis - e io, che ero poco piu' che un ragazzo, ci
incontrammo. Era il '67 e il nostro legame e' durato tanto a lungo che e'
difficile realizzare che proprio ora quell'appartenenza, quella
condivisione, quel vivere comune fatto di studi, discussioni e lavoro si e'
interrotto per sempre a causa della sua morte, avvenuta domenica scorsa.
*
Un maestro raro
Detto cosi', tutto appare semplice, ma in realta' nei giorni trascorsi
all'Ospedale psichiatrico di Gorizia, dove Jervis lavorava nel gruppo
costituitosi attorno a Franco Basaglia, prendeva forma un modo nuovo di
insegnare e di "trattare" con i giovani. C'era un clima di attenzione e cure
verso di loro di cui presto si sarebbe persa traccia. Giovanni Jervis e'
stato un maestro raro per tanti, soprattutto perche' non ha mai desiderato
"allievi conformi", ne' ha mai mostrato di subire il fascino delle
tentazioni scolastiche pure e semplici. Con Jervis si poteva nutrire la
naturale attitudine alla critica e anche intensificare la propensione a
interrogarsi reciprocamente e a fare domande. Pur muovendo da un rigore
scientifico e intellettuale ricercato e praticato fino all'acribia, con lui,
pero', non ci si sentiva mai "pieni di certezze", non si era mai pronti a
dare sempre e comunque risposte, si preferiva piuttosto apparire alla
ricerca di un altro orizzonte capace di cogliere meglio la realta' in cui
eravamo immersi. Non e' possibile mantenere il silenzio quando si riflette
sul rapporto tra Franco Basaglia e Giovanni Jervis: per oltre dieci anni -
da vivi - e poi fino a oggi, quando anche Gionni non c'e' piu', si e'
fantasticato e si fantastica su un presunto, profondo dissidio tra i due.
Dissidio che e' stato, anche recentemente, enfatizzato in occasione
dell'uscita dell'ultimo libro di Jervis, La razionalita' negata (Bollati
Boringhieri, 2008), dedicato all'origine e al destino della legge di riforma
psichiatrica in Italia.
Se si fa riferimento alle diverse e complesse personalita' di questi due
grandi psichiatri, alle loro diverse maniere di pensare, al diverso modo che
avevano di affrontare i problemi concreti, al modo altrettanto diverso di
impostare le loro relazioni interpersonali, allo "stile di comando" quasi
incomparabile, alle diverse (almeno in parte) ascendenze culturali, non si
puo' che constatare che erano due persone per tanti versi agli antipodi. Una
era certamente piu' passionale dell'altra, ma spesso erano in grado di
completarsi a vicenda. Detto della diversita' di carattere e disposizione
d'animo, non si puo' pero' sostenere che avessero valori di riferimento
inconciliabili o che, peggio, Jervis, il piu' giovane tra i due, potesse
essere considerato un "traditore" della giusta causa. Entrambi, con le
modalita' a loro peculiari, su terreni solo apparentemente lontani, hanno
saputo tenere viva la capacita' di indignarsi di fronte all'ingiustizia,
alle forme assistenziali segnate dall'abbandono, alla cialtroneria
professionale che si disinteressa delle storie sociali come di quelle
individuali. Entrambi si irritavano quando vedevano "aleggiare la forza
dell'ideologia". Non sopportavano la posizione di tutti quelli - e non erano
pochi - che sostenevano l'inesistenza delle malattie mentali, magari
attribuendo l'origine del disturbo psichico a qualche causa sociale.
Basaglia e Jervis sapevano distinguere il problema della genesi della
malattia da quello della sua gestione terapeutico-assistenziale. La tendenza
a descriverli, oggi, come due eterni duellanti e' quanto meno ingenerosa.
Certo erano diversi, ma nel loro patrimonio culturale non albergava alcun
semplicismo e non ragionavano servendosi di formulette riduttive.
Per quasi tutti gli anni Settanta, Jervis si e' dedicato a una vasta opera
di costruzione istituzionale. Mentre proseguiva la sacrosanta lotta contro
la violenza manicomiale, ebbe l'occasione di sperimentare nella provincia di
Reggio Emilia la prima rete di Centri di salute mentale ordinata e coerente.
*
Vocazione e pratica istituzionale
Ancora oggi i Servizi psichiatrici territoriali piu' evoluti in Italia si
ispirano direttamente o indirettamente a quella esperienza. In particolare,
lo si puo' affermare per quei Dipartimenti di salute mentale, ancora non
troppo numerosi malauguratamente, che comprendono, accanto alla psichiatria
per gli adulti, anche la neuropsichiatria infantile e adolescenziale, il
Servizio di consulenza per le altre agenzie socio-sanitarie, quello per le
tossicodipendenze e quello per il servizio psichiatrico negli istituti
penitenziari. Il frutto teorico di quegli anni e' raccolto in tre libri:
Manuale critico di psichiatria, Il buon rieducatore, editi da Feltrinelli
nel 1975 e nel 1977 e, appunto, l'ultimo lavoro dal titolo La razionalita'
negata.
Dalla fine degli anni Settanta Jervis ha abbracciato la sua vocazione piu'
genuina: l'insegnamento. E' stato un maestro rigoroso, riflessivo, critico e
autocritico, teso al continuo approfondimento, dotato di una straordinaria
virtu': la chiarezza. Non ha mai lasciato intendere di potere dare risposte
definitive, qualsiasi fosse il campo che stesse affrontando. Pur essendo un
uomo pubblico e' rimasto sempre e assolutamente schivo, infastidito da ogni
forma di demagogia, di arrivismo, di sensazionalismo, di superficialita'.
Importanti sono anche i libri che racchiudono corsi e percorsi del suo
insegnamento presso la Facolta' di Psicologia dell'Universita' "La Sapienza"
di Roma, da Presenza e identita' (Garzanti, 1992) alla Conquista
dell'identita' (Feltrinelli, 1997), dai Fondamenti di psicologia dinamica
(Feltrinelli, 1995) alle Prime lezioni di psicologia (Laterza, 1997). Dagli
anni Novanta, fino alla sua scomparsa, Jervis si e' cimentato soprattutto
nel campo della psicoantropologia sociale divenendone un instancabile
promotore culturale e lavorando con le piu' importanti case editrici
italiane. I suoi libri piu' recenti, su tutti Contro il relativismo
(Laterza, 1995) e Pensare dritto, pensare storto (Bollati Boringhieri,
1997), risentono ancora dell'influsso metodologico di Ernesto De Martino,
suo maestro degli anni giovanili, ma appaiono parimenti segnati da una nuova
ansia di verifica scientifica scevra di ogni autoreferenzialita'.
Con molto dolore, mi trovo quindi costretto a "parlare di" Giovanni Jervis
invece che parlare "a lui". Costretto a parlare del maestro e dell'amico che
resta per molti, mentre e' vivissimo il desiderio purtroppo brutalmente
interrotto di discutere con lui, ascoltando il tono inconfondibile della sua
voce, di ascoltarlo parlare di tante cose sempre con un'intelligenza cosi'
lucida, con un ragionamento cosi' suadente, con una generosita' mai stanca.
La sua lucidita' talvolta colpiva duro, era terribile, non lasciava scampo,
non offriva facili concessioni ne' debolezze, ma era comunque priva di ogni
arroganza e sicurezza negativa, che sono cosi' spesso presenze compiaciute
delle coscienze critiche. La sua opera, vale a dire il suo insegnamento, la
sua costruzione istituzionale, i suoi libri, sono testimonianze di una forza
mai doma, pronta alla riflessione e a disegnare progetti. Forza e progetto
che non sono venuti meno, anche nei giorni della malattia.
*
Rigore familiare
Senza indulgere a ricordi sulla sua vita personale, una cosa non si puo'
comunque tacere, e riguarda l'assoluta impossibilita' per Jervis di cadere
in qualche forma di opportunismo, in particolare se erano in gioco interessi
individuali. Questa attitudine verso un'etica personale piuttosto dura gli
derivava dall'atmosfera della sua famiglia d'origine. Gli amici e i lettori
se ne resero conto quando Gionni e la sorella Paola decisero di mettere a
disposizione e rendere in tal modo pubblica la documentazione che attestava
la cattura, la prigionia e la fucilazione da parte dei nazifascisti del
padre Guglielmo. Se si vuole comprendere qualcosa della disposizione etica
di Jervis - e da quale clima culturale avesse ricevuto il calco - e'
sufficiente leggere l'edificante Un filo tenace (Bollati Boringhieri, 2008)
che raccoglie le lettere dal carcere di Guglielmo Jervis, noto col nome di
battaglia di "Willy", medaglia d'oro della Resistenza. All'epoca, Giovanni
aveva dieci anni ed era gia' largamente consapevole di molte cose sul piano
politico. Un giorno del 1969 ebbi occasione di parlarne con Vittorio Foa che
conservava memoria nitida dell'"affare Jervis" e ricordava la gia'
sorprendente maturita' del "piccolo Gionni".
Mi e' capitato molte volte di incontrare persone che avevano avuto
difficolta' a capire taluni aspetti della personalita' di Jervis. Assumevano
come intolleranza e rigidita' cio' che era semplicemente rifiuto della falsa
coscienza e della demagogia. Indubbiamente il trascorrere del tempo aiutera'
a comprendere meglio quanto il lavoro di Giovanni Jervis sia stato prezioso.
*
Postilla. Un intellettuale a tutto campo, fra rigore e metodo critico
Nato a Firenze il 25 aprile del 1933, dopo la laurea in medicina Giovanni
Jervis si specializzo' in neurologia e psichiatria, collaborando
attivamente - dal 1959 al 1963 - alle ricerche di Ernesto De Martino sul
fenomeno del tarantismo e sul tema della fine del mondo e delle "apocalissi
culturali". Dal 1966 al 1969 ha lavorato con Franco Basaglia, nel periodo
d'oro di gestazione della legge 180, lavorando nella Comunita' terapeutica
di Gorizia, e diventando in seguito - fino al '77 - direttore dei Servizi
psichiatrici territoriali di Reggio Emilia. Sempre nel '77, Jervis scelse di
dedicarsi all'insegnamento accedemico, come professore di Psicologia
dinamica presso la Facolta' di Psicologia dell'Universita' "La Sapienza" di
Roma. Consulente di molte case editrici, da Feltrinelli a Garzanti, fino a
Einaudi e Bollati Boringhieri, Jervis ha ricoperto fino in fondo, anche in
ambito editoriale, un ruolo da intellettuale militante. Dopo lo storico
Manuale critico di psichiatria edito da Feltrinelli nel 1975, sul quale si
sono formate intere generazioni di operatori sociali, Jervis si era a poco a
poco orientato sui temi delle illusioni e delle credenze sociali. Uno dei
suoi ultimi libri, Pensare dritto, pensare storto, edito due anni fa da
Bollati Boringhieri, si presenta come un tentativo di rivalutare un tema,
secondo l'autore, ampiamente sopravvalutato come quello della coscienza. Se
in Pensare dritto, pensare storto le sue riflessioni tenevano in gran parte
conto delle ricerche e degli esperimenti dello psicologo americano Benjamin
Libet sulla questione del libero arbitrio, in Contro il relativismo
(Laterza, 2005), Jervis aveva invece sottoposto al vaglio critico l'impasse
del pensiero debole e del politically correct, frutto a suo dire di
relativismo retrogrado e non fondato sul metodo scientifico. Di recente,
Jervis era tornato sui temi e sul rapporto tra psichiatria e
antipsichiatria, con La razionalita' negata, dialogo con Gilberto Corbellini
a trent'anni dalla cosiddetta legge Basaglia, che porto' alla progressiva
chiusura dei manicomi.

3. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CONTRO IL RELATIVISMO" DI GIOVANNI JERVIS
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Giovanni Jervis, Contro il relativismo. Laterza, Roma-Bari 2005]

Indice del volume
Ringraziamenti; 1. I denti della signora Aristotele, Ernesto De Martino e
l'apparizione di un santo; 2. Uno sguardo d'insieme sul relativismo: Un
dialogo; Le due posizioni in sintesi; Il relativismo come mentalita'; Le
ascendenze storiche del relativismo; Alcune note sul relativismo filosofico;
Il relativismo come ideologia; Il relativismo come risposta alle delusioni
del progresso; Relativismo e cultura di massa; 3. Dall'antropologia
culturale all'antipsichiatria. Il relativismo culturale e i suoi limiti:
Relativismo contro universalismo; L'antropologia culturale americana e la
sua eredita'; Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria; Esiste una
natura umana? Un nuovo naturalismo; Naturalismo e identita' minoritarie;
Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra; Nuove possibilita' di intesa; Il
peso del passato; Un multiculturalismo con la coscienza sporca; Il
relativismo culturale alla prova dei fatti; Perche' non possiamo non dirci
occidentali; 4. Aspetti etici e politici. Il relativismo e il consenso
disinformato: I richiami etici del relativismo; La retorica del relativismo;
Il consenso informato e i suoi insegnamenti; Il problema degli specialismi e
il consenso disinformato; Note.
*
Da pagina 3
I denti della signora Aristotele, Ernesto De Martino e l'apparizione di un
santo
Vari decenni or sono Bertrand Russell si diverti' a scrivere un breve testo
polemico: non pretendeva di essere alta filosofia ma era spiritoso e
sensato. Si chiamava qualcosa come Piccola rassegna di spazzatura
intellettuale, ossia, nell'originale, An outline of intellectual rubbish.
Pubblicandolo, sapeva di esporsi di fronte ai suoi nemici: infatti
sosteneva - nientemeno! - che la spazzatura intellettuale esiste. Forse
poteva permetterselo perche' era Bertrand Russell: ma gia' a quell'epoca
occorreva un certo coraggio.
Per alcuni anni gli studenti furono particolarmente divertiti da uno degli
esempi di quel testo: Aristotele - diceva Russell - sosteneva che le donne
hanno meno denti degli uomini. Cosi', parlando con i suoi allievi Russell
amava aggiungere che il filosofo greco avrebbe fatto meglio a chiedere,
gentilmente, alla sua signora di venire a sedersi per un momento vicino alla
sua scrivania con la bocca spalancata. Qui l'intelligenza e' nascosta sotto
la frivolezza: ovviamente il bersaglio non e' la filosofia antica. Invece,
la critica si rivolge a chiunque non voglia capire che il modo piu' semplice
per evitare di dire sciocchezze - e soprattutto di ripeterne - consiste nel
provare, almeno qualche volta, a fare verifiche in proprio.
Peraltro, bisogna ammetterlo, verificare talora e' difficile, perche' in
certi casi puo' non bastare la comune diffidenza dell'uomo della strada: non
si apprendono in un giorno ne' il metodo sperimentale ne' le valutazioni di
probabilita'. Altre volte, invece, l'andare a controllare risulta abbastanza
facile e quella che manca e' la voglia. O meglio, manca la disposizione
culturale e mentale: Bertrand Russell lo sapeva, e a questo miravano le sue
frecciate. Oggi, poi, in molti casi non e' neanche necessario muoversi da
casa perche' montagne di dati utili per sconfiggere le leggende
metropolitane sono a portata di Google, ossia di pochi click del mouse:
pero', viene da chiedersi, persino fra gli studenti universitari quanti lo
sanno? Quanti ne fanno tesoro? Se devo dar retta alla mia esperienza di
docente, non moltissimi; ed e' un peccato perche' questo tipo di pigrizia
segna - probabilmente - un regresso. Negli anni precedenti il 1968-69, e
cioe' prima che la loro intelligenza cominciasse a essere fiaccata dai
diplomi facili e dall'universita' di massa, gli studenti italiani che
avevano voglia di andare a contare i denti di Aristotele e della sua signora
erano - io credo - abbastanza numerosi.
*
Da pagina 10
Certo non potevamo liquidare cio' che vedevamo come pura superstizione. Come
si puo' intuire, la parola superstizione era tabu' per De Martino e per chi
lavorava con lui, cosi' come la parola folklore; eppure ci rimaneva un
dubbio sui meriti reali di quelle tradizioni salentine, un dubbio che si
rifaceva alla vecchia idea di Marx sulle religioni come oppio dei popoli. Il
tarantismo aveva probabilmente contribuito a mantenere gli equilibri sociali
di quei luoghi, insieme ad altre fedi e ad altri riti: ma era lecito
chiedersi se per caso imprigionasse le persone in schemi estranei
all'evolvere della storia e ostili all'ingresso di nuove idee. Ne discussi
con De Martino. Egli pero' era assai piu' convinto di me che il tentativo di
conferire un senso alla vita mediante il trascendimento magico-religioso
arricchisse i gruppi etnici cosi' come i singoli, rendendoli protagonisti di
cultura ed elevandoli al di sopra di un'inconsapevole dipendenza da eventi
naturali come le malattie.
Io ammiravo la profondita' e l'intelligenza del grande antropologo, imparavo
e riflettevo. Ma non ero sempre convintissimo di tutte le sue idee. Non
poteva darsi invece, insistevo, che gli abitanti del Salento, attraverso i
secoli, non fossero stati per nulla aiutati dalla presenza del mito della
taranta, e cioe' non ne fossero stati incoraggiati ne' a curare in modo
ragionevole il loro benessere fisico e psichico (o almeno, in un modo un po'
piu' ragionevole), ne' a liberarsi dall'umiliazione dell'analfabetismo, ne'
ad affrancarsi dal potere fino a ieri egemone dei feudatari e dei parroci
delle campagne?
*
Da pagina 19
Le difficolta' di convivenza fra i popoli sembrano nascere da altri
meccanismi. La simpatia per la semplice religiosita' di chiunque non esclude
che, nel concreto, le forme storiche delle religioni contribuiscano a
devastare il mondo: a questo punto ci si puo' chiedere quanto incidano i
poteri eccessivi degli apparati ecclesiastici e la tendenza dei fedeli a
eccedere nell'ubbidienza. Questo tema, naturalmente, non e' nuovo e rischia
di sollecitare considerazioni scontate. In una lettera alla figlia decenne,
Richard Dawkins ebbe a scrivere che oltre a esserci, a disposizione di
ciascuno, tante buone ragioni per costruire conoscenze ben fondate, vi sono
anche tre cattive ragioni per acquisire credenze: esse si chiamano
"tradizione", "autorita'" e "rivelazione". E invero fra le piu' naturali
follie della nostra mente sembra vi sia la tendenza a credere che i
principi-guida del comportamento debbano venirci dai grandi interpreti della
volonta' del cielo invece che da tante persone piu' prossime a noi. Queste
ultime, nella maggioranza dei casi, sarebbero state sufficienti a fornirci
gli strumenti per vivere: un papa' con i piedi per terra, una mamma
amorevole e sensata, uno zio che per caso ha viaggiato per il mondo, una
maestra di scuola che ci ha insegnato un po' di storia e di geografia e
incoraggiato a leggere libri illustrati di divulgazione scientifica.
La plasmabilita' del nostro cervello prima dell'eta' adulta puo' anche
essere utilizzata per ottenere risultati sensazionali e, purtroppo,
definitivi: ma bisogna che venga rinforzata da piu' specifici
condizionamenti dottrinari. Se a tre anni crediamo fermamente in Babbo
Natale questo non comporta, con tutta evidenza, nessuna conseguenza
negativa: ogni bambino e' capace di uscire senza aiuti particolari dal mondo
delle fate pur mantenendo negli anni successivi una sanissima, divertita
tenerezza nei confronti di tutte le evasioni fantastiche (un lato
fanciullesco e la capacita' di giocare con l'immaginario, probabilmente,
sono parte intrinseca della migliore sanita' mentale di tutti, adulti
compresi). Ma quando da tempo e' finita l'infanzia con tutti i suoi Babbi
Natale e stiamo gia' affrontando il difficile passaggio all'eta' adulta, se
per caso accogliamo come parte importante della nostra visione del mondo
altre credenze del tutto inverosimili come la verginita' di Maria, la
transustanziazione, l'idea che il papa sia infallibile quando parla ex
cathedra, e magari anche la speranza che Padre Pio ci possa proteggere dal
cielo se usciamo sbronzi dalla discoteca, e' probabile che qualcosa si sia
modificato per sempre nel nostro esame della realta' (l'idea che la grande
tradizione del cristianesimo debba ridursi a credenze del genere non trova,
per fortuna, unanimi consensi).
Si puo' ricordare qui che il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il quale
era un sincero uomo di chiesa e - a quanto pare - assiduo lettore di Pascal,
quando assumeva lo pseudonimo di Lewis Carroll lasciava trasparire qualche
ambivalenza circa i modi in cui si costruiscono le fedi.
"Adesso saro' io a dare a te qualcosa in cui credere. La mia eta' e'
esattamente di centouno anni, cinque mesi e un giorno".
"A questo non posso credere!" disse Alice.
"Non puoi?" disse la Regina in tono di compatimento. "Prova ancora: fai un
respiro profondo, e chiudi gli occhi".
Alice rise. "E' inutile provare", disse, "non si puo' credere a cose
impossibili".
"Oserei dire che non ti sei molto esercitata" disse la Regina. "Quando avevo
la tua eta', io lo facevo per mezz'ora al giorno. A volte mi e' capitato di
riuscire a credere a ben sei cose impossibili prima di colazione".
*
Da pagina 29
Uno sguardo d'insieme sul relativismo
Il relativismo contemporaneo e' molte cose insieme. Non e' solo una
interpretazione del nostro momento storico, come nel post-modernismo di
Lyotard, ne' solo una teoria filosofico-letteraria, come nel
decostruzionismo di Derrida, ne' solo una critica alla conoscenza
scientifica, come nell'anarchismo epistemologico di Feyerabend, e neppure
soltanto una forma di umanesimo ironico, come nei garbati scritti di Rorty.
E', probabilmente, qualcosa di piu' di tutte queste teorie: e' una ideologia
e un modo di pensare. Malgrado le sue dispersioni, il relativismo e' un
atteggiamento non privo di compattezza, coerente nel suo modo di avvicinare
la realta', capace di esercitare il suo influsso su discipline
specialistiche disparate come sulla vita quotidiana di tutti noi, e attivo
persino sulle scelte politiche da cui dipende il nostro futuro. Non e'
banale, spesso non e' stupido, ha aiutato molte persone a riflettere; e se
e' vero che i suoi eccessi offendono il buon senso, le sue radici meritano
attenzione.
Come introdurre un tema che ha tante facce? Per esempio entrando in medias
res. Alla maniera delle aperture teatrali, si puo' immaginare un dialogo, o
confronto-scontro fra un relativista e un anti-relativista.
*
Da pagina 39
Il relativismo come mentalita'
Nell'esaminare le posizioni in gioco, il cui ventaglio e' ampio soprattutto
dal lato dei relativisti, si puo' rischiare di perdere di vista il fatto che
siamo in presenza di due atteggiamenti elementari verso la realta'. Non si
tratta, in pratica, solo di due filosofie ma anche di due mentalita', di due
modi di pensare; o meglio, e ancora piu' radicalmente, di due modi spontanei
di percepire le persone e le cose.
Per capire in che senso questo possa essere vero, si puo' cominciare col
prendere il classico esempio di Frege. Di fronte al desiderio di sapere in
che senso la Stella della sera e' altra cosa dalla Stella del mattino, noi
possiamo interrogare in primo luogo chi e' incline (magari senza saperlo) a
un modo di pensare relativistico, e poi chi, in modo altrettanto
inconsapevole, ha una mentalita' opposta, anti-relativista, ovvero, se
vogliamo, "oggettivista".
Una persona incline al relativismo direbbe che non e' appropriato affermare
che si tratta della stessa stella in ore differenti. Infatti osserva che da
sempre noi chiamiamo "stella", per convenzione e accordo unanime, un
particolare punto luminoso che vediamo nel cielo notturno; secoli fa
pensavamo che si trattasse di un buco nel velluto della volta celeste e oggi
invece interpretiamo quella luce dicendo che a volte e' un pianeta, altre
volte un sole lontanissimo. Ma questo cosa cambia? E' evidente che le varie
spiegazioni del fenomeno non alterano cio' che per chiunque e' il senso
della parola "stella". Ossia "stella" e' una piccola luce nella volta
celeste. Ora, la caratteristica della prima delle due stelle e' che si
tratta di una luce che vediamo accendersi nel corso dell'imbrunire. Sarebbe
assurdo sostenere che quella sembra la Stella della sera: invece, e' la
Stella della sera. Cosi', parallelamente, e' la Stella del mattino il punto
luminosissimo che compare in cielo poco prima dell'alba.
Al contrario l'anti-relativista, o realista, o anti-soggettivista che dir si
voglia, centrato com'e' sull'oggetto esaminato invece che sulla situazione
del soggetto esaminante, liquiderebbe la questione affermando che le due
stelle appaiono diverse ma non sono diverse: sono la stessa stella e cioe'
il pianeta Venere.
*
Da pagina 43
L'orientamento mentale che chiamiamo relativista ha dunque varie facce; e
peraltro ha anche una sua coerenza. La sua chiave di volta riguarda
l'atteggiamento verso la scienza. Il relativista non crede nella scienza, o
almeno ne diffida fortemente, e questo significa molte cose. In primo luogo
svaluta le verifiche sistematiche, i dati sperimentali, le statistiche, le
misure, i modelli, le valutazioni di probabilita': cioe' esattamente tutto
cio' che costituisce la scienza. Per estensione, poi, ritiene giustificato
porre sotto accusa tutto cio' che si presenta con pretese di oggettivita' e
universalita'. E questo implica qualcosa di ancora piu' ampio: il
relativista dubita che si possano trovare criteri universalmente validi per
separare la verita' dalla menzogna, cio' che e' funzionale da cio' che e'
disfunzionale, la giustizia dal torto, e anche il sano dal patologico. In
rapporto a questo, ecco l'amore per le particolarita', per le eccezioni, per
i fenomeni sui generis, per le verita' locali e settoriali. In pratica,
quindi, multiculturalismo, localismo e antiglobalismo sembrano essere
anch'essi costituenti intrinseci, primari, della mentalita' relativista. Per
esempio, se relativismo significa (fra l'altro) non credere nel valore
planetario, universale, dei principi giuridici fondamentali, una conseguenza
significativa consiste nel non ritenere che le iniziative di politica estera
dei governi debbano sottostare alle regole del diritto internazionale.
Solo a volte, dunque, il tema unificante sembra riferirsi alle modalita' del
conoscere, secondo la formula: le conoscenze sono opinioni, e tutte le
opinioni si equivalgono. Altre volte invece, benche' in modo meno palese, il
vero tema unificante del relativismo appare comportamentale: ognuno faccia
tutto cio' che vuole, poiche' nessuno ha l'autorita' di giudicarlo.
*
Da pagina 51
Ora, la tendenza dell'area filosofica relativista e' appunto di estendere
l'uso del concetto di ermeneutica fino ad applicarlo non solo agli eventi
storici e sociali ma, potenzialmente, a tutte le forme di conoscenza. In
Hans-Georg Gadamer noi troviamo un interesse schiettamente umanistico per
l'esperienza del conoscere ma anche una netta ripugnanza per le scienze
naturali, tanto che nel pensiero di questo filosofo l'ermeneutica si propone
con molta chiarezza al posto dell'epistemologia.
L'ambito post-nietzscheano del relativismo, di derivazione ermeneuticista,
comprende varie correnti non sempre ben catalogabili. La piu' importante, o
almeno la piu' nota, e' rappresentata da alcuni filosofi parigini, come
Jean-Francois Lyotard, con la sua teoria del post-modernismo, e Jacques
Derrida, con il post-strutturalismo o decostruzionismo di cui e' stato
proponente. I filosofi italiani del "pensiero debole", fra i quali va
ricordato Gianni Vattimo, si sono collocati su posizioni simili.
La seconda di queste aree di pensiero, presente soprattutto nella cultura
anglosassone, concerne la filosofia della scienza e porta a conseguenze
estreme la critica alle illusioni del positivismo. In parte si tratta
dell'analisi di come procede il ragionamento scientifico in generale. Uno
dei punti sui quali quest'analisi fa leva, e' che non risulta in nessun caso
agevole accordarsi su quale sia l'essenza di alcuni concetti-base. Per
esempio e' tutt'altro che scontato il significato esatto di locuzioni come
"ipotesi scientifica" e "spiegazione scientifica".
In parte, anche, si tratta di qualcosa di piu' concreto, ossia dell'analisi
sociale (ed eventualmente politica) del mondo degli scienziati, della loro
cultura e mentalita', magari dei loro finanziamenti, e delle motivazioni che
ne indirizzano ricerche e idee.
Di contro all'oggettivismo ingenuo che fu la debolezza dei positivisti, la
filosofia e la sociologia della scienza hanno dimostrato che importanti
fattori di precarieta' fanno parte del mondo della ricerca. Sia quando
vogliamo analizzare la logica del ragionamento scientifico, sia quando
esaminiamo la concretezza della vita degli scienziati, scopriamo che le
formulazioni descrittive della realta', a cui essi giungono, dipendono non
solo dalla forza di dati verificabili ma anche da scelte, da accordi, da
consensi, da convenzioni, perfino da costrutti metaforici. In questo senso
la posizione dei relativisti non e' che l'estremizzazione di una tematica
piu' generale: per cui, semplificando un po' le cose, si potrebbe dire che
mentre tutti i filosofi e sociologi della scienza sanno bene che esiste una
quota ineliminabile di convenzionalita' nella spiegazione scientifica, i
relativisti tendono a sostenere che la scienza e' solo una questione di
convenzioni.
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Da pagina 59
Nelle sue forme piu' strettamente legate al mondo giovanile e alle
controculture, il relativismo e' anti-sistema, anti-razionalista, incline a
preferire la magia alla scienza, e disposto a esaltare i comportamenti
marginali e perfino l'uso di droghe come libere forme di espressione
personale. In modo particolare nel caso dei giovani e delle loro culture, ma
anche piu' in generale, si puo' osservare che il concetto di responsabilita'
non e' congeniale al relativismo.
Il relativista e' ostile a tutte le posizioni "forti", specie se
istituzionalizzate: pero' sembra non prendere mai in esame la forza, e anche
l'aggressivita', della propria posizione. Se e' vero che predica di lasciar
fiorire i cento fiori delle culture e delle opinioni, in pratica ha le sue
preferenze, talora persino faziose, e in ogni caso tende a considerare se
stesso come un fiore migliore degli altri. Il relativismo, ideologia poco
serena, vive delle proprie polemiche e i suoi bersagli sono tutti da una
parte sola: il nemico del relativismo e', in sostanza, la razionalita'
occidentale.
Il relativista, dunque, ama aprire nuove possibilita', ama interrogare,
obbiettare, ironizzare, e anche mascherare il proprio pensiero dietro i
paradossi. Non si prende l'incarico di formulare una teoria coerente, e meno
che mai sistematica. Non giudica e non si espone. La sua e' una posizione
"di debole responsabilita'". Ma proprio in questo e' una posizione efficace.
Cio' che caratterizza l'ideologia relativista e' una sfiducia nell'idea di
oggettivita', ma questo atteggiamento conduce, intenzionalmente o meno, ad
attribuire un ruolo eccessivo alla soggettivita'. Se l'attivita' spiazzante
e scettica del relativista svaluta l'universo degli oggetti, con le sue
leggi, questo significa che l'atteggiamento di chi e' spiazzante e scettico
ne viene potenziato. La forza della realta' verra' ignorata: rimane il pieno
potere del soggetto giudicante. Piu' in generale, esiste qui un invito
all'autolegittimazione di qualsiasi atteggiamento verso il mondo: e non
importa quanto realistico, ossia pertinente al mondo stesso.
Si ha dunque una posizione che e' antitetica a quella del ricercatore
scientifico. Il lavoro di quest'ultimo consiste nel disciplinare (potremmo
dire: nel riportare a terra) i voli possibili della propria intelligenza,
piegandola alle verifiche sperimentali. Le idiosincrasie personali, le
sviste e gli errori vengono pazientemente stanati, e ogni acquisizione
conoscitiva e' sottoposta a estenuanti controlli, nella consapevolezza che
potrebbero sempre emergere nuovi dati di cui bisognera' tenere conto per
modificare le teorie precedenti. Un atteggiamento di umilta' caratterizza il
suo desiderio di comprendere i meccanismi della natura.
Nel relativismo accade l'opposto. Gli atteggiamenti mentali, privi come sono
di verifiche nella realta' (per i relativisti, la realta' non verifica
nulla) acquistano autonomia. Gli atteggiamenti vengono valutati di per se',
o per come si presentano: e in pratica, accade che quasi sempre siano
valutati utilizzando criteri moralistici. Ne nasce, come e' facile vedere,
una discutibile forma di psicologismo. Progetti, propositi, intendimenti,
principi ispiratori, sono soppesati indipendentemente dai risultati che
producono; per i relativisti, ostili come sono a qualsiasi criterio di
oggettivita', conta l'intenzione. Di qui nasce l'idea che non sia colpa di
singole persone bene intenzionate se poi, per mille motivi, accadono
imprevisti, e magari sciagure.
Come osserva Giovanni Sartori, a questo punto ci troviamo di fronte a un
modo di pensare di tipo religioso. Chi decide di sintonizzare le proprie
azioni su principi "nobili" o "superiori" (o su quella che ritiene sia la
volonta' di Dio) non tiene in considerazione gli insuccessi, e neppure i
disastri: persevera senza deflettere anche nei casi in cui la sua fede
produce lutti e distruzioni. Qualcosa di simile, purtroppo, accade su un
terreno piu' laico quando singoli comportamenti sono valutati non per quello
che producono ma sulla base di un accreditamento della moralita' e buona
volonta' del loro autore.
Due esempi. Se un ministro della Repubblica, decisissimo a combattere la
diffusione delle droghe, fa approvare una legge fortemente repressiva ma
poco duttile che produce esiti negativi, tutti i commentatori di
impostazione ideologica conservatrice e inclini al relativismo (e cioe', in
pratica, poco inclini alle verifiche) saranno dalla sua parte perche'
loderanno la sua virtuosa risolutezza. Quanto poi agli effetti pratici della
sua legge, sosterranno che si tratta di eventi sociali complessi valutabili
in mille modi da tanti esperti di scuole scientifiche contrastanti, per cui
nulla e' sicuro ne' definitivo.
Il secondo esempio, per quanto diverso, risponde alla stessa logica.
Prendiamo il macchinista di un treno che si distrae ignorando una luce rossa
e provoca un deragliamento con molti feriti. I commentatori di impostazione
ideologica "democratica" (e, naturalmente, relativisti anch'essi)
sosterranno che ogni evento ha tante cause, mai una sola: quell'uomo magari
era in servizio da molte ore, aveva un salario mediocre, e in ogni caso si
trattava di una brava persona, padre di famiglia, sensibile ai temi sociali,
incapace di volere il male, e cosi' via.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 228 del 9 agosto 2009

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